Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA
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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
I ROMANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ??
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
Sprechi, tagli e disservizi. La regione Puglia, Lazio, Sicilia e le altre.
Per favore. Non chiamatele Mafia.
VIDEO INCHIESTA MALAGIUSTIZIA
MAGISTRATI CORROTTI. FALLIMENTI TRUCCATI. ARRESTATA CHIARA SCHETTINI
TUTTO SU ROMA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I ROMANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?
Quello che i romani non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i romani non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
ROMA E I MACCHINISTI DELLA METROPOLITANA: CASTA TRA LE CASTE ITALIANE.
ROMA FA SCHIFO...E GLI INTELLETTUALI COSA DICONO?
LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.
IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.
LA POLITICA SUCCUBE DELLA MAGISTRATURA. ASSUNZIONI? ROBA LORO!
LA CONQUISTA DI ROMA.
“SPECULOPOLI. FISCO E MONOPOLI”.
IL MERCATO DELLE TOGHE.
MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.
GIUSTIZIA A ROMA. UNA GIORNATA COME TANTE.
MAFIA, ANTIMAFIA E LE PRESE PER IL CULO…
LEI NON SA CHI SONO IO?
CORRUZIONE: ARRESTATO IL SINDACO DI MARINO.
BUROCRATI PIU' CORROTTI DEI POLITICI.
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
ROMA. CAPITALE DELLA MAFIA NERA.
E POI CHIAMALO SE VUOI...METRO'.
E POI CHIAMALI SE VUOI...BROGLI.
ROMA...LA GRANDE TRISTEZZA!
ITALIANI. RAZZISMO ED ESASPERAZIONE.
LA FAVELA IN RIVA AL TEVERE.
GLI ZINGARI SONO I VERI PADRONI DI ROMA.
LA ROMA BENE VA A BABY SQUILLO.
MORTI A....MAZZETTE.
SPRECHI A SBAFO DEI ROMANI. CENTRI SOCIALI ED OCCUPAZIONI.
GIUSTIZIA A NUMERO CHIUSO.
TUTTI I MALI DI ROMA. ROMA, LA GRANDE BELLEZZA? NO. LA GRANDE BRUTTEZZA!!!
VIGILOPOLI.
ROMA. LA GRANDE BELLEZZA? NO, LA GRANDE MONNEZZA.
ROMA: SPORCA, CAOTICA, INSICURA.
POVERA ROMA! VORAGINI, CONCORSONI TRUCCATI, DIPENDENTI PUBBLICI STRAFOTTENTI, PIOVE CACCA, LO SCANDALO ATAC ED INFINE PAOLINI.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
CARMINE SCHIAVONE: ROMA MAFIOSA DA 100 ANNI.
IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.
POLITICA BIPARTISAN. RUBANO SU TUTTO. IL TESORO DEI BIGLIETTI CLONATI.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA LEGA MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
TOGHE SCATENATE.
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI. PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.
ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
POPULISTA A CHI?!?
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA. QUALE MAFIA? MAFIE, LA GRANDE ALLEANZA.
MAFIA A ROMA: SOLO L'INIZIO.
A ROMA LA MALA SI FA IN QUATTRO.
I FANTASMI DELLA MAGLIANA.
ROMA CRIMINALE. SANITA', MAFIA ED URBANISTICA.
TUTTI DENTRO: IL GIUDICE CHIARA SCHETTINI ED IL PREFETTO FRANCESCO LA MOTTA.
LEGALITA’, MAI DIRE POLIZIA, ANCHE MUNICIPALE.
FIDUCIA NELLO STATO: ADDIO.
GIUSTIZIA ADDIO.
TOGHE ZOZZE.
GIUSTIZIA: IN CHE MANI SIAMO?
POLITICA: MA IN CHE MANI STIAMO?
REGIONOPOLI.
MALAROMA.
POLITICOPOLI E MALA AMMINISTRAZIONE.
LA VICENDA "MARRAZZO".
PUBBLICA INSICUREZZA.
ROMA: IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA: PIETRINO VANACORE.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA: LUIGI MARINELLI.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA: STEFANO CUCCHI.
MALAGIUSTIZIA: A SPASSO NEI TRIBUNALI.
MAGISTROPOLI: IN CHE MANI SIAMO?
MALASANITA': IN GIRO PER GLI OSPEDALI. IN CHE MANI STIAMO?
CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.
"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.
La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.
I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.
Perchè leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
ROMA E I MACCHINISTI DELLA METROPOLITANA: CASTA TRA LE CASTE ITALIANE.Metro A, San Silvestro da incubo: presenti solo 7 macchinisti su 24. Frequenza di un treno ogni trenta minuti. Servivano 24 operatori in straordinario. Hanno aderito in 7. Furioso l'assessore Improta: "Bisogna sradicare una mentalità lontana dalla logica di servizio che deve caratterizzare chi lavora in un'azienda municipalizzata", scrive la Redazione di “Roma Today” il 2 gennaio 2015. Il Capodanno 2014 passerà alla storia come quello in cui i lavoratori di Roma Capitale e delle municipalizzate hanno provato a sabotare la festa. Non solo i vigili in guerra con il loro comandante Clemente, ma anche i macchinisti di metro A e metro B che, la notte di San Silvestro, hanno lasciato sguarnito il servizio. Così si sono verificati rallentamenti in concomitanza tra le 23.30 alle 2.30 di notte. Proprio in questo intervallo temporale, l'attesa tra il passaggio di un treno e l'altro è arrivato a raggiungere in alcuni casi i trenta minuti. La causa, spiegano dall'azienda, sta nel fatto che, a fronte di una necessità di 24 macchinisti per coprire lo straordinario dalle 23.30 alle 2.30, Atac ha avuto la disponibilità solo di 7 macchinisti. Tanto che già la sera del 31 poco dopo le 19, infoatac twittava: "Metro A-B-B1 attive sino ore 2.30; dalle 23.30 in base disponibilità personale viaggiante frequenza può raggiungere i 30 minuti". Secondo quanto riferito dall'azienda invece "non si sarebbero registrati invece disservizi nè sulla linea B, nè sulla B1". Furioso l'assessore alla mobilità di Roma Capitale Guido Improta: "In un momento in cui l’Amministrazione Capitolina è protesa in uno sforzo senza precedenti per assicurare il risanamento economico-finanziario di Atac e in cui il Cda dell’Azienda ha appena varato un piano industriale basato sui costi standard, e non più sulla spesa storica, funzionale a far raggiungere entro il 2017 l’equilibrio economico e il rilancio industriale di Atac, non sarà una minoranza di addetti irresponsabili a mettere a rischio 11 mila posti di lavoro e soprattutto l’esigenza ormai ineludibile che Roma abbia un trasporto in grado di accompagnare la ripresa economica della Capitale". "Nelle prossime ore pertanto – prosegue Improta - oltre che accertare le motivazioni per le quali su un bacino di 150 macchinisti abbiano dato la loro disponibilità ad operare la notte di Capodanno solo in 7, chiederò all’Amministratore Delegato di Atac, Danilo Broggi, di porre in essere ogni iniziativa per sradicare una mentalità lontana dalla logica di servizio che deve caratterizzare chi lavora in un’azienda municipalizzata".
"Pezzo di m...da, devi morire, esci fuori, stronzo, bastardo". Il macchinista si mette in sciopero e i viaggiatori si ribellano, scrive, invece, "Roma fa schifo" il 17 aprile 2015. Abbiamo raggiunto il punto di rottura. Siamo ad un millimetro sotto la partenza di moti veri, di violenze vere, di guerra civile vera. Degrado, disservizi, disagi hanno esasperato una enorme fascia di cittadini. Queste immagini dicono tutto. E tra la rabbia delle persone sprazzi di lucidità: "voi lo stipendio lo prendete", "io sto in giro dalle cinque", "io rischio il lavoro" e soprattutto "fate sciopero tutti i venerdì". È un segnale negativo? No. È un segnale positivo. Paradossalmente positivo, beninteso. Il torpore che tradizionalmente ha caratterizzato la cittadinanza romana sta lasciando il campo alla rabbia. La rabbia è brutta, il torpore è peggio. Ed è il torpore, l'indolenza e il menefreghismo ad averci portato fino a qui. Forse tutto questo sta finendo? Forse il fondo è raggiunto? Chiunque fino ad oggi a Roma ha operato considerando come inesistente il rischio della collera dei cittadini. Oggi la collera dei cittadini inizia ad emergere. Speriamo emerga sempre nella direzione corretta, come in questo caso, contro l'ennesima meschina strumentalizzazione del diritto di sciopero. Incazzatevi e svegliate chi, vicino a voi, nonostante tutto ancora non è incazzato e si è abituato ed assuefatto a vivere in un contesto che non ha eguali e paralleli da nessuna parte d'occidente.
Sciopero metro a Roma, la Cgil difende i macchinisti che hanno bloccato i treni, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. La Cgil scende in campo per difendere i macchinisti che venerdì hanno improvvisamente bloccato i convogli carichi di persone che andavano a lavorare. "Adesso si apre la caccia alle streghe con un giustizialismo sommario, non è colpendo i lavoratori che si risolvono i problemi ma magari programmando meglio il servizio", afferma il segretario generale della Filt Cgil di Roma e del Lazio. Per Capitani: "Quando ci sono questioni di ordine pubblico non si può scaricare le colpe della disorganizzazione sui lavoratori, l'organizzazione è competenza degli organismi preposti: non solo i vertici aziendali ma anche eventualmente le forze dell'ordine". La presa di posizione della Cgil arriva dopo le fortissime proteste dei passeggeri della metro abbandonati nelle stazioni senza alcun preavviso. Proteste che hanno spinto l'amministrazione comunale a chiedere scusa e il sindaco ad ipotizzare licenziamenti. Anche la commissione di garanzia sugli scioperi sta ipotizzando sanzioni se sarà provata la scorrettezza dei sindacatini che hanno indetto lo sciopero. Secondo molti osservatori la presa di posizione della Cgil - che non ha indetto lo sciopero e che ha sottoscritto con Atac un protocollo per il miglioramento dell'efficienza della società dei trasporti romana - è destinata a suscitare altre polemiche: risulta difficile comprendere perché la Cgil non debba difendere i lavoratori-passeggeri o i pensionati-passeggeri che erano su treni bloccati e le centinaia di migliaia di romani che da anni, quasi sempre di venerdì o di lunedì, subiscono danni da agitazioni selvagge indette da sindacati di scarsissimo peso. Le attuali regole sugli scioperi, infatti, consentono a pochi lavoratori - con iniziative spregiudicate e senza ottenere alcun risultato se non pubblicità per il sindacatino di turno - di bloccare intere città. Non solo: così il corporativismo dei piccoli sindacati viene premiato e riduce lo spazio d'azione delle organizzazioni sindacali più grandi. E tuttavia Capitani difende gli appartenenti alla sua categoria alla stregua di un sindacato corporativo e piccino e non esita ad affermare: «Non si può scaricare la colpa nè sui macchinisti, nè sugli agenti di stazione - che fanno spesso da parafulmine perchè la gente imbestialita non distingue i ruoli -, nè sul dirigente centrale del traffico (Dct): nessuna di queste tre figure è incaricata dell'ordine pubblico. Per il resto c'è una commissione che deve lavorare per stabilire il vero, prima di dare ogni giudizio». Come dire: il problema? Non è quello degli scioperi selvaggi ma un altro. Siamo di fronte ad una forma di scaricabarile all'italiana? A una cultura sindacale antiquata? Difficile dire. Fatto sta che la stessa Cgil, a gennaio 2014, assieme a Cisl e Uil, ha firmato un accordo con Confindustria per stabilire l'esigibilità dei contratti. Esigibilità significa costruire un sistema di regole e di penalizzazioni per "punire" aziende, sindacati o lavoratori che non rispettano regole condivise stabilite da un contratto. Un principio civile ("Se la maggioranza approva un contratto lo rispetto") che andrebbe applicato nei fatti e non solo sbandierato a parole. In particolare per l'Atac viste le solenni arrabbiature che si aggiungono alle centinaia di milioni che questa società (e i suoi dipendenti) costano ai romani.
Continua la diatriba dei macchinisti della metro di Roma e con minacce anche di fermare il servizio pur di resistere ad oltranza e nella difesa dei propri privilegi abbarbicati ad orari che sforano con straordinari pur di arrivare ai propri stipendi che si vocifera siano dai 3 mila euro ai 4.500 nonostante sia un lavoro molto duro viaggiare sottoterra per tante ore, ma qui bisogna considerarla una casta fra le caste italiane, anche perché tutto sommato se andiamo a vedere è una categoria parecchio temuta, se non odiata, dai cittadini che usano questi mezzi per spostarsi e se solo 'tre persone a fermare l'intero trasporto pubblico cittadino' il problema sussiste e bisogna cercarlo nell'arroccamento di questa categoria che non vuole assolutamente nessun cambiamento all'interno del proprio organico in quanto l'azienda, l'Atac, vorrebbe apportare delle soluzioni in piattaforma sindacale arrivando da 736 ore annuali alle 950 specificando che sarebbe l'unico sistema: per aumentare la produttività e anche il servizio. Fermo restando che i gli operatori della metro di Roma hanno orari inferiori ai loro colleghi di Milano e Napoli, il problema di base sta appunto in quel dice Marino: 'A Milano i macchinisti guidano per 1.100 ore l’anno, a Napoli siamo oltre le 800' e si aggiunge anche un dirigente della stessa Atac: 'E' come se in questo momento ci fossero due aziende: una che va verso il futuro, una ancorata al passato; o si cambia adesso, oppure si finisce in mani cinesi o di altri: e lì non ci saranno più tutele per nessuno', in quanto all'interno dell'azienda ci sono lavoratori ostinati che lottano e che intendono rimanere nello stato attuale delle cose mentre altri lavoratori che favorirebbero l'efficienza e sotto sotto comunque c'è la paura della privatizzazione, di conseguenza questa lotta intestina si dovrà risolvere prima o poi magari eliminando almeno una delle caste che esistono in Italia fra le tante esistenti. (Ansa)
Metro Roma, la casta dei macchinisti. Stipendi fino a 4 mila euro, orari soft. Lavorano meno dei colleghi di Milano e Napoli e difendono i privilegi con la minaccia di fermare i treni: in tre possono mandare in tilt il servizio, scrive Ernesto Menicucci su “Il Corriere della Sera” il 20 aprile 2015. Dai «primi anni del secolo, macchinista, ferroviere», come canta Guccini nella Locomotiva, di acqua ne è passata molta. E, oggi, un accordo sindacale dopo l’altro, quella degli «autisti» delle metropolitane, è diventata una sorta di casta. Una categoria temuta, a volte odiata (dagli utenti), sicuramente fortissima, con un potere di interdizione quasi illimitato. Tanto che, come sussurrano in Atac, «bastano tre persone a fermare l’intero trasporto pubblico cittadino». Una categoria refrattaria ad ogni cambiamento, abbarbicata ai suoi privilegi, ad un lavoro che per certi versi è molto duro (stare ore sotto terra non è una passeggiata di salute...) ma che rende anche piuttosto bene. Sugli stipendi dei macchinisti, infatti, si favoleggia molto: chi parla di 3 mila euro al mese, chi arriva a 4.500 euro. Sicuramente tanti soldi, molti di più di quanti ne guadagni un autista dell’Atac, con una buona parte della retribuzione - circa il 40% - che deriva dagli straordinari. Così, alla fine, la questione sembra tutta lì, nella revisione della piattaforma sindacale che vorrebbe applicare l’azienda. Portare, cioè, i macchinisti da 736 ore annuali a 950, unico sistema - secondo l’Atac - «per aumentare la produttività e anche il servizio». È la linea sulla quale si è attestato anche il Campidoglio, dove Marino ripete: «A Milano i macchinisti guidano per 1.100 ore l’anno, a Napoli siamo oltre le 800...». E allora avanti nella linea dura, per cercare di piegare gli ultimi degli «irriducibili», quelli che si oppongono alla «nuova Atac». Perché, come spiega un dirigente di lungo corso, «è come se in questo momento ci fossero due aziende: una che va verso il futuro, una ancorata al passato». Cioè una che lotta per l’efficientamento, l’altra per mantenere lo status quo. Sullo sfondo, lo spettro della privatizzazione: «O si cambia adesso, oppure si finisce in mani cinesi o di altri: e lì non ci saranno più tutele per nessuno...», il ragionamento. E allora da molti la storia dei macchinisti viene vista come l’ultima frontiera. Prima è toccato ai dirigenti, ridotti nel numero, sottoposti a tagli di stipendio e «costretti» a rinunciare ai bonus. Poi è toccato ai quadri e agli amministrativi, tra esuberi, salari determinati dalle assenze per malattie, ricollocamento dall’ufficio alle stazioni. Ora si va sui 7 mila e passa addetti al servizio. Di questi, circa 500 sono i macchinisti, quelli contro i quali - già nel 2012 - l’azienda ingaggiò una lotta furibonda. All’epoca il problema era l’apertura della linea B1, gli scioperi «bianchi» che ne nacquero e le pratiche che si diffusero: i macchinisti «rifiutavano» i treni (dicevano che erano sporchi, o che puzzavano), saltavano i «turni a straordinario» per coprire chi era in malattia. La società, l’ad era Carlo Tosti, con un’efficacia campagna di comunicazione riuscì a piegare quella resistenza. Ma oggi, evidentemente, ci risiamo.
La casta dei macchinisti metro. A Roma solo 3 ore di conduzione e 2mila euro, scriveva, invece, Paolo Ribichini su "Diritto di critica" il 20 giugno 2012. Guadagnare più di 2mila euro al mese e lavorare tre ore al giorno. Un sogno. Eppure succede davvero a Roma, con i soldi di tutti. I fortunati sono i macchinisti dei treni delle linee metro di Roma Capitale che intanto annunciano per venerdì l’ennesimo sciopero.
Dal lavoro usurante a troppi privilegi. Sono 452 in tutta la Capitale, guadagnano in media 2.300 euro al mese, ma con gli straordinari possono tranquillamente arrivare a guadagnare fino a 4mila euro. La loro giornata lavorativa dura 6 ore e 10 minuti, ma il turno a bordo della vettura non dura più di tre. I primi 30 minuti sono dedicati alla preparazione, poi il turno. Nelle restanti 2 ore e mezza i macchinisti restano a disposizione per le emergenze.
Straordinari e disagi. Come se non bastasse, in base ad un accordo del 2006, i macchinisti hanno poi un turno “straordinario” che di fatto è ordinario. Si tratta di un “turnone” di 8 e 17 minuti inserito in una giornata compensativa. I rallentamenti di questi ultimi giorni sulla metro B non sono affatto legati a problemi tecnici. Lunedì scorso, alcuni macchinisti si sono rifiutati di fare turni straordinari, mentre altri si sono rifiutati di entrare in cabina a causa di “cattivi odori” o “vetri opachi”. Insomma, lunedì scorso nella prima parte della mattinata, il 40% delle corse non è stato effettuato. Disagi enormi per tutti i cittadini coperti dalle due linee B e B1 che hanno avuto serie difficoltà nel raggiungere il luogo di lavoro.
Contro le nuove assunzioni. Ma perché questa serie di scioperi selvaggi e di vere e proprie azioni di boicottaggio? Il motivo è legato, a quanto sembra, all’annuncio da parte di Roma Capitale dell’intenzione di voler assumere nuovi macchinisti per evitare turni “straordinari” che effettivamente mettono a repentaglio la regolarità del servizio, in quanto in molti, nel giorno del “turnone” si mettono malati o chiedono l’applicazione della legge 104 per l’assistenza a familiari malati. Stipendio pagato e niente lavoro. Tra non molto arriveranno ben 70 nuovi macchinisti: 50 per la metro B/B1 e 20 per la nuova metro C. E la lotta, con ogni probabilità, continuerà. Con buona pace dei cittadini e di chi ogni mattina va a lavorare per guadagnare molto meno di 2mila euro.
ROMA FA SCHIFO...E GLI INTELLETTUALI COSA DICONO?
"Roma fa Schifo è come Carminati e Mafia Capitale". E se lo dice un raffinato intellettuale come Zerocalcare c'è da crederci eh..., scrive "Roma fa schifo”. Imbrattata l'Università. Coperto un cartellone regolare comprato da un teatro. Nel medioevo dei "movimenti" la violenza oscura la cultura. Stuprata la nuovissima stazione Conca D'Oro della Metro B1. Chi si serve del mezzo pubblico deve essere umiliato, i figli di papà dei centri sociali tanto vanno col suv. E' vero che Roma schifa Salvini. Ma il problema è che schifa voi ancor di più. Tutta l'area archeologica centrale (qui siamo di fronte al Teatro di Marcello) piena di adesivi illegali inneggianti alla violenza. Totti che dà un calcio in faccia a Salvini: questa è la complessità intellettuale di questo manifesto. Davvero eh...Ma non è che questo signore vi sta dando troppa importanza? Addirittura siete, voi di Roma fa Schifo, tra i tre pilastri che rappresentano il fallimento di questa città: Mafia Capitale, i palazzinari e "i Roma fa Schifo". Pensate che ruolo! Che responsabilità. In pochi anni di vita un piccolo blog senza un solo euro è riuscito a diventare 'importante' come criminali milionari e imprenditori senza scrupoli. Figo, no? Sembra surreale ma è quello che è uscito dalla bocca di un fumettista, peraltro uno dei più talentuosi fumettisti italiani, chiamato Zerocalcare. Un signore di 31 anni suonati che parla, ascoltatelo con attenzione, in questo modo. Cosa vi ricorda questa calata, questo approccio, cosa vi suggeriscono queste semplificazioni, questo frasario, questa superficialità, questo rassicurante senso di vuoto intellettuale? A noi ricorda il modo di fare dei liceali romani. Zerocalcare parla come un individuo che ha la metà dei suoi anni. Parla come un sedicenne. "Aho nun ze potemo accollà a Lega, era l'unica cosa per cui pijavo per culo l'amichetti miei der norde". Non sembra scherzare quando si esprime in questo modo. Questo è sufficiente, per la sua complessità intellettuale, a giustificare una mobilitazione. Non è colpa sua, intendiamoci. Quasi tutti gli artisti quando si avventurano in un territorio non loro fanno le medesime figure ridicole.Nato fuori Roma, cresciuto all'estero, scuole private altolocatissime (a dar credito a Wikipedia), un'eccellente carriera di disegnatore per poi finire a recitare la parte, a 31 anni, del liceale ribelle coi soldi di papà (non lui, che guadagna bene grazie al suo talento, ma ciò che rappresenta). Anzi di babbo, visto che l'antagonista romano delle occupazioni in realtà sarebbe nativo di Arezzo. Non possiamo che essere entusiasti di finire tra "eeeerobbbbe che negli anni se semo portati appresso" (lui parla così). Ora - ed è in questo contesto che Zerocalcare è stato intervistato nel video che pubblichiamo - Zerocalcare e i suoi "amichetti" (lui parla così), sono impegnati a contrastare una manifestazione legittimamente autorizzata per il 28 febbraio. Manifestazione contraria al Governo di Matteo Salvini, del suo partito e di altre realtà come, a quanto pare, Casa Pound che - non sappiamo in virtù di quale aborto politico-strategico - è a Roma alleata con Salvini stesso. Zerocalcare e quelle pochissime migliaia di persone che ancora a Roma ragionano come lui vogliono apparecchiare una manifestazione a contrasto, partenza da Piazza Vittorio: la manifestazione non è ancora autorizzata ma viene pubblicizzata in maniera incivile dai promotori. Imbrattando a vario titolo tutta la città. Secondo il nostro parere Lega, Salvini e Casa Pound rappresentano il peggio del peggio. E' la nostra legittima opinione. Quello che non capiamo è per quale atroce maledizione dobbiamo abitare in una città in cui ad una feccia si contrappone un'altra feccia uguale e identica. Fasci neri contro fasci rossi, per metterla sulle cromie che usano per scrivere illegalmente su muri, scuole, monumenti. A rimetterci è solo la città. Il fascismo di impedire una manifestazione di chi non la pensa come te o di chi ti sta antipatico ("Roma non ti vuole", è il payoff, scritto evidentemente alla scuola materna), il fascismo di imbrattare la città, dovunque, di affissioni non solo abusive, umilianti, ma spesso anche violente. Questa è l'alternativa a Salvini? Beh, è assolutamente ovvio che questa gentaccia così facendo sia utile soltanto a far crescere il preoccupante e crescente consenso attorno alla figura di Salvini che gongola (retuittandoli) ad ogni sfregio illegale dei suoi nemici. Gli stanno facendo un enorme regalo al solo scopo di dar libero sfogo alla loro stupidità e pochezza. Già molte persone pensano che Salvini sia meglio dello schifo che oggi siamo costretti a vivere a Roma, se questi personaggi alimentano e confermano un'idea simile, Salvini ne esce trionfatore. Quattro cazzari da centro sociale si tolgono lo sfizio di far casino, di imbrattare mezza città, di manifestare laddove non è consentito, di creare disagi, di palesare la loro coattaggine, ma il risultato finale è che Salvini non fa che aumentare la sua presa sulla nostra città. E questo è intollerabile. E inspiegabile. Anzi è spiegabile nella misura in cui queste due forze sono alla fin fine d'accordo tra loro. Se esiste Casa Pound (che occupa case, scrive sui muri e prevarica il prossimo facendo passare la logica dell'amichetti miei sopra ogni altra logica) esistono anche i centri sociali (che occupano case, scrivono sui muri e prevaricano il prossimo facendo passare la logica dell'amichetti miei sopra ogni altra logica). Sono due facce della stessa medaglia, una medaglia che può avere cittadinanza solo a Roma.Parlano allo stesso modo, comunicano allo stesso modo, pensano allo stesso modo, vivono chi chiede rispetto almeno degli spazi pubblici allo stesso modo. Attacchiamo entrambi con frequenza e riceviamo risposte identiche. Identiche! Stesso stile, stessa aggressività, stesse minacce, stessa terminologia. Fateci caso anche voi. Subissato di richieste di spiegazioni dai suoi stessi fan (che seguono anche noi), Zerocalcare è costretto a spiegarsi e, in ossequio al livello intellettuale di cui sopra, imbastisce e farfuglia quattro banalità da liceo (se non da scuola media) davvero incomprensibili. Secondo Zerocalcare noi esprimiamo un "livore psichiatrico verso i poveracci". Qualcuno che conosce questo povero personaggio, questo bizzarro individuo, questo avanzo delle alte scuole private della città, gli chieda di produrre un solo link, un solo articolo, un solo tweet in cui esprimiamo livore verso chi vive in strada. Qualcuno poi gli spieghi che il senso civico è solidarietà. E' automatico. Non ci può essere senso civico senza solidarietà. Se il rispetto per il prossimo fa schifo a questi signori, non possono però mistificare e giocare con le parole: non ci casca nessuno. La cultura della delazione, poi, cosa è? Certo, passare il proprio tempo a segnalare alle autorità cosa non va in città non è il massimo della vita, intendiamoci. Ma è sempre meglio di chiudere gli occhi, di voltare lo sguardo dall'altra parte e di campare nell'omertà mafiosa che tanto piace a lorsignori. Noi siamo gli unici che lo scrivono e dunque noi siamo gente da accomunare alla mafia. Mafiosi solo perché siamo gli unici in città a proporre una narrazione alternativa che decritta la follia aggressiva, violenta, prevaricatrice e in definitiva fascista - profondamente fascista - dei movimenti, dei centrisociali, delle occupazioni, dell'acqua pubblica, di parte di Sel, di parte di Rifondazione e di tutta questa che non esitiamo a chiamare feccia perché da feccia si comporta. Roma fa Schifo come Mafia Capitale e come i palazzinari. Fa ridere, detto da un trentenne che parla come un adolescente, però fa anche tristezza. Nacifra tristezza, per parlare con lo slang dei nuovi trentenni 'romani' fermi ai tempi del liceo. Più che arrabbiarci con loro, dobbiamo continuare a deriderli e a raccontare cosa sono a chi ancora non l'ha capito: dei fascistelli in perenne gita scolastica.
Mafia Capitale, perché gli intellettuali non se ne sono accorti? I protagonisti della vita culturale dell'Urbe non hanno notato il male che colpiva la città. E non discutono del problema. Per quale motivo? Bertolucci: la gente si rassegna. I distinguo di Asor Rosa e Camilleri. Veronesi e Comencini: sì, manca un dibattito vero, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Il declino della politica sta trascinando nel baratro una città dove il malaffare è arrivato fino alla sua degenerazione più pericolosa: la mafia. Eppure nella metropoli dove l’intrallazzo è tracimato ben oltre i confini della corruzione, facendosi sistema di potere criminale, è difficile aprire un dibattito che affronti le radici del problema. Gli arresti di dicembre e le intercettazioni che hanno messo a nudo come politici di destra e sinistra fossero al servizio di un clan, non hanno scosso le coscienze. E quella definizione di “ mafia Capitale ” coniata dai magistrati sembra già assimilata, come l’astronave del marziano sbarcato a Roma di Ennio Flaiano. Ma l’alieno di fronte all’indifferenza della città eterna se ne tornava nella sua lontana galassia d’origine, mentre quello svelato dalle indagini è un male che qui ha messo radici. Senza che tanti protagonisti della vita culturale che abitano nell’Urbe lo avessero notato. «Mafia Capitale? Certo che ci credo. La descrizione che emerge è tipicamente di romani», dice il regista Bernardo Bertolucci. «Sono rimasto sconcertato leggendo sui giornali di quello che è accaduto e di ciò che i pm hanno scoperto. Mi ha sconvolto vedere politici coinvolti di cui si poteva dire che erano insospettabili. E il riferimento è ad alcuni uomini del Pd. Purtroppo la consuetudine quotidiana finisce piano piano per togliere drammaticità ai fatti: la gente si abitua e quindi si rassegna». Secondo Bertolucci da questa inchiesta si trae una lezione: «Veniva attaccato il sindaco Marino, anche da alcuni del Pd. Poi dall’indagine è emerso che lui era l’unico non corrotto». E conclude con un’osservazione in presa diretta: «Ho una sensazione: c’è tutta una fioritura di bar e attività commerciali fra Trastevere e piazza Campo de Fiori e vedo qualcosa di strano nei gestori. Qualcosa che non riesco bene a decifrare, non so se sia riconducibile a “mafia Capitale”. Perché a Roma le associazioni per delinquere sono tante...». Tranchant pure la giornalista francese Marcelle Padovani che vive da oltre quarant’anni a Roma, scrive per il “Nouvel Observateur” ed è autrice di libri con Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone: «Non solo è vera mafia ma c’è qualcosa di assolutamente inedito. La criminalità dà sostegno all’impresa, fa da stampella al capitalismo. È a Roma che si è sperimentato il volto nuovo delle mafie e, in questo modo così esplicito (escludendo Napoli e Palermo), non lo avevo mai visto. A Roma “mafia Capitale” non uccide ma aiuta il capitalismo a sopravvivere. Forse il destino del capitalismo è proprio la mafia». I romani non vedono il sangue e non pensano dunque alla criminalità organizzata? «È probabile. Così si lasciano prendere dal profitto. Trovo che questa sia una delle più belle indagini che abbia mai visto,e sulle mafie ne ho viste parecchie. Viene fuori molto bene come sotto la finta normalità, sotto la coltre di una metropoli che è Capitale del cattolicesimo e Capitale d’Italia, una città in apparenza burocratica e tranquilla, quasi assopita, si stia formando un modello di sopravvivenza del capitale». Padovani avanza una proposta per studiare meglio il fenomeno: «Thomas Piketty (l’economista francese), dovrebbe venire a Roma a studiare il “modello di sviluppo”, il livello di connivenza fra capitale e mafia che esiste qui. Vorrei che venisse per rendersi conto di quanti affari fa qui la mafia». La copertina dell'Espresso di questa settimana Gli intellettuali italiani avrebbero potuto analizzare meglio ciò che avviene a Roma? «L’Italia, lo diceva già Sciascia, è un Paese dove il mondo intellettuale non esiste come ceto. In Francia c’è l’intellettuale che si confronta subito con altri intellettuali, e scaturisce subito una reazione, una mobilitazione. C’è un ceto che risponde a un problema sociale. In Italia non esiste questa categoria. A Roma, che è una città un po’ finta, un coacervo di cose contraddittorie, dove i fatti si sovrappongono, come sovrapposti uno sull’altro sono i diversi strati sociali, il mondo intellettuale è inesistente». A rendere invisibile questa mafia che non spara ma fa business è proprio una «carenza culturale», dice Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre. Per lui il punto di partenza è che «a Roma non c’è mai stato nessuno, intellettuale, storico o cattedratico che abbia detto che c’era la mafia. Ma per far comprendere meglio agli studenti come cambiano le organizzazioni criminali dico che occorre mettere gli occhiali con le giuste lenti. L’ottica che serve è la cultura: se non si conosce il problema non lo si potrà mai individuare e sconfiggere». Per Alberto Asor Rosa il problema della mafia a Roma «è emerso, come accade ormai spesso, per merito dell’autorità giudiziaria. Gli altri sembra che non sapessero nulla». E la cultura che fa? «In Italia non si apre più un dibattito su niente. Perché avrebbe dovuto aprirsi proprio sulla decadenza romana? Si potrebbe dire lo stesso per qualsiasi altro avvenimento che accade o è accaduto in Italia negli ultimi dieci anni. C’è stato dibattito sulla corruzione del mondo politico rappresentata - non esclusivamente ma in maniera somma - da Silvio Berlusconi? No. O sulla politica come partecipazione? No. Questo significa che le forze intellettuali che una volta promuovevano o perlomeno partecipavano alle discussioni sono estenuate e impotenti». E poi aggiunge: «Non so se definire mafia questa fenomenologia serva più a chiarire o a confondere le cose. Secondo me un po’ le confonde. Qualsiasi organizzazione criminale è mafia? Non credo. C’è la mafia che è una cosa storica ben individuata che sopravvive e agisce ancora, e la criminalità di nuovo stampo che ha le sue forme di presenza e organizzazione. A Roma la mafia c’è, ha i locali, e i ristoranti. È differente dalla banda della Magliana rappresentata efficacemente da De Cataldo in “Romanzo Criminale”, quella era costituita da dilettanti: da poveri proletari o para proletari che si arrangiavano con i loro metodi ammazzando la gente. Qui siamo a un livello superiore». E conclude: «Io sono romano, e a Roma, come spesso si sente dire, le cose si aggiustano sempre, e questo è un guaio». Chi parte dalla descrizione della mafia siciliana vecchio stampo per arrivare a quella della Capitale è Andrea Camilleri. «La mia sincera opinione è innanzitutto che per capire bene il fenomeno occorrerebbe chiarire cosa si intende per mafia. Fino a prova contraria è un’organizzazione a cupola che si dirama in un territorio, per cui un episodio avvenuto per esempio a Siracusa è riconducibile ad altri avvenuti a Palermo, ad Agrigento o a Caltanissetta. Con ciò intendo dire che la mafia è una struttura centripeta. Ritengo invece che gli episodi che accadono in Italia, troppo spesso vengono etichettati come mafiosi mentre in realtà non lo sono. Quello che è avvenuto con il Mose a Venezia non è riconducibile a quello che è avvenuto all’Expo di Milano, non sono due ramificazioni di un unico tronco. Sono due cose completamente diverse, e quindi parlare di mafia è sbagliato. Credo che sia assai più giusto parlare di singole o molteplici associazioni per delinquere non connesse tra di loro, come avviene invece per la mafia». Camilleri puntualizza: «Ora che queste associazioni abbiano mutuato comportamenti mafiosi, ma attenzione non fino all’omicidio, è probabilmente inevitabile. A mio parere si tratta di “etichettare” allo stesso modo episodi di corruzione, di malaffare, di concussione, cioè tutti reati che portano beneficio non a un’unica organizzazione come la mafia, ma a singoli gruppi, a diverse associazioni per delinquere». E la cultura che può fare contro la mafia? «Per me il compito di un intellettuale è proprio quello di comportarsi correttamente come cittadino. La riforma deve essere radicale e deve modificare la psicologia, la coscienza dei cittadini. Credo inoltre che l’eccesso di rimbombo mediatico finisca per creare una specie di rigetto». Dopo quello che è emerso dalle inchieste ci si attendeva forse una maggiore indignazione da parte dei romani... «Vivere a Roma, oltre a essere certamente un privilegio estetico, è un esercizio di indignazione quotidiana. Crede che gente abituata a uscire ogni giorno di casa mettendosi addosso una corazza per sopravvivere non avesse già chiaro che al governo della città ci fossero degli incompetenti e, assai più spesso, dei delinquenti?». Chi fa riferimento alla solitudine del pensiero, alla mancanza del dialogo è Francesca Comencini. «Non c’è più quel dibattito vivace che poteva esserci un tempo. Ognuno è chiuso nel proprio individualismo. Non c’è più l’abitudine di riunirsi per poter esprimere ciò che si pensa. Non lo si fa forse perché sono spariti i salotti letterari veri, quelli di un tempo». Oppure non si vuole affrontare il problema della mafia a Roma? «Potrebbe essere un’ipotesi. È anche vero che manca proprio il contesto, non ti vengono nemmeno a cercare. Eppure le possibilità, i luoghi ci sarebbero, dalle piazze alle librerie. Forse esiste qualcuno che ci prova, nel suo piccolo». Manca un dibattito vero, concreto. Lo fa notare lo scrittore Sandro Veronesi, che sottolinea la gravità della pervasività delle mafie, ma vuole distinguere. Spiega per esempio che Salvatore Buzzi, accusato di essere il complice di Massimo Carminati, «ha creato lavoro con le cooperative», sia pure attraverso appalti pilotati. «Il silenzio su tutto quanto sta accadendo a Roma è certo deleterio. Ma oggi chi ha il carisma o il potere di chiamare all’appello le persone perché si confrontino su qualcosa? L’unico è il Papa che su argomenti come la mafia e la corruzione ha detto come la pensa». Lo storico Giovanni Sabbatucci ritiene che «mafia Capitale abbia rivelato una realtà di malaffare e corruzione diffusa», ma poi aggiunge che «sia stata forse sopravvalutata». Perché secondo Sabbatucci «la mafia in quanto tale forse non dovrebbe essere evocata in questioni di ordinario malaffare come questa, che comunque colpisce per diffusione, vastità, e spessore criminale. Il mio è un parere da semplice lettore di giornali, che guarda a quello che accade al Sud. Lì si verificano episodi sanguinosi, non solo truffaldini. Non voglio certo dire che quelli romani siano ordinari imbrogli. È qualcosa di più grave anche perché accade a Roma, e si sono verificati in ambienti che avremmo pensato meno esposti. È stata scoperta una politica che si mette nelle mani di personaggi che travalicano ogni schieramento. Una storia brutta, impressionante e sgradevole». Una mafia nuova, che la cultura finora ha saputo vedere, analizzare e denunciare poco e male.
LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.
Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”.
10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese.
Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.
Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.
Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato.
Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.
Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.
Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.
Illustri Signori e Signore!
Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni.
Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.
Introduzione
Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.
a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.
b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.
I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.
II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine
a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.
b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.
c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.
d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.
III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.
a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).
b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.
Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.
Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.
Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade:
Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo;
Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate.
Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.
Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».
La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.
Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.
Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche, degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.
Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.
Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa! Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice, scrive Lucia Polizzi su “Leggi Oggi”. Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta:
- la complessità del caso,
- l’oggetto del procedimento,
- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:
- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,
- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,
- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,
- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;
- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.
E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!
La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo, scrive Studio Legale De Vivo. Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione. La cosiddetta Legge Pinto nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia. Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata. Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione. Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva. Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello. E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge. Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo. Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura. Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione. Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi! La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni e dei ministeri. Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia. A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo. La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012, ha inteso riformare tale situazione….
Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo continua Studio Legale De Vivo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti. La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012. Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado. Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile. Le altre modifiche normative dilatano la discrezionalità decisoria del Giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento. Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che, qualora la domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici). Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.” Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fascicolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato. Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi. Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili! In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italiano è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti. Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta. Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.
Considerazioni critiche. Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.
Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).
Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.
Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).
Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.
Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.
Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07).
Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .
RISARCIMENTO LEGGE PINTO: per farmi risarcire dallo Stato per le cause troppo lunghe mi tocca anche pagarmi l'avvocato? Forse, NO!, scrive l'avv. Alberto Vigani. I tempi della giustizia: la risposta: patto di quota lite o gratuito patrocinio? Tutti, ma proprio tutti, ormai sanno che in Italia i processi durano ere geologiche. E, siccome quasi tutti ci sono passati, anche i sassi hanno capito che non dipende dalle scelte delle parti processuali o dagli avvocati, ma dal sistema! La macchina ha smesso di funzionare già decenni fa, schiacciata dal peso dei troppi procedimenti e da regole che in passato erano ancor più farraginose di oggi. Non devi però credere che ora il meccanismo processuale sia stato snellito e si viva solo del peso delle colpe di ieri. Il codice processuale italiano targato anni 40 era stato concepito per una gestione processuale con tempi da carta carbone e 30.000 avvocati in tutta Italia. Oggi la produzione processuale viaggia sui ritmi del “copia incolla” e gli avvocati in Italia sono 220.000 con quasi 10.000.000 milioni di fascicoli processuali aperti, fra civili e penali. Le regole erano forse perfette allora, nella prima metà del 900, e non tenevano conto delle esigenze e dei ritmi del terzo millennio; senza calcolare che pure le riformette di questi settantanni hanno anche complicato il funzionamento arrivando a prevedere ben 33 percorsi processuali diversi a seconda della tipologia di lite. Insomma, la macchina processuale non funziona più e le cause si trascinano per tempistiche che sono ormai sconnesse dalla vita reale. Un processo civile dura di media una dozzina di anni (12) fra primo e secondo grado. Nella speranza che nessuno degli avvocati delle parti tenti il ricorso per cassazione, che si ruba da solo almeno altri 3 anni. E se una lite riesce a prolungarsi per 15 anni significa che si è presa un quarto della vita operativa di una persona. Questa non è giustizia. I romani, intesi come coloro che parlavano latino e non come tifosi di una squadra di calcio, riuscivano a sintetizzare brillantemente istanti della loro cultura in pochissime parole. Avevano pensato anche a questo con il brocardo: œiustitia dilatio est quam dilatio.
Una giustizia che arriva tardi è una negazione della giustizia. Per fare fronte a questa situazione inaccettabile per democrazie come quelle occidentali, la Comunità Europea ha sanzionato moltissime volte la nostra amata Repubblica Italiana imponendole almeno il risarcimento dei danni causati da questi ritardi ingiustificabili ai cittadini che hanno svolto richiesta. Alla stratificazione dei procedimenti sanzionatori, l'Italia ha risposto con una legge che tutela il cittadino: parlo della legge 89/2001, più conosciuta come Legge Pinto, che ha istituzionalizzato le modalità del risarcimento. Oggi, se il tuo processo è durato più di 3 anni in primo grado e più di due in secondo, puoi chiedere un risarcimento per il danno subito sia che esso sia patrimoniale, e in questo caso va dimostrato per come effettivamente subito, sia nel caso di danno non patrimoniale, e in quest'altro caso esso è presunto. Si, hai capito bene. Anche se non sei in grado di dare esatta quantificazione del tuo danno economico hai comunque diritto a ricevere una somma di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo. L'importo annuale da calcolare in moltiplicazione per il numero di annualità di durata processuale è di euro 1.500,00, e ne hai diritto ha prescindere che tu abbia vinto o perso la causa. La somma è dovuta anche se il processo è ancora in corso ma ha già superato le durate massime previste per ogni grado. In quest'ultimo caso il risarcimento non sarà però definitivo e potrà essere integrato, con apposita richiesta, all'esito finale della causa. Le somme in gioco possono quindi essere di rilevante interesse perchè superano facilmente i 10.000,00 euro per ogni parte processuale. Vediamo assieme perchè. Oggi una causa media dura in primo grado circa 6 anni e mezzo mentre in appello supera spesso i 5 anni e mezzo. Sommando le durate di primo e secondo grado arriviamo a 13 anni di durata media. E 1.500,00 per 13 anni fa ammontare il risarcimento richiedibili in 4.500,00: questo perchè la norma parla di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo, e non di risarcimento per gli anni che superano la normale durata. Ma anche a conteggiare solo gli anni che superano i limiti di legge, ovvero 3 e 2 anni per i primi due gradi, si arriva a 12.000,00 euro (13-5= 8 anni x 1.500 euro). Gli importi sono quindi di tutto rispetto per ogni famiglia italiana.
Come si fa ad averne diritto??? Semplice: devi fare causa allo Stato! E devi avere l'assistenza di un avvocato! Sembra quasi una beffa: dopo esser stato prigionieri di una causa che non finiva più, ti trovi a doverne iniziare un'altra per ottenere giustizia del ritardo! In questi condizioni, molti mollano! Mollano perchè non sono informati. Impauriti dall'iniziare un nuovo processo e dalla necessità di dotarsi di un altro avvocato, rinunciano ad un risarcimento sicuro perchè non sanno che la causa per avere l'indennizzo dura solo 4 mesi e l'avvocato possono averlo a costo zero. I due passaggi critici del processo, durata e costo, si risolvono fin dall'inizio perchè la legge prevede espressamente che il risarcimento deve essere deciso entro il termine massimo di 4 mensilità mentre l'avvocato può essere ottenuto sempre o con il gratuito patrocinio o con il patto di quota lite. Esatto, hai capito benissimo: il primo caso è quello dell’avvocato pagato direttamente dallo Stato in presenza dei requisiti di legge. Con il Dpr 115/2002 è previsto che tutte le persone con un reddito inferiore a 10.766,33 euro hanno diritto ad avere la difesa processuale sostenuta dallo Stato pur potendosi scegliere l'avvocato che preferiscono fra coloro che sono abilitati all'attività specifica. Tutte le volte in cui invece non si hanno i requisiti reddituali per avere l'assistenza a carico dello Stato, si può avvalersi dell'opportunità concessa dalla riforma Bersani. Si, hai letto bene: Bersani ha messo mani anche a questa materia eliminando le tariffe minime e rimuovendo il divieto di patto quota lite. Dal 2008 puoi concordare con il tuo avvocato il suo compenso pattuendo che lui incassi soltanto se vinci ed in ragione di una percentuale di quanto riesci ad ottenere a tuo favore in sentenza. Fine dei rischi!
Se vinci, paghi. Se perdi, amici come prima. Questo vale doppiamente per i ricorsi per la cosiddetta Equa Riparazione da eccessiva durata del processo:
non sono previsti costi processuali, perchè vi sono l'esenzione del contributo unificato, dei costi di notifica e dei bolli, il risarcimento è assicurato e quindi il tuo avvocato sa che non è un terno al lotto, potendo così facilmente accettare l'accordo che gli proporrai. In quel caso, infatti, nessuno rischia. Basta perciò concordare il compenso in una quota dell'indennizzo e presentare il ricorso entro il termine di legge. Questa è la cosa più importante e la ho lasciata per ultima appositamente perchè non sfuggisse all'attenzione: la richiesta di indennizzo deve essere presentata entro 6 mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che chiude la controversia processuale che ha avuto una durata irragionevole. Che sia la sentenza di primo grado, quella di appello od il decreto di chiusura del fallimento, dal momento in cui questo provvedimento del giudice diventerà definitivo e non sarà più impugnabile (ovvero passerà in giudicato) scatterà il decorso dei sei mesi entro cui potrai chiedere il tuo risarcimento. Ricordalo, è importante. Dopo quel termine (di 6 mesi) perderai il diritto ad ogni richiesta risarcitoria!
Ricapitoliamo: tutti hanno diritto ad essere risarciti per la prigionia processuale ed i soldi sono assicurati perchè il debitore è lo stesso Stato che ha causato il ritardo. Per ottenere l'indennizzo basta un tempo brevissimo (4 mesi) ma devi chiederlo entro 6 mesi dalla fine della causa con l’assistenza di un avvocato, che puoi avere anche senza costi aggiuntivi. Basta concordare prima il patto di quota lite o, se ve ne sono i presupposti reddituali, il patrocinio a spese dello Stato.
Durata ragionevole del processo: la ''Pinto su Pinto'' al vaglio della Consulta. Corte d'Appello Firenze, sez. II civile, ordinanza 13.05.2014. Pasquale Tancredi su “Altalex”. La Corte di Appello di Firenze con ordinanza del 13 maggio 2014 promuoveva giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 24 marzo 2001, n. 89 - “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” - nella parte in cui essi trovano applicazione anche ai procedimenti di equa riparazione previsti dalla stessa Legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Costituzione. L’ordinanza è stata infatti emessa a seguito della promozione di un c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, in cui il ricorrente con ricorso ex art. 2, L. 89/2001 proponeva domanda di equa riparazione davanti la Corte di Appello di Firenze lamentando l’eccessiva durata di un precedente giudizio di equa riparazione svoltosi innanzi la Corte di Appello di Perugia, durato complessivamente anni 2, mesi 9, e giorni 16. La Corte di Appello fiorentina sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’articolo prima menzionato sulla scorta di valutazioni condivisibili. La Corte infatti ravvisava un contrasto tra la normativa vigente, in particolare tra:
l’art. 2, commi 2 bis e ter, i quali – a seguito delle modifiche del D.L. 83/2012 - prevedono che un giudizio di merito possa considerarsi dalla durata ragionevole allorquando abbia avuto una durata di tre anni in primo grado e comunque quando il giudizio sia stato definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Cassazione la quale invece individua per un procedimento di Equa Riparazione una durata ragionevole in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione). Secondo la Corte rimettente il “diritto vivente” (uniforme alla interpretazione di CEDU e Corte di Cassazione) individua la durata complessiva di un processo ex lege 89 in due anni e tale interpretazione trova tra l’altro conforto anche nella nuova formulazione della stessa legge la quale fissa un termine di 30 giorni per l’emissione del decreto nella fase monitoria (art. 4, comma 3) e un ulteriore termine massimo di quattro mesi per l’eventuale fase di opposizione (art. 5 ter, comma 5). Lo Corte fiorentina, inoltre, rilevava fondatamente che “l’individuazione del principio costituzionale della “ragionevole durata” di cui all’art. 111 secondo comma Cost. non può essere infatti avulsa dalla natura del procedimento stesso, e dalla sua “naturale” durata, che dipende in primo luogo dalla sua maggiore o minore complessità; in questo quadro, il procedimento di equa riparazione è per sua natura destinato a durare assai meno di un giudizio ordinario di cognizione, data la semplicità dei fatti che deve accertare (la durata di un procedimento, e le ragioni della sua protrazione, di regola evincibili dalla mera produzione degli atti processuali), e le finalità a cui tende (indennizzare la violazione di un diritto fondamentale leso proprio da una precedente eccessiva durata), oltre che per la mancanza di un doppio grado nel merito; la previsione di una “ragionevole durata” pari a sei anni risulta pertanto incongrua, e lesiva del predetto art. 111 secondo comma Cost., oltre che dell’art. 117 primo comma, per violazione degli obblighi internazionali derivanti all’Italia dall’art. 6 (CEDU) […]”. L’ordinanza si inserisce quindi all’interno di un dibattito giurisprudenziale attuale ed accesso in cui ultimamente anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (19 marzo 2014, n. 6313) hanno aderito ai principi della giurisprudenza CEDU precisando che “nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012 citt.)”.
La Corte Costituzionale è quindi di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della Legge 89/2001. La stessa Corte nella sentenza n. 30 dello scorso 27 febbraio 2014 ne aveva fortemente criticato il contenuto invitando il legislatore a riformare il meccanismo indennitario disciplinato dalla legge Pinto in quanto “il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa […]”. Infine, ancor più di recente – con l’ordinanza 9 maggio 2014, n. 124 – il Giudice delle Leggi ha ribadito che l’indennizzo ex lege Pinto spetta anche alla parte soccombente del giudizio di cui si lamenta l’irragionevole durata “alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente”. (Altalex, 27 maggio 2014. Nota di Pasquale Tancredi)
Legge Pinto: e se lo Stato non paga? La risposta dell'Avv. Fabrizio Bartolini Vogliamo affrontare un problema particolare inerente i risarcimenti dovuti in base alla Legge Pinto e cioè quello legato alla effettiva riscossione del risarcimento una volta ottenuto. Infatti sia con la finanziaria del 2007 sia , successivamente con la L. 181/2008 lo Stato ha reso impignorabili i propri beni e quindi il danneggiato-creditore non potrà far altro che attendere i lunghi tempi di liquidazione subendo così, al danno, un altro danno sempre per lo stesso motivo. Questa pagina nasce da alcune denunce e richieste che ci sono state inoltrate su questo problema ad oggi irrisolvibile se non ricorrendo alla Corte Europea che può condannare, come ha già fatto, al risarcimento lo Stato italiano per non aver provveduto in tempi congrui alla liquidazione. Pensiamo che però singoli ricorsi o testimonianze non diano un quadro ben preciso del problema ad oggi diffusissimo. E’ per questo che abbiamo deciso di raccogliere le vostre esperienze e testimonianze sul problema per poi inviarle, una volta raggiunto un numero ragguardevole, alla Corte Europea nonchè diffonderle via web. Una denuncia collettiva che potrà con il tempo far sentire questa nostra voce ad oggi flebile su questo problema che aggiunge al danno già subito la beffa di essere nuovamente danneggiati con tempi lunghi per attendere la liquidazione del dovuto.
UN ESEMPIO PRATICO
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 16 aprile scorso ha condannato il nostro Stato oltre che per la durata eccessiva dei processi anche per l’esiguità degli indennizzi ex Legge Pinto. Otto condanne in una sola sentenza per processi durati 22 anni e 4 mesi per un grado di giudizio in materia di successione in quanto la liquidazione non era stata calcolata sui criteri dettati da Strasburgo.Alla Corte si erano rivolti otto ricorrenti in quanto i processi erano durati troppo a lungo. Lo stato Italiano aveva sostenuto, costituendosi in giudizio. Che era stata violata la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Tale eccezioni è stata però respinta dai Giudici di Strasburgo i quali , tra l’altro, hanno considerata esigua la somma risarcitoria riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla Legge Pinto. Inoltre gli indennizzi erano stati versati ben oltre in termine di 6 mesi fissato dalla legge: in 5 casi 21i mesi dopo il deposito della sentenza, in un procedimento dopo 30 mesi e negli altri due, rispettivamente 17 e 19 mesi dalla pronuncia. Quindi oltre a durare troppo i processi è troppo lungo il tempo di attesa per ottenere il risarcimento; di attesa si tratta, infatti, in quanto il danneggiato/creditore non ha azioni contro lo Stato per recuperare forzatamente il dovuto potendo solo attendere e denunciare la propria situazione ancora una volta alla CE. Da qui la condanna ad un doppio indennizzo. La Corte ha infatti stabilito che non solo lo Stato deve integrare l’indennizzo troppo esiguo disposto dai giudici interni ma deve anche versare una riparazione per i ritardi nel pagamento. La Corte ha quindi accordato euro 1.400 di risarcimento per il ritardo nel pagamento.
Carte e cavilli: ecco l’inferno di chi deve essere risarcito, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anm a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: «L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti… Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare». La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere – al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica – è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescinde dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiale o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione di oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e di ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, di atti dibattimentali e pre-dibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio (spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato – o il suo avvocato – non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce). Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato – l’interessato o il suo difensore – verrà detto: “se le faccia lei”. Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisce la carta, se si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento.
IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,...e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. (Niemöller)
Blasfemo di Fabrizio De Andrè (Dietro Ogni Blasfemo, C'è Un Giardino Incantato).
Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l'amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l'anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male.
Quando vide che l'uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
... mi cercarono l'anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
31 ottobre 2014. Caso Cucchi, nessun colpevole. I giudici: «Prove insufficienti».
Le vittime del reato in giudizio sono rappresentate dallo Stato, con il Pubblico Ministero. Il magistrato requirente, se ha svolto bene le indagini, dirigendo le attività della polizia giudiziaria, porterà le prove a sostegno dell'accusa costringendo anche il magistrato decidente più ostile a decidere secondo forma e sostanza.
Presidente del collegio d'appello, Mario Lucio D'Andria;
Consigliere a latere, Tiziana Gualtieri;
Procuratore Generale, Mario Remus.
La sorella di Stefano comincia a pubblicare gli audio delle udienze sul social network. "Lungi dall'essere una persona sana e sportiva - dice ad esempio il pubblico ministero Francesca Loy durante la requisitoria finale del 1° grado - Cucchi era un tossico da 20 anni". Siamo stanchi degli attacchi e degli insulti alla memoria di Stefano. Abbiamo subìto un processo che si è rivelato un massacro”. Ilaria ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Vi annuncio che da oggi pomeriggio provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo.
«Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto. Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà». Avv. Fabio Anselmo.
Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?
La sorella di Stefano Cucchi commenta l’assoluzione di tutti gli imputati in appello nel processo per la morte del fratello: «Stefano, morto di giustizia».
Dopo la lettura della sentenza legata al caso Stefano Cucchi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, qualcuno, alcune persone hanno reagito così, con il dito medio alzato, contro gli amici e i parenti della famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria, ha definito questi gesti terribili.
Cucchi, il legale della famiglia: "Troppa omertà, sembra un processo di mafia''. "Sembra che ci sia stata una regia che abbia fatto un ping-pong di responsabilità tra carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Alla fine la pallina è uscita dal campo". Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, commenta così la sentenza del processo d'appello sul decesso di Stefano Cucchi. "C'è un clima che assomiglia molto ai processi di mafia - ha aggiunto - 170 persone hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla. Di cosa possiamo parlare se non di omertà?", scrive di Francesco Giovannetti su “La Repubblica”.
Senta, lei dice che è convinto che non siano stati i tre carabinieri che lo hanno arrestato, ma quindi è convinto che siano stati i tre della polizia giudiziaria?
«Noi abbiamo chiesto la loro condanna in primo grado ed abbiamo chiesto la loro condanna in secondo grado e la restituzione degli atti. Noi siamo profondamente convinti che i responsabili siano loro. Oggi ce lo ha confermato lo stesso giudice Minichini. Lo stesso Minichini oggi ha detto oggi una cosa eclatante, nel senso che ha detto “quando lui ha visto Stefano, Stefano aveva solo due ematomi sotto gli occhi e non aveva niente, quando il suo difensore in tutto il processo ha sostenuto che Stefano era già stato pestato dai carabinieri. Ora, il fatto di dire che Stefano non avesse niente, è una grande bugia. E se tu dici questa grande bugia, ti sottrai a qualsiasi esame, interrogatorio dibattimentale. Ti avvali della facoltà di non rispondere e poi usi la dichiarazione spontanea al termine del processo per non essere messo in condizione di giustificare e mi dici questa grande bugia: tu sei responsabile.»
Quante sono le speranze in vista della Cassazione?
«In questo momento è un pronostico che non posso fare. Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Vero, questo hanno ragione i pubblici ministeri. Sembra proprio che ci sia stata una regia ad arte. Vi è stata una sorta di ping pong di responsabilità tra carabinieri ed agenti di polizia penitenziaria ed alla fine la pallina è uscita dal campo. Io credo che un po’ ci si debba forse vergognare. Ribadisco. Non per la sentenza. Non è la sentenza che abbiam voluto. Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?»
Ma con l’esito di questa sentenza sarà sempre confermato il detto “cane non morde cane", "cane non mangia cane"?
«Io, se mi è consentita, l’esito di questa sentenza posso dire che il clima in cui vengono fatti questi processi. Ma non quello di oggi. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto».
Troppa omertà…..
«Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà».
Stefano Cucchi, tutti assolti in appello. «Mio figlio è morto ancora una volta». Sono passati cinque anni dall'ottobre in cui il trentunenne, arrestato, morì con il volto e la schiena coperti di lividi all'ospedale Pertini di Roma. La corte in primo grado aveva assolto i poliziotti e condannato per omicidio colposo i medici. Ora sono stati tutti assolti per insufficienza di prove, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Una gigantografia del volto tumefatto di Cucchi esposta durante il processo Tutti assolti. Medici, infermieri e poliziotti. Per insufficienza di prove. Questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma nel processo di secondo grado per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, con il volto, gli occhi e la schiena coperti di lividi, e lesioni ovunque. «Non ci arrenderemo mai finchè non avremo giustizia», hanno commentato i genitori, piangendo: «Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli. Noi vogliamo sapere esattamente chi siano i responsabili». «Per quale motivo sarebbe allora morto Stefano?», ha chiesto il padre, Giovanni: «Mio figlio era sano, non è possibile quello che è successo». «È una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha pianto la madre, Rita Calore: «Lo Stato si è autoassolto. Per lui, unico colpevole sono le quattro mura». Ilaria, la sorella, ha aggiunto, in lacrime: «La giustizia ha ucciso Stefano. Mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l'udienza di convalida del suo arresto per droga, e il giudice non vide che era stato massacrato». «Stefano», ha continuato: «si è spento da solo tra dolori atroci. Di sicuro andrò avanti e non mi farò frenare perché pretendo giustizia. Chi come mio fratello ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita». Il legale di famiglia, Fabio Anselmo, ha già annunciato il ricorso: «Era quello che temevo», ha detto: «Vedremo le motivazioni, e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte». In primo grado i giudici avevano condannato per omicidio colposo i medici e assolto i tre agenti che lo avevano avuto in custodia, scrivendo che Stefano era morto per una «sindrome di inanizione», ovvero per malnutrizione, e che i 5 medici e l'infermiere condannati avevano agito con «imperizia, imprudenza e negligenza». Oggi i giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria, hanno assolto sia i medici (il primario del reparto detenuti del Pertini, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti) che i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, per insufficienza di prove. «Sono veramente felice di questa sentenza», ha commentato uno degli infermieri assolti anche in secondo grado, Giuseppe Flauto: «Sono felice non solo per me, ma anche per i medici del Pertini perché più volte è stato detto di loro che non erano degni di vestire il camice. Oggi c'è stata una giustizia vera; non era giusta la nostra assoluzione senza la loro».
Ilaria Cucchi in lacrime dopo la lettura della sentenza d'appello. «La verità la dicono le foto di mio fratello. È stato massacrato», aveva detto stamattina Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano: «Abbiamo di lui una foto segnaletica e le foto di quando ce l'hanno restituito, cadavere. Le ho guardate e riguardate tante volte. È stato massacrato. Ecco la verità». Il procuratore generale Mario Remus aveva chiesto alla Corte di condannare tutti gli imputati. Due dei poliziotti, Nicola Minichini e Antonio Domenici, avevano chiesto allora di poter fare dichiarazioni spontanee, le prime dopo cinque anni di silenzio. «Siamo innocenti», avevano detto questa mattina. «Dopo 25 anni di servizio», aveva letto Minichini: «riesco a riconoscere i segni dei pugni e posso dire che quei segni sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano più l’impressione di una malattia, che non di pugni». «Sono innocente», aveva continuato il poliziotto: «ho solo avuto la sventura di avere effettuato il servizio in quel momento». «Provo rispetto», aveva concluso: «per la famiglia Cucchi, per il loro dolore. Nessuno potrà mai dire che io abbia avuto un atteggiamento poco educato nei loro confronti in questi anni nonostante le accuse infamanti e le numerose interviste rilasciate. Tutti hanno espresso solidarietà alla loro famiglia ma per noi nessuna parola, solo un uragano di fango». Alle richieste del procuratore si erano aggiunte durante il dibattimento quelle del legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: «Chiediamo che venga annullata la sentenza di primo grado e che vengano restituiti gli atti alla procura: si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale», aveva detto l’avvocato stamattina: «Stefano Cucchi faceva pena perchè aveva la schiena ridotta in quelle condizioni. Il suo ricovero non è avvenuto per magrezza ma per politraumatismo e questo non dimentichiamolo. I periti hanno spiegato che le condizioni di Stefano hanno rallentato il meccanismo di guarigione e allora come si può sostenere che quelle lesioni non abbiano avuto delle conseguenze anticipandone la morte?». «Cucchi», aveva aggiunto: «non era un tossicodipendente come è stato descritto, lo era nel 2003, ma in quei giorni svolgeva una vita del tutto normale come ci hanno riferito alcuni testimoni».
«L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio. Intanto a Roma è stata approvata la mozione del gruppo Sel del Campidoglio per dedicare una piazza o una via della capitale a 'Stefano Cucchi, ragazzo". «Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 per evidenti responsabilità istituzionali durante la custodia cautelare conseguente al fermo di polizia» ha spiegato Gianluca Peciola, capogruppo Sel e primo firmatario della mozione votata: «A cinque anni dalla sua morte l'intitolazione di una piazza o di una via è un importante riconoscimento da parte dell'Assemblea Capitolina alle battaglie della famiglia per la verità e la giustizia». «Quello che è accaduto a Stefano», ha aggiunto Peciola: «non deve succedere mai più. Nel nostro sistema carcerario devono trovare cittadinanza lo Stato di Diritto e il rispetto dei diritti umani. Questo atto serva da monito a quanti nelle nostre Istituzioni continuano a perpetrare la violenza nei confronti delle persone che sono prese in custodia». Ma nemmeno questa battaglia è passata indenne alle polemiche dopo la sentenza d'assoluzione della Corte d'Assise d'Appello di Roma per tutti gli imputati al processo. Il presidente del sindacato di polizia Sap infatti ha chiesto «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l'intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».
Reazioni dal mondo politico e dai sindacati di polizia dopo la sentenza d'Appello, che ha assolto tutti gli imputati. Giovanardi: "Non c'è stato pestaggio. Ma rimangono responsabilità morali: Cucchi morto di fame e di sete", scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. La sentenza è il “fallimento della giustizia italiana”. Ma anche “una vergogna senza precedenti” che consente allo Stato di autoassolversi e fa morire Stefano Cucchi “un’altra volta”. La decisione della Corte d’Appello di Roma, che ha assolto tutti gli imputati del processo, ha profondamente scosso la famiglia della vittima. Ma ha anche suscitato aspre reazioni nel mondo politico. Al contrario, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, esprime “piena soddisfazione” per la decisione della corte. Non solo. Perché in una nota scrive: “In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Il sindacalista rimarca inoltre “il nostro impegno e il nostro sforzo” per introdurre “in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni”. E si augura “un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino“. Sconvolta dalla sentenza, invece, è la famiglia della vittima che assicura: “Andremo avanti”. In lacrime in aula la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria. “Nella sentenza di primo grado non si è detto che Stefano non è stato piccchiato, ma che la giustizia non era in grado di dire chi fosse stato tra gli agenti e i carabinieri – ha detto -. Ora, in appello, mi aspettavo un passo in avanti che non c’è stato. Da semplice cittadina mi chiedo cosa mi devo aspettare dalla giustizia“. Poi aggiunge: “Mio fratello è morto anche per colpa dei magistrati che non lo hanno guardato in faccia. Mio fratello – ha sottolineato – era un ragazzo come gli altri che ha commesso un errore e che, per questo, non doveva pagare con la vita. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia”. Sbalordita anche la madre di Cucchi che parla di “sentenza assurda” e dice: “Mio figlio è morto ancora una volta”. Inoltre, per l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, si tratta “il fallimento della giustizia italiana”. Ma dopo la lettura del dispositivo, dai banchi degli imputati in aula, si sono levate mani che mostravano il dito medio, rivolto a chi stava assistendo all’udienza. Un gesto documentato da una sequenza fotografica sul sito di Repubblica.it. Per Carlo Giovanardi, senatore Ncd che in passato è spesso intervenuto sula vicenda, “per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l’assoluzione, non essendoci stato il pestaggio. Per quanto riguarda i medici ribadisco quello che ho detto fin dall’inizio della vicenda: Stefano Cucchi doveva essere curato e alimentato anche coattivamente, in quanto non in grado di gestirsi a causa delle patologie derivanti dal suo complesso rapporto con il mondo della droga. Se la Corte d’Assise ha escluso responsabilità penali rimangono però le responsabilità morali rispetto ad una persona che è stata lasciata morire di fame e di sete”. Parla invece di “vergogna senza precedenti” e sentenza di “autoassoluzione dello Stato” il leader del Prc, Paolo Ferrero. “Nel corso del procedimento, infatti, si è dimostrata in modo evidente l’esistenza di un sistema violento nei confronti dei detenuti e di un sistema sanitario quanto meno superficiale. E’ surreale che tutti sappiano cos’è successo a Stefano Cucchi, tutti sanno che è stato pestato a sangue e che non gli sono state somministrate le cure adeguate, ma nessuno paga. L’assoluzione di queste persone è autoassoluzione di uno Stato sempre più autoritario. E’ straziante, l’hanno ucciso per la terza volta. Siamo vicini a Ilaria e a tutta la famiglia Cucchi”. “Ingiustizia è fatta” anche per la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni, che su Twitter scrive: “Caso Cucchi: 5 anni passati e 0 responsabili. Ingiustizia è fatta”. Sul fronte Pd, Walter Verini, capogruppo dem in commissione Giustizia – pur precisando che “le sentenze vanno rispettate” – sottolinea che la pronuncia della Corte d’Appello “lascia l’amaro in bocca. In questo momento siamo vicini ai familiari e a tutti coloro che si sono sempre battuti per la verità e la giustizia sulla morte di Stefano. In questo caso i pesantissimi interrogativi sulla morte di Stefano rimangono tutti interi. Le risposte dovranno arrivare. È lo Stato che le deve esigere”. Commenta la decisione dei giudici anche l’avvocato Gaetano Scalise, che nel processo ha assistito il primario del Sandro Pertini, Aldo Fierro. “Siamo molto soddisfatti del risultato ottenuto – ha detto -. Era quello che aspettavamo come risultato minimo. La Corte ha fatto un buon governo degli insegnamenti della Corte di Cassazione in tema di responsabilità professionale dei medici. Il punto nodale era che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi e questo esclude la responsabilità dei medici”. “Decisione assolutamente equilibrata” per gli avvocati Costantino Marini e Fabrizia Morandi, che hanno assistito il medico Luigi Preite de Marchis, mentre si dice “felice” uno degli imputati, l’infermiere Giuseppe Flauto, già assolto in primo grado. “Sono veramente felice di questa sentenza, non solo per me, perché non avevo dubbi sulla mia innocenza, ma sono felice anche per i medici del Pertini che più volte durante il processo di primo grado si erano sentiti dire che non erano degni di vestire il camice”. Oltre al Sap, interviene anche il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. La sentenza, dichiara il segretario generale Donato Capece, “ci dà ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo che non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella magistratura, perché la polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere – sottolinea Capece – Già nel dicembre 2009, la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora capo del Dap Franco Ionta, sul decesso di Stefano Cucchi, escluse responsabilità da parte del personale di polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del palazzo di Giustizia a Roma“. “Allibita” anche Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ucciso a Ferrara a settembre 2005. Un caso per il quale quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva per omicidio colposo. “E’ difficile trovare qualcosa da dire. Rimango allibita – prosegue -, è incredibile questa sentenza, è come se Stefano fosse morto senza che ci sia nessuna responsabilità”. Del resto, aggiunge Moretti “abbiamo visto tutti le foto, è chiaro che è morto per una causa”. “Sicuramente – conclude la madre di Aldrovandi – la famiglia richiederà degli approfondimenti”. Si dice invece “amareggiato e deluso” Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l’11 novembre 2007 sull’A1 nei pressi di Arezzo. “Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai. Viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Poi – aggiunge – penso al corpo piagato di Stefano: certi segni così evidenti non se li è fatti da solo. Eppure la giustizia non l’ha pensata così. Bisogna sempre sperare, ma come non sentirsi abbandonati”. “Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti. Quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero”. E’ il commento, divulgato in una nota, del presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, sulla sentenza che vede assolti medici e agenti coinvolti nella vicenda della morte di Stefano Cucchi. Il procedimento, conclude Marchesi “non accerta alcuna responsabilità per un decesso che tutto appare meno che accidentale o auto-procurato”.
I genitori: «Stefano è morto ancora una volta». Ilaria in lacrime: «La giustizia ha ucciso mio fratello». Il legale della famiglia preannuncia il ricorso in Cassazione, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”.La sentenza di primo grado cancellata con un tratto di penna. Non c’è nessun colpevole per la morte di Stefano Cucchi, arrestato per droga nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e deceduto il 22 nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Al termine dell’inchiesta la procura aveva stabilito che il geometra 31enne era morto di fame e di sete, ma ora l’appello deciso che non ci sono prove sufficienti per condannare i medici, i soli ritenuti responsabili nel verdetto di poco più di un anno fa. In primo grado. La corte d’assise d’appello, presieduta da Mario Lucio D’Andria, ha dunque scagionato il primario del Pertini Aldo Fierro e i suoi colleghi Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti in base alla norma che richiama la vecchia insufficienza di prove. Invece in primo grado, il 5 giugno 2013, i sanitari erano stati condannati per omicidio colposo e, la sola Caponnetti, per falso ideologico.Confermata l’assoluzione con formula piena degli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe e degli agenti della penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La delusione e la rabbia con cui i familiari di Cucchi avevano accolto la sentenza dell’anno scorso (soprattutto per la mancata condanna degli agenti della penitenziaria) di fronte alla decisione del collegio di secondo grado diventano incontenibili. Come le lacrime di Ilaria, che della battaglia per rendere giustizia al fratello ha fatto la sua ragione di vita. «Una sentenza assurda. Nostro figlio è stato ucciso tre volte», sbottano Giovanni Cucchi e Rita Calore. Per i genitori del geometra «lo Stato si è autoassolto, ma noi - assicurano - non ci arrenderemo finché non avremo giustizia». Al loro fianco, Ilaria piange le sue lacrime forse più amare. «La nostra giustizia è malata e ha ucciso Stefano - sottolinea - . Mio fratello è morto cinque anni fa in questo edificio, quando all’udienza di convalida dell’arresto i magistrati non lo hanno guardato in faccia e non si sono accorti che era stato massacrato. Stefano era un ragazzo come gli altri, ha commesso un errore che non doveva pagare con la vita. Invece si è spento da solo, tra dolori atroci. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia: attenderemo le motivazioni e di sicuro andremo avanti». In Cassazione. A questo punto per riuscire a ribaltare il verdetto che scagiona i 12 imputati resta solo la Cassazione. L’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha già annunciato che si rivolgerà agli ermellini: «Era quello che temevo - ammette riferendosi alle assoluzioni degli imputati - Vedremo le motivazioni e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte».
«Vergogna, sentenza ingiusta»: la rabbia dopo la sentenza Cucchi. Politici, cittadini comuni, analisti: è un moto di sdegno quello che si solleva dopo la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati nel caso Cucchi, scrive Valentina Santarpia su “Il Corriere della Sera”. E’ come un’onda, un moto di sdegno e di rabbia che non tiene conto delle motivazioni giuridiche e delle argomentazioni, dei documenti e delle prove, ma solo delle emozioni più profonde, del sentimento che sale dalla pancia e che travolge razionalità e pacatezza. «Ingiustizia è fatta»: è solo uno dei commenti piovuti sui social network, Twitter in primo luogo, e negli ambienti politici, poco dopo la sentenza che assolve tutti gli imputati -medici, infermieri e poliziotti - nel caso di Stefano Cucchi, morto in carcere a Roma una settimana dopo l’arresto per droga nel 2009. La sentenza è stata accolta con astio, amarezza, incredulità: e le critiche ai magistrati, allo Stato, alle forze dell’ordine, alle istituzioni, non si risparmiano. Da destra, da sinistra, dai comuni cittadini, dalle associazioni. «Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti - afferma il presidente di Amnesty Italia, Antonio Marchesi - quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero». «L’omicidio di Stefano Cucchi rimane una ferita aperta di fronte al bisogno di verità e giustizia. Una ferita insopportabile» commenta, sempre su Twitter, il presidente di Sel Nichi Vendola. «La sentenza di appello emessa oggi sulle cause della morte di Stefano Cucchi lascia fortemente perplessi», commenta l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. «L’assoluzione nel processo d’appello per tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi è una vergogna senza precedenti: è l’autoassoluzione dello Stato», scrive il leader del Prc Paolo Ferrero. «Chi ha seguito il doloroso caso di Stefano Cucchi sapeva bene che per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l'assoluzione, non essendoci stato il pestaggio», giustifica invece il senatore Ncd Carlo Giovanardi. «Caso Cucchi: cinque anni passati e zero responsabili. Ingiustizia è fatta», scrive la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni. «Sulla mia pelle ho visto spendere centinaia di migliaia di euro da magistrati amici del mio nemico. La stessa istituzione offende Cucchi», scrie il Viceré. «Spero ci pensi la vita a dare la giusta punizione agli assassini di Stefano», ribadisce Monica Fisarmonica. «Evidentemente si pestava da solo durante lo sciopero della fame», ironizza amaro Cristian. «Io mi auguro che i poliziotti si dissocino dai loro colleghi assassini. Non copriteli!», propone Natahalie Licciardello. «Dal sangue degli innocenti tutti assolti», cita Beppe Gi Monighini. «Tutti assolti, o meglio, lo Stato si autoassolve. La solita, grande vergogna». «Con questo verdetto hanno ucciso nuovamente Stefano Cucchi», insiste Marco Procino. «Quindi Cucchi ha perso 10 kg in sette giorni e si è provocato fratture ed emorragie per passare il tempo in carcere», ricorda Paride. «Stefano Cucchi, ennesima vittima innocente di uno Stato infame», dice Gianluca Iovine. «Povero Stefano, povera Italia», scrive Eleonora Fichera. «#Tutti assolti per insufficienza di prove», si limita a citare Rudy Tanica: per lei parla la foto che pubblica, un’agghiacciante immagine di Stefano, ormai morto, deturpato dalle botte. «L'ennesima testimonianza che la giustizia in questo Paese non esiste. Caso #Cucchi tutti assolti. Sono senza parole e disgustato», scrive Vinicio Fabiani. «Dalle ipotesi di reato si può essere assolti. La mancanza di umanità è invece una condanna a vita #cucchi#shame», dice Marianna Aprile. E c'è anche chi prova a mantenere la calma: «Mai dare giudizi senza conoscere gli atti processuali, principio base- asserisce Federico Brillo- In questo caso però si fa veramente tanta fatica». «Cucchi può morire sotto la custodia dello Stato SOLO per sciatteria. Le botte oggi si chiamano così. Tutti assolti. Schifo indegno. #tortura», conclude Valeria Verdolini. «Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai»: così Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l'11 novembre 2007 sull'A1 nei pressi di Arezzo, commenta con grande amarezza la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove nel caso di Stefano Cucchi. «E' davvero tutto molto triste - dice Sandri -. E' una sentenza che lascia amareggiati, delusi: viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Come se nulla fosse».«E' uno schifo, i giudici si devono vergognare. Se fosse capitato ad un loro figlio, si sarebbero accontentati di questa verità? Non riesco a crederci. Sono vicina a Ilaria e mi dispiace per lei e per tutta la sua famiglia», commenta Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto nel giugno 2008 in ospedale, a Varese, dopo aver trascorso una notte in caserma. «Per me è dolorosissimo. È un dolore molto grande, che si somma a tutti gli altri. È come se non fosse successo nulla, come se Stefano Cucchi non fosse morto. Come hanno fatto ad assolverli?»: è il commento di Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, che ha lottato accanto alla famiglia Cucchi in questi mesi, condividendo la loro battaglia, e persino lo stesso avvocato.
Il Sap: «Chi conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze». Commento choc del sindacato di polizia sul caso Cucchi: «Basta scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità di chi vive al limite della legalità», scrive “Il Corriere della Sera”. «Tutti assolti, come è giusto che sia». Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati di polizia, nel commentare la sentenza sulla morte di Stefano Cucchi non fa sfoggio di diplomazia. Tutt’altro. «In questo Paese - scrive in una nota - bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, a essere puniti per colpe non proprie». «Una via a Cucchi? Il Comune ci ripensi». Il sindacalista rimarca «il nostro impegno e il nostro sforzo» per introdurre «in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni». E si augura «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».
Cucchi, un agente assolto giustifica i gestacci. «Quel dito alzato soltanto uno sfogo». La polemica sul dito alzato dopo la lettura della sentenza da qualcuno dei parenti e amici degli imputati, scrive “Il Corriere della Sera”. Ilaria Cucchi vuole partire da quelli che definisce «gesti terribili». Le due dita medie alzate al cielo che spuntano da uno degli abbracci tra i banchi dove erano raccolti gli imputati appena terminato quel lunghissimo minuto e 10 secondi della lettura della sentenza. «Sentivo le urla, noi piangevamo. E ci sono stati quei gesti terribili, un segno di non rispetto assoluto verso di noi», racconta e sottolinea in apertura della conferenza stampa del day after. Se le polemiche erano attese (comunque si fosse concluso il processo) quei gesti offensivi - rivolti contro la tribuna del pubblico che inveiva contro la decisione dei giudici - le hanno ulteriormente accese, immortalati da video e foto, raccontati e ripresi, diffusi sul web. Pochi attimi poi censurati da chi forse ne ha intuito al volo le conseguenze e ha spinto l'autrice a tirare giù le braccia. «Quel gesto era la risposta e il comprensibile sfogo di un momento dopo tre anni di attacchi e insulti. Non so chi sia stato, ma non credo che le dita alzate siano più gravi delle urla "Assassini" che ci piovevano addosso», dice Nicola Menichini, uno dei tre agenti assolti, che in quegli attimi era stretto alla moglie in lacrime. A sostegno delle parole dell'agente penitenziario arrivano le parole del suo difensore, l'avvocato Diego Perugini: «Da ieri sera c'è una sentenza che solleva Menichini, i suoi due colleghi e gli infermieri da ogni responsabilità. Non siamo più disposti ad accettare accuse e passeremo alle querele ogni qual volta arriveranno insinuazioni a mezzo stampa. Chi vuole contestare una sentenza ha le aule del processo d'appello per farlo». Nessun dubbio sui destinatari del messaggio. «Voglio evitare qualsiasi contro polemica», dice invece Aldo Fierro primario del reparto «protetto» dell'ospedale Sandro Pertini, dove Stefano Cucchi morì al termine di una settimana di ricovero e, come afferma la sentenza, mancate cure. «So solo che la colpa è soltanto nostra, dei medici - afferma sarcastico -. E meno male che non siamo delinquenti». Fierro è stato condannato a due anni, la pena più severa tra quelle decise dalla Terza Corte D'Assise per i sei medici che erano a processo. Di questi, tre hanno già lasciato la struttura diversi mesi fa per andare altrove. Flaminia Bruno adesso lavora in Inghilterra, Silvia Di Carlo in Abruzzo e Luigi Marchise a Ostia. Nessuno di loro finora è stato rimpiazzato. Assieme a Fierro, nel reparto del Pertini, sono rimasti Stefania Corbi e Rosita Capponnetti, che ieri erano regolarmente al lavoro. Così come al lavoro era Elvira Martelli, l'infermiera assolta assieme ai due colleghi Giuseppe Flauto e Domenico Pepe. «Voglio esprimere la mia vicinanza alla famiglia Cucchi - dice la 35enne - e prendo le distanze da quelle dita alzate, un gesto che stigmatizzo. Posso dire che non sono stata io, che in quei momenti neanche mi sono resa conto, tanta era l'emozione della sentenza. Ma voglio anche dire - aggiunge la Martelli rispondendo a Ilaria Cucchi - che non mi sento affatto indegna di indossare il camice bianco, che ho sempre portato con dignità e con grandi sacrifici in questi tre anni e mezzo di processo».
Chi lo ha ucciso?, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Tutti assolti. Anche i medici che erano stati condannati in primo grado. È questa la sentenza della corte d’appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale “Sandro Pertini” dopo essere stato pestato e privato delle necessarie cure. In primo grado erano stati condannati, cinque per omicidio colposo e uno per falso, solo sei medici, e assolti i tre agenti della polizia penitenziaria e tre infermieri. Ma in appello tutti gli imputati, medici compresi, sono stati assolti per insufficienza di prove. Al momento del verdetto, i familiari di Stefano sono stati sopraffatti dalle lacrime. Una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha detto la madre. E il papà si chiede: «Allora per quale motivo è morto mio figlio?» Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi mette piede in caserma. Il 22 ottobre 2009 esce morto dall’ospedale Pertini di Roma. Morto. O meglio selvaggiamente ammazzato. Il suo corpo martoriato, ridotto a un grumo di sangue, striminzito fino a 37 chilogrammi di peso, sette chili in meno in una settimana, presenta nell’ordine, messe a referto, lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Oggi, 31 ottobre 2014 la giustizia esercitata nel suo nome, ha detto però al popolo italiano che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Morto come si muore per caso. Sono stati tutti assolti. Non è stato nessuno a picchiarlo, non è stato nessuno a massacrare il suo corpo con ferocia inaudita, non è stato nessuno a lasciarlo morire, a non nutrirlo, a ignorarne l’angoscia e la sofferenza. Ma oggi, 31 ottobre 2014, lo Stato italiano non ci ha detto soltanto che Cucchi è morto, che non l’ha fatto morire, che non l’ha ammazzato nessuno. Lo Stato italiano ci ha detto che sono condannate a morire le speranze di chi da anni lotta per avere giustizia. Le speranze di sapere chi ha lasciato morire, chi ha ammazzato gli altri Stefano Cucchi vittime di un sistema giudiziario malato che consente, e forse copre la morte e l’assassinio. ”È inconfutabile – disse il senatore Manconi a suo tempo – che, una volta giunto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro”. E ci chiediamo che cosa pensa oggi di questa sentenza, proprio lui che dal primo minuto di quel 15 ottobre 2009, offrì ascolto e collaborazione continua ai familiari di Cucchi. Che da quel giorno, per cinque anni di fila, è stato loro accanto confidando che fosse fatta giustizia, forse sussurrando loro parole di speranza in un abisso di sconforto.
Senatore Manconi, oggi la sentenza di appello ci ha detto che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Non è colpa di nessuno. Come vive questa sentenza?
«Io e i miei collaboratori viviamo dopo anni di lavoro e di vicinanza a Ilaria, sorella di Stefano, momenti di profonda angoscia. Vorrei poter distinguere tra piano politico e personale, ma in questo caso i piani si sovrappongono. Il paradosso logico di questa sentenza è evidente. In primo grado si stabilì che Cucchi morì per incuria dei medici a causa di un ricovero provocato da un pestaggio. Oggi si dice quindi che non ci fu incuria né pestaggio».
Perché Stefano Cucchi è morto quindi?
«Già la sentenza di primo grado lasciò tutti profondamente insoddisfatti perché si prendeva atto che ai danni di Stefano fosse avvenuto un pestaggio. Era stato accertato che dopo l’arresto Cucchi aveva subito violenze. Era stato stabilito che la morte di Stefano Cucchi era collegata alla privazione della sua libertà, e agli abusi che erano maturati nel corso di quella deprivazione».
Ma ora di tutto questo non resta traccia: morì per caso.
«Tutti devono sapere qualcosa di incontestabile. Dev’essere detto con chiarezza che nella migliore delle ipotesi Stefano Cucchi è stato abbandonato. Nel migliore caso possibile di questa tragedia, nessuno potrà mai negare che Stefano Cucchi è stato lasciato morire. Lo hanno lasciato morire perché nessuno, nessuno ne ha impedito il decadimento, nessuno ne ha compreso i bisogni, nessuno lo ha assistito come meritava».
Stefano è morto d’abbandono, come minimo. Non è comunque un’enorme sconfitta dello Stato italiano?
«Io e Valentina Calderone abbiamo ricostruito minuto per minuto il calvario di Stefano. Ha attraversato dodici luoghi dello Stato: due caserme, celle di sicurezza, pronto soccorso. Ha incontrato oltre cento persone in questo cammino. E nessuno di loro, nessuno di questi oltre cento individui ha voluto prestargli soccorso, tendere una mano verso di lui, coglierne il grido di dolore».
Ci vollero delle fotografie crude, quasi oscene, che ne mostravano le carni martoriate, affinché si cominciasse a parlare di Stefano Cucchi. È davvero questa l’unica maniera di suscitare attenzione verso casi come questo? Dovere creare scandalo, dovere mettere in pubblica piazza il dolore, in nome di un sentimento di giustizia che resta quasi sempre inevaso?
«Ricordo che la vicenda di Stefano Cucchi cominciò quando Ilaria, sua sorella, ci disse che c’erano delle foto scattate a suo fratello in obitorio. Immagini terribili, strazianti, eloquenti. Quando Ilaria ce le consegnò, le dicemmo che secondo noi dovevano essere rese pubbliche. Ma che questa scelta spettava solo ai familiari di Stefano perché sarebbe stata terribile. Stefano sarebbe stato esposto di nuovo, dopo quella morte, a un nuovo oltraggio. Loro ci risposero: ”Decidete voi”».
Fu dunque vostra la decisione di renderle pubbliche?
«No, noi respingemmo quella responsabilità. Era una loro decisione. Una volta presa, non si sarebbe potuti più tornare indietro. Alla fine decisero di farlo. E tutti conoscemmo il caso Cucchi perché loro, i suoi familiari, furono costretti a questo terribile atto di autolesionismo morale».
Non trova vergognoso che una famiglia debba vivere questo abisso di sofferenza, di violenza autoinflitta nella speranza di avere una qualche giustizia?
«Ciò che è accaduto a Stefano, è successo a molti altri. E si ripete,uguale a se stesso, ogni giorno. Dico ogni giorno. Un labirinto di angoscia, indifferenza, e sofferenze inaudite che comincia e finisce con la morte. È finita con la morte anche oggi. E dopo l’autopsia, il certificato di morte dice che Stefano, insieme agli altri Stefano Cucchi cui siamo vicini, è morto perché vittima di un sistema malato. Un sistema carcerario che produce morte, violenza e abiezione».
Sentenza Cucchi, dov'è l'errore? «L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.
Luigi Manconi, cosa significa la sentenza di ieri?
«La sentenza dichiara il fallimento delle indagini condotte dalla Procura, evidentemente in modo maldestro, parziale e approssimativo, come del resto i familiari e i legali di Cucchi sostengono da anni».
Indagini dalle quali emergerebbe che il pestaggio nei confronti di Stefano non sia mai avvenuto?
«No, tutt'altro. Contrariamente a quanto sostengono in molti, come ad esempio il Senatore Carlo Giovanardi (che Dio lo perdoni), la sentenza non afferma affatto che il pestaggio non abbia avuto luogo: dice piuttosto che la Procura non ha presentato prove sufficienti per consentire, al di là di ogni ragionevole dubbio, la condanna degli agenti di Polizia Penitenziaria rinviati a giudizio».
Quindi si tratta di un elemento ormai certo.
«Assolutamente. Tutte le perizie, anche quelle più favorevoli ai poliziotti, hanno messo le violenze subite tra le cause del grave stato nel quale versava Stefano Cucchi: dunque di quelle violenze non si può dubitare, come del resto le lesioni visibili anche a occhio nudo sul corpo di Cucchi dimostrano inequivocabilmente».
Una certezza agghiacciante…
«Certo, perché in uno dei luoghi in cui dovrebbe massimamente valere la tutela dell'individuo e del suo corpo da parte dello Stato, cioè la cella di sicurezza di un Tribunale, quell'individuo viene invece fatto oggetto di percosse e violenze».
Ma non pare questo ciò che emerge dalla sentenza.
«Leggeremo le motivazioni, e soprattutto vedremo se da quelle motivazioni emergerà la necessità di ulteriori indagini; ma ad oggi il messaggio contenuto nella sentenza è letteralmente sconcertante: Stefano Cucchi è stato vittima di un caso di ordinaria malasanità: un episodio come tanti di incuria medica o di mancata assistenza. Questo si ottiene strappando a viva forza la morte di Stefano dal contesto in cui è avvenuta e dal complessivo sistema delle istituzioni in cui si è consumata».
E cosa si vede, rimettendola in quel contesto?
«Lo ripeto per l'ennesima volta: la vicenda di Cucchi è una vera e propria via crucis, composta di tante stazioni a ciascuna delle quali corrisponde un'istituzione pubblica. Due caserme dei Carabinieri, il Tribunale, le celle di sicurezza e l'infermeria del Tribunale, quella di Regina Coeli, la cella di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebene fratelli, il Pertini. Da un calcolo approssimativo ma plausibile di Valentina Calderone, molte decine di persone, forse addirittura centocinquanta, tutte appartenenti a istituzioni pubbliche, hanno avuto contatto con Stefano, e nessuna di loro ha prestato soccorso, ha lanciato un grido d'allarme, ha offerto aiuto a un essere umano che andava verso la morte. La sentenza condanna solo i medici, ma ignora tutto il resto».
In questa vicenda gli elementi che sembrano ignorati sono molti.
«Moltissimi. Ad esempio si ignora una domanda cruciale: perché Cucchi è stato ricoverato nel lontanissimo Pertini anziché al Fatebenefratelli? Il sospetto è che si trattasse di un modo per sottrarlo non solo allo sguardo pubblico, ma anche a quello dei familiari. Così come si ignora che Giovanni, il padre di Stefano, ha attraversato la città per cinque giorni andando di ufficio in ufficio, di sportello in sportello, trovandosi davanti uffici chiusi e sportelli che lo rimandavano ad altri sportelli: e solo alle 12:00 del 22 ottobre ottiene il permesso formale di visitare il figlio, che era morto all'alba dello stesso giorno senza che lui ne fosse informato».
Una trafila terribile…
«Una trafila oscena. Un sistema di controllo e detenzione che sembra avere un solo scopo: negare i diritti delle persone che sono private della libertà. A partire da quello fondamentale».
Vale a dire?
«Avvalersi di un legale. Si tratta della prima richiesta fatta da Cucchi nella caserma dei Carabinieri e poi rinnovata in Tribunale. Anzi, dalla documentazione del Pertini risulta che fosse questa la causa dell'astensione dal cibo di Stefano».
Mancanza di prove per condannare gli agenti, si diceva. Ma è solo una questione di imperizia?
«Certamente no. E' anche il risultato del clima di chiusura corporativa che gli apparati dello Stato mettono spesso in atto in circostanze del genere».
Che scenari si aprono dopo questa sentenza?
«Come dicevo, occorre attendere le motivazioni. Ma io prevedo che sarà proposto appello sia dalla Procura, sia dalle parti civili».
Non è successo nulla, scrive Concita De Gregorio su “La Repubblica”. Quindi non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta". Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente. Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno. Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi". Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto. Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.
La Corte non vede reati: “Senza prove si assolve”, scrive Paola Zanca su Menti Informatiche. Mi devono uccidere per fermarmi”. Non bastano le offese, che ancora ieri sono tornate a infangare la memoria di Stefano Cucchi. E nemmeno le precisazioni dei giudici, che si trincerano dietro il volere della giuria popolare che ha mandato assolti tutti quelli che hanno incontrato il giovane detenuto romano nell’ultima settimana della sua vita. Ilaria, la sorella che da cinque anni si batte per trovare i responsabili di questa morte assurda, arriva al rimedio estremo: “Mi devono uccidere per fermarmi”. Il primo – l’ennesimo – passo è già sulla scrivania dell’avvocato di famiglia, Fabio Anselmo: azione legale contro il Ministero della Giustizia. “Al di là dell’accertamento delle singole responsabilità – spiega l’avvocato – una responsabilità del ministero c’è”. Una strada che viaggia in parallelo con il ricorso in Cassazione e con la richiesta di giudizio della Corte europea. “Due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio – insiste Ilaria Cucchi – e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato: mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro”. Questa storia non è un gioco. Eppure, ancora ieri, c’era chi aveva voglia di scherzare. Il Coisp, sindacato indipendente di polizia, è arrivato a fare la ramanzina alla famiglia di Stefano: “Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia – si legge in un comunicato –È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita – insiste il segretario Coisp Franco Maccari – comincino ad assumersi le proprie responsabilità”. Illazioni vergognose, a cui nessun rappresentante delle istituzioni si è sentito in dovere di replicare. Il presidente della Corte di Appello di Roma Luciano Panzani, invece, è voluto intervenire in risposta a una rubrica di Massimo Gramellini su La Stampa: “Nessuna gogna mediatica – ha tuonato – e nessun invito a far pagare i magistrati per i loro errori se non vogliamo rischiare di perdere noi tutti molto di più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda”. Spiega ancora Panzani: “Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario, quando la responsabilità non è provata oltre ogni ragionevole dubbio, deve assolvere”. Ieri sera, ospite dello stesso Gramellini su RaiTre , Ilaria Cucchi ha replicato: “L’insufficienza di prove dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Più volte ho criticato l’operato di questi pm”. Ci sarebbe potuta essere una terza via, come ricorda l’avvocato Anselmo: “Di fronte a una perizia non idonea, io avrei voluto che la Corte disponesse un supplemento peritale per risolvere i dubbi sulle cause della morte” . Non si dà pace Anselmo, anche perché nessuno risponde all’obiezione principe: perché i Cucchi sono stati risarciti dall’ospedale Pertini con un milione e 340mila euro se lì dentro non è successo nulla? Dice Roberto Saviano ”Che rabbia, siamo indifesi. Che rabbia. Rabbia per una sentenza che non fa giustizia. Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita. Che rabbia per noi, che siamo foglie al vento, che ci sentiamo nudi e indifesi di fronte a tutto questo”. Fedez, cantante rapper "disidratato? stronzate....Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati: certe stronzate non ce le beviamo. L’ingiustizia è uguale per tutti. #Vergogna“. Accanto al post su Facebook, un manifesto funebre che cita De Andrè: “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte”. Una fase tombale, che nessuno potrà intaccare – sostiene l’avvocato – Durante questo percorso ho portato e convinto la famiglia ad accettare questo importante risarcimento, che non può che essere considerato come una vera e propria responsabilità, e grave”. Succedeva un anno fa. I Cucchi spiegarono che quei soldi servono a coprire le spese legali, passate e future. E che il resto vorrebbero usarlo per aiutare i ragazzi che escono dalla droga a reinserirsi nella comunità, magari nel casale di Tivoli dove Stefano amava passare il suo tempo e che adesso vorrebbero donare al Campidoglio. Si sa mai che qualcuno abbia pure il coraggio di dire che sono diventati ricchi.
Quanto fa chic criticare il verdetto sul caso Cucchi. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie. Quello che un colpevole, il Colpevole, meglio in divisa ma va bene anche il camice, lo vuole per forza. Con le buone o con le cattive. E se la giustizia non lo trova, non li trova, perché non ce l'ha fatta, perché è arduo distinguere o perché forse più banalmente non ci sono aguzzini, ecco che si scatena. E fa a pezzi lo Stato e l'apparato giudiziario e tutto il resto. Perché le sentenze si rispettano, ma qualche volta no. Quella che riguarda Stefano Cucchi, con l'assoluzione dei medici condannati in primo grado, non può passare. Anzi si grida allo scandalo e alla vergogna e i titoli dei giornali e dei tg sono un terzo grado e anche un quarto. Durissimo. Implacabile. Senza camera di consiglio perché in fondo non ce n'è bisogno. «Chi è Stato?», gioca con perfida maestria Massimo Gramellini sulla Stampa . «Non è successo nulla», è il sanguinante commento di Concita De Gregorio su Repubblica. Sempre su Repubblica Carlo Bonini parla di «ferite inspiegabili e testimoni ignorati». È tutto un coro che va oltre le pagine e arriva sui social network e s'infiamma con le requisitorie di Fedez e Saviano. Non manca nessuno. Ci sono tutti, forse con un riflesso tardo sessantottino, e se la prendono con i carabinieri e poi con gli agenti della polizia penitenziaria e ancora, usciti di scena gli uni e gli altri, con i medici e gli infermieri. E alla fine, visto che i conti non tornano, puntano il dito contro tutto e tutti. Contro i silenzi. Contro le omissioni e il clima di omertà. E così il paradosso chiama un altro paradosso, il furore vuole altro furore, fino a perdere la misura. E il rispetto minimo per le istituzioni e le facce che le riempiono. L'assoluzione diventa l'occasione per dire che lo Stato talvolta nasconde le prove e chiude i cassetti. Come ai tempi mai rimpianti delle bombe. Peccato. Certo ci sono quelle foto del giovane: dolorose, impressionanti, terribili. Ma i processi non si fanno in piazza. «Una condanna senza prove - afferma il presidente della corte d'appello di Roma Luciano Panzani - aggiungerebbe obbrobrio a obbrobrio». Ma nessuno lo ascolta. Il sindaco Marino vuole ricordare Cucchi intitolandogli una strada. E Rita Bernardini dei radicali insiste per introdurre il reato di tortura. È la fiera del politically correct. La verità invece è in fuga.
Strano che Zurlo abbia preso questa posizione. Non è la condanna delle "guardie" che soddisfa la voglia di giustizia. E' la condanna della giustizia, ergo dei magistrati, che non ha saputo trovare il responsabile. Oppure per Il Giornale si è garantisti solo se si tratta di Berlusconi, Sallusti e le Forze del'Ordine?
Invece è coerente con se stesso l'analisi di Sansonetti: da vero garantista.
Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo ”stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – ”Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi ( e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza?
P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.
Intervenendo l’1 novembre 2014 alla trasmissione di Fazio su Rai 3 la sorella di Stefano Cucchi e l'avvocato Anselmo ribadiscono le critiche alla sentenza di assoluzione per tutti gli imputati e la determinazione a proseguire nell'azione legale. «Non dimentico che per anni si è cercato di negare in tutti i modi quel pestaggio. Pestaggio che oggi, come nella sentenza di primo grado viene riconosciuto. Viene riconosciuto, ma la giustizia dice che non è in grado di stabilire chi siano gli autori di quel pestaggio. Questo da semplice cittadina lo trovo gravissimo. Insufficienza di prove dipende da entrambe le cose . Dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Io, più volte in questi anni, ho criticato l’operato di quei pubblici ministeri. Oggi alla luce di queste sentenze, tutti sapete che non sbagliavo. Questa sentenza per insufficienza di prove è il fallimento della Procura di Roma, non è il mio fallimento, non è il fallimento del mio avvocato. E’ il loro. Quello della Procura di Roma, dello Stato italiano e della giustizia. Cosa centra la droga con questo. Questa è l’immagine di mio fratello, così come ce lo hanno restituito dopo 6 giorni. E non centra un bel niente con la droga. Le pressioni indebite ci sono state nei nostri confronti - ha detto Ilaria - . Ogni mattina il processo si svolgeva così: quasi tutto il tempo facevano domande sulla magrezza di Stefano, su di noi... Il nostro è stato un processo alla vittima». «Voglio chiedere al dottor Pignatone - dice Ilaria Cucchi, confermando quanto scritto in un post su Facebook - se è soddisfatto dell'operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano».
Eppure c'è chi insiste a negare l'evidenza. Gianni Tonelli (Sap): «Non c’è stato nessun pestaggio, che volete da noi?», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. Se non vogliamo rischiare di perdere molto di più di quanto si sia perso in questa triste vicenda nessuna gogna mediatica e nessun invito a ’far pagare i magistrati per i loro errori», dice Luciano Panzani, presidente della Corte di Appello di Roma, alla sentenza d’appello che ieri ha assolto tutti gli imputati accusati della morte di Stefano Cucchi. Ma ha destato molte polemiche anche il sindacato indipendente di polizia Coisp, che attraverso il suo segretario Franco Maccari ha ha fatto sapere: «Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Aggiungendo: «È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le proprie responsabilità». Parole durissime, vergognose, che ricalcano quanto affermato ieri da Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap. «In questo Paese – ha detto Tonelli, che si oppone a una via intitolata a Cucchi – bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie». Ecco che cosa ha detto il segretario generale del sindacato di polizia Sap Gianni Tonelli, commentando la sentenza di assoluzione in secondo grado della Corte d’Assise d’Appello di Roma per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria imputati per la morte di Stefano Cucchi.
Sono dichiarazioni raccapriccianti, Tonelli. Per lei Cucchi si è cercato la morte perché era un tossico, pare di capire.
«Cucchi ha tutta la pietà umana per la sua condizione. Ma basta prendersela con i servitori dello Stato. La mia era una dichiarazione più ampia, che faceva riferimento anche a Uva e altri casi. Non ho avuto spazio per spiegarmi».
Se ne aveva poco doveva sfruttarlo meglio. Lei dice che Cucchi era un drogato e la morte è una sua responsabilità, si rende conto?
«Ho un ruolo ingrato, ero obbligato a controbilanciare le dichiarazioni di parte, e i continui tiri al bersaglio di cui sono oggetto le forze di polizia che sono considerate colpevoli anche quando non lo sono, come in questo caso».
Lei fa la stessa cosa che rimprovera agli altri. Ha trovato il colpevole di questo processo: Cucchi, il drogato che se l’è cercata.
«Non è questo che intendevo dire».
Ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta. Lo ha detto lei, e ora ce lo spiega.
«Volevo dire che i soggetti border line corrono più rischi. Non avrebbe vissuto tutta questa vicenda se si fosse tenuto lontano dalla droga».
Quindi se si è drogati bisogna aspettarsi di poter essere pestati e morire in carcere. Rischi del mestiere, insomma.
«Non è quello che sto dicendo».
Se avesse avuto un figlio ridotto in quelle condizioni, entrato vivo in caserma, e uscito morto, pestato a sangue, non avrebbe messo le mani al collo a chi diceva che ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta?
«È un discorso ridicolo. È come se le chiedessi se lei non si sente lercio a pranzare, sapendo che milioni di bambini muoiono di fame».
Io non sono il rappresentante di nessuno, se non di me stesso. Lei tutela i suoi colleghi, e la difesa d’ufficio ci può stare. Ciò che invece è vergognoso è che si è accanito contro un debole, accusandolo di essersi cercato la morte.
«Ma vuole che non provi pietà umana per la sua condizione?»
Voglio che non lo accusi di essere morto perché era un tossico. Era un tossico, ma è morto di botte.
«La sentenza ha detto che non ci sono responsabilità dei medici e dei poliziotti dietro la morte di Cucchi. Il fatto non sussiste, ha detto la sentenza».
La sentenza dice che c’è insufficienza di prove, spiacente.
«No, la sentenza dice che il fatto non sussiste».
La formula adottata è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530, la vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove. Ma se dice che il fatto non sussiste prendo atto, lo ha detto lei.
«Su questo allora verificheremo, è una questione giuridica che non possiamo chiarire qui in pochi minuti. Resta l’assoluzione di secondo grado, questo posso dirlo?»
Rimane il fatto che nessuno ci ha detto chi ha ridotto Stefano Cucchi in quelle condizioni.
«Non c’è stato nessun pestaggio, lo hanno detto tutti i periti».
Non è così. Il dottor Thiene ha spiegato che Cucchi è morto in conseguenza dei traumi ricevuti. Se li è fatti da solo?
«I casi di detenuti che adottano condotte autolesionistiche sono a decine, specie se interessati da situazioni emotive di instabilità. Può essersi battuto la testa sulle sbarre da solo».
Lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Cucchi si è fatto tutto questo da solo?
«Gli elementi a disposizione della magistratura non hanno attribuito questo tipo di lesioni a condotte violente degli agenti».
Il fatto che il pestaggio non possa essere attribuito a nessuno non vuol dire che non è avvenuto. Che fastidio le dà una via intitolata a Cucchi?
«È pretestuoso intitolargli una via, non ha nessun merito. Si intitolano vie a Manzoni, Leopardi, Gagarin. Perché questo riconoscimento a Cucchi?»
Perché è una vittima di Stato. È entrato in caserma in salute ed è uscito dall’obitorio morto. Morto e massacrato di botte.
«Non c’è prova che i politraumatismi abbiano provocato la sua morte».
L’ha detto lei che era un tossico. Era deperito. Magari una persona sana a tutti quei calci potrebbe sopravvivere. E un tossico, appunto, ne può morire. Non crede?
«Se allora è una vittima allora intitoliamo vie alle vittime di Ustica?»
Sì, subito. Perché a Cucchi no?
«Perché è una maniera per infierire contro le forze dell’ordine, per dire che sono stati comunque i poliziotti a ucciderlo, anche se la sentenza dice che il fatto non sussiste».
l fatto sussiste eccome. Non esiste il responsabile. Nella migliore delle ipotesi questo ragazzo è morto per abbandono.
«Nessuno lo ha abbandonato. È lui che ha rifiutato le cure».
Glielo dica ai suoi genitori che è morto ma non l’ha ammazzato nessuno.
«E’ nelle carte che i genitori lo avevano abbandonato a sé stesso e non lo andavano a trovare».
Non è così. Non mi risulta. Mi risulta solo che è stato scannato e che ci sono testimoni.
«I testimoni non sono stati ritenuti attendibili».
Ci sono le lastre e i referti delle fratture. Quelli sono attendibilissimi. Ma secondo lei come è morto Cucchi?
«Io penso che debba essere disciplinato per bene il Trattamento sanitario obbligatorio. Se fosse avvenuto tempestivamente, Stefano Cucchi sarebbe ancora tra noi».
Ammette quindi che ci sono responsabilità.
«Dico che se ci fosse stato un tso più rapido, Cucchi sarebbe vivo».
Forse sarebbe vivo se non fosse stato ricoverato per le botte che ha preso.
«Se qualcuno ha altre prove si faccia avanti. Non vedo l’ora che si trovi il colpevole. Io per la polizia non faccio che chiedere telecamere da un sacco di tempo. Vogliamo operare sotto la luce del sole, non ce la facciamo più a passare per mostri. Ma lei crede che dei deboli, di chi sta male, mi importa meno di lei?»
Allora chieda scusa per le sue parole inopportune.
«No, non lo farò perché non volevo offendere nessuno. Dico solo che in molte vicende ci sono concorsi di colpa. Ne aveva Cucchi, ne hanno avuto gli altri Cucchi e ne ha lo Stato. Non si può puntare l’indice in una sola direzione ogni volta».
Eppure qualcuno è stato. E in mancanza di un preciso responsabile, è stato ucciso dallo Stato. Ecco perché Stefano Cucchi merita che gli sia intitolata una via. Ecco tutto.
Tutti assolti per la morte di Stefano Cucchi, scrive “Il Post”. I giudici hanno assolto tutti gli imputati – medici, infermieri, agenti – per la storia dell'uomo morto in ospedale dopo essere stato arrestato nel 2009. Sono stati tutti assolti in appello per insufficienza di prove. In primo grado solo i medici erano stati condannati per omicidio colposo (tranne uno). La decisione è stata presa dai giudici della Prima Corte d’Appello di Roma, dopo una camera di consiglio durata circa tre ore, gli imputati nel processo erano dodici: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. I giudici potevano scegliere in diverso modo, confermando la sentenza di primo grado o accogliere le richieste della procura che avrebbero portato a una profonda revisione della sentenza e alla condanna di tutti gli imputati. Infine potevano accogliere la tesi della difesa che aveva proposto l’assoluzione di tutte le persone imputate. Stefano Cucchi, 31 anni, lavorava come geometra nello studio di famiglia, con i genitori Rita Calore e Giovanni, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 fu arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di droga. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, fu portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente, Cucchi passò sei giorni in diverse strutture e con il coinvolgimento di decine di operatori sanitari e della giustizia, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati furono resi pubblici solo alcuni mesi più tardi. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Una commissione d’inchiesta del Senato, presieduta dall’allora senatore del PD Ignazio Marino, stabilì che al momento dell’ingresso in carcere Cucchi presentava già lesioni gravi al volto, lesioni vertebrali e un sospetto di trauma cranico e addominale. Secondo l’accusa, infatti, Cucchi fu picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Successivamente, dopo il suo ricovero al “Pertini”, secondo l’accusa Cucchi non fu curato né nutrito, lasciandolo morire di fame e di sete, nonostante le sue pessime condizioni cliniche. Cucchi, che era tossicodipendente e soffriva di epilessia, aveva infatti, già dal 19 ottobre, una grave ipoglicemia (mancanza di zuccheri), oltre ai traumi alla testa e alla schiena. Dopo la lettura della sentenza di appello la madre di Stefano Cucchi ha parlato di una decisione “assurda: mio figlio è morto dentro quattro mura dello Stato che doveva proteggerlo”. Il padre di Cucchi ha ricordato che “le persone ferite siamo noi e lo saremo per tutta la vita. Vogliamo la verità. Possono assolvere tutti, ma io continuerò a chiedere allo Stato chi ha ucciso mio figlio”.
Il volto tumefatto e la resa dello Stato incapace di giustizia, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Si devono guardare i suoi occhi pesti, il suo viso tumefatto, il suo corpo straziato. Si deve sapere che nessuno si è occupato del suo dolore fisico, né si è preoccupato che quel ragazzo, arrestato per possesso di droga, avesse smesso di bere e di mangiare. Nessuno ha dato importanza al fatto che non riuscisse più a reggersi in piedi tanto da non poter essere trasferito in carcere e dunque dovesse essere ricoverato nel centro di detenzione dell’ospedale Pertini. E ci si deve interrogare su come sia possibile che nessuno pagherà per questo. Era nelle mani dello Stato Stefano Cucchi ma ieri lo Stato si è arreso e ha mostrato l’incapacità di rendere giustizia. La scelta di sua sorella Ilaria di far vedere ancora una volta in televisione la foto di quel volto devastato dalle botte sul lettino dell’obitorio è la nuova ennesima umiliazione che questa famiglia è costretta a subire pur di conoscere la verità. Un inammissibile sopruso che la mamma e il papà di Stefano hanno dovuto nuovamente sopportare. Sembra assurdo che in una vicenda dove ci sono decine di persone coinvolte, testimoni o protagonisti, non ci sia nessuno che decida di raccontare davvero che cosa è accaduto dal momento dell’arresto fino al ricovero. Ma ancor più difficile da comprendere è che di fronte agli elementi forti già contenuti negli atti processuali i giudici non riescano a trovare i colpevoli. Stefano è stato ucciso. Lo Stato che non lo ha protetto adesso è chiamato a dire chi lo ha ammazzato. Ci sono stati tanti errori, omissioni e bugie commessi da chi era incaricato di indagare. Ma il verdetto di ieri, che ci lascia senza risposte e rende l’omicidio insoluto, è una sconfitta per tutti.
Chi è Stato? Si chiede Massimo Gramellini su “La Stampa”. Recita il ritornello: le sentenze si rispettano. Però non possono diventare lotterie, come accade quando sugli stessi fatti il giudizio d’appello smentisce, ribaltandolo, il processo precedente. Per l’accusa Stefano Cucchi è morto in carcere di botte e di stenti. Per il primo giudice «soltanto» di fame e di sete. Per la corte d’assise neanche di quello. Ne dovremmo dedurre che sia ancora vivo. O che si sia ammazzato da solo. E infatti è questa la versione che ci vogliono apparecchiare: Cucchi si sarebbe lasciato morire di inedia. Se medici e infermieri hanno una colpa, è di non avere insistito con la forza per nutrirlo. Una «responsabilità morale» ammette persino Giovanardi. E le fratture? E gli occhi pesti? E il corpo preso in consegna vivo dallo Stato e restituito cadavere alla famiglia? Una famiglia che ha sempre rispettato e aiutato le istituzioni, al punto di fornire prove a carico del figlio sul possesso di droga. Toccherà alla Cassazione mettere il timbro su questa storia allucinante, dove il latinorum dei giudici è contraddetto dalla potenza persuasiva delle foto. Purtroppo abbiamo fin d’ora una certezza: che quando una delle due sentenze risulterà sbagliata, nessun magistrato pagherà per il suo errore.
P.S. Solidarietà ai poliziotti e agli agenti penitenziari che accettano di farsi odiare dal prossimo per 1200 euro al mese. Ma il portavoce di un loro sindacato che - di fronte alla morte impunita di un uomo - dichiara: «Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute e conduce una vita dissoluta, ne paghi le conseguenze», dovrebbe fare soltanto una cosa. Vergognarsi.
Luciano Panzani, 64 anni, è in magistratura dal 1975. Ha fatto il pretore a Torino, ha presieduto il tribunale di Alba e poi quello di Torino, è stato consigliere di Cassazione. Oggi presiede la Corte d’Appello di Roma. Ieri si è sentito in dovere di difendere i suoi colleghi: «Non ho l’abitudine di intervenire, tanto meno di commentare le sentenze. Però sento che qualcuno vorrebbe far pagare i magistrati per i loro errori. È un concetto pericoloso». Ha parlato di «gogna mediatica». «Basta gogna mediatica, non c’erano prove» e nessun invito a «far pagare i magistrati per i loro errori - ha detto il magistrato - se non vogliamo rischiare di perdere molto più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. E' quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta». Lo afferma il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, in risposta al "Buongiorno" di Massimo Gramellini su La Stampa. «Questo è il suo compito - aggiunge il presidente della Corte d'Appello di Roma, a lungo presidente del Tribunale di Torino - per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità. - Panzani ricorda poi che - la Corte d'Assise è formata in prevalenza di giudici scelti tra semplici cittadini. Anche Lei - osserva rivolgendosi direttamente a Gramellini - avrebbe potuto farne parte, ed a maggior diritto giudica in nome del Popolo Italiano, perché è espressione del Popolo. Posso comprendere - scrive ancora il presidente della Corte d'Appello di Roma - che sentenze contrastanti in primo grado e in appello suscitino sconcerto, ma questo sovente succede nei casi difficili, dove la prova è indiziaria e proprio per questa ragione esistono l'appello e il ricorso in Cassazione».
«Io non critico la sentenza - commenta il giorno dopo l’avvocato Anselmo - Non posso fare a meno di ricordare che già durante l’udienza preliminare avevo previsto questo esito. Adesso abbiamo una sentenza che certifica l’insufficienza di prove su tutto: sugli autori del pestaggio e sulle singole responsabilità di medici e infermieri. La fragilità e le imbarazzanti contraddittorietà della perizia disposta dalla Corte di primo grado mai avrebbero potuto reggere a un vaglio severo e giusto da parte dei giudici di seconda istanza».
Parla con il dolore alimentato dall’indignazione la sorella del ragazzo, Ilaria, da sempre in prima linea nella battaglia legale: «Mi devono uccidere per fermarmi. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro. Mi sono svegliata con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma».
Ma la verità non è impunità, risponde Massimo Gramellini. «Gentile dottor Panzani, la ringrazio per le sue pacate riflessioni. Nel mio corsivo ho cercato di dare voce allo “sconcerto” (come lo chiama anche lei) dell’opinione pubblica di fronte a una sentenza che rovescia quella di primo grado, pur in assenza di fatti nuovi che possano giustificare un cambiamento di giudizio. Ho cercato soprattutto di trasmettere la sensazione di straniamento e di impotenza che invade il cittadino davanti a sentenze tecnicamente ineccepibili, ma che in sostanza ci lasciano addosso il sapore amaro della negazione di verità. Lei parla di gogna mediatica, ma forse i tribunali dovrebbero adeguare la loro comunicazione ai tempi moderni. In casi di interesse pubblico come questo, non possono più limitare il verdetto alla mera enunciazione del dispositivo, ma dovrebbero dare subito qualche elemento ulteriore di comprensione. Rendendosi conto che l’insufficienza di prove si traduce, per chi osserva da fuori, in una legittimazione dell’impunità.
Cucchi, tutti gli incredibili errori. Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. I militari dell’Arma scrissero che era nato in Albania ed era senza fissa dimora, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato. Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però - che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente - non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico. Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice - e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte -, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento - con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto - Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo - o non solo - l’ultima sentenza.
Omicidio Stefano Cucchi: Vergognosi tentativi di depistaggio, scrive “Aikido e dintorni”Stefano Cucchi è stato arrestato dai Carabinieri il 15 ottobre scorso. Trascorre la notte in caserma e l’indomani, con un processo per direttissima, il giudice dispone l’arresto in carcere in attesa dell’udienza successiva. Mentre sono ancora in attesa di vedere il figlio, una settimana fa i familiari ricevono dai carabinieri la notifica del decreto col quale il pm autorizzava l’autopsia sul corpo di Stefano. E’ così che i genitori e la sorella vengono a conoscenza della morte di Stefano. Un’altra morte di carcere.
Il Blog ha intervistato Ilaria e Giovanni Cucchi, rispettivamente sorella e padre di Stefano.
llaria Cucchi: “Stefano Cucchi era un ragazzo di 31 anni, un normalissimo ragazzo di 31 che la notte tra il 15 e il 16 ottobre è stato arrestato dai Carabinieri, perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti. L’abbiamo visto uscire di casa accompagnato di Carabinieri, che precedentemente tra l’altro avevano perquisito la sua stanza non trovandovi nulla e accompagnato dai Carabinieri in ottime condizioni di salute, senza alcun segno sul viso e non lamentando alcun tipo di dolore. L’abbiamo rivisto morto il 22 ottobre all’obitorio: nel momento in cui l’abbiamo rivisto, mio fratello aveva il viso completamente tumefatto e pieno di segni, il corpo non l’abbiamo potuto vedere.”
Blog: “possiamo ripercorrere le tappe di quei giorni? La notte tra il 15 e il 16 ottobre viene fermato dai Carabinieri e viene portato in caserma: da lì i Carabinieri lo portano qui in casa a controllare se.. ”
llaria Cucchi: “a perquisire
la sua stanza, esatto, dove ovviamente non viene trovato nulla.”
Blog: “sostanzialmente trascorre la notte in caserma e poi viene.. ”
llaria Cucchi: esattamente. La mattina successiva, verso le dodici avviene il processo per direttissima, dove il giudice ritiene che questo ragazzo debba passare il tempo fino al 13 novembre, data in cui è fissata l’udienza successiva, in carcere e viene assegnato a Regina Coeli.
llaria Cucchi: da quel momento non lo vediamo più. Ripeto: la mattina del processo per direttissima mio fratello aveva già il segno gonfio di botte, da qui è uscito in ottime condizioni.
Blog: “i Carabinieri che cosa vi hanno detto, quando era qui in casa?”
llaria Cucchi: “ci hanno detto di stare tranquilli, perché per così poco sicuramente il giorno dopo sarebbe stato a casa agli arresti domiciliari.”
Blog: “poi, quando vi avvisano, arriva una telefonata che dice ‘Stefano sta male’?”
llaria Cucchi: “il sabato sera. La notizia successiva l’abbiamo il sabato sera, intorno alle nove vengono i Carabinieri a informarci che Stefano è stato ricoverato d’urgenza presso la struttura del Sandro Pertini: ovviamente i miei genitori si recano immediatamente sul posto e lì viene negato loro alcun tipo di notizia. Nel momento in cui, ingenuamente, mia madre domanda di poter vedere il ragazzo e di sapere quello che aveva, le viene risposto: “assolutamente no, questo è un carcere, tornate lunedì in orario di visita e parlerete con i medici”. I miei genitori tornano il lunedì mattina, all’orario che era stato loro detto, vengono fatti entrare e vengono loro presi gli estremi dei documenti e vengono lasciati in attesa. Dopo un po’ di tempo esce una responsabile, la quale li informa di non poterli fare parlare con i medici, in quanto non è arrivata una certa autorizzazione da parte del carcere. “Comunque tornate, perché deve arrivare quest’autorizzazione e non vi preoccupate, perché il ragazzo è tranquillo”, è stato risposto loro, quando mia madre chiedeva: “ditemi almeno per quale motivo mio figlio è stato ricoverato”. “Il ragazzo è tranquillo”. Il giorno dopo, ovviamente, i miei tornano …esattamente, il martedì mattina tornano presso la stessa struttura, al reparto carcerario del Sandro Pertini e questa volta non vengono proprio fatti entrare, viene risposto loro al citofono che non possono entrare, perché non c’è l’autorizzazione. Finalmente viene detto loro però che sono loro a dover chiedere un’autorizzazione a Piazzale Gloria, se vogliono vedere il ragazzo: mio padre chiede quest’autorizzazione e la ottiene per il 25.. mi scusi, per il 22, giovedì. Il 22 all’alba mio fratello è morto e mio padre non ha fatto in tempo a vederlo. Sappiamo della notizia della morte di mio fratello dai Carabinieri, che vengono a casa intorno alle 12: 30, le premetto che sembrerebbe che mio fratello sia morto all’alba, vengono intorno alle 12: 30 per notificare a mia madre il decreto con il quale il Pubblico Ministero autorizzava l’esecuzione dell’autopsia in seguito al decesso di Cucchi Stefano. Questo è stato il modo in cui mia madre ha saputo della morte del figlio.”
Blog: “da lì in poi come avete fatto per vedere il corpo? All’obitorio vi è stata concessa questa possibilità?”
llaria Cucchi: “inizialmente no, c’è stata negata: dopo alcune insistenze è stata fatta una telefonata al Pubblico Ministero, il quale ha autorizzato che potessimo vederlo, ovviamente dietro a un vetro. Quello che abbiamo visto è stato uno spettacolo – mi creda – allucinante: mio fratello aveva il viso completamente devastato, era irriconoscibile, aveva un occhio gonfio e un altro sembrava incavato, la mascella sembrava rotta, aveva il viso come bruciato. Il corpo era coperto da un lenzuolo, non so quello che ci fosse sotto.”
Blog: “è vero che il magistrato vi ha vietato di fare fotografie al vostro.. ”
llaria Cucchi: “ovviamente il nostro consulente ha chiesto di poter fare la documentazione fotografica e le riprese, ma è stato negato. Adesso ci aspettiamo innanzitutto una serie di risposte e che lo Stato ci dica come è potuto accadere che non ci sia stato possibile stare vicini a Stefano nel momento in cui stava morendo. Ci devono spiegare anche perché abbiamo consegnato mio fratello allo Stato, alle istituzioni in una certa condizione di salute ottima e perché ce l’hanno restituito morto. Stefano era un normalissimo ragazzo di 31 anni, lavorava, lavoravamo insieme, lui era un geometra, anche mio padre è geometra e lavoriamo insieme nella stessa struttura. Mio fratello aveva un trascorso in una comunità di recupero per tossicodipendenti, dalla quale era uscito completamente riabilitato, tant’è che lavorava e stava bene, mio fratello stava bene, aveva tanta voglia di vivere e lo posso documentare con le sue lettere, con i suoi messaggi, mio fratello aveva voglia di vivere. In questo momento non sono in grado di accusare nessuno, e il problema è proprio questo, perché non so come sono andate le cose.”
Blog: “ci sono state delle interrogazioni parlamentari rivolte al Ministro della Giustizia? Cosa è successo?”
llaria Cucchi: “mi giunge voce che la risposta all’interrogazione del Ministro Alfano è stata che Stefano è caduto: ora mi spieghino dove, come e perché è caduto e, soprattutto, come ha fatto a morire. Che mi spieghino, per una caduta, come poteva riportare tutti quei segni di traumi sul viso e sul corpo e che mi spieghino perché è stato lasciato morire.”
Blog: “per voi questa non è la verità?”
llaria Cucchi: “questa non è assolutamente la verità: forse è parte della verità, ma sicuramente la vicenda non si chiude qui e sicuramente non si spiega la morte di mio fratello.”
Giovanni Cucchi: “quando è il momento in cui ho visto mio figlio all’obitorio mi è caduto il mondo, vedendolo così, in quelle condizioni veramente inimmaginabili. Ho provato un dolore enorme e un senso di frustrazione di fronte a quello che lo Stato ci può dare e, in effetti, mio figlio è entrato sano e è uscito morto in quelle condizioni. Voglio dire, non è ammissibile che, per qualsiasi cosa uno possa aver fatto, sia ridotto sia dal punto di vista fisico che anche dal punto di vista morale in quel modo, perché mio figlio è morto solo. E’ una rabbia enorme per come può finire un figlio così, massacrato in quel modo..”
Blog: “in che condizioni era il giorno dell’udienza per direttissima?”
Giovanni Cucchi: “il giorno dell’udienza lui.. guardi, Stefano era una persona magra, lei ha visto la foto e perciò si è reso conto.. non tutti forse.. non può apparire.. lui praticamente ha il viso gonfio, il doppio del viso di quello che si vede rispetto all’ultima foto che aveva e poi aveva, sotto gli occhi, dei segni neri, quindi segni evidenti di pugni negli occhi, di botte negli occhi. Si è presentato così alla causa. Però dal punto di vista fisico stava benissimo, si muoveva, il fatto delle vertebre rotte assolutamente non sussisteva, per quanto ho potuto vedere lo escludo al 100%. Stefano si muoveva, camminava, parlava, assolutamente si muoveva come una persona normale e, se ci fosse stato quel problema delle vertebre, per prima cosa avrebbe provato dolore e quindi l’avrei saputo, me l’avrebbe detto, ma a parte quello il suo comportamento era un comportamento normalissimo e conseguentemente lo escludo nella maniera più categorica.”
Blog: “è stato l’ultimo giorno che avete potuto vederlo?”
Giovanni Cucchi: “sì, sì, è l’ultimo giorno in cui abbiamo potuto vedere Stefano, esatto. E le assicuro che, nel momento in cui l’ho rivisto, non credevo ai miei occhi: non era possibile che Stefano mi fosse stato presentato in quelle condizioni, non era possibile! Guardi, è una cosa inimmaginabile, per un padre vedere il figlio così, dopo sei giorni che chiede notizie, avere una notizia in quel modo, detta in quel modo, chiedere addirittura – è quasi una beffa! – alla dottoressa che ci è venuta a comunicare all’esterno del carcere la morte di Stefano, dice “ma potevate chiederlo ai medici?”, ma come?! Sono cinque giorni che veniamo qui a chiedervi e non ci avete fatto entrare! Il secondo, il sabato.. il lunedì siamo andati in carcere e ci hanno fatto entrare, ci hanno preso i documenti, dopo è uscita una sovrintendente e ha detto “no, mi dispiace, non vi possiamo fare parlare con i medici”. “Ma guardi che vogliamo solo parlare con i medici, non è che vogliamo parlare con Stefano, vogliamo sapere il suo stato di salute”, “no, non è possibile, perché deve arrivare il permesso”. Il permesso da dove non si sa, però dice “ guardi, tornate domani, perché domani probabilmente questo permesso sarà arrivato e quindi potrete parlare con i medici”. L’indomani siamo tornati, il piantone non ci ha neanche fatto entrare: ci ha detto soltanto “io non so niente di questo, per parlare con i medici dovete avere il permesso del colloquio rilasciato dal giudice”. Sono andato il giorno dopo a chiedere il permesso, l’ho ottenuto e poi, il giorno dopo, sarei andato a Regina Coeli a farmelo confermare, perché lì c’è una questione di orari, non si riesce a fare tutto in una giornata. Però mentre tornavo per.. mentre andavo per chiedere questo permesso mia moglie mi ha comunicato che Stefano era morto. Siamo andati a informarci sul perché Stefano è morto e non ci hanno dato nessuna scheda ufficiale, ci hanno solo comunicato verbalmente queste testuali parole: “ si è spento, aveva un lenzuolo sempre sulla faccia, non voleva mangiare, non si voleva nutrire e non voleva le flebo , praticamente si è spento”. Siamo rimasti esterrefatti, allibiti, anche loro vedevo che tutto sommato erano imbarazzati nel rispondere: ci hanno comunicato questo, nessun documento ufficiale, soltanto questa affermazione, si è spento.”
Blog: “che ragazzo era Stefano?”
Giovanni Cucchi: “era un ragazzo normale, pieno di vita, allegro, determinato, volenteroso, lavorava, faceva il geometra, aveva tanti progetti, tante ambizioni e ogni tanto me le confidava. Insomma, era un ragazzo che stava in progressione, stava nel pieno assolutamente, era un ragazzo.. ma poi, tra l’altro, aveva un carattere veramente da amico, da amicone, era amico con tutti, voglio dire, non poteva fare la fine …assolutamente, non poteva fare una fine così, guardi, non mi rassegno a che Stefano abbia fatto una fine del genere, non se lo meritava nella maniera più assoluta, non se lo meritava!”
Blog: “e adesso che cosa vi aspettate?”
Giovanni Cucchi: “ci aspettiamo che si faccia chiarezza, che ci dicano quello che non hanno potuto dirci prima, che ci spieghino con esattezza quello che è avvenuto e i motivi delle percosse, i motivi della morte con precisione: finora c’è stato il nulla, adesso vogliamo sapere tutto!”
Blog: “cosa è disposto a fare per ottenere questo?”
Giovanni Cucchi: “tutto, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultima goccia di vita io e mia moglie ci batteremo perché si faccia chiarezza su mio figlio!”
I magistrati? Tutti uguali.
Caso Cucchi, Ilaria attacca i pm: "Presi in giro", scrive “Libero Quotidiano”. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo l'incontro con la famiglia Cucchi si era detto disposto a riaprire l'indagine sulla morte di Stefano Cucchi, pronto a valutare nuovi elementi che dovessero emergere. Aspetti della vicenda che portò alla morte del giovane in carcere mai considerati a livello processuale, come la decisione da parte del giudice di direttissima di convalidare l'arresto del giovane (scambiandolo per un albanese) anzichè mandarlo agli arresti domiciliari. Poche ore dopo, però, lo stesso Pignatone è sceso in difesa dei pubblici ministeri che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy: "Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio" ha detto. E tra la sorella di Stefano, Ilaria, e la procura romana è tornato a scendere il gelo: "Non sono passate nemmeno due ore e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo". Prima dell’appuntamento con Pignatone Ilaria aveva sottolineato: "Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato". Poi, al termine dell’incontro, aveva anticipato: "Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio". Ma la doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro.
Caso Cucchi, al via l’inchiesta-bis. Ma è gelo tra Ilaria e la Procura. Pignatone difende i pm dell’inchiesta, la sorella di Stefano: «Allora abbiamo perso tempo». Il procuratore rivedrà le carte: nel mirino i carabinieri che arrestarono il geometra e i medici che lo visitarono al Fatebenefratelli e a Regina Coeli, scrive Lavinia Di Gianvito e la redazione Roma online su “Il Corriere della Sera”. Pace fatta. Anzi no. È gelo - ancora una volta - tra Ilaria Cucchi e la procura di Roma nonostante il capo, Giuseppe Pignatone, abbia promesso di rivedere le carte dell’inchiesta sulla morte di Stefano. Il grande freddo scoppia quando il magistrato, per la prima volta da quando si è concluso il processo d’appello, spende qualche parola in difesa dei pm che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, in questi giorni alquanto «irritati» dallo tsunami esploso dopo la sentenza di assoluzione degli imputati in appello. «Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio», sottolinea Pignatone dopo aver avuto con loro un colloquio di un’ora. Per Ilaria, che con i due sostituti si è scontrata più volte, è come gettare benzina sul fuoco: «Non sono passate nemmeno due ore (dall’incontro con la famiglia Cucchi, ndr) e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo». La revisione annunciata dal procuratore sarà, comunque, a tutto campo. E stavolta nel mirino dell’accusa potrebbero finire i carabinieri che nel 2009 arrestarono Stefano Cucchi e lo condussero in tribunale per l’udienza di convalida. E i medici del Fatebenefratelli e di Regina Coeli che nelle ore successive lo visitarono senza accorgersi delle botte. Pignatone lo spiega tra le righe: «Procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell’inchiesta, dal primo all’ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo». Il procuratore aspetterà anche le motivazioni della sentenza d’appello (90 giorni per il deposito) e quindi deciderà se formalizzare una nuova indagine. Le probabilità, tuttavia, non appaiono elevate se, come si fa notare nei corridoi di piazzale Clodio, «nessun giudice ha mai segnalato lacune nell’operato della procura né ha mai trasmesso gli atti all’ufficio per approfondire questa o quella posizione». Prima dell’appuntamento con Pignatone, ai microfoni di RaiNews24, Ilaria aveva sottolineato: «Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato». Poi, al termine dell’incontro lunedì pomeriggio a piazzale Clodio, aveva anticipato: «Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio». E aveva ringraziato Pignatone per aver «fatto le condoglianze ai miei genitori. Una frase così scalda il cuore dopo cinque anni che mio fratello è stato trattato come un cane e noi siamo stati presi in giro dalla giustizia». Insomma, sembrava che la famiglia Cucchi avesse siglato la pace - o almeno una tregua - con la procura. Ma doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro. E intanto dopo le proteste, lo sconcerto, le manifestazioni di solidarietà alla famiglia, sul caso Cucchi è arrivata anche una lettera di Adriano Celentano, postata sul suo el blog «Il Mondo di Adriano». Il cantante scrive direttamente al giovane morto immaginando di potergli parlare là dove potrebbe trovarsi, in Paradiso: «Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un’altra cosa. L’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c’è la LUCE, la LUCE vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici “ignavi” che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene né da quella del male sono i più pericolosi, e giustamente il Poeta li condanna. Ma adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l’AMORE del “Padre che perdona”» e non i sentimenti «di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». Dal fronte opposto però non è mancato un attacco durissimo: il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ha sporto querela contro la sorella del geometra. «Dopo essersi improvvisata aspirante deputato prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni dei pm - si legge in una nota -, magari per confezionare la sentenza che più la soddisfi». Sulla bufera di questi giorni è intervenuto anche il senatore Luigi Manconi. «C’è un problema culturale di portata enorme - osserva-: quando due sindacati di polizia, il Cosip e il Sap, sostengono che “lo stile di vita dissoluto di Cucchi è stata la causa della sua morte” e quando un parlamentare della Repubblica, Giovanardi, parlando di Cucchi lo definisce “larva, zombie, anoressico, epilettico, tossicodipendente”, vuol dire che messaggi del genere si trasmettono agli apparati dello Stato che hanno a che fare con persone simili a Stefano Cucchi. È quindi evidente che queste persone, quelle che hanno incontrato Stefano, lo abbiano guardato come un cittadino di serie B. E che lo abbiamo ritenuto una persona condannabile e non considerato come essere umano di pari dignità rispetto agli altri».
Cucchi, la famiglia: "Procura rivedrà atti". Ma Pignatone li gela: "Dai pm un ottimo lavoro", scrive “La Repubblica”. L'incontro con il procuratore capo di Roma che aggiunge: "Controlleremo anche le posizioni di chi non fu oggetto di indagine". Ma la sorella si indigna sulla fiducia accordata a Barba e Loy: "Forse abbiamo perso tempo". Celentano sul suo blog scrive: "Hai visto Stefano in che mondo vivevi? Pieno di giudici ignavi". Lungo post su Fb di Jovanotti. Magistratura democratica: "Sconfitta per lo Stato". Il Sappe (polizia penitenziaria) querela Ilaria Cucchi perchè "istiga l'odio e il sospetto". La Rete si infiamma per Stefano: #sonostatoio e #vialadivisa"Abbiamo avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della vicenda". A dirlo, lasciando gli uffici del tribunale di piazzale Clodio, è stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il geometra romano arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. "Mi aspetto che mio fratello, morto per ingiustizia, abbia giustizia". A dirlo è Ilaria Cucchi poco prima di fare ingresso, insieme al padre Giovanni e alla mamma Rita, negli uffici del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Proprio Pignatone domenica, nel ritenere inaccettabile una morte come quella di Stefano Cucchi, ha espresso la disponibilità a riaprire le indagini. Venerdì scorso la sentenza d'appello ha assolto tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato per droga nel 2009 e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. Mostrando le foto di Stefano subito dopo il decesso, Ilaria Cucchi ha detto: "Questa per i giudici è morte per insufficienza di prove. Lo Stato non è stato in grado di garantire i diritti di Stefano da vivo e ora non è in grado di dire che era ridotto così. Basterebbe guardare queste foto per riflettere". Ora, ha proseguito Ilaria, "mi aspetto che il procuratore capo pignatone assicuri alla giustizia i responsabili di questo pestaggio, che è avvenuto qui in tribunale". Domenica 2 novembre 2014 il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, aveva dichiarato "inaccettabile una morte che avviene quando si è affidati Stato" e si era detto disponibile a "riaprire le indagini". E oggi pomeriggio ha incontrato la famiglia Cucchi. "Con animo sereno e senza pregiudizio, nè positivo nè negativo, procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell'inchiesta, dal primo all'ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo. E all'esito di questo esame, una volta conosciute le motivazioni della sentenza della corte d'assise di appello di Roma, faremo le nostre valutazioni" ha confermato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Che però, dopo un successivo incontro di circa 40 minuti con i pm che hanno condotto l'inchiesta sulla morte di Cucchi ha voluto precisare: "I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno svolto un lavoro egregio, ho estrema fiducia in loro". E questa dichiarazione, in serata, ha fatto indignare Ilaria Cucchi: "Non sono passate nemmeno due ore e il dottor Pignatone ha già capito che i pm Barbara e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo". Si chiama #sonoStatoio ed è l'hastag che sta spopolando su Twitter, assieme a #vialadivisa, dopo la sentenza di assoluzione della Corte d'appello per tutti gli imputati del processo Cucchi. In tanti hanno deciso di mettere la propria foto con un cartello o un semplice pezzo di carta e la scritta che rimanda allo "Stato la responsabilità di quanto successo a Stefano", il giovane geometra romano arrestato nel 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale. Un collage di solidarietà alla famiglia del giovane morto e insieme di indignazione verso la sentenza. Prima di entrare negli uffici della Procura, Ilaria Cucchi aveva voluto esporre nuovamente le foto del fratello morto davanti a Palazzo di Giustizia. "Non ci fermeremo, andremo avanti fino a quando non si dirà cosa è successo a Stefano" ha ribadito Rita Calore, la mamma di Stefano. E Ilaria ha aggiunto, mostrando la gigantografia del fratello: "Questa è l'insufficienza di prove, lo Stato non ha saputo garantire i diritti di mio fratello da vivo, ed ora non è in grado di dire chi l'ha ridotto così. Basta guardare questa foto e riflettere". Intanto, anche i big della musica prendono posizione sulla vicenda di Stefano Cucchi. Adriano Celentano e Jovanotti hanno scritto due lunghi post rispettivamente sul proprio blog e sulla propria pagina Fb. Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, invece, ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Secondo Donato Capece, segretario generale del sindacato, "Ilaria Cucchi vuole istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria". Adriano Celentano. "Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un'altra cosa". Comincia così la lettera indirizzata a Stefano Cucchi da Adriano Celentano e pubblicata sul blog dell'artista. Il cantante definisce "ignavi" i giudici "che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene e né da quella del male sono i più pericolosi". E aggiunge: "Certo, dove sei ora è tutta un'altra cosa. L'aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c'è la luce, la luce vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici ''ignavi''. Adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l'amore del ''Padre che perdona'' e non di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti. Perché dove sei tu non si può morire. La morte non è che un privilegio dei comuni mortali e quindi proibito a chi non ha la fortuna di nascere. Un privilegio dell'anima che, se non la uccidiamo del tutto, ci riconduce alla Vita Eterna", conclude Celentano.
Jovanotti. "A me Stefano Cucchi sembra di conoscerlo. Questa famiglia potrebbe essere la mia, e la famiglia di tantissima gente, per questo ci si sta male, per questo è da ieri che se ne parla, si cerca di capire, ci si commuove e ci si arrabbia, e ci si vorrebbe stringere a questa famiglia" scrive da New York, dove sta lavorando al suo nuovo album, Jovanotti. "Quando la Polizia prende il consegna un cittadino disarmato, lo arresta, in base al diritto democratico quella persona deve potersi sentire totalmente al sicuro anche nel caso più estremo, anche se fosse il peggiore dei fuorilegge. E' una cosa ovvia, la cosa più ovvia, la base stessa di una democrazia. Tocchi questa cosa e salta tutto per aria". "C'è qualcosa in questa storia - aggiunge Lorenzo - che mi fa pensare alle sliding doors, quella teoria per cui bastano due passi nella direzione giusta e sei al sicuro e una porta sbagliata al momento sbagliato e imbocchi una serie di porte maledette, fino all'ultima porta. Ci sono però alcune 'sliding doors' che non possono essere una lotteria. La vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai". "Se per qualsiasi ragione - prosegue il musicista - mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso e si mettono a parlare del tempo, quei paesi dove c'è un solo telegiornale, non so se avete presente. L'Italia non è uno di quei paesi, ormai rari, per fortuna, per questo i caso come quello di Stefano Cucchi spezzano il cuore e fanno paura, perché sono squarci che si aprono verso l'inferno vero, quello della violenza protetta da una divisa o da un camice. La famiglia Cucchi andrà avanti a cercare la verità, perché è giusto, ci vuole coraggio e il loro coraggio va sostenuto, e spero proprio che tutta l'Italia sarà al suo fianco, prima di tutto l'Italia delle istituzioni, senza farne una ragione per dividersi anche sul più fondamentale dei principi della democrazia", conclude Jovanotti.
Magistratura democratica. Secondo Md l'epilogo, momentaneo, del processo Cucchi "è una sconfitta per lo Stato" ma anche per le forze dell'ordine "che non hanno saputo collaborare lealmente all'accertamento della verità"), per il sistema penitenziario e per il Servizio Sanitario ("che non hanno saputo assicurare assistenza e cure adeguate a chi ne aveva bisogno"), per il sistema giudiziario ("e non perché gli imputati sono stati assolti, ma perché quel sistema non ha saputo infondere in un giovane arrestato la fiducia di cui avrebbe avuto bisogno per denunciare chi, con grave violazione dei propri doveri, aveva attentato alla sua integrità fisica", e impone di interrogarsi "sulla capacità di assicurare effettiva tutela ai diritti violati". "Cinque anni e due gradi di giudizio non hanno consentito di accertare responsabilità penali per la morte di Stefano Cucchi e tuttavia è stato provato in giudizio che egli fu vittima di violenza mentre si trovava in stato di arresto" argomenta il comitato esecutivo di Magistratura democratica.
La querela del Sappe. Il Sappe (il Sindacato autonomo polizia penitenziaria) ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Lo ha reso noto Donato Capece, segretario generale del sindacato, sostenendo che "l'insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria di soggetti operanti nell'ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione. Questo non lo possiamo accettare. Abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi a difesa dell'onore e del decoro della polizia penitenziaria". "Dopo essersi improvvisata aspirante deputato - ricorda Capece - aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di pubblico ministero, magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello. Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo. Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell'esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c'era nulla) e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l'autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento? ". Il segretario del sindacato definisce poi "Pretestuosa" anche l'idea di intitolare una strada di Roma a Stefano Cucchi: "E' una proposta demagogica e strumentale. A parte che non possono intitolarsi strade o vie a chi è morto da non meno di dieci anni, lo dice la legge, mi chiedo quali siano le benemerenze verso la nazione di Stefano Cucchi idonee a legittimare tale singolare richiesta. Ma quante sono, a Roma, le strade dedicate alla memoria degli appartenenti alle forze di polizia e di soccorso pubblico morti per mano della criminalità o, appunto, nel corso di interventi di soccorso?".
Il sindacato di polizia. Il Coisp attacca invece l'ipotesi approvata in Assemblea capitolina e confermata dal sindaco Marino di dedicare una strada al giovane: "Una faccenda incomprensibile" l'ha definita il segretario generale Franco Maccari.
Il giudice: "Lo Stato deve punire i responsabili della morte di Cucchi al di là delle sentenze". Parla il fondatore di magistratura democratica Livio Pepino. "L'amministrazione pubblica deve reagire". Per ridare fiducia nelle istituzioni ed evitare che le violenze si ripetano, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.
«Dunque non ci sono responsabili per la morte di Stefano Cucchi, che entra così nel sempre più lungo elenco dei morti di Stato senza giustizia. Lo strazio e la vergogna per un esito del genere restano, per me, insuperabili. Da cittadino e da giudice».
È il primo sentimento che vuole ribadire Livio Pepino, tra i fondatori di Magistratura democratica, di cui è stato presidente, parlando della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati - agenti, medici e infermieri - per la morte, a una settimana dall'arresto, del trentunenne Stefano Cucchi.
«Ma credo sia ipocrita e deresponsabilizzante fermarsi solo sul segmento finale», aggiunge subito: «Il fatto più inquietante è l’omertà, la serie infinita di coperture che ha caratterizzato questo processo e che caratterizza la totalità (o quasi) dei processi analoghi».
«C’è stato chi ha infierito e chi ha omesso di soccorrere», precisa: «Ma c’è stato anche chi ha girato gli occhi dall’altra parte, chi ha finto di non vedere, chi ha taciuto pur avendo l’obbligo giuridico di denunciare i fatti. Questo è lo scandalo più grande e una delle ragioni dell’esito sconvolgente del processo. Credo – e lo dico con piena convinzione – che chi ha taciuto e tace per omertà o per corporativismo sia altrettanto colpevole di chi ha colpito o omesso di soccorrere».
«Da magistrato quindi vedo due problemi», spiega: «Quello penale, di un'indagine che non è riuscita nel suo scopo. E quello, altrettanto grave, che riguarda le istituzioni: la mancata risposta da parte del corpo dello Stato, la mancata azione nei confronti dei responsabili politici e amministrativi di questa morte». Perché «una risposta diversa, istituzionale, sarebbe stata ed è ancora possibile. Oltre che necessaria. Perché se non cambiamo questa cultura d'omertà casi come quello di Stefano purtroppo si ripeteranno».
Pepino, ex sostituto procuratore generale a Torino, poi consigliere di Cassazione e fino al 2010 membro del Csm, condivide con queste parole la sua «considerazione preoccupata» a due giorni dalla sentenza. Per la quale: «La famiglia continua a chiedere giustizia», spiega il giudice, che ha lasciato il servizio quattro anni fa: «Ma demandare la risposta, ancora una volta, solo all'ambito penale sarebbe un errore gravissimo. Il tribunale fa il suo lavoro, cerca colpe individuali dimostrabili con prove certe. Ma al di là del processo, l'amministrazione pubblica e la rappresentanza politica possono fare molto. Devono farlo. Non possono lavarsene le mani, dicendo: ci pensino i pm».
A cosa si riferisce?
«Al fatto che lo Stato può punire i responsabili per le loro colpe politiche e gestionali, anche se quelle penali non si dovesse riuscire a dimostrarle».
È mai successo?
«Sì. Nell'agosto del 1985 un giovane calciatore fu picchiato a morte da alcuni poliziotti di Palermo, mentre era in arresto perché ritenuto colpevole dell'omicidio del commissario Beppe Montana. L'allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro fece subito dimettere il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. E non perché fossero ritenuti coinvolti penalmente nel pestaggio. Magari erano altrove, il processo non era nemmeno iniziato. Ma sotto la loro guida si era formata quella squadra, la sua prassi, il suo modo d'agire. Essendo i capi dovevano essere puniti. Per dare un segnale, un esempio, a tutto il corpo dello Stato».
Per Cucchi non si è avviato niente di simile...
«Infatti. Ed è quello che mi preoccupa di più. Il clima di omertà e copertura che hanno avuto gli apparati dello Stato coinvolti nella morte di Cucchi è un pessimo segnale per tutto il paese. Perché mostra come sia lontana quella cultura delle garanzie e del rispetto dell'altro, qualunque sia il reato di cui è sospettato, che dovrebbe permeare le istituzioni. Messaggi come quello del sindacato di Polizia Sap , in cui gli agenti si dicono soddisfatti perché "se uno si droga e muore non è colpa nostra" sono di una gravità assoluta. Oggi chi è sospettato è considerato un inferiore, a cui far subire quello che si vuole. Come possiamo chiedere fiducia dopo aver visto i responsabili della carneficina della Diaz di Genova 2001 fare carriera?»
Forse la procura di Roma riaprirà le indagini. Cosa ne pensa?
«Lo ribadisco. Cucchi non si è suicidato e non è morto per cause naturali. Di sicuro quindi l'indagine che ha portato alla sentenza di venerdì non è arrivata al risultato: individuare i colpevoli. In questi casi, quando le responsabilità vengono continuamente palleggiate da una parte all'altra, bisogna riuscire subito a mettere alcuni punti fermi, altrimenti sarà sempre più difficile fondare delle certezze. Quindi è un bene che la magistratura cerchi di fare al meglio il suo lavoro. Ma non può essere lasciata sola. Perché giustizia può, e dovrà essere data, in questo caso, anche se fosse impossibile individuare colpe penali».
Chi dovrebbe agire allora?
«Come dicevo: lo Stato. Punendo i responsabili gestionali, amministrativi, politici, della morte di Stefano Cucchi. Trovare i colpevoli è importante. Ma è fondamentale chiedersi anche come è stato materialmente possibile che Cucchi sia stato visto da una pluralità di persone, dal magistrato, l'avvocato, dagli agenti delle camere di sicurezza, dal personale sanitario, e nessuno abbia visto niente, tranne il compagno di cella».
"Si sono girati dall'altra parte", ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi.
«Anche a me da Pm è capitato di vedere in carcere qualcuno arrestato da poco con un occhio nero. Chiedevo "Come mai?" e spesso non ottenevo risposta, perché sia gli imputati che gli avvocati consigliano di stare zitti per evitare di essere accusati di calunnia, per il timore di denunciare un fatto che non puoi dimostrare, che ti si ritorca contro. Stefano è arrivato sano nelle mani dello Stato ed è uscito una settimana dopo cadavere. Ora, a prescindere dal processo, lo Stato è responsabile di questa morte».
Un medico imputato, intervistato dall'Espresso, aveva parlato di "Processo mediatico". Additando l'ingiustizia di una pressione pubblica che aveva indicato colpevoli prima delle prove.
«Rispondo con una citazione: "Il compito del giudice è assolvere in mancanza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per la condanna, e condannare in presenza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per l'assoluzione". E il giudice, questo suo ruolo, lo svolge».
Anche il giudice popolare di una Corte d'Assise?
«Anche lui. L'attenzione pubblica e mediatica in casi come questo, è fondamentale. Perché permette di equilibrare quel clima di coperture e omertà che aleggia intorno processi così delicati. Perché il giudizio su Piazza Fontana fu spedito a Catanzaro? Per distogliere l'attenzione, per allontanarsi dalla pressione della gente che voleva sapere. Così è, credo, in questo caso: la mobilitazione dell'opinione pubblica restituisce al giudice la sua terzietà. E dà sostegno alle vittime».
Da chi si aspetterebbe allora un intervento oggi, proprio in riferimento a quella necessità che siano tutte le istituzioni, e non solo i tribunali, a muoversi, se un ragazzo muore nelle mani dello Stato?
«Mi aspetterei l'intervento del capo dello Stato. Del primo ministro o del Presidente. Per l'omicidio Brown a Ferguson è intervenuto il presidente americano Barack Obama. Sono i vertici politici a doversi esporre contro questi episodi, che fanno male allo Stato di diritto e alla fiducia nelle istituzioni».
Il sindacato di polizia querela Ilaria Cucchi. E su Facebook: "È fortunata a vivere in Italia". Non sono bastati i primi comunicati. Ora il sindacato autonomo della Penitenziaria - Sappe - ha depositato una denuncia per istigazione all'odio contro la sorella di Stefano. "Basta con le illazioni contro di noi". Mentre sui Social Network si scatenano gli insulti. E le difese delle guardie, scrive ancora Francesca Sironi su “L’Espresso”. Ilaria Cucchi con la foto del fratello protesta dopo la sentenza d'appello Istigazione all'odio. Ne sarebbe responsabile, secondo il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto mentre era nelle mani dello Stato il 22 ottobre del 2009 .
«Dopo essersi improvvisata aspirante deputato, aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di Pubblico Ministero», attacca il segretario generale del sindacato Donato Capece, in un comunicato pubblicato in rete e ripreso dalla stampa nazionale: «magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello». Insomma: la richiesta di giustizia della famiglia, nata da una sentenza che ammette (mentre si aspettano le motivazioni) un black out di Stato sulla morte di un ragazzo di 31 anni visto in una settimana, fra camere di sicurezza e ospedale, da numerose persone, fra funzionari, agenti e medici, sarebbe totalmente illegittima, secondo il sindacato. «Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo», continua Capece: «Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell’esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c’era nulla) [Loro però non le stanno pubblicando ndr] e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l’autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento?». Per tutto questo il corpo poliziesco ha deciso di depositare una querela nei confronti di Ilaria Cucchi con l'accusa di istigazione all'odio nei confronti della categoria. Lei, a cui "è stato ucciso il fratello". «L’insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione», recita il comunicato: «Questo non lo possiamo accettare. Proprio per questo abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi: a difesa dell’onore e del decoro della Polizia Penitenziaria». «Non è Ilaria Cucchi a istigare l'odio ed il sospetto nei confronti dei poliziotti ma la sentenze scandalosa della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano», commenta sulla pagina Facebook del sindacato (9mila like) Salvatore Mara: «State scavando un solco preoccupante tra istituzioni e cittadini». Ma non tutto il dibattito è di questo tenore. «Per me Cucchi non è sicuramente innocente o un santo perché comunque sia ha seminato morte spacciando droga», è la convinzione di Ilaria Dimitrio Bonsignore: «La fortuna della sorella di Cucchi è di vivere in Italia ovvero il paese dei balocchi in un altro Stato tutto ciò non sarebbe mai esistito». «Un applauso al nostro condottiere dott. Donato Capece. Lei è l'unico a difesa della Polizia Penitenziaria», scrive entusiasta il casertano Paolo Galeone. «Io servo lo stato non la violenza, ma ti farei fare un giorno in carcere chiavi in mano con soggetti come il Cucchi...», scrive Vincent B. di Formia: «Che pretendono solo e ti denigrano continuamente... saresti il primo a tirare due ceffoni. Noi invece resistiamo, li calmiamo, io ci parlo con loro. Ma purtroppo quando, come per Giuliani, nel momento in cui ti lanciano un estintore ti devi difendere». «Due ceffoni sono una cosa, pestare come hanno fatto molti tuoi colleghi alla Diaz per puro divertimento è un'altra. O magari anche quelli si sono comportati da impeccabili servitori dello Stato?», replica Paolo. «Perdonami ma con Cucchi siamo oltre i 2 ceffoni», interviene sempre su Facebook Giovanni Spagnolo: «Io sono per il rispetto dell ordine, sto dalla parte di chi ci difende e capisco che ci sono soggetti che ti mandano fuori di testa ma siamo pur sempre in Italia non in una galera messicana e abbiamo strumenti moderni per sedare un facinoroso senza sfondarlo di botte». «Qui si parla di soggetti che anche senza motivo collezionano testate al muro per capire quanto misura il perimetro della cella, oppure si tagliano sapendo di essere infetti da patologie veneree e ti schizzato il sangue addosso, oppure prendono, scaldano lolio e te lo buttano in faccia», ribatte allora Vincent: «Magari ci fossero le pistole elettriche, almeno si paralizza il soggetto... alla nostra incolumità non pensa nessuno: siamo diventati camerieri, nessuno ci loda o ci lustra. Sai quanti suicidi ci sono nel nostro corpo? Siamo alla frutta. E la storia di Cucchi è una storia triste da entrambe le parti: gli agenti padri di famiglia avevano piacere gratuito ad uccidere di botte un ragazzo senza motivo? Non credo...». Dopo gli sfoghi arrivano anche gli insulti. Concentrati in queste ore contro Adriano Celentano, per uno suo post sul blog personale in cui scrive a Stefano Cucchi dicendogli «Ora puoi scorazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». «Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma poi si corre il rischio di mettere in evidenza la propria ignoranza», ha risposto Capece: «Celentano è tanto ignorante da non sapere che in Italia non esistono guardie carcerarie ma, soprattutto, che i poliziotti penitenziari coinvolti nella vicenda giudiziaria sulla morte di Stefano Cucchi, sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti. Lo preferiamo come cantante, Celentano. Almeno evita di dire stupidaggini». «Querelate anche lui», suggeriscono gli amici sui social network.
Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’ efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’ alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.
Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....
Un Giudice di Fabrizio de André
Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura,
ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,
o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:
vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,
che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.
Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;
la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.
Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore,
per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale,
giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.
E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"
e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.
Ecco perché il processo Cucchi è stato un fallimento, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. La carcerazione preventiva è, nel nostro sistema processuale, l’ultima ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Cominciamo da qui, con le parole rivolte da papa Francesco all’Associazione internazionale di diritto penale: la carcerazione preventiva, ”quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto”, costituisce “un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità”. E ancora: “Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte”. Stefano Cucchi è morto a 31 anni in custodia cautelare. Il 15 ottobre 2009 viene fermato dalla polizia dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato in caserma e perquisito, viene trovato in possesso di 12 confezioni di varia grandezza di hashish, 21 grammi in tutto, tre confezioni di cocaina, ognuna di una dose, una pasticca di un medicinale. Stefano soffriva di epilessia. Era alto 1.76 e pesava 43 chili. Viene arrestato e processato per direttissima. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi attorno agli occhi. Il calvario è iniziato. Dalle celle del Tribunale, al carcere di Regina Coeli, al Fatebenefratelli – dove vengono messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome, una frattura della mascella, un’emorragia alla vescica e al torace; due fratture alla colonna vertebrale – ancora al carcere e, infine, alla struttura detentiva dell’ospedale Sandro Pertini dove Stefano muore, il 22 ottobre 2009. Ha perso sei chili, è disidratato e denutrito. Il suo corpo porta i segni orribili di un martirio. E’ solo. I familiari non lo hanno potuto vedere. Non hanno saputo nulla delle sue condizioni di salute. Medici e infermieri non hanno sentito il dovere di chiamarli, di avvisarli. Stefano è morto solo. I familiari hanno appreso da un ufficiale giudiziario della sua fine. Serviva il consenso per l’autopsia. Non doveva essere arrestato Stefano. Deteneva una modesta quantità di droga, era malato e fragile o “vulnerabile” come dice papa Francesco. Ecco il primo punto dolente della tragedia di Cucchi: una persona nelle sue condizioni, per quel reato, non doveva mai entrare in carcere al di là dell’orrore che ne è seguito. E ancora, una legislazione diversa in materia di detenzione di stupefacenti, e di hashish in particolare, una normativa nella direzione proposta con forza dai Radicali – che ne hanno fatto il centro mediatico anche del congresso a Chianciano – che ammette la cannabis per uso terapeutico (i cui effetti benefici sull’epilessia sono ormai certificati), avrebbero creato uno sbarramento normativo. Oggi Stefano sarebbe vivo. Era epilettico e gracile. Non doveva essere arrestato. A cinque anni dalla sua morte resta lo strazio per quello che non si è fatto, che non è stato e che doveva essere. La Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria: mancanza di prove. Niente prova, niente condanna. Giusto, santo principio di diritto. Ma il punto è: i giudici si ricordano della necessità di una prova granitica solo quando imputati sono forze dell’ordine o appartenenti a strutture protette? E le indagini? E le escussioni testimoniali? Che reazioni hanno avuto pm e giudici davanti alla reticenza? Alla menzogna? Cucchi era in carcere. Ogni suo movimento era registrato. Il personale che lo accompagnava, spostava, dovrebbe essere noto. I medici basta che fossero presenti, ciascuno al momento del suo turno. Non si sono accorti che moriva o che si lasciava morire? Non era compito loro impedirlo? Dodici imputati sono pochi. Dove sono tutti gli altri? Tutti coloro che non potevano non vedere in che condizioni era Stefano, non sentire l’invocazione di aiuto urlata se non da lui dal suo corpo che si spegneva? Dove sono tutte le persone che nel passaggio da una all’altra struttura statale protetta avevano il dovere di custodire, preservare, proteggere Stefano? Chi ha voluto che morisse? Chi ha lasciato che morisse? Chi ha costruito – sapientemente e non – false versioni che non stavano in piedi? Tutti assolti. Stefano è morto nelle mani dello Stato, dei medici, del personale ospedaliero. Un’azione (o un’omissione) frammentata e collettiva ha portato alla sua morte. Quanti hanno taciuto? Omesso? Nascosto le responsabilità proprie e di altri? Quanti sono i responsabili della morte di Stefano? Non è l’assoluzione che sconcerta più di tutto. E’ la sotterranea, strisciante percezione che non si sia cercata la verità. Stefano Cucchi e’ morto. Nessuno ha visto. Nessuno ha sentito. Nessuno parla. Qualcuno lo ha preso in consegna. Qualcuno lo ha massacrato di botte. Qualcuno ne ha registrato l’ingresso in carcere, in ospedale. Qualcuno doveva curarlo ma ha lasciato che morisse. Il corpo straziato di Stefano è stato visto da tutti. Tutti assolti. Lo Stato si assolve. Mentre Giovanardi nega perfino il pestaggio, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, commenta il processo per la morte di Stefano Cucchi: si dice soddisfatto: ”in questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità”. “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Allora Stefano é morto di overdose? Per strada? Mentre ballava ad una dissoluta festa tra amici? Si é schiantato con la macchina perché guidava ubriaco? No! È morto nelle mani dello Stato! “Quando un cittadino è nella custodia dello Stato – ricorda il Senatore Luigi Manconi – il suo corpo diventa il bene più prezioso, qualunque sia il suo curriculum criminale. La legittimazione morale dell’azione dello Stato sta nella garanzia della sua incolumità. Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado, quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale”. Ancora: “Non è accettabile – dice Pignatone, procuratore capo di Roma – dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato”. Promette di riaprire le indagini, Pignatone, se verranno segnalati elementi di novità. Un atteggiamento sano, di interesse alla verità che lascia uno spiraglio di speranza. Sono troppe le morti di Stato senza colpevole. Poche sono note: Dino Budroni, Michele Ferrulli, Giuseppe Uva. Uccisi ma senza assassini. Per l’omicidio di Federico Aldrovandi gli imputati sono stati condannati, omicidio colposo. Nella sentenza la descrizione di una ferocia che si fa fatica davvero a chiamare “colpa”, nella sua portata codicistica “negligenza, imprudenza o imperizia”: manganelli spezzati accanto al corpo di Federico, un corpo straziato, ammanettato a faccia in giù, a lungo, mentre moriva. Indossano ancora la divisa. Sono ancora tutori della legge. Lungi dall’approdo a una deriva giustizialista e manettara, occorre affermare con forza il principio – un principio di garanzia e di giustizia – dell’ eguaglianza sostanziale che muore ogni volta che sotto processo ci sono ”i buoni” per dogma, e farsi portatori rabbiosi dell’esigenza sempre più pressante che si sfondi un sistema corporativo e omertoso che si ripiega su sé stesso proteggendosi. Finché non capiremo, non capiranno, che la punizione delle ”mele marce” non è un segno di debolezza ma di forza, saremo sempre deboli, corrotti e colpevoli. Tutti. Ma assolti, tutti. In nome del popolo italiano.
Cucchi, le due verità dell’agente sul pestaggio, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Difficile dar torto al presidente del Senato Pietro Grasso. Difficile dissentire da quel suo appello sul caso Cucchi, «chi sa, parli». Anche perché finora chi sa, in qualche caso, ha parlato senza dire tutto quello che poteva. E’ il caso dell’agente di polizia penitenziaria Nicola Minichini, imputato e assolto al processo sulla morte di Stefano. In un’intervista pubblicata ieri dal Fatto quotidiano Minichini ricorda «quei segni sotto agli occhi» della vittima, e un «livido sullo zigomo». Poi fa una dichiarazione che in sé gli rende onore. Si espone e suggerisce di indagare anche su altri corpi dello Stato: «Sarebbe ora di allargare gli orizzonti», dice. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi», dice Minichini. Lascia intendere che nella notte trascorsa da Cucchi in due diverse caserme dell’Arma qualcosa potrebbe essere successo. «Quello che so per certo è che da noi non è successo niente». Da noi, cioè nelle celle di sicurezza della Città giudiziaria di Roma, dove Stefano transitò il 16 ottobre 2009 al termine dell’udienza di convalida. Se qualcosa c’è stato è successo prima, è l’ipotesi che Minichini avanza nella conversazione con il Fatto. Peccato che al processo l’agente non abbia fatto nulla perché un simile dubbio si insinuasse nella mente di giudici. Peccato davvero. Nella sua deposizione davanti alla prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, Minichini dice testualmente: «Io riesco a riconoscere i segni di percosse, dopo trent’anni di servizio. Quelli che vidi sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano l’impressione di essere il sintomo di qualche particolare malattia, ma di sicuro non erano segni di percosse». Gli stessi dubbi che finalmente, a cinque anni dalla tragedia, Minichini rivela nell’intervista al Fatto avrebbero potuto utilmente essere riferiti alla Corte. Qualcosa comunque si muove, come riconosce in un timido sussulto di speranza anche Ilaria Cucchi. Insieme con i genitori la sorella di Stefano ha incontrato ieri a Palazzo Madama proprio il presidente del Senato Pietro Grasso. Da parte della seconda carica dello Stato è stato ribadito l’impegno a «sensibilizzare tutti i rappresentanti delle istituzioni per cercare di fare luce, andare verso la verità». Ilaria Cucchi ha parlato di «momento emozionante». Ha poi però presentato un esposto contro il professor Paolo Albarello, il consulente della Procura di Roma che nelle sue perizie avrebbe «minimizzato le lesioni di Stefano» e escluso «qualsiasi legame tra queste e la sua morte». La ricerca della verità dovrà fare i conti anche con posizioni come quella di Carlo Giovanardi, secondo il quale il presidente del Senato sarebbe l’«ultimo nell’ordine a prestarsi a questo gioco al massacro delle istituzioni». Esplosioni di tifo a parte, paiono esserci solo due possibilità: o Minichini mente, è colpevole, è stato lui a riempire di botte Stefano Cucchi insieme con le altre due guardie carcerarie assolte, e questa però è un’ipotesi negata da due gradi di giudizio; oppure il pestaggio, che secondo i giudici c’è comunque stato, è avvenuto prima, ad opera dei carabinieri che lo hanno arrestato. A questo punto persino il sindacato della polizia penitenziaria Sappe non esita a dichiarare che «la verità su Cucchi deve emergere, se viene fuori non può che andare a nostro favore». Parole del segretario generale aggiunto Gianni De Blasis, che al Garantista chiarisce anche la questione della querela sporta nei confronti di Ilaria Cucchi: «Non ha a che vedere con il caso di Stefano ma con un episodio che si è verificato nello scorso mese di agosto, quando la signora Cucchi convocò una conferenza stampa e innescò un’incredibile campagna mediatica sulla presunta aggressione a un passante compiuta da un nostro agente a Roma, nei pressi del Verano. Coincidenza ha voluto che il deposito materiale della querela avvenisse in coincidenza della sentenza d’appello sulla morte di suo fratello Stefano, ma si tratta di due questioni distinte». Ma il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria sarebbe pronto a compiere un gesto di pacificazione nei confronti della famiglia Cucchi? «Assolutamente sì», risponde De Blasis, «non abbiamo nulla contro la famiglia, a cui esprimiamo tutta la solidarietà di questo mondo, hanno perso una persona cara, è un fatto gravissimo. Difendiamo semplicemente i nostri tre colleghi che sono stati accusati di averlo picchiato. Siamo sicuri che non hanno fatto niente». Viceversa De Blasis ricorda come Stefano Cucchi sia stato «tutta la notte in custodia dai carabinieri. Trasferito peraltro da una caserma all’altra intorno alle 3 del mattino». E quindi le perplessità rivelate da Minichini nell’intervista al Fatto quotidiano, con l’invito a indagare anche sull’Arma, corrispondono a un dubbio legittimo? «Sì, si tratta di un dubbio legittimo ed è l’unica cosa che ci sentiamo di dire. Oltre a ricordare la pena per uno dei nostri tre colleghi finiti sotto processo, scoppiato in lacrime nel protestare la propria innocenza e nel raccontare gli insulti subiti a scuola dai suoi figli, additati per un padre assassino che in realtà non aveva fatto nulla».
La mia innocenza è provata, scrive Nicola Minichini, Assistente capo polizia penitenziaria su “Il Tempo”. È la prima volta che intervengo pubblicamente su questo processo. E’ l’aula di Giustizia il posto per affrontare i processi, e lo è in primo luogo per chi è imputato di un grave fatto. E io all’interno del processo mi sono sempre difeso con forza, a fianco del mio avvocato Diego Perugini, da accuse che erano assolutamente infondate. Io non ho picchiato Stefano Cucchi né ho visto qualcuno farlo. Lo ho detto, lo ribadisco. Sono innocente e da innocente ho dovuto sopportare 5 anni di processo scanditi da una insopportabile clima mediatico. Il processo non è fatto per condannare innocenti, ma per stabilire se delle persone hanno commesso un reato sulla base di prove al di la di ogni ragionevole dubbio. Leggo che la Giustizia ha fallito perché ha assolto tutti gli imputati. Ma se mi avessero condannato ingiustamente avreste avuto Giustizia? È questa la Giustizia che cercate? Mi hanno giudicato due Corti: 4 Giudici togati. Magistrati seri, preparati, di lunga esperienza; ben 12 Giudici popolari. Persone “normali”, di varia estrazione culturale e sociale. Un Magistrato fa solo il suo lavoro. Ed è un lavoro difficile. Condanna se deve, assolve in caso contrario. Lo ho detto nel processo, lo ribadisco. Ho visto quel ragazzo solo dopo le 13,30 quel maledetto giorno. Vedendo che non stava bene, ho chiamato un medico. Se avessi visto qualcuno anche solo tentare di fare qualcosa a quel ragazzo, lo avrei impedito. Non ho mai ammesso la violenza. Mai e contro nessuno: figuriamoci contro un debole. Quante volgarità ho letto, quante ne sto vedendo. Mi hanno dipinto come un carnefice, un aguzzino. Persone codarde e vili che non mi conoscono. Ho letto di giudizi che non mi appartengono. Nessuno è autorizzato a parlare per me. Chi sfrutta la morte di un ragazzo per un minuto di popolarità non merita considerazione. Come padre ho condiviso totalmente il dolore dei familiari di Stefano Cucchi. E’ giusto cercare verità. Ma io sono Nicola Minichini e sono innocente. Rispettate anche questo.
Stefano Cucchi, l’agente assolto: “Arrivò già segnato. Indagate sui carabinieri”, scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano” del 5/11/2014. Parla Nicola Minichini, il poliziotto della penitenziaria che era finito alla sbarra per la morte di Stefano: "Ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutarlo, di più non avrei potuto". “Aveva già quei segni sotto gli occhi, lamentava mal di testa. Al medico che lo ha visitato ha detto di avere anche mal di schiena. E quel medico l’ho chiamato io, cinque minuti dopo averlo preso in consegna. Io non ho visto il pestaggio, non ho assistito, ma secondo lei, uno che appena vede l’arrestato in quelle condizioni chiama il medico…”. Nicola Minichini è un fiume in piena. Dopo cinque anni e due assoluzioni, uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti alla sbarra per la morte di Stefano Cucchi adesso chiede di essere lasciato in pace, “per non passare il resto della vita additato come un mostro”.
Minichini, può ricostruire quello che è accaduto nei sotterranei di piazzale Clodio il 16 ottobre 2009?
«Io ho ricevuto Cucchi alle 13:30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l’udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne, si fanno le domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva anche un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale. Si rifiutò di farsi visitare. Ferri gli somministrò una pillola per il mal di testa. Poi rientrò in cella. E dopo un’ora lo vennero a prendere i colleghi per portarlo a Regina Coeli».
Non notò nient’altro?
«Si alzò da solo, ma non di scatto, faceva fatica a camminare. Ma in cella entrò da solo».
Quindi la versione dell’altro detenuto, Samura Yaya, secondo cui Stefano si rifiutava di entrare e voi lo portaste dentro con la forza, non è vera?
«Nessuno dei 150 testimoni ha confermato quella versione. Senta, immagini questa situazione. In quei sotterranei transitano mediamente 30/32 arrestati al giorno, ci sono due agenti ogni arrestato più il personale di Villa Maraini più gli avvocati. Ma secondo lei è veramente possibile riempire di calci e pugni una persona senza essere notati? E per cosa, poi?»
Me lo dica lei: per cosa?
«Ecco, non lo so. Me lo devono ancora spiegare. Perché ci aveva chiamato “guardie”? Ma ci chiamano in tutti i modi, persino “secondini”. Perché Cucchi era un rompiscatole? Quaranta arrestati al giorno e sa quanti rompiscatole ci sono. Perché mi doveva far trovare qualcosa, mi doveva far fare carriera? E io sarei così pazzo da menare uno davanti a tutti? Io quel reparto l’ho aperto nel 1993 e da allora non ho mai avuto un problema».
Minichini, lei però non ha mai accusato nessun altro di averlo pestato. A questo punto avrebbe potuto farlo.
«Io non ho visto il pestaggio, se c’è stato io non c’ero. Quello che so per certo è che da noi non è successo niente».
Ma è certo che il pestaggio ci sia stato?
«Lo dicono le sentenze, non lo dico io. Per quanto mi riguarda, quei segni sotto gli occhi potevano anche essere il risultato dell’eccessiva magrezza. Però, gliel’ho detto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare il medico».
Quindi lei ha la coscienza a posto, pur sapendo che è morto un ragazzo di 31 anni e che a cinque anni di distanza non c’è ancora un colpevole.
«Io ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutare Cucchi, di più non avrei potuto».
Ha letto che adesso il procuratore capo Pignatone si è detto disposto a riaprire le indagini, qualora dovessero emergere nuovi elementi?
«Io me lo auguro e mi auguro che possano trovare qualcosa. Sarebbe ora di allargare gli orizzonti. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi».
Come si sente da “innocente”?
«Come uno che chiede giustizia. Per la famiglia Cucchi e per la mia. Senza un colpevole agli occhi dell’opinione pubblica sarò sempre quello del caso Cucchi. Ho dovuto spiegare ai miei vicini che non sono un mostro, pensi come mi sono vergognato. Anch’io cerco la verità, perché anch’io mi sento una vittima di questa storia.»
Ilaria Cucchi denuncia il perito dei pm: "Rassicurava gli agenti: vi assolveranno". Le contraddizioni dell'agente, scrive Laura Eduati su l'Huffington Post. La famiglia Cucchi vuole "una nuova indagine a tutto campo" e senza pregiudizi perché "Stefano è stato certamente pestato" e ora secondo i parenti la Procura di Roma dovrebbe dare un nome e un cognome a coloro che hanno picchiato il ragazzo, tanto da rendere necessario un ricovero alla sezione penitenziaria dell'ospedale romano Sandro Pertini, dove poi è morto. Molta fiducia viene riposta nelle parole di Samura Yaya, il detenuto del Gambia che sostiene di aver udito e visto il pestaggio nei sotterranei del Tribunale. E quelle celle di piazzale Clodio dove Stefano attendeva di essere processato per direttissima sono gestite dalla polizia penitenziaria. Tuttavia i Cucchi sono chiarissimi: "Non abbiamo preconcetti e non vogliamo un capro espiatorio". "Chi sa parli e spezzi la catena", è l'invito della sorella Ilaria Cucchi dopo avere incassato in poche ore la solidarietà di Matteo Renzi ("per me Cucchi come un fratello minore") e l'appoggio del presidente del Senato Piero Grasso ("sensibilizzeremo tutte le istituzioni a fare luce su questo caso"). La vicenda ha sollecitato il commento del presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Tesauro: "Lasciamo fare alla giustizia, che è lenta, molto lenta, ma alla fine un risultato lo si ottiene". Per la sorella di Stefano "siamo a punto di svolta" e dunque "chi sa parli". Perché per riaprire le indagini i magistrati romani, ora sollecitati con forza dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, devono avere nuovi indagati - un agente della polizia penitenziaria escluso dal primo processo o i carabinieri che arrestarono Cucchi e lo portarono in due diverse caserme nella notte precedente il processo per direttissima. Nessun componente dell'Arma è mai stato indagato per le botte, e proprio oggi il Fatto quotidiano pubblica l'intervista a Nicola Minichini, uno dei tre agenti assolti, che punta il dito contro i carabinieri: "Io ho ricevuto Cucchi alle 13.30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l'udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne si fanno le solite domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale". Minichini non aveva mai parlato in prima persona prima d'ora. Nel 2009, attraverso il suo legale Diego Perugini, aveva sostanzialmente ribadito che Stefano "stava male" e per questo "abbiamo chiamato il medico", respingendo l'ipotesi di aver partecipato al pestaggio. Durante il processo l'agente, come gli altri due colleghi imputati Antonio Dominici e Corrado Santantonio, si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Tranne nell'udienza del 31 ottobre, il giorno della sentenza, quando aveva rilasciato una sorprendente dichiarazione spontanea: "I segni che aveva Cucchi sotto gli occhi mi fecero pensare a una malattia, non ai lividi lasciati dalle botte", così ha spiegato alla corte, ritirando dunque i sospetti sui militari dell'Arma. Ecco perché quando Ilaria Cucchi ha letto le ultime dichiarazioni di Minichini, che parla nuovamente di botte e tira nuovamente in ballo i carabinieri, ha pensato che fossero un nuovo valzer degli imputati per distogliere l'attenzione dalla verità. Così preferisce non commentare. Anzi, chiede rispetto per gli agenti, i medici e "i futuri indagati". "Non non siamo quelli col medio alzato", dice riferendosi all'immagine scattata dopo la lettura della sentenza. Tuttavia Ilaria, insieme con i genitori Giovanni e Rita, non ha intenzione di attendere le mosse della Procura. Al termine della visita istituzionale in Senato ha depositato un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, dirigente del dipartimento di Medicina legale della Sapienza e consulente dei pm nell'inchiesta sulla morte di Stefano. Secondo la famiglia Cucchi il professore orientò l'indagine dei magistrati con una tesi preconcetta, dichiarata anche in una intervista al Tg5 pochissimi giorni dopo aver avuto l'incarico, e cioè che le lesioni inflitte al corpo del giovane Cucchi non fossero così gravi da provocare la sua morte. Una lettura che tendeva a diminuire le responsabilità dei rappresentanti delle forze dell'ordine e contemporaneamente accendeva i fari sul personale medico del Pertini. La perizia di Arbarello, scrivono i parenti del ragazzo, negava che le lesioni potessero essere causate dalle botte, negava che l'impossibilità di urinare di Stefano fosse imputabile a quelle lesioni, negava che quelle botte, il dolore e i traumi potessero aver provocato la morte. Non solo: dalle intercettazioni emerge che i consulenti di parte degli agenti imputati "ricevevano in qualche modo (da Arbarello, ndr) delle rassicurazioni sul fatto che sarebbe stata riconosciuta una 'morte naturale' di Stefano indipendente dalle lesioni subite". Il luminare inoltre faceva intendere "agli agenti e ai loro famigliari che la consulenza del pm li avrebbe alleggeriti rispetto alla responsabilità della morte di Stefano quale ipotizzata nell'iniziale capo di imputazione di omicidio preterintenzionale". Dopo il deposito della perizia, avvenuto il 10 aprile 2010, i magistrati si convincono che le lesioni sul corpo di Stefano Cucchi non hanno "alcuna valenza causale nel determinismo della morte" e dunque, il 29 aprile, cambiano il capo di imputazione nei confronti dei tre agenti a lesioni lievi e abuso di autorità. Ecco perché ora la famiglia spera che, al di là di nuovi indagati nel raggio d'azione della Procura, il processo sulla morte di Stefano si possa riaprire con nuove accuse, più pesanti. Intanto a dare manforte a Carlo Giovanardi, il senatore del Nuovo Centro Destra da sempre convinto dell'innocenza degli agenti di polizia, arriva un suo collega di partito, Roberto Formigoni. Con una tesi pressoché identica: "Stefano Cucchi è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente. Certo, quel che è successo in carcere va investigato fino in fondo".
Quando ero anche io poliziotto e dissi buonasera, scrive Marco La Greca su “Il Garantista”. Le foto di Stefano Cucchi di nuovo sui giornali. Storia nera. Storia di pestaggi da mani in divisa. Forse. E forse è per dimenticare che viene in mente un’altra piccola storia. Sembra una favola e, per certi versi, lo è. Un paio di vite fa indossavo la divisa anch’io. Dovevo fare il militare e in Polizia pagavano. Una notte mi spedirono al Laurentino 38, a Roma. C’era stata un’operazione antiprostituzione e servivano due agenti per piantonare i fermati. Arrivammo al posto di Polizia, il mio collega ed io, e trovammo un po’ di trambusto, con un’esagitata che minacciava di prendere a testate il muro: «Così poi dico che siete stati voi e vi faccio passare i guai». Non appena tornò la calma, ci rendemmo conto che nella rete della poderosa operazione della Questura erano rimaste impigliate due sole persone: una transessuale della Balduina (l’esagitata di cui sopra) ed una prostituta tedesca. La prima millantava frequentazioni e marchette presso tutta la Roma bene. La prostituta tedesca, per parte sua, non esitò un istante a dichiararsi, per l’appunto, una prostituta; quella sera, però, non era uscita per lavorare: era il giorno del suo compleanno, voleva festeggiare con le sue amiche, le sue amiche erano sul marciapiede e così le aveva raggiunte. Questo disse e noi, confesso, le credemmo. Nel corso della notte si stabilì una certa familiarità. La trans ci rivelò di essersi calmata perché il mio collega ed io, arrivando, ci eravamo presentati dicendole, come prima cosa, «buonasera». Pensa un po’. «Vedi? La forza di un atteggiamento democratico», filosofeggiai con il mio collega. Iniziammo a parlare di tante cose, eravamo tutti più o meno coetanei. Ogni tanto si univano ai discorsi anche gli altri due colleghi che erano in servizio per le ordinarie incombenze del posto di polizia. A notte fonda uno di loro uscì senza spiegarcene la ragione. Tornò, poco dopo, con cappuccini, cornetti e una bottiglia di spumante. Festeggiammo il compleanno della tedesca, tutti insieme. Auguri, cin cin e bacetto. Forse troppa familiarità. Ad un certo punto le due ospiti si addormentarono accucciandosi sui divanetti all’ingresso. Gli altri due colleghi già da un po’ si erano ritirati nelle stanze interne lasciando a noi la responsabilità della situazione. Prima uno, poi l’altro, ci addormentammo anche il mio collega ed io. Decisamente troppa familiarità. Quando mi svegliai di soprassalto, come prima cosa guardai l’orologio: erano le sei. Le due ospiti non c’erano più. Notai la finestra socchiusa e realizzai che ci eravamo addormentati senza adottare nessuna cautela per impedire un’eventuale fuga. «Tu e il tuo atteggiamento democratico del menga», mi maledissi. Spalancai la porta e mi precipitai fuori pensando che la mia carriera di poliziotto, forse non solo quella, fosse finita. Andai, ricordo, verso sinistra, e, incredibilmente,le trovai lì, davanti al posto di polizia, sedute sull’erba; parlavano tranquillamente. Erano uscite per vedere l’alba, mi dissero. Mi sedetti anch’io, vicino a loro, e insieme guardammo nascere il giorno. Fu un’alba senza sole, però con una luce speciale. Una luce che in questi giorni bui proprio non riesco a vedere.
"Io, poliziotto, chiedo scusa alla famiglia di Stefano Cucchi per l'oltraggio infinito". Ecco la lettera aperta su “L’Espresso”con cui un agente della questura di Bologna si rivolge ai parenti del ragazzo morto a Roma, dopo la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati e dopo la querela del Sappe alla sorella Ilaria. 04 novembre 2014 Servo lo Stato da 26 anni soltanto grazie a un prudente disincanto che mi permette ancora di sopravvivere tra le pieghe di quel medesimo nulla costituito per lo più da ingiustizie, bugie, miserie umane, silenzi, paure, sofferenze. Oggi intendo rompere quel silenzio cui si è condannati quasi contrattualmente da regolamenti di servizio che impongono e mitizzano l’obbedire tacendo, perché le parole pronunciate dal Segretario nazionale del Sap all’esito della pronuncia di assoluzione non restino consegnate anch’esse al fenomeno di cui sopra. Il diritto di parola consentito al Segretario nazionale del Sap gli ha permesso di esprimere ”La piena soddisfazione per l’assoluzione di tutti gli imputati ” con una disinvoltura che abitualmente può trovare applicazione esclusivamente in uno stadio dove l’unica forma di dolore può derivare abitualmente da un goal mancato e non già dalla morte violenta di un giovane celebrata in un’aula di Giustizia. "Sono convinto che potrebbe ricapitare altre volte, se questo clima perdura". Così Giovanni Cucchi, padre di Stefano, entrando nel tribunale di Roma per incontrare il procuratore capo della Capitale Giuseppe Pignatone. "Le parole del Sap? Sono sempre le stesse. Per tutti i ragazzi morti sono sempre le stesse frasi" ha detto invece Rita, la madre del geometra romano, in merito alle polemiche scatenate dal segretario del sindacato di polizia Sap “Bisogna finirla in questo Paese di scaricare sui servitori dello Stato la responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo della condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze” . Queste parole, in un contesto democratico che ne apprezzasse il loro peso, sortirebbero reazioni, conseguenze, interrogativi e dibattiti sul loro senso, sull’utilità e gli effetti di questa allegra scampagnata lessicale sul dolore di una famiglia nonché una minima inchiesta semantica sul concetto di vita dissoluta e al limite della legalità. Sarebbe da attendersi dal Segretario la spiegazione su quanto realmente produca paura in questo Paese e se l’abuso di alcol e droghe sia causa di morte per lesioni e se vi sia qualcosa di più dissoluto di un diritto calpestato. Andrebbe preteso che ci chiarisse se quelle parole siano rappresentative di tutto l’universo della Polizia o invece siano la personale interpretazione di un dramma o la recensione di un abominio. E ancora gli andrebbe richiesto se il silenzio seguito alle sue parole sia l’indicatore di un Paese dove domina sul diritto l’incertezza, sulla complessità della vita l’omologazione, sui drammi umani l’assenza di indignazione e l’ignavia. Per questo chiedo scusa alla famiglia Cucchi per questo oltraggio infinito, per questa deriva che non può rappresentare la totalità degli appartenenti alle forze di polizia neppure quelli a cui per regolamento è precluso il diritto di indignarsi e di affrancarsi dalla convivenza col divieto di opinione. Nel dubbio, semplicemente nel dubbio. Francesco Nicito, agente della Questura di Bologna.
Filippo Facci su Stefano Cucchi: "Quella verità che non si vuole accettare", scrive su “Libero Quotidiano”. C’è da rimanere un po’ straniti. In teoria sul caso Cucchi non dovrebbe ripartire nessuna nuova indagine, a meno che emergano delle novità che farebbero riaprire qualsiasi processo come prevede l’istituto della revisione. E a meno che il procuratore di Roma segue dalla prima Giuseppe Pignatone, con una procedura sicuramente non aliena alla pressione mediatica, non decida di andare a scovarsi personalmente le novità: rileggendo le carte del processo così da inventarsene un altro, un Cucchi-bis. Ma questo potrebbe avvenire solo a carico di altri soggetti, per esempio i carabinieri che nel 2009 arrestarono Cucchi e lo portarono in tribunale per l’udienza di convalida. Loro, in effetti, non furono neppure mai indagati, diversamente da alcuni agenti di polizia penitenziaria prosciolti due volte. Ora la procura potrebbe dirottarsi sui carabinieri - a grande richiesta - ma difficilmente sarà una revisione «a tutto campo», come titolava il Corriere online di ieri: non c’è più campo, infatti. Rimanere perplessi comunque è il minimo. Nella mattinata di ieri era sembrato che i giornali avessero titolato il falso nel tentativo d’intercettare un’indignazione comprensibilmente diffusa: «L’inchiesta può ripartire» (Corriere della Sera) o ancora «Riapriremo le indagini» (Il Fatto Quotidiano) anche se l’inchiesta e il processo in realtà sono chiusi: manca la Cassazione, ma dovrebbe essere solo un controllo di legittimità, ovvio. La sensazione, soprattutto a margine della spaventosa pressione mediatica che sta riguardando il caso Cucchi, è che questo Paese ancora una volta stia tentando di sfuggire a un caposaldo dello stato di diritto: cioè che la verità e la verità giudiziaria possono non coincidere. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti i medici che dovevano curare Stefano Cucchi, ma conosciamo le carte del processo d’Appello perché sono identiche a quelle del primo grado: gli imputati, del resto, sono stati assolti sulla base degli stessi elementi in base ai quali dapprima erano stati condannati. Sicché, in primo luogo, ci sarebbe da chiedersi per quale ragione un giudice avrebbe dovuto forzare delle assoluzioni così impopolari, se non ne fosse stato convinto in punto di diritto. La risposta, a guardar le carte, rischia di essere molto impopolare e dolorosa: perché di prove a carico di singoli - nella sentenza di primo grado - purtroppo non se ne vedono. Ma in questo Paese è ancora molto difficile distinguere tra ciò che sembra evidente e ciò che risulta provabile. Esiste la verità: ma non esiste necessariamente una conseguente verità giudiziaria che sia dimostrabile nel corso di un processo. La verità sostanziale del caso Cucchi la conosciamo tutti: c’è un colpevole che si chiama Stato, perché uno Stato che prende in consegna un cittadino e poi se lo ritrova morto per incuria, beh, è uno stato colpevole e da Terzo mondo. Colpevole, di conseguenza, è oggettivamente l’intera filiera che ha riguardato la vicenda di Stefano Cucchi: si parte dal carabiniere che nel verbale d’arresto non trascrive i dati di Cucchi ma, per sbaglio, trascrive quelli di un albanese senza fissa dimora, e impedisce così che il detenuto possa fruire degli arresti domiciliari; ci sono i carabinieri che secondo la perizia possono aver picchiato Stefano Cucchi nei sotterranei del tribunale, o che, sempre secondo le perizie, possono anche non averlo fatto, perché il ragazzo era già malmesso di suo ed era già stato più volte al pronto soccorso per via della vita che conduceva da spacciatore acclarato; c’è, poi, il giudice che in ogni caso non si accorse di nulla nonostante le ecchimosi e le tumefazioni che il ragazzo già presentava; c’è il medico di Regina Coeli secondo il quale il detenuto era improbabilmente «caduto dalle scale», come del resto gli aveva raccontato Stefano stesso; e c’è naturalmente tutto il personale medico che cedette con sciatteria alle riluttanze di Cucchi, il quale rifiutava le cure (faceva lo sciopero della fame e respingeva le flebo, anche se era ipoglicemico) talché i medici neppure si accorsero che quella specie di scheletro vivente, che all’arresto pesava 43 chili nonostante fosse alto 1 e 76, in punto di morte era ormai ridotto a 37 chili. Fanno parte della filiera anche i regolamenti stupidi e le burocrazie ottuse: quelle che hanno impedito all’avvocato della famiglia di arrivare per tempo - Cucchi ne ebbe uno d’ufficio - e quelle che impedirono alla famiglia di vedere Stefano sino al lunedì della sua morte. Tutto questo, e altro, compone l’imperdonabile colpa di uno Stato che forse non ha ucciso Cucchi, ma l’ha accompagnato indifferente a morire. Cambia poco, per una famiglia e, nel nostro piccolo, per la nostra rabbia. Cambia poco anche se lo Stato ha già riconosciuto la sua colpa: la struttura ospedaliera che ha lasciato morire Stefano ha già risarcito la famiglia con un milione e 340mila euro, e altre cause probabilmente seguiranno. Giustamente. Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Quello che è mancato, nel processo, è un singolo atto compiuto o non compiuto che abbia verosimilmente causato la morte di Stefano Cucchi. Sono mancate le responsabilità personali che permettessero a un giudice di dire «tu sei un omicida» a una guardia, a un giudice, a un medico o a un infermiere: al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice. Ma la rabbia e il dolore, dei dubbi, non sanno che farsene.
Il giorno dopo il clamore sulla riapertura delle indagini, i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy si sono sfogati con il procuratore capo. “Ma quale sciatteria? Abbiamo sentito oltre cento persone. La famiglia Cucchi sa che alle 10 di sera del 23 dicembre eravamo ancora qui a interrogare gente”…, scrive Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica”. «Ora basta, sul banco degli imputati non possiamo finire noi. Su questo processo abbiamo lavorato giorno e notte, anche di domenica. Abbiamo la coscienza a posto, non potevamo fare di più». Bersagliati da giorni dalle accuse di Ilaria Cucchi. Presi di mira dall’opinione pubblica. Inchiodati «dall’insufficienza di prove». Alla fine sotto accusa ci si sono sentiti loro, i due pm che hanno fatto le indagini sul caso Cucchi. Che, per giunta, ieri mattina sulla prima pagina di tutti i giornali hanno trovato l’apertura del loro procuratore capo Giuseppe Pignatone alla possibilità di riaprire le indagini. Parole che suonavano come un atto di sfiducia nei loro confronti. Così ieri pomeriggio, subito dopo l’incontro con Ilaria Cucchi, i due pm sono andati a parlare col capo. Vincenzo Barba e Francesca Loy si sono lamentati dei titoloni sui quotidiani e hanno difeso il loro lavoro dalle accuse della famiglia Cucchi e da quelle, più velate, di alcuni giudici. Non da ultimo il presidente della Corte d’Appello, Luciano Panzani, che, sabato, aveva parlato di «assoluzione per insufficienza di prove». E anche in quel caso, la lettura era stata solo una: bocciatura dell’inchiesta che non è riuscita a scoprire chi ha ammazzato il geometra romano. Il solo pensiero di riprendere in mano quel fascicolo pesa come un macigno sui due magistrati: è stato un processo difficile per tutti. Loy e Barba non ci stanno a essere sconfessati. Ed è proprio per questo che, dopo il confronto, hanno chiesto al loro capo di guardare le carte. «Sarai tu a dirci se abbiamo sbagliato qualcosa, trascurato qualche elemento». Loro pensano di avere fatto tutto il possibile ed escludono che possano emergere elementi nuovi. Hanno schivato per giorni i cronisti. Lo hanno fatto anche ieri. Ma si sono sfogati con gli amici che li hanno cercati per esprimere solidarietà. Hanno passato la giornata a riguardare gli atti del processo, a snocciolare i dettagli di un’indagine che conoscono a memoria. «Ci accusano di essere stati sciatti — spiegano ai colleghi — Abbiamo sentito oltre cento persone, disposto due consulenze in contraddittorio, una il 22 ottobre con l’autopsia, l’altra il 16 novembre, durante la riesumazione. Basti pensare che il gip ha rigettato la richiesta di perizia perché ha ritenuto che la nostra fosse sufficiente. Poi c’è stata quella della Corte d’Assise: sei medici che hanno sostanzialmente confermato la tesi dei nostri esperti ». Cucchi era morto per malnutrizione. Le loro stanze sono un via vai continuo. E loro, provati, ripetono ai colleghi che in questo processo sono state fatte 40 udienze in Corte d’Assise e che certo non si può dire che non ci hanno creduto. «Siamo stati noi a fare appello contro la sentenza di primo grado che aveva condannato solo i medici». La premessa è sempre la stessa. Stefano non doveva morire, ma gli attriti con la parte civile di sicuro non hanno aiutato. Anzi. «La famiglia avrebbe voluto che noi contestassimo l’omicidio preterintenzionale, ma non c’erano elementi per farlo». L’interesse mediatico. E in cui gli interessi in gioco erano molti. Rivendicano di avere fatto personalmente tutti gli accertamenti, non delegando alcuna indagine per non perdere nemmeno un dettaglio. «Anche la famiglia Cucchi sa che il 23 dicembre alle 10 di sera eravamo ancoro qui a interrogare persone». Sanno, i due pm, che la ricostruzione vacillava in alcuni punti. Sono consapevoli di non aver saputo dare un nome a chi ha picchiato Stefano. Ma precisano che «gli agenti della polizia penitenziaria hanno parlato solo la prima volta che sono stati sentiti come testimoni, negando di avere visto alcunché. E poi, dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere. Anche a processo». Eppure erano gli unici tre in servizio quella mattina. Poi c’è il processo. Che non sempre va come ci si augura. Vale ad esempio per il testimone di punta della Procura, Samura Yaya, detenuto quella mattina del 19 ottobre insieme a Stefano Cucchi: secondo i pm «affidabilissimo ». Ma della sua testimonianza, resa in incidente probatorio, la Corte d’Assise non ha tenuto conto. E probabilmente nemmeno quella d’appello. «Errori? No. Solo la dialettica, fisiologica, del processo». E una sentenza d’assoluzione che, certo, non fa piacere nemmeno a loro.
Un anno fa, al momento di firmare l’accordo con l’ospedale, Ilaria Cucchi dichiarò: "Abbiamo accettato soltanto con la garanzia del nostro avvocato di poter continuare la battaglia processuale contro gli agenti. Altrimenti non avremmo accettato nessuna somma". Insomma, poliziotti sì, medici no….scrive Dagospia. “Come mai nessuno ricorda che la sorella di Stefano Cucchi, oltre a candidarsi per la lista Ingroia, ha ottenuto e incassato € 1.340.000 dall'Ospedale Pertini (il 2 Novembre 2013) quale indennizzo e con la clausola di non presentarsi parte civile contro questa struttura e relativi indagati (medici e infermieri) nel processo di Appello? La cifra è stata liquidata da Unipol Assicurazioni. ps - Questo indennizzo permetteva loro di presentarsi parte civile contro i poliziotti indagati per il pestaggio. L'accordo dei Cucchi prevede che chi l'abbia poi curato non è per loro rilevante”.
Scrive “La Repubblica” del 02.11.2013. E' di un milione e 340mila euro la cifra che l'ospedale Pertini verserà alla famiglia Cucchi per il risarcimento del danno conseguente alla morte di Stefano, deceduto il 22 ottobre del 2009 proprio nel nosocomio romano, una settimana dopo il suo arresto per droga. La cifra è stata ufficializzata oggi, dopo le indiscrezioni uscite nei giorni scorsi per la notizia dell'avvenuto tra le due parti accordo sul risarcimento. I soldi verranno versati dall'assicurazione Unipol ai genitori, alla sorella e ai nipotini di Stefano per conto della struttura che ha visto i suoi medici condannati in primo grado per omicidio colposo. I Cucchi escono così dal processo d'appello: non saranno parte civile contro i camici bianchi (il primario Aldo Fierro condannato a due anni, i medici Stefania Cordi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo a un anno e 4 mesi e Rosita Caponetti a otto mesi per falso ideologico). Il risarcimento, infatti, sostituisce ogni rapporto civilistico. Saranno invece ancora tra le vittime per quanto riguarda gli agenti della polizia penitenziaria, assolti dalla Corte d'Assise ma colpevoli, secondo Ilaria, della morte di suo fratello. "I medici hanno fatto gravissimi errori ma devono esser assicurati alla giustizia coloro che lo hanno pestato. Non avremo pace fino a che giustizia non sarà fatta". Nei giorni scorsi Ilaria Cucchi aveva precisato: "Abbiamo accettato soltanto con la garanzia del nostro avvocato di poter continuare la battaglia processuale contro gli agenti. Altrimenti non avremmo accettato nessuna somma". E oggi il legale Fabio Anselmo ha ribadito: "Il risarcimento è limitato esclusivamente alla responsabilità sanitaria. L'obiettivo della famiglia è quello di avere giustizia non a metà, ma a 360 gradi. Per questo, andremo in appello anche e soprattutto sulla posizione degli agenti per i quali con soddisfazione la Procura generale ha chiesto alla Corte d'assise d'appello un giudizio completo e non limitato". Quanto al processo, l'appello contro la sentenza di primo grado che ha condannato per omicidio colposo (e non per abbandono d'incapace come chiesto dall'accusa) 5 dei 6 medici imputati (un sesto è stato condannato per falso ideologico), mandando assolti 3 infermieri e 3 agenti della penitenziaria, è stato proposto non solo dai pm ma anche dalla procura generale. La finalità dell'appello firmato dal sostituto procuratore generale Mario Remus è quella di formulare una serie di osservazioni "per togliere eventuali dubbi" sulla configurazione dei reati e sulle condanne da infliggere, nella consapevolezza che "la Corte d'Assise d'appello potrà esaminare l'intero quadro probatorio, comprese le configurazioni giuridiche più appropriate". Il Pg si 'scaglia' contro la decisione della Corte d'assise di concedere agli imputati condannati le attenuanti generiche ("Tali statuizioni sono state fatte in violazione di legge", si legge nelle 4 pagine tecniche), concludendo con la richiesta "di dichiarare la penale responsabilità degli imputati, applicando le pene che saranno chieste dal rappresentante del Pubblico Ministero in udienza".
CARCERI. MORIRE DI STATO. Detenuto suicida a Terni: la procura apre un’inchiesta, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de il Garantista. Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella di aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013. Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi «che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico». A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che «un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina». Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che «lo toglievano anche dal lavoro di barbiere». A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che si sarebbe impiccato se lo avessero chiuso; ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che «se non si impiccava , lo uccidevano loro». Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – i due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta «ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella». Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno «si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo». Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore «che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto». Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione. Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria , confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luce su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario- giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato “perfetto”.
E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo». Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri su “Il Garantista”. «Carissimi/e compagni/e, Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito! Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.»
Stefano Cucchi, che non sia morto invano.
Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.
Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.
«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.
Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.
Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.
Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.
Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.
A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.
Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!
Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.
Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.
Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.
Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.
Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».
LA POLITICA SUCCUBE DELLA MAGISTRATURA. ASSUNZIONI? ROBA LORO!
Chi assumo in Regione? “Decide il procuratore”, scrive Enrico Novi su “Il Garantista”. Giuseppe Pignatone è un grande magistrato. Uno che ha affiancato Pietro Grasso alla Dda di Palermo. Che ha inflitto colpi micidiali alla ’ndrangheta fino a vedersi recapitare un bazooka in Procura a Reggio Calabria. Dal 2012 è il capo di un altro ufficio inquirente delicatissimo come quello di Roma. E’ una toga di prima scelta. Può per questo essere trasformato in un grande amministratore? Può la politica lasciargli volontariamente la supplenza del potere? Forse no. Ma ognuno ha diritto di pensarla come crede. E infatti il governatore del Lazio Nicola Zingaretti la pensa diversamente. Tanto che un suo dirigente, il segretario generale della Regione Andrea Tardiola, si rivolge proprio al capo della Procura di Roma per chiedergli aiuto. Non per presentare un esposto, o insomma per uno di quegli atti che, ordinariamente, hanno il loro naturale destinatario in un ufficio inquirente. No. Tardiola chiede aiuto nella scelta di un nuovo direttore regionale. Precisamente del nuovo responsabile per l’area Ciclo integrato dei rifiuti. Perché la Procura? Un giornale on line affaritaliani.it, ha condotto a riguardo un meritorio lavoro d’inchiesta. E ha pubblicato la prima missiva di Tardiola, sotto forma di lettera ufficiale e protocollata. E’ del 12 giugno 2014 scorso, è indirizzata a Pignatone e, per conoscenza, al sostituto procuratore Alberto Galanti. Si tratta del pm del processo a Manlio Cerroni, il titolare di Malagrotta. Un processo, per inciso, che negli ultimi tempi ha subito alcune battute d’arresto, a cominciare dall’annullamento dell’interdittiva antimafia per il principale imputato. Un’inchiesta che ha visto però finire ai domiciliari anche un dirigente della Regione, Luca Fegatelli, titolare proprio del ruolo per il quale ora la giunta Zingaretti cerca un successore. E’ come se l’amministrazione dicesse alla Procura: visto che chi mette le mani nell’immondizia finisce per sporcarsele, diteci voi chi dobbiamo scegliere. Così ci salviamo dal rischio di essere chiamati in causa, seppure indirettamente, per eventuali future malversazioni di questo stesso dirigente. E’ una cosa normale? Nella missiva cartacea il segretario della Regione scrive che «l’attribuzione di un incarico dirigenziale è attività routinaria», ma che «nel caso in questione», si ritiene «necessario segnalare i criteri che informano i nostri comportamenti amministrativi. Stante l’attenzione che anche gli Uffici giudiziari hanno posto su questo settore, ritengo opportuno trasmetterle l’elenco dei soggetti che hanno presentato la loro candidatura. Le sarò grato se vorrà formularci le sue eventuali osservazioni». Insomma la selezione vera deve farla Pignatone. O al limite il pm Galanti. E’ probabile che il procuratore della Repubblica dopo aver letto la missiva abbia chiesto al suo sostituto di occuparsene. Tanto è vero che poche ore dopo, verso le 20, dall’account del funzionario regionale Tardiola parte una mail indirizzata a Galanti, in cui si fa riferimento a colloqui nel frattempo (nelle ore immediatamente precedenti) intercorsi tra i due: «Come le ho anticipato telefonicamente, le invio…», dice il dirigente a proposito dell’allegato al messaggio di posta elettronica, che contiene i curriculum di tutti i candidati, sia di «quelli che abbiamo valutato positivamente, sia quelli che hanno fatto domanda ma non eligibili». Tra i primi, che poi sono solo quattro, è la Procura che deve dire se c’è qualcuno con ulteriori, imprevedibili carichi di inopportunità. Di che genere, poi? «Ad ogni modo», prosegue mail, «come ci siamo detti, prima di assumere una decisione definitiva sarebbe dirimente saper se ci sono ulteriori elementi di valutazione da prendere in considerazione». Tardiola dice che di lì a poco correrà dal pm per parlargli a quattr’occhi: «Vista l’urgenza di ricoprire l’ufficio, che ha incombenze ben pesanti, se può essere utile mi libero per raggiungerla e condividere questi elementi. Buona serata». Con tanti saluti al principio della divisione dei poteri. Regione in imbarazzo. Spiega il vicepresidente Massimo Smeriglio: «Domani (oggi, ndr) abbiamo giunta. Sentiremo il segretario generale. Verificheremo la congruità tra quanto diffuso dai media e i fatti reali. Parliamo pur sempre dei rifiuti nel Lazio. Con un dirigente (Fegatelli, ndr) che si trova in una condizione di difficoltà a causa di atti probabilmente illegali. Parliamo insomma di una situazione esplosiva», dice il vicepresidente della Regione Lazio, «e, detto con franchezza, non mi pare scandaloso un surplus di attenzione su un tema del genere». Su questo in astratto non ci sarebbe nulla da obiettare. Ma sul fatto che l’attenzione si traduca nell’invocare la tutela dei giudici, si può discutere.
“Caro Procuratore, scegli i dirigenti”. La Regione manda i “cv” a Pignatone. L’esclusiva di Fabio Carosi. Affaritaliani.it pubblica un carteggio imbarazzante tra il Segretario generale dell'amministrazione Zingaretti e il Procuratore capo Pignatone, per la scelta del direttore dell'Area Rifiuti. Poi una mail: “Vista l'urgenza posso raggiungerla in ufficio”. “Caro Procuratore Pignatone e caro sostituto Galanti, visto che ci parliamo spesso e che stiamo procedendo alla nomina di un direttore regionale, vi mando tutti i curricula per avere eventuali osservazioni”. Chi scrive è il dottor Andrea Tardiola, segretario generale della Regione Lazio, dominus dell'amministrazione Zingaretti che nel giugno scorso ha sancito grazie ad una mail e a una lettera ufficiale l'asse strettissimo che esiste tra la Regione Lazio e la Procura di Roma. O viceversa. Insomma che non si muove foglia che la Procura non voglia. Vista così potrebbe essere la più grande operazione di tattica prudentistica di Nicola Zingaretti che, dopo una serie di scandali, prima di procedere alle nomine si consulta con il Procuratore capo di Roma, il dottor Giuseppe Pignatone. A parte l'imbarazzo istituzionale per cui viene sancita l'autonomia zero di via Rosa Raimondi Garibaldi, esiste una chiave di lettura che ridicolizza ruolo e autonomia dei poteri: un'istituzione che chiede aiuto alla magistratura per la selezione dei curricula è decisamente imbarazzante. Ancora di più se poi c'è da nominare il direttore dell'area rRifiuti, il superdirigente che prende il posto di Luca Fegatelli, chiamato dalla Procura in causa insieme all'intera prima linea di governo regionale del settore nel ciclone della maxininchiesta e quindi del processo sui rifiuti. E ancora di più se il Segretario generale della Regione Lazio non si limita a scrivere al solo Procuratore Capo, ma mette in copia anche il sostituto che nel processo rappresenta il piemme, cioè l'accusa. E Se Cerroni è accusato di aver brigato con la Regione Lazio, i documenti certificano che la Regione Lazio briga con la Procura forse per paura di sbagliare, molto per tatticismo e forse ancora di più per avere un minimo di tutela sulle decisioni. La lettera ufficiale che affaritaliani.it pubblica in esclusiva è stata scritta lo scorso 12 giugno ed è un concentrato di imbarazzo istituzionale. Come dire: “... se la Procura mi dice chi devo nominare.. “. Oppure ancora.. “se nomino tizio o caio può andar bene” e getta un'ombra inquietante sul rapporto di lealtà della Regione con i propri cittadini e addirittura coni candidati che ufficialmente ambivano a quel posto, visto che la loro storia professionale è finita direttamente dai magistrati. E anche, si potrebbe aggiungere, sulla nomina al posto di Luca Fegatelli della dottoressa Manuela Manetti. Così almeno risulta dal sito internet della Regione Lazio, il cui ultimo aggiornamento risale guarda caso al 12 giugno di quest'anno. Lo stesso giorno in cui il dottore Tardiola, scrive quasi supino alla Procura spiegando che “L'attribuzione di un incarico dirigenziale è un'attività routinaria per un'amministrazione come la Regione Lazio”. Recuperata la prudenza del caso, si affetta a spiegare che, “Tuttavia, nel caso in questione, ritengo necessario segnalare al suo ufficio i criteri che informano i nostri comportamenti amministrativi per questa specifica procedura, particolarmente delicata laddove insiste su un settore ad alto rischio come quello dei rifiuti”. La conclusione è da manuale del rapporto tra poteri: “Le sarà grato se vorrà formularci le sue eventuali osservazioni”. E cosa si aspettava il numero due dell'amministrazione Zingaretti? Forse un'indagine sui curricula, un via libera sul nome di tizio o di caio? Oppure ancora, la certezza che l'indagine di Galanti fosse arrivata a conclusione e che quindi la tempesta si fosse sopita? Oppure una nomina di Galanti, tale da tutelare ogni azione della Regione? C'è da chiederselo perché, dopo aver inviato la lettera ufficiale con tanto di allegati in data 12 giugno e ricevuta come da timbro della Procura lo stesso giorno, il Segretario Generale raddoppia. Dal suo personal computer regionale manda una mail al sostituto procuratore Galanti. Sono le 20,14 di giovedì 12 giugno quando allo stesso Galanti arriva l'oggetto “Dirigente settore rifiuti Regione Lazio” che contiene l'allegato della lettera già protocollata in arrivo in formato pdf. E qui Tardiola si supera, confessando la stretta relazione istituzionalmente atipica che intercorre tra Regione e Procura. Scrive infatti: “Come le ho anticipato telefonicamente, le invio... sia quelli che abbiamo valutato positivamente, sia quelli che hanno fatto domanda ma non eligibili”. Poi la perla, tremenda: “Ad ogni modo, come ci siamo detti, prima di assumere una decisione definitiva sarebbe dirimente saper se ci sono ulteriori elementi di valutazione da prendere in considerazione”. Può bastare? No la chiosa della mail è un capolavoro degno di un segretario regionale che aspetta solo il via libera della Procura per fare il suo lavoro. Sempre Tardioli affettuosamente al dottor Galanti: “Vista l'urgenza di ricoprire l'ufficio, che ha incombenze ben pesanti, se può essere utile mi libero per raggiungerla e condividere questi elementi. Buona serata”. E buona sera anche all'indipendenza del potere politico e della pubblica amministrazione dalla magistratura, nonché un addio all'autonomia. A Roma chi decide i direttore della Regione è la Procura. Altro che curricula, trasparenza. Sono solo chiacchiere e mail imbarazzanti. C'è da chiedersi se anche per altre decisioni la Regione Lazio prima di muoversi chieda il conforto di qualche sostituto. Nota: i documenti che affaritaliani.it pubblica in allegato all'articolo sono contenuti nel fascicolo sull'inchiesta del processo Cerroni, quindi consultabili da qualsiasi legale. Cosa poi c'entrano col processo in corso, rimane un mistero.
Prendiamo il più bravo? Forse. La Regione si confessa in Procura. Affaritaliani.it pubblica integralmente la mail con la quale il Segretario generale dell'amministrazione Zingaretti, nella selezione del direttore dell'Area Rifiuti confessa al sostituto Galanti le sue preferenze di “uomo di Stato”, e lasciando l'ultima parola alla Procura... “come ci siamo detti”. SEI QUESITI PER IL PRESIDENTE ZINGARETTI. Riflettete bene su termini “meritocrazia” e “trasparenza” continua Carosi. Poi anche su “procedure” e “rapporti tra soggetti istituzionali” ma anche su “autonomia delle istituzioni”. E se poi c'è anche tempo su “buon governo” e “cultura di governo”. Come anticipato martedì 30 settembre, Affaritaliani pubblica il secondo documento di “interlocuzione” tra la Regione Lazio nella persona del Segretario Generale, Andrea Tardiola, e il sostituto procuratore della Repubblica, Alberto Galanti, che riveste anche il ruolo di accusa nel maxiprocesso sui rifiuti. Sia chiaro: è la Regione di Nicola Zingaretti che scrive, perché negli archivi non c'è traccia di risposte in direzione contraria. E questo è un bene per la Procura che, come asserisce la mail, si limita solo a contatti telefonici. Dunque il dottor Tardiola è alle prese con la successione del direttore Luca Fegatelli, finito ai domiciliari insieme a Manlio Cerroni e alle prime linee delle sue aziende. La Regione si trova in grande imbarazzo, un po' perché dalle intercettazioni dell'inchiesta spunta il nome dell'assessore Michele Civita, all'epoca delegato di Zingaretti al settore “monnezza” della Provincia di Roma, dall'altra perché si trova a dover sostenere l'accusa nei confronti di un suo dirigente apicale. E poi c'è l'emergenza rifiuti che preme su Roma, con la necessità di mettere soldi per sostenere il sindaco Marino che ha deciso di spedire lontano dal Raccordo tutti i rifiuti. E che fa Tardiola? Spedisce una mail al sostituto Galanti nella quale spiega la “ratio” in uso nella Regione per la selezione dei direttori, formalizzando dopo diverse conversazioni telefoniche: “Gentile dottore, come le ho anticipato telefonicamente, le spedisco l'elenco dei CV che ci sono pervenuti...”. E sin qui nessuna nuova. Stupisce un passaggio,quello in cui confessa le sue passioni: “Come le dicevo, potendo scegliere in questa rosa ristretta, la mia attitudine di dirigente dello Stato mi farebbe astrattamente propendere per la candidata del Ministero dell'Ambiente”. Fortuna che è un ragionamento astratto, perché poi il dottor Tardiola svela quelli che potrebbero essere i contorni di una selezione del personale condivisa con la Procura di Roma. Anzi, col piemme del processo che vede la Regione accusata per i suoi dirigenti e vittima allo stesso tempo. Scrive il Segretario Generale, stavolta senza astrazioni ma con un linguaggio diretto: “Ad ogni modo, come ci siamo detti, prima di assumere una decisione definitiva, sarebbe dirimente sapere se ci sono ulteriori elementi di valutazione da prendere in considerazione”. E' quel “come ci siamo detti...” che genera l'imbarazzo; che paventa una decisione da condividere con un pubblico ministero e quindi con la magistratura inquirente che, letta dal lato della Regione Lazio, parrebbe avere l'ultima parola sul candidato giusto per governare sui rifiuti della Regione più complessa d'Italia. Ora, il fatto che la Regione Lazio faccia “verifiche di compatibilità” sui dirigenti è materia onorevole. Una sorta di atto dovuto che però mal si concilia con il controllore che è un organo inquirente e perdippiù accusatore della Regione stessa. E come se chi rappresenta un imputato cercasse ogni giorno di interloquire e collaborare con l'accusatore. Una bizzarria se ancor di più perpetrata con lettere ufficiali e mail personali che prefigurano uno scambio di affettuose carinerie da via Rosa Raimondi Garibaldi verso piazzale Clodio. E dire che al dottor Tardiola le occasioni per rapporti istituzionali finalizzati ad una tutela della Regione, non mancano proprio. Secondo quanto risulta ad affaritaliani.it a meno di smentite, lo lega un rapporto familiare con il Direttore del casellario Giudiziario Centrale del Ministero della Giustizia, un altissimo funzionario dello Stato che non dovrebbe avere difficoltà a creare un rapporto ufficiale e formale con la Regione, affinché si doti di persone degne della massima fiducia per ricoprire incarichi delicatissimi. Perché ha scelto invece la via di un sostituto-piemme è una strada che il Segretario generale dovrebbe spiegare pubblicamente. Magari con la stessa trasparenza con la quale ha ammesso la sua preferenza per la candidata del Ministero dell'Ambiente.
Vista la moda dei quesiti, al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti ne sottoponiamo alcuni, appena sei invece dei 10 in voga con preghiera di risposta, certi che saprà tenere fede allo slogan con il quale si è proposto ai cittadini per governare il Lazio, “Immagina un nuovo inizio”:
1) E' al corrente dell'interlocuzione confidenziale tra il Segretario generale e la Procura di Roma per la selezione del direttore del Servizio Rifiuti e Ambiente?
2) Non ritiene che l'autonomia politica possa uscire ridotta dal carteggio pubblicato?
3) Il Segretario generale scrive che la nomina di un direttore regionale è “attività routinaria. Perché allora tanta attenzione?
4) La stessa “procedura Tardiola” è stata utilizzata per tutte le altre nomine?
5) Dal carteggio si evince che la trasparenza tanto invocata non è stata rispettata. Rimane un suo valore?
6) Può fornire tutta la documentazione esistente sul “Caso Tardiola” per la pubblicazione integrale?
Regione succube della Procura. E i media zitti, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Neppure il commissario Montalbano si è mai genuflesso davanti al Signor Procuratore come ha fatto il suo gemello siamese governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Una resa totale della politica, che chiede alla magistratura di fare direttamente le nomine di competenza regionale. E anche una candela accesa a Santa Toga: ti prego non occuparti di me! Sul piano umano siamo tutti con te, compagno Zingaretti, tanto che ti salvano la reputazione persino quei quotidiani come Il Fatto, che si nutrono abitualmente di atti giudiziari. Tranne questi. Una volta, quasi ai tempi delle guerre puniche, era la politica a governare la magistratura. In particolare la sinistra, tanto che Togliatti, ai tempi della Costituente, aveva proposto che il Pubblico Ministero dipendesse direttamente dal Governo. Nulla di scandaloso (è così in molti Paesi democratici dell’occidente), ma per la magistratura, soprattutto quella associata, il principio costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza è un feticcio più forte di quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per la Cgil. Rimane il fatto però che ai tempi delle stragi, in particolare quella di Bologna (2 agosto 1980), era fatto tranquillo e assodato che i Pm cui erano affidate le indagini si riunissero con gli esponenti locali e nazionali del Pci a discutere (o farsi indirizzare) sulle linee di politica giudiziaria. Lo stesso era accaduto alla fine degli anni Settanta, quando il Pci aveva il problema di eliminare quella fastidiosa “sinistra extraparlamentare” che, da sinistra appunto, contestava nelle piazze il moderatismo del partito di Gramsci-Togliatti-Berlinguer e la sua tendenza strabica a guardare verso la Democrazia cristiana più che a sinistra. Anche allora, come accadrà quindici anni dopo con Berlusconi e Forza Italia, la sinistra ufficiale ricorse allo strumento giudiziario per combattere il nemico politico. E riuscì nell’intento, pur se molte persone che avevano trascorso mesi nelle carceri speciali verranno poi assolte nei processi, anche perché quella che inizialmente era sovversione sociale divenne terrorismo. La situazione si è capovolta all’inizio degli anni novanta, quando, come denunciò Bettino Craxi in due memorabili discorsi alla Camera dei deputati, si scoprì che i bilanci dei partiti erano tutti falsi e la politica si finanziava con il contributo occulto e complice degli imprenditori. Cadde definitivamente il mito berlingueriano della diversità comunista e il concetto di Mani Pulite assunse un diverso significato. Quello che una volta era il cordone ombelicale che teneva legata una parte della magistratura ai partiti di sinistra si è irrobustito fino a staccarsi. Pur se i rapporti personali si sono in gran parte mantenuti (anche perché molti magistrati di sinistra sono entrati in Parlamento), è caduta la sudditanza delle toghe, che non vanno più nelle sedi di partito a prendere ordini dal segretario di sezione. Anzi, è da tempo iniziata la stagione della sudditanza psicologica dei partiti che impone dimissioni e allontanamento dalla politica di chiunque sia sfiorato da inchieste giudiziarie. Siamo arrivati così al fatto che, con le richieste di arresto (prontamente accolte favorevolmente da partiti di ogni colore), la magistratura decida direttamente la composizione del Parlamento. Quel che sta accadendo alla Regione Lazio, documentato da quegli atti giudiziari che i giornali non vogliono vedere, con il numero due di Zingaretti che chiede, quasi implorando, al Procuratore capo di Roma Pignatone e al suo sostituto titolare dell’inchiesta sul settore, di scegliere il Direttore del settore rifiuti, è gravissimo. Ci fa piombare in una sorta di clientelismo a rovescio. Perché il candidato professionalmente più preparato rischia di esser scavalcato da quello più gradito al magistrato. È quello che, temiamo, potrebbe succedere presto nelle aziende, pubbliche e private, che lavorano alla preparazione di Expo2015. Un settore già decimato da arresti e sospetti, la cui composizione è oggi nelle mani di una sola persona, Raffaele Cantone. Signor Procuratore, naturalmente.
LA CONQUISTA DI ROMA.
I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzete di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.
Se i camerati diventano narcotrafficanti. Così cambia l'estrema destra romana. Le sigle neofasciste della capitale sono finite coinvolte in numerose inchieste sul traffico di droga e sulle violenze e vendette a questo collegato. Ecco alcuni dei casi più inquietanti, continua Lirio Abbate su “L’espresso”. Manifestazione davanti alla sede di Casapound Mettere in campo una rete di uomini neri offre vantaggi che le cosche non hanno. Ci sono i reduci degli anni di piombo, che garantiscono rispetto. C’è una ragnatela di simpatie politiche o di ricatti, che si insinua negli apparati dello Stato. E ci sono professionalità, nelle armi o negli affari, che i boss meridionali devono invece pagare a caro prezzo. La lista di traffici e delitti in cui sono coinvolti a Roma neofascisti vecchi e nuovi è lunga. Si parte dal dicembre 2009 quando a Ostia viene smantellata una rete che smistava cocaina: finiscono in manette Alberto Piccari, uno dei fondatori dei Nar, e la moglie di Carmine Fasciani, il ras del litorale. È proprio parlando con Fasciani che Gennaro Mokbel si vanta di aver speso tanti soldi per far uscire dal carcere la coppia nera per eccellenza: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Non solo. Il Ros scrive che Mokbel ha ricevuto da Fasciani «l’assicurazione di poter svolgere in modo indisturbato la campagna politica nella zona di Ostia». A Tivoli nel 2012 viene gambizzato Francesco Bianco, un altro reduce dei Nar, assunto dall’allora sindaco Alemanno all’Atac. A sparargli è Carlo Giannotta, reggente dell’ex sezione dell’Msi di Acca Larentia. Movente: le divergenze sulla gestione della sede e della commemorazione dei tre missini uccisi nel 1978. Dopo il ferimento viene perquisita pure la sede di CasaPound e si indaga sui due figli di Giannotta, Mirco e Fabio. Mirco, prima di essere messo da Alemanno a dirigere l’ufficio comunale per il decoro urbano, ha patteggiato la condanna per alcune rapine, mentre Fabio è tra gli autori del colpo a Bulgari di via dei Condotti. Sempre a Fabio Giannotta è stato ricondotto l’arsenale ritrovato nel quartiere Alessandrino: cinque armi da guerra, 16 pistole, giubbotti antiproiettile. Una di queste armi sarebbe stata utilizzata per assassinare nel 2008 Emiliano Zuin. Le istruttorie si sono infilate anche nella vita di di CasaPound. Il 14 aprile 2011 viene gambizzato Andrea Antonini, vicepresidente dell’associazione neofascista. La vittima, con un altro esponente di CasaPound Pietro Casasanta, è stata accusata nell’estate 2012 di aver aiutato un camorrista latitante. Pure Daniele De Santis, incriminato per l’omicidio del tifoso napoletano Ciro Esposito, oltre ad essere un ultrà è un neofascista attivo nel Movimento Sociale Europeo, con un passato in CasaPound. Le curve rivali giallorosse e biancoazzurre sembrano unirsi in un unico disegno politico-criminale. I giudici di Roma nella sentenza che ha condannato gruppi di ultrà, scrivono: «Il vero collante del vincolo che li unisce è la loro collocazione ideologica nell’area della destra più estrema, ispirata da concezioni xenofobe e neofasciste e da un’idea della sopraffazione dell’avversario che anche indipendentemente dal tifo calcistico che potrebbe dividerli, li collega invece in una comunanza di azioni e attività che poco hanno a che fare con le loro presunte passioni sportive». E persino in questo settore, ci sono poi i rapporti con i clan: uno dei capi della curva Nord, arrestato per traffico di droga, è stato segnalato come autista del boss camorrista Senese. Due anni fa in una operazione che ha portato al sequestro di 165 chili di cocaina è finito in manette Emanuele “Lele” Macchi di Cellere, con precedenti per associazione terroristica. Il pariolino “Lele” veniva considerato un “intellettuale di area”: in carcere invece era definito l’angelo custode di Pierluigi Concutelli, il cecchino della destra rivoluzionaria. Ora gli investigatori lo considerano vicino a Carminati. Sorprendente la vicenda del Pussycat, un night club con squillo d’alto bordo dietro la copertura del centro culturale “Le Pecore Nere” il cui vicepresidente era l’ex militante dei Nar Flavio Serpieri. Gli altri due soci? Un vicequestore della polizia e un regista. Infine nel clamoroso crack del broker Gianfranco Lande, il “Madoff dei Parioli”, è comparso Pierfrancesco Vito, l’ennesimo ex pistolero dei Nuclei Armati Rivoluzionari, con oltre 100 mila euro da riciclare.
Estorsioni, racket, pestaggi ai negozianti. Per imporre il rispetto e rilevare le attività. Il primo pentito racconta i clan emergenti della Capitale, continua Lirio Abbate su “L’Espresso”. Un mafioso di Roma. Affiliato da Cosa nostra in Sicilia, ma diventato boss nella capitale dove per vent’anni ha rappresentato la famiglia di Siracusa e tenuto i rapporti con i clan locali. Uno che conosce a fondo i padrini che hanno messo le mani sulla metropoli e il suo litorale. E che due anni fa ha deciso di collaborare con le autorità. Sebastiano Cassia è di fatto il primo pentito della nuova mafia romana, che ha visto prosperare fino a prendere il dominio di interi quartieri. La sua collaborazione è partita in modo rocambolesco. In pieno luglio si è presentato negli uffici della Squadra Mobile, chiedendo di parlare con Renato Cortese, il capo degli investigatori: «Aiutatemi, mi vogliono uccidere». Cassia è un cinquantenne che si sente finito: stufo di una vita di carcere e reati, pronto a dare prove in cambio di protezione. Si è accusato di estorsioni e commerci di armi. E gli agenti, dopo avere verificato le primissime rivelazioni, lo hanno portato davanti al procuratore Giuseppe Pignatone e al pm Ilaria Calò, che hanno messo a verbale le sue parole. Oggi la sua testimonianza è l’asse portante del grande processo per mafia che si celebra nell’aula bunker di Rebibbia. Il cuore del suo romanzo criminale è Ostia, una città nella città, dove vivono centomila persone. Un territorio controllato da due organizzazioni. La più importante è quella di Carmine Fasciani, che guidava il suo clan anche dalla clinica dove scontava gli arresti, alleato con il napoletano Michele Senese. I loro complici-rivali erano i siciliani Triassi, messi da parte negli scorsi anni dalla brutale ascesa degli Spada. Il racconto del pentito parte dall’industria delle estorsioni, che sono diventate il sistema per lo sviluppo imprenditoriale dei nuovi boss. «I Fasciani subentrano nelle attività economiche di Ostia costringendo i titolari a cedere le aziende, chi si rifiuta viene pestato a sangue. Più che riscuotere il pizzo cercano di mettere “sotto botta” le vittime, per poi prendersi le loro attività: non gli interessa incassare 500 euro al mese, a loro interessa l’attività commerciale. Perché i Fasciani con tutti i soldi che hanno potrebbero pure fare a meno di chiedere il pizzo, ma lo fanno ad Ostia per ricordare a tutti il loro “titolo mafioso”». Le estorsioni sono il cappio per impossessarsi del quartiere. «Non è soltanto una questione di interesse economico, ma anche acquisizione del potere: così impongono la loro supremazia sul territorio. A Ostia bastava solo pronunciare il nome dei Fasciani che incuteva paura e così tutti pagavano». Ogni mese una tassa compresa tra 500 e duemila euro, in base al giro d’affari del commerciante. «Chi non lo faceva veniva picchiato, massacrato di botte: il dolore fisico che si può far provare ad una persona è superiore alla paura di quando gli bruci il negozio o la macchina. E avendo pestato qualche negoziante, gli altri lo venivano a sapere e si adeguavano subito a pagare senza fare storie. E poi era necessario mantenere il rispetto da parte della comunità e quando dico rispetto mi riferisco a quello che si doveva nei confronti di Carmine Fasciani». A pochi chilometri dal Campidoglio e da Palazzo Chigi, il pentito descrive un sistema identico a quello dei più antichi domini mafiosi, dove il potere è silenzioso, cementato dal “rispetto”. Attentati e pestaggi sono un’eccezione, perché basta pronunciare il nome Fasciani per ottenere «sottomissione e obbedienza». «Carmine Fasciani ha un modo di fare tutto suo, con il suo finto buonismo che lo fa sembrare una persona affabile, uno che può darti una mano di aiuto, perché effettivamente lo può anche fare, ti dice “non ti preoccupare, adesso aggiustiamo le cose” ma poi chiama i suoi uomini e ordina: “Se questo non paga il mese prossimo fate quello che dovete fare, l’importante è che paghi”». I proventi del racket ormai sono secondari. Droga, usura e imprese gestite in proprio garantiscono ricchezza a tutto il clan, inclusi i detenuti. «Gli stipendi variano e dipendono dalla caratura del personaggio: vanno da 1500 a cinquemila euro. Ha diritto allo stipendio chi commette determinati reati come violenza sulle vittime di estorsioni, i corrieri della droga, chi compie danneggiamenti e chi intimidisce, spara e uccide. Se fai tutto questo è normale ricevere mensilmente uno stipendio. A ognuno degli affiliati che ha problemi con la giustizia viene anche pagato l’avvocato». L’importo dipende dal rango malavitoso: «Si parte dall’anzianità, e dal rispetto di ognuno. E aumenta anche in base al costo della vita. Sono questi i fattori per i quali si ricevono più soldi. Solo chi si è mostrato capace di commettere azioni violente ne ha diritto». Il motore di tutto resta la droga: «Per quanto riguarda la cocaina e l’usura a Ostia se ne occupano i Fasciani, mentre Senese distribuisce la cocaina a Roma. Solo loro possono farlo, dopo che da questo traffico sono stati esclusi i Triassi. Il grande monopolio ce l’ha il clan Fasciani che ha i contatti giusti e pure le persone, ragazzi di Ostia che abitano in Argentina e in altri posti del mondo e lavorano tutti per Carmine Fasciani. Così dalla Colombia o dalla Spagna fanno arrivare centinaia di chili di cocaina che viene riversata sulla Capitale. In questo territorio nemmeno i calabresi possono entrare, possono solo chiederla a Carmine Fasciani ma non possono portarla a Roma. Il litorale è dei Fasciani e il Quadraro e altre zone della capitale di Senese». C’è una regola aurea: evitare gli scontri. «Non si fanno la guerra perché con la guerra che succede? Scateni le guardie e non lavori più. Ti attaccano perché se c’hai beni te li sequestrano, invece così se c’è una pace nessuno ti fa niente». È questo che ha spinto i Fasciani a trovare un accordo con gli Spada, «che però si fanno spazio usando solo la violenza. Non hanno il prestigio dei Fasciani, perché sono e resteranno sempre zingari. Ma sono sono diventati una forza e per evitare scontri si sono alleati. Per farli guadagnare i Fasciani gli vendono partite di cocaina che poi loro spacciano». L’accordo non prevede una condivisione delle piazze, ma impone ruoli chiari. «Nel traffico internazionale il monopolio è sempre dei Fasciani e di Senese. Gli Spada prendono la roba dai Fasciani e la rivendono, anche nella zona di Tor Bella Monaca: la spacciano a tutti quelli che la richiedono, anche al primo che viene. I Fasciani no: loro hanno i loro clienti fissi e la vendono solo a quelli che conoscono». Nelle deposizioni di Sebastiano Cassia non ci sono solo i padroni della strada. Il potere del clan ha bisogno di complici borghesi, per riciclare e mandare avanti la crescita imprenditoriale della famiglia. Il collaboratore ha parlato di magistrati e avvocati corrotti, alcuni dei quali già arrestati, perché con l’aiuto di medici riuscivano a far uscire dal carcere i boss. Sulla base dei suoi verbali le indagini della squadra mobile coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino stanno cambiando la situazione. Finora nessuno dei commercianti chiamati a confermare le estorsioni ha ammesso di avere pagato. Poche settimane fa invece il titolare di una ricevitoria di Ostia si è rivolto alla polizia, denunciando le pretese di due uomini degli Spada: volevano centomila euro. Gli agenti li hanno intercettati e ammanettati mentre incassavano il pizzo. Ai giudici il pentito ha spiegato le sue motivazioni: «Per traffico di droga sono stato in carcere tanti anni, come pure per associazione mafiosa, e dopo essere tornato libero mi stavo rimettendo sulla stessa strada criminale di prima al servizio di Fasciani. Una persona a me cara mi ha fatto aprire gli occhi dicendomi che stavo tornando a sbagliare ed è stato allora che mi sono fermato e non ho più eseguito gli ordini del clan. E oggi voglio cambiare vita, nella speranza che il mio contributo possa aiutare a sconfiggere la mafia che in modo silenzioso ha invaso Roma e il suo litorale».
Roma, la mafia è in tavola. C’erano una volta i locali della mala: defilati, semi deserti, aperti solo per giustificare gli incassi dei clan. Oggi invece le cosche hanno invaso la Capitale in grande stile, dai ristoranti low cost ai bar di tendenza. È la nuova frontiera del riciclaggio, su cui indagano pm e guardia di Finanza, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso”. Campo dei Fiori? «Quest’amico mio si è comprato un bar a Campo dei Fiori, 470 mila euro, che quando l’hanno preso incassava tremila euro e cinque al giorno». Gianicolo? Grand Hotel con ristorante e vista sul Cupolone di San Pietro. Centro storico? Il Caffè Chigi, lungo la via che unisce Montecitorio a piazza Colonna. Ormai le inchieste antimafia su Roma assomigliano sempre più a una guida gastronomica: un lungo elenco di ristoranti, pizzerie, bar e tavole calde di ogni livello e di ogni quartiere. Non è una sorpresa: la metropoli è anche la capitale del riciclaggio, tanto che negli ultimi due anni e mezzo le Fiamme Gialle vi hanno sequestrato beni per un miliardo e 400 mila euro. E richiesto ulteriori provvedimenti per la stessa somma. Metà delle 160 aziende confiscate nel Lazio sono bar, ristoranti, alberghi. Poi ci sono quelle sospette su cui gli investigatori hanno puntato i riflettori: almeno una trentina. Ma passare dai sospetti ai provvedimenti è sempre più difficile. I boss si sono evoluti e si affidano a imprenditori del settore: professionisti che curano nei particolari la gestione e l’arredo dei locali per farne posti conosciuti e frequentati. Un tempo c’erano i locali “di mala”: birrerie, pizzerie, pensioncine e night club in stile Tony Soprano, aperti solo per giustificare gli incassi del clan, spesso in vie defilate. Adesso si lavora in franchising, riciclando i capitali mafiosi in imprese altamente competitive. La “Ristomafia Spa” della capitale soddisfa tutti i palati, è adatta a ogni portafoglio. La crisi che colpisce duro e - come denuncia Confesercenti - dall’inizio dell’anno a Roma ha fatto sparire 417 bar e ristoranti, per i cassieri dei clan invece è un’occasione d’oro. Comprano il marchio lasciando il vecchio gestore come testa di legno o inserendo un familiare fidato per schermare la proprietà. Allo shopping capitolino partecipano soprattutto ’ndrangheta e camorra. Ma non mancano reduci della banda della Magliana, imprenditori chiacchierati o indagati in storie di mafia o usura. «Dobbiamo recuperare un forte ritardo», ha ammesso il pubblico ministero Giuseppe Cascini durante un convegno pubblico,«perché è da una quindicina di anni che le mafie hanno cominciato a riciclare anche a Roma soprattutto nel settore terziario». Il soprannome la dice lunga sulle sulle mire del personaggio: “’O Romano”. Edoardo Contini è un boss che ama profondamente la capitale, la frequentava fin da giovane. Il clan che porta il suo cognome è stato il perno dell’alleanza di Secondigliano, il cartello dei clan più temuti. Nel 2007, al momento del suo arresto Franco Roberti, oggi procuratore nazionale antimafia, disse: «Contini è la più grande mente criminale della camorra napoletana, un vero capo». Oggi gli investimenti del padrino continuano a fruttare grazie a prestanomi fidati a cui sono intestati diversi locali e un’intera catena di ristoranti. E “l’Espresso” ha anche verificato, che proprio nei dintorni di piazza Navona, un uomo legatissimo ai Contini gestisce un ristorante, pesce buono e pizza napoletana. Lontani i tempi di rapine e carcere, oggi è tutto tavoli e affari. Tra il Colosseo e la prima periferia ha costruito la sua rete di pizzerie e ristoranti. L’imprenditore Michele Marturano è l’inventore della formula anti crisi “Pala Family” offerta nei tredici punti vendita Mary Pizza: una pizza da un chilo e mezzo a forma di pala venduta a 13 euro. Si può gustare seduti ai tavoli o a casa. Una trovata vincente: in piena recessione ogni punto vendita sfornava almeno cento “Pizza Pala” al giorno. E da qualche tempo è partita la friggitoria di pesce. Con poco meno di 4 euro si può assaporare un cartoccio di paranza: calamari, pescetti, gamberi. Sul curriculum di Marturano però pesa un’accusa di usura nell’inchiesta “Pinocchio” del 2009. A quattro anni di distanza deve ancora iniziare il processo, dove sfileranno alcuni personaggi legati al clan Mancuso. Nel frattempo il gruppo si è consolidato. E ha stretto alleanze commerciali con importanti ristoratori romani. Alcuni di loro, come ha potuto verificare “l’Espresso”, sono in società con Flavio Romanini. Ossia l’imprenditore, che senza accorgersene, sfiora la ‘ndrangheta con un dito: prima ha ceduto il Caffè Chigi a due passi dal Parlamento a una società della famiglia calabrese degli Alvaro e qualche anno dopo ricompare nel Chigi come amministratore unico e socio di due donne, ritenute prestanome della ‘ndrina Gallico. Ma nel 2012 piovono i sequestri ordinati dai giudici che hanno requisito le quote della cosca calabrese, ma non quelle del ristoratore romano. All’ora di pranzo era un luogo di ritrovo. Politici, giornalisti, professionisti. Ma anche turisti che si fermavano al caffè Chigi dopo aver visitato la Galleria Alberto Sordi e palazzo Montecitorio. Oggi il locale non esiste più. In via della Colonna Antonina 33, dietro quelle vetrate c’è un mucchio di cartacce, il caos dopo la tempesta scatenata dai sequestri per ‘ndrangheta. C’è un gemellaggio criminale che fa tremare l’economia sana: quello tra Gallico e Alvaro ha radici lontane. Questi ultimi hanno fatto da apripista «per gli investimenti dei Gallico nel settore della ristorazione, il più affetto da infiltrazioni ‘ndranghetiste», si legge nei rapporti investigativi della Dia. Decine di attività in mano a tre ‘ndrine: Alvaro, Gallico e Mancuso, che nonostante sequestri e confische continuano a investire nella movida romana. Ai piedi di piazza di Spagna e di Trinità dei Monti dagli anni ’70 c’è il noto ristorante Alla Rampa. Lo chef, in una location tra il rustico e il ricercato, prepara pasta fatta in casa con sugo di pesce oppure dorate cotolette d’abbacchio. I prezzi medio alti non sono adatti a tutte le tasche. Cinque anni fa però il locale finisce sotto sequestro. È la prima volta che i sigilli vengono messi a un ristorante così conosciuto. Dal 2006 è di proprietà di Cesare Romano e dei cugini, e cognati, Giorgi. Imprenditori di successo, ma sospettati di essere vicini, oltre che parenti, al clan Pelle di San Luca. Loro vengono dal santuario della ’ndrangheta, hanno ristoranti in tutta Europa, ma giurano di essersi fatti da soli. E i giudici del tribunale di Roma gli credono. Per i Giorgi e Romano, dai documenti letti da “l’Espresso”, è stato comunque un affare: ai vecchi proprietari hanno versato la bellezza di 2 milioni e mezzo di euro, metà in cambiali e il resto con un bonifico da San Marino. Sono trascorsi più di tre anni dai sigilli Alla Rampa, ottenuta la revoca e il bollino di legalità, hanno allargato i loro interessi acquisendo la gestione nel 2012 della storica trattoria romana Pallotta in piazza Ponte Milvio. Dal 1820 luogo di ritrovo e di stornelli. E oggi affollato di vip. Pesce o pizza, con la ’nduia, per ricordare le origini. Tra Campo de’ Fiori, piazza di Spagna e Nomentana c’è la Roma che non dorme. Prima l’aperitivo poi la cena, un drink e una passeggiata fino a tarda notte. Questo grande triangolo offre divertimento a volontà. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Tra questi c’è una catena di ristoranti e lounge bar che attira un gran numero di persone. Oggi gli investigatori sospettano che dietro il sucesso di quest’attività possa esserci la longa manus di Giuseppe Mancuso detto “’Mbrogghia” (l’imbroglione). Lui è il cugino del capo storico Pantaleone Mancuso, “U scarpuni”, considerato lo scissionista della grande famiglia cresciuta a suon di pallottole e tonnellate di coca. Ma inseguire il flusso dei soldi cash che finiscono nei piatti della Roma bene non è un’operazione semplice. Ci sono poi ristoratori con amicizie importanti. Ai loro tavoli siedono vip. Nel locale di Gianni, detto Johnny, Micalusi per esempio sfilano ministri, cardinali, magistrati, parlamentari, attori e non solo. Il suo fiore all’occhiello è l’Assunta Madre, a pochi passi dalla sede della Direzione nazionale antimafia, in via Giulia. Il ristoratore dei vip ha però amicizie borderline: «So boni quelli nò so boni quelli nò». Era il 2002 e Micalusi non si informava di una partita di calamari, ma di assegni, parlandone al telefono con Enrico Terribile, «noto personaggio della Banda della Magliana». In quell’inchiesta fu assolto. In zona Salaria, lontano dal centro storico e immersa nel verde, c’è la villa ristorante di Massimiliano Colangelo, l’amico degli amici e dell’ex senatore Sergio De Gregorio. Qui alcuni candidati Pd hanno incontrato gli elettori durante l’ultima campagna elettorale per le comunali. Poco distante da Villa Ada, il ristorante sorge attorno all’antica Torre Salaria costruita sul mausoleo di Caio Mario. Soddisfa tutti i palati, dalla fugace pizza a primi e secondi per una cena completa. La cucina romana si sposa con originali portate. E così, raccontano le recensioni, si possono gustare i classici tonnarelli cacio e pepe, ma anche una carbonara al sapore di tartufo. E poi eventi e spettacoli nei 10 mila metri quadrati di parco. Il patron Colangelo un mese fa è finito agli arresti domiciliari. Lo accusano di avere promesso, e non mantenuto, di intervenire in Cassazione per sistemare una sentenza: una manovra in favore di Nicola Femia, considerato uno dei nuovi re della ’ndrangheta al Nord. C'era una volta il Cafè de Paris, dove a pranzo si potevano incontrare diplomatici, politici, personale delle istituzioni. Dopo il sequestro e la confisca però l'afflusso di personalità si è azzerato. Nel 2008 l'ex sindaco di Roma, allora ministro delle politiche agricole, presenziò a un evento organizzato al Cafè de Paris da Giulio Lampada, imprenditore legato alla cosche lombarde e reggine, poi condannato a Milano. Quell'anno era ancora proprietà del clan Alvaro di Cosoleto. Poi è arrivato il sequestro. E il clamore mediatico ha allontanato i vip. Ma soprattutto le ambasciate, che organizzavano pranzi e cene, non frequentano più il locale della Dolce vita. Quel caffè, per molti, è ancora a marchio 'ndrangheta. E, invece, il simbolo della dolce vita, già smacchiato dalla magistratura, è oggi libero dal controllo mafioso. Ma i problemi per bar e ristoranti sottratti alle mafie non finiscono qui. Ci sono situazioni paradossali, come il Gran caffè Cellini e il bar “Clementi”. A “l’Espresso risulta che accanto agli amministratori incaricati dai giudici di gestire la società confiscata, continuano a lavorare parenti dei boss. Assunti regolarmente. E licenziarli potrebbe voler dire perdere la causa davanti al tribunale del Lavoro. Come, del resto, è già accaduto. L'allarme lanciato due settimane fa da Sabrina Alfonsi, presidente del primo Municipio della capitale, è inquietante: «Il 70 per cento delle attività commerciali del centro storico è in mano alle mafie». Un dato che ha suscitato non poche polemiche. L'assessore al commercio di Roma capitale Marta Leonori spiega all'Espresso le misure che l'amministrazione ha intenzione di promuovere: “I municipi hanno firmato il protocollo di legalità con l'associazione daSud che prevede una serie di regole e controlli più serrati anche in materia di appalti pubblici. Un altro è stato sottoscritto con Libera. L'altro tema è quello dell'accesso al credito, gli sportelli antiusura sono solo sei, vorremmo potenziare la rete istituendone uno in ogni municipio». Ma resta l'allarme lanciato sulla penetrazione dei clan nelle attività commerciali. Sul punto Leonori propone una ricetta: «Stiamo lavorando a un protocollo con Prefettura e Camera di commercio e Guardia di finanza per monitorare i cambi di attività ripetuti, subentri ripetuti in tempi ristretti, ripetute volture delle medesime licenze, e quindi mettere nella gestione dei nostri data base delle spie, allarmi che verranno inviati alla prefettura. Un grande banca dati condivisa». A Roma un terzo dei beni confiscati sono inutilizzati, altri gestiti dallo stato hanno perso clienti e rischiano il crollo. «Bisogna realizzare progetti sui locali confiscati – conclude Leonori - vanno rilanciati. Dobbiamo allearci con chi vuole ripartire da luoghi simbolo per la lotta alla criminalità e dare un segnale alla comunità».
“SPECULOPOLI. FISCO E MONOPOLI”. Il libro di Antonio Giangrande.
COME SI COMBATTE LA CRISI E L’EVASIONE FISCALE? UCCIDENDO LAVORO ED IMPRESA E SPOLPANDO I POVERI CRISTI.
Quale è la nazione dove si permette ai professionisti, come per esempio gli avvocati, di sfruttare i praticanti, non pagandoli o pagandoli poco od a nero, ed omettendo di pagare loro i contributi, mentre si rastrellano i poveri coltivatori, artigiani, commercianti, al fine di estorcere loro quel poco che hanno ed inibendo il proseguo dell’attività, costringendoli al suicidio economico e spesso anche fisico? Come si chiama quella nazione dove i giornali vanno dietro alle veline dei magistrati ed al gossip ed ignorano le richieste di aiuto dei poveri contribuenti per far cessare la mattanza?
In Italia naturalmente. Basta denunciare il fatto. Ed è quello che si fa con il saggio “Speculopoli. Fisco e Monopoli”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.
Siamo basiti, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. «Ieri (20 agosto 2014) apriamo il Corriere della Sera a pagina 17 e leggiamo il seguente titolo: “Due uomini dai pm: siamo stati amanti di Marita Bossetti”. Chi è costei? La moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, sospettato di essere l'assassino di Yara Gambirasio, l'adolescente di Brembate (Bergamo), in galera da un paio di mesi per via del suo Dna rilevato sul corpo della vittima. Non riassumiamo la vicenda perché è stata raccontata mille volte e supponiamo che il lettore ne sia a conoscenza. Ci limitiamo a esprimere stupore e indignazione davanti a questa ennesima incursione nella vita privata di una famiglia - quella dei Bossetti, appunto - che avrebbe diritto a essere lasciata in pace, ammesso che possa trovarne, avendo il proprio capo chiuso in una cella senza che esista la minima probabilità che questi reiteri il reato attribuitogli, inquini le prove (che non ci sono) e si appresti a fuggire, visto che in quattro anni non ha mai provato a farlo. Stando a Giuliana Ubbiali, la cronista che ha rivelato quest'ultimo particolare piccante sui coniugi, due gentiluomini si sono presentati (spontaneamente? ne dubito) in Procura e hanno confidato agli inquirenti di avere avuto rapporti intimi con la signora Marita. Hanno detto la verità o no? Non è questo il punto. La suddetta signora ha facoltà di fare ciò che vuole con chi vuole e quando vuole senza l'obbligo di giustificarsi con nessuno, tranne il marito. Perché le toghe ficcano il naso nelle mutande di una sposa già distrutta dagli eventi? A quale scopo? Sarebbe interessante che qualcuno ci spiegasse che c'entrano due supposte (non accertate) relazioni avute dalla donna in questione con il delitto di Yara commesso - forse - dal coniuge. Il gossip non ha alcuna importanza - fondato o infondato che sia - ai fini di accertare la verità. Questo lo capisce chiunque. Nonostante ciò, gli investigatori hanno infilato negli atti processuali che due linguacciuti asseriscono di essersi divertiti, sessualmente parlando, con la consorte di Bossetti. Cosicché questi, oltre a essere inguaiato per un omicidio, nonché detenuto, adesso è anche formalmente cornuto agli occhi di chi si pasce di pettegolezzi. Non solo. Marita ha il suo uomo agli arresti, tre figli da mantenere (in assenza di un reddito), un futuro nebuloso, gli avvocati da pagare e, dulcis in fundo, ci ha smenato pure la reputazione passando ufficialmente (zero prove) per puttana».
A fronte di uno stillicidio mediatico rispetto ad una notizia con valore zero, dall’altra parte troviamo uno dei tanti, troppi casi, di ordinaria pazzia, che non meritano l’attenzione dei media.
La storia di Salvatore Lo Cascio di Monte Porzio Catone, in provincia di Roma.
Roma. Italia. “Dopo una vita di fatica, costretto alla fame ed al freddo. E nessuno mi dà retta”.
Questa lettera mi è arrivata da un signore che scrive dal Lazio, ma che può pervenire da qualsiasi località italiana.
«Dr Antonio Giangrande, da semplice ed onesto cittadino sto vivendo la più assurda situazione:
1° -Servizi idrici totalmente chiusi da 33 mesi.
2° -Lavoro bloccato, il Comune mi ha tolto la licenza di vendita di ciò che produco da 33 mesi.
3° -L’Inps mi ha cancellato da coltivatore diretto iscrivendomi alla categoria commercianti e, tassandomi per tale, ha ipotecato tutto ciò che ho e per gli effetti Equitalia minaccia espropriazioni. Ho denunciato ogni casa a Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, tribunali. Tutto giace archiviato, ne letto ne ascoltato, messo a tacere. Ho inviato denuncia al C.S.M. per occultamento della denuncia nel Tribunale di Velletri, ho inviato messaggi scritti al Capo dello Stato, messaggi email a Matteo Renzi, a Pietro Grasso. Una lettera è stata inviata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Tutte le richieste alle testate giornalistiche e televisive non hanno avuto risposta. Non posso cercare soluzione tramite un bravo avvocato perchè non ho alcun mezzo economico. Io non chiedo aiuti economici, me li hanno offerti dalla Calabria dopo la mia esternazione in TV su Rete 4 a “5ª Colonna.” Chiedo esclusivamente di non essere messo a tacere. Ho inviato email e lettere alla Merkel, all'ambasciatore Germanico a Roma, al Tribunale Diritti Umani di Strasburgo. Ho cercato sostegno agli avvocati delle associazioni dei consumatori e dei sindacati. Nulla.»
Dopo questa richiesta di aiuto ho fatto delle ricerche per conferma ed approfondimento, rinunciando alla marea di carte inutili che in casi simili le vittime son pronte ad inondarti. In effetti solo un giornale locale ne ha parlato. E’ stata la giornalista Lucrezia La Gatta su “La fiera dell’est” del 21 dicembre 2013. Essa parla di come il sistema spolpa i poveri cristi ed io le do rilevanza nazionale. Non gliene fregherà niente a nessuno e non si caverà un ragno dal buco. Intanto io il mio dovere l’ho fatto, altri chissà…..
“La storia di Salvatore Lo Cascio, residente a Monte Porzio Catone, è una storia di privazioni ed ingiustizie. Con una casa ipotecata e la licenza agricola revocata a 62 anni. La sua vita avanti tra una battaglia e l’altra. «Lavoro come agricoltore da quando ero ragazzo - spiega Salvatore - ho iniziato vendendo i prodotti del mio terreno all'ingrosso poi, a seguito delle nuove leggi, ho dovuto optare per la Convenzione di Tipo A per l'occupazione di suolo pubblico presso la Piazza del Mercato di Monte Porzio Catone». Ci viene mostrata una fotocopia della licenza nella quale si legge che la Convenzione di Tipo A permette la vendita dei prodotti agricoli quotidianamente. Il 25 novembre 2011 è arrivata, però, una lettera da parte del Comune dove si fa presente che l'accordo con Salvatore Lo Cascio prevede che la vendita dei suoi prodotti avvenga esclusivamente di martedì. Il 1 dicembre 2011, inoltre, arriva una lettera da parte del Comune dove si annuncia la revoca dell'occupazione del suolo pubblico. Quello che viene detto, dunque, è che la sua licenza fosse stata di tipo B, la quale prevede la vendita dei prodotti per uno o più giorni a settimana, in base agli accordi. «Ho mandato lettere al Comune di Monte Porzio Catone, ho sporto denuncia al Tribunale di Velletri, ho protestato davanti Montecitorio, ma nessuno mi ha mai risposto» continua a spiegarci mostrandoci tutte le lettere e le denunce sporte negli ultimi anni. Il periodo in cui viene revocata la Licenza Agricola al sig. Lo Cascio coincide con la fondazione di un'Associazione Commercianti di Monte Porzio, la quale utilizza proprio la Piazza del Mercato. Da quel giorno Salvatore ha smesso di lavorare all'età di 62 anni: «Dopo anni di sacrifici mi sarei aspettato una pensione ed una vita tranquilla, invece ora mi ritrovo senza un lavoro e con una casa ed il terreno ipotecati». Negli anni, il signor Lo Cascio ha accumulato 120.000 euro di arretrati: una cifra che l'INPS, tempo fa, aveva richiesto di riunire nel giro di soli cinque giorni. Non avendo le disponibilità economiche per coprire il debito, Equitalia ha proceduto con l'ipoteca. Neanche le lettere inviate all'Agenzia Delle Entrate, alla Regione Lazio, alla Federconsumatori ed alla Confesercenti hanno saputo porre rimedio al danno subìto. «Mi hanno distrutto la vita e la famiglia - ci racconta - mia moglie è costretta a lavorare come badante e donna delle pulizie per guadagnare quel poco che ci fa andare avanti». Salvatore ha sempre portato avanti le sue battaglie personalmente, non avendo le disponibilità economiche per assumere un legale. Dopo l'ennesima opposizione alla richiesta di archiviazione della sua pratica, risalente al 9 ottobre 2013, il 20 novembre arriva finalmente una lettera protocollata 796/13 PM e 5914/13 GIP dove si annuncia la prima seduta del 13 marzo 2014, al Tribunale di Velletri, dove verrà analizzata la revoca della licenza agricola del sig. Lo Cascio. Un piccola soddisfazione per l'agricoltore, dopo anni di silenzi e di indifferenza totale. Nonostante la bella notizia, non si può affermare che ora Lo Cascio possa vivere in tranquillità: tra il terreno ipotecato e la mancanza di lavoro, i sacrifici e le sofferenze non terminano qui. In lacrime, conclude: «Il problema di un singolo non fa notizia».
IL MERCATO DELLE TOGHE.
Quanti trucchi a quel concorso per la magistratura, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. La procura di Roma indaga sul concorso per magistrati ordinari del 25, 26 e 27 giugno. Dopo le proteste di molti candidati per le presunte irregolarità che si sarebbero consumate... La procura di Roma indaga sul concorso per magistrati ordinari del 25, 26 e 27 giugno 2014. Dopo le proteste di molti candidati per le presunte irregolarità che si sarebbero consumate durante le prove scritte, in particolare nel terzo padiglione, il procuratore aggiunto Francesco Caporale ha aperto un fascicolo con modello 45. Al momento quindi non ci sono indagati e ipotesi di reato, ma sono in corso gli accertamenti e i riscontri preliminari sull’esposto presentato da un candidato nel quale vengono segnalate circostanze dubbie, come il ritrovamento su un banco dei tre codici commentati - vidimati e timbrati dai commissari - nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo. All’attenzione degli inquirenti, da ieri mattina, c’è anche l’interrogazione parlamentare al ministro Orlando presentata al momento da 6 senatori di diversi schieramenti politici e che è stata acquisita. Il tutto mentre continuano ad arrivare segnalazioni firmate via mail agli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, che a breve depositeranno un nuovo maxi esposto in procura a Roma, dettagliato e ordinato per aree tematiche. In una di queste mail - in possesso de Il Tempo - un aspirante magistrato che ha svolto la prova nel padiglione numero 7 segnala che uno dei membri era in commissione nonostante avesse già insegnato nella scuola di specializzazione per professioni legali di Torino, e che il tema della prova di diritto civile aveva lo stesso titolo di una sua monografia pubblicata nel 2012. «Ho visto due ragazze sistemate di fianco a me fare tutte e tre i temi insieme», aggiunge questo ex aspirante magistrato, «e non si sono scambiate solo qualche parola, ma hanno materialmente redatto i temi cooperando». «Signorina, taccia e torni a sedersi perché è anche nel suo interesse», avrebbe invece replicato un poliziotto a una ragazza che, durante la terza prova, aveva chiesto di poter visionare il verbale del giorno precedente per controllare che fosse stato annotato il ritrovamento dei codici commentati "sfuggiti" ai controlli. Un altro candidato segnala che il giorno 23, durante le operazioni di consegna e controllo dei codici da utilizzare durante le prove, i controllori annotavano nel registro apposito solo i nomi dei consegnatari e non i loro numeri di carta d’identità come sarebbe previsto dalle norme. «Nel mio padiglione, il numero 5», scrive ancora il giovane, «sono stati ritrovati appunti di vario genere nel water». La pioggia di mail che stanno scremando gli avvocati Bonetti e Delia gronda amarezza e disillusione. Una ragazza scrive ad esempio che, all’inizio delle prove, un membro della commissione ha detto ai candidati di non preoccuparsi dei segni di riconoscimento. «L’unica raccomandazione è non apporre il nome sui vostri fogli», avrebbe detto il commissario, «potete utilizzare la penna del colore che volete». «Per essere stata la mia prima esperienza al concorso che aspetto da una vita e per il quale ho sacrificato tutto», conclude la giovane nella mail spedita ai legali, «non so se sentirmi più indignata o delusa o amareggiata».
Il Ministero della Giustizia fa scena muta, continua Martino Villosio. Al concorso per magistrati libri sui banchi, inspiegabili ritardi, chiacchiere «libere» davanti ai bagni. «Il ministero della Giustizia assicura sul regolare svolgimento delle prove». Una nota laconica, pubblicata lo scorso quattro luglio, sbattuta in faccia alle proteste, all'indignazione e allo sconforto di decine di giovani. È così che il dicastero retto da Andrea Orlando ha voluto rispondere a chi, dopo aver partecipato il 25, 26 e 27 giugno al concorso per magistrati ordinari, è uscito sconvolto dai padiglioni della Fiera di Roma per correre dritto in Procura. Tutto pulito e liscio. Nonostante i tre codici commentati che, sebbene vietati dal regolamento concorsuale, sono stati trovati sul banco di un candidato timbrati e vidimati dalla commissione. Nonostante l'anomalia, segnalata tra reclami feroci dagli aspiranti magistrati, sia stata ignorata dai commissari. Nonostante i candidati, in base alle tante testimonianze consegnate a forum, giornali, avvocati e procura, avessero ampia facoltà di chiacchierare tra di loro, di alzarsi e camminare tra i banchi, di scambiare pareri nelle lunghe file davanti ai bagni durante le prove. Una risposta troppo scarna, di fronte alla coralità e alla puntualità di accuse portate al cuore del concorso pubblico destinato a selezionare i futuri giudici del Paese. Quasi bizzarra, per il governo che si è assunto il fardello di traghettare l'Italia verso una svolta epocale. Sulla testa del ministro Orlando sta per piovere un'interrogazione parlamentare che chiede di annullare il concorso e di «fare chiarezza sulle motivazioni e le cause che hanno comportato il verificarsi dei numerosi casi di irregolarità». Primo firmatario è il senatore Aldo di Biagio, ma l'adesione è trasversale. Nel testo che sarà depositato agli uffici del Senato viene rivelato un nuovo gravissimo episodio su cui la nota di via Arenula ha invece sorvolato: «Il giorno 27 giugno, verso le ore dieci, nel padiglione n.3 - è scritto nel documento - è stata scoperta una candidata che, ben prima della dettatura della traccia, aveva iniziato a scrivere sui fogli protocollati lo schema di un tema sul giudizio di ottemperanza, malgrado non fosse cominciata ufficialmente la prova e non fossero addirittura presenti i membri della Commissione. La candidata veniva presa in consegna da funzionari e dagli agenti della polizia penitenziaria presenti, mentre il foglio protocollato con lo scritto veniva nel frattempo ritirato da un agente della polizia penitenziaria». Ai candidati che chiedevano quali provvedimenti fossero stati presi nei confronti della candidata, riporta ancora l'interrogazione, «il presidente della commissione rispondeva al microfono frasi concitate contro coloro i quali chiedevano chiarimenti, minacciandoli altresì di denunciarli per interruzione di pubblico servizio e si allontanava con la commissione senza dettare alcuna traccia da svolgere». Dopo un'ora, al rientro della commissione (formata da magistrati), la prova è ripresa normalmente e la candidata sorpresa a svolgere la traccia prima della dettatura è stata fatta riaccomodare al suo posto. Non solo: il ritardo così accumulato nel terzo padiglione sarebbe stato motivato - agli occhi degli aspiranti magistrati impegnati negli altri - con la necessità di attendere l'arrivo del candidato sottoposto a dialisi il cui ricorso, nelle settimane precedenti, aveva rischiato di far annullare il concorso. Un'ennesimo tassello in un quadro surreale, di fronte al quale i senatori firmatari si dicono pronti a chiedere anche una commissione d'inchiesta. Un affresco completato anche dal racconto sconfortato che ha fatto a «Il Tempo» un concorrente presente nel terzo padiglione. «Durante una delle prove ho visto un ragazzo alzarsi per ben quattro volte, attraversare l'aula a piedi e venire a parlare con una ragazza facendo finta di soffiarsi il naso. Alla scadenza delle prime due ore almeno 400 persone prendevano d'assalto gli unici due bagni sostando in coda parlando liberamente. Il tutto sotto gli occhi dei controllori, funzionari del ministero della Giustizia e allievi della polizia penitenziaria, che al massimo intervenivano chiedendo di "fare i seri"». «Eppure - ci ha detto con la voce incrinata questo ragazzo, - il regolamento concorsuale che ci hanno consegnato prevedeva l'espulsione per chi comunica durante le prove». Una testimonianza che stride con «la continua opera di vigilanza del personale giudiziario nei padiglioni» rivendicata dal ministero nella sua nota. Da via Arenula si fa notare anzi, a proposito dei tre codici commentati entrati a dispetto dei controlli, come i 29 commissari abbiano dovuto esaminare 30 mila codici. «Nei due giorni precedenti alle prove, divisi per lettera in ciascun padiglione, abbiamo consegnato i nostri codici che sono stati controllati e timbrati davanti ai nostri occhi dai commissari ma anche da sei funzionari del ministero. Mi sembra strano che siano potuti sfuggire quei testi», replica ancora la nostra fonte. Rivelazioni che combaciano con quelle di tanti altri. Alcune sono già arrivate in procura. Mentre gli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, che preparano un ricorso al Tar, hanno raccolto in pochi giorni le segnalazioni di 55 persone che dovrebbero confluire in un esposto/dossier destinato alla magistratura penale.
E da cosa ci dobbiamo meravigliere. Vi ricorderete sicuramente il famoso sms nel quale vi era scritto “Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione», firmato Cosimo Ferri. Un testo che era stato molto contestato e che invece per il sottosegretario era nella norma, un messaggio mandato a degli amici per aiutare degli amici. Indovinate un po’ chi è stato il più votato fra i quattro togati scelti e soprattutto chi c’è tra di loro? Si, è proprio lui, Luca Forteleoni di provenienza Magistratura Indipendente, amico del sottosegretario, è stato il più votato ed ha ottenuto ben 1571 preferenze mentre a seguire sono stati eletti Luca Palamara, pm di Roma ed ex presidente dell’Anm con 1.236 preferenze, il pm di Napoli Antonello Ardituro, ex vicepresidente del sindacato delle toghe, con 1.163 voti, mentre il pm di Sondrio, Fabio Napoleone, 1.127. Ancora una volta abbiamo dimostrato che la politica quando vuole mettere lo zampino da qualche parte ci riesce senza se e senza ma ed infatti l’sms Galeotto ha permesso ancora una volta di mostrarci come il nostro sia il Paese dove ad avere la meglio sono sempre i raccomandati. Poco ci mancava che Cosimo Ferri facesse l’en plein anche con l’altro nominativo, forse però solo in quel caso si sarebbe gridato allo scandalo, nel frattempo tutto procede sotto silenzio e nessuno sembra ricordare la missiva di sabato del sottosegretario e forse anche le raccomandazioni saranno riconosciute per legge…
I precedenti sono eclatanti. Caso P3: al mercato delle toghe. Promozioni, trasferimenti, bocciature: ad aiutare la cosiddetta P3, che tentava di mercanteggiare nomine al Csm, erano magistrati di ogni schieramento. La gogna però è scattata solo per alcuni. Mentre per altri, insospettabili, nessuno si è indignato. Ecco le loro storie, scritte da “Panorama”. L’arma segreta della cosiddetta P3 per occupare la stanza dei bottoni del potere giudiziario, dal Consiglio superiore della magistratura alla Corte costituzionale, era davvero insospettabile. Un rubicondo pensionato settantasettenne di Cervinara (Avellino), geometra con la passione per la giustizia tributaria e i convegni. Conosciuto da tutti a Roma per i suoi pranzi del mercoledì, dove invitava questo o quello, purché togato. Pasqualino Lombardi è stato arrestato su richiesta della procura di Roma con l’accusa di «voler condizionare il funzionamento di organi costituzionali nonché di apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali ». Ma a leggere le carte dell’inchiesta si scopre che quando il geometra raccomanda raramente ottiene e se ci riesce è grazie ad aiuti inaspettati e molto trasversali. Forse perché la sua associazione Diritti e libertà, attiva da 20 anni e impegnata nell’organizzazione di convegni di argomento giuridico, non trovava adesioni solo fra i magistrati moderati e in particolare nella corrente maggioritaria e centrista di Unicost, ma pure nelle file progressiste. Per esempio, al chiacchieratissimo convegno organizzato in provincia di Cagliari nel settembre 2009 hanno partecipato diversi esponenti di Magistratura democratica, le toghe che amano presentarsi come quelle dure e pure. Il presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro è stata fotografata al simposio meneghino del marzo 2009. Per non parlare del meeting di Napoli (novembre 2008), cui parteciparono diversi big della magistratura inquirente d’Italia: da Giandomenico Lepore, procuratore di Napoli, a Franco Roberti, capo dei pm di Salerno e rappresentante di spicco dell’altra corrente di sinistra delle toghe, Movimento per la giustizia (i cosiddetti Verdi), nonché candidato alle ultime primarie per il Csm. Insomma, la presunta loggia tascabile di Lombardi e degli imprenditori Flavio Carboni e Arcangelo Martino prima di finire nei guai mieteva consensi trasversali e adesioni di magistrati di tutti i colori. Nelle sue telefonate Pasqualino raccomanda sempre gente delle sue parti, da Paolo Albano a Giovanni Francesco Izzo, ad Alfonso Marra. «Con loro c’è un rapporto di amicizia ventennale. Mi hanno chiesto un intervento per ottenere o agevolare le rispettive nomine a incarichi direttivi» ha spiegato al gip che lo ha fatto arrestare. Tra gli amici di Lombardi, per gli inquirenti, c’erano pure Gaetano Santamaria Amato e Nicola Cerrato: il primo non ha ricevuto promozioni nell’ultima consiliatura del Csm, mentre il secondo è stato indicato come possibile procuratore di Monza, incassando solo tre preferenze. In attesa che gli inquirenti e gli organi disciplinari valutino responsabilità ed eventuali colpe dei «raccomandati» di Lombardi, è interessante verificare chi li abbia sostenuti all’interno del Csm, l’organo di autogoverno dei giudici. Per esempio, chi ha mandato Izzo a ricoprire la poltrona di procuratore di Nocera Inferiore? Tra i suoi 15 elettori, nel novembre 2009, Izzo ha potuto contare sul sostegno nientemeno che di tre rappresentanti di Md e sui quattro consiglieri laici in quota al centrosinistra. E Albano? Ha ottenuto il posto con ben 17 voti e a sostenerlo sono stati sempre i laici del centrosinistra e il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, che conosce Lombardi dai tempi della vecchia Dc e condivide con lui l’amicizia con Angelo e Giuseppe Gargani, rispettivamente presidente della terza Corte d’assise di Roma ed eurodeputato del Pdl. Ma anche un altro caro amico di Lombardi, Antonio Martone, il 25 giugno 2009 ha conquistato l’ambita promozione ad avvocato generale in Cassazione con solo due voti contrari. Tutti gli altri voti o sono stati favorevoli o hanno segnato un’astensione. Solo Marra, tra gli amici di Lombardi, aveva poco appeal nella gauche giudiziaria. «All’età di 50 anni ogni uomo ha la faccia che si merita» diceva George Orwell. Devono averlo pensato anche i membri del Csm che nei giorni scorsi hanno provato a defenestrarlo a tempo di record dopo averlo promosso appena cinque mesi fa. Uno zelo che ha spazientito il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha invitato tutti «a non gettare in alcun modo ombre sui comportamenti di quei consiglieri che ebbero a pronunciarsi liberamente, al di fuori di ogni condizionamento », sulla nomina di Marra. Anche perché le carte raccontano che, nella campagna per l’ambita poltrona di presidente della Corte d’appello di Milano, Lombardi poté contare soprattutto su Celestina Tinelli, membro laico del Csm in quota Ulivo: «È un casino Pasqualino, guarda... Non so come se ne può uscire». Il motivo di tanto avvilimento era il voto contrario di un consigliere vicino al Pdl. Alla fine Marra la spuntò grazie al soccorso che gli offrirono Tinelli e, ancora, Mancino. A onor del vero bisognerebbe rilevare che l’avversario del vituperato Marra, Renato Rordorf, non era del tutto estraneo al sistema politico. Per esempio, nel 1997, con Romano Prodi presidente del Consiglio, era stato scelto per l’incarico di commissario della Consob, l’organo di controllo della borsa. Ma se Marra è brutto, sporco e cattivo, quando l’ipotetica loggia sostiene giudici progressisti come Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, la presunzione d’innocenza è imprescindibile. Nei mesi scorsi la prima commissione del Csm, con un sonante 5-1, ha proposto il trasferimento d’ufficio del magistrato perché la moglie, Lucia La Corte, vicina a Md come il consorte, è presidente del tribunale per i minorenni di Cagliari e quindi ci sarebbe un’incompatibilità «parentale». Ugo Cappellacci, governatore della Sardegna, registrato dai carabinieri, chiama il «pitreista» Martino per cercare di bloccare il trasferimento: «Perderemmo un amico carissimo e una persona valida». Per questo provano a contattare il consigliere del Csm Cosimo Ferri, che non se li fila. Il 10 marzo scorso, a sorpresa, il plenum ribalta il risultato della commissione, evitando la dolorosa separazione. Salvano la quiete di casa Bonsignore i componenti di sinistra del Csm. Si oppongono solo Ferri e altri tre. Quando, quattro mesi dopo, i giornali pubblicano la raccomandazione di Cappellacci per l’«amico» Bonsignore, c’è la sorpresa. ll 16 luglio il procuratore di Cagliari Mauro Mura e i suoi 20 sostituti vanno da Bonsignore per esprimergli la propria solidarietà, in quanto il «raccomandato» (a sua insaputa, per carità) «impersona meglio di chiunque altro la fedeltà al principio dell’autonomia della magistratura dal potere politico». La presunzione di innocenza è valsa, per fortuna, anche in un’altra situazione un po’ ispida. Il 20 marzo 2008 i vertici dei giudici hanno dovuto attribuire l’incarico di procuratore di Nola. I due candidati erano Paolo Mancuso e Izzo (l’amico di Lombardi). Mancuso è campione di lotta alla camorra, ha diretto la distrettuale antimafia di Napoli ed è legato a Md. Ma nella sua brillante carriera gli è toccato un incontro sconveniente: ha condiviso una battuta di caccia con alcuni personaggi poco raccomandabili. In particolare un uomo all’epoca sotto processo per camorra e già condannato per diversi reati, tra cui omicidio colposo. Mancuso aveva incrociato quel nome almeno una volta, quando aveva controfirmato la sua archiviazione da un’accusa di mafia. Della brigata faceva parte pure un altro pregiudicato che proprio l’ufficio diretto da Mancuso aveva fatto arrestare nel 1996 per traffico di stupefacenti. Davanti al Csm il magistrato si è difeso spiegando che a introdurlo in quella combriccola con la passione della doppietta era stato un insospettabile dirigente di polizia. Risultato: Mancuso viene promosso con i voti della sinistra giudiziaria, Md compresa. Ma che il giudizio del Csm sia slegato dal principio di legalità, però ben ancorato alle logiche correntizie, lo provano le centinaia di ricorsi contro le nomine decise da Palazzo dei marescialli, spesso annullate dalla giustizia amministrativa, tar e Consiglio di Stato. Il motivo? Nella maggior parte dei casi i vincitori non hanno i titoli migliori, dimostrando che il curriculum non è il requisito privilegiato per talune carriere. Tanto che il Csm non accetta quasi mai le bocciature e quando l’annullamento diventa definitivo non di rado ripropone per lo stesso incarico il pretendente appena respinto, come se nulla fosse. Si creano così situazioni come quella di Giovanni Palombarini, noto esponente di Md, candidato due volte come avvocato generale dello Stato e tre per l’incarico di procuratore generale aggiunto presso la Cassazione. La cocciutaggine del parlamentino delle toghe è stata premiata quando il concorrente Antonio Siniscalchi ha dovuto rinunciare per raggiunti limiti di età. Un film con molte repliche, come dimostrano altri estenuanti tiramolla tra Csm e giudici amministrativi, da quello per la nomina del presidente aggiunto di Cassazione al braccio di ferro per la presidenza della Corte d’appello di Venezia. Spesso il Csm raggiunge il proprio obiettivo offrendo ai ricorrenti altri incarichi graditi, come sembra sia avvenuto nella corsa per la prestigiosa scrivania di presidente del tribunale di Roma. Qui, infatti, Paolo De Fiore, frequentatore dei convegni di Lombardi, per stare tranquillo ha dovuto attendere che il collega Bruno Ferraro, vincitore davanti al tar, si accasasse nella vicina Tivoli. A volte occupare un incarico a dispetto dei giudici amministrativi non è motivo di demerito, anzi. Per esempio, il 4 luglio scorso, il presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro, Alberto Liguori, in attesa di essere rimosso, è stato spedito dai suoi colleghi addirittura al Csm. A opporsi a tanta arroganza sono in pochi. In alcuni casi il Consiglio di Stato sanziona le nomine più inspiegabili ordinando risarcimenti. Altre volte, quando il Csm sostiene candidati senza i requisiti, è la stessa Avvocatura dello Stato a sconsigliare di presentare appello contro gli annullamenti. Un esempio? Il 16 settembre 2009, grazie ai voti decisivi dei soliti membri laici del centrosinistra, Umberto Marconi è diventato presidente della Corte d’appello di Salerno. Il tar ha bocciato la nomina e il 18 marzo l’Avvocatura ha suggerito di evitare il ricorso. Il Csm, però, l’ha lasciato al suo posto. Proprio in quei giorni e proprio nell’ufficio di Marconi, secondo gli investigatori, la presunta P3 preparava l’ormai celebre dossier diffamatorio contro il governatore pdl della Campania, Stefano Caldoro.
MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.
IL CSM DEI RACCOMANDATI. Il CSM è l’organo di autogoverno dei magistrati e si occupa principalmente delle promozioni, dei trasferimenti e delle azioni disciplinari nei confronti dei magistrati. Due terzi dei componenti vengono eletti dai magistrati ordinari e sono scelti tra gli stessi appartenenti alla magistratura. Un terzo viene eletto dal parlamento tra professori di materie giuridiche e avvocati. Del CSM fa parte anche il presidente della Repubblica, con il ruolo di presidente, e il primo presidente della Corte di Cassazione ed il procuratore generale della Corte di Cassazione.
«Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Firmato: «Cosimo Ferri», il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. Lo stesso Ferri autore della bozza di riforma della giustizia con la quale ''finalmente finiranno le correnti, le raccomandazioni, e trionferà una volta per tutte la meritocrazia''.
Riforme? State freschi....
Un sms che sta scuotendo la magistratura. E’ un messaggino arrivato su chissà quanti cellulari di giudici e pm che devono votare per il rinnovo del CSM. Perché fa discutere questo messaggio? Per il mittente soprattutto perché a spedirlo è stato il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che ha annunciato la riforma della giustizia in dodici punti, ma soprattutto esponente della corrente più moderata delle toghe, quella di Magistratura indipendente di cui è diventato leader indiscusso.
Nel governo Renzi esistono gli indagati, gli impresentabili, perché pieni di conflitti d'interessi, e i palombari, scrive Carlo Sibilia, M5S Camera. Chiamo "palombari" quelle figure che restano sempre nello sfondo, sotto traccia, sott'acqua. Non si conoscono tanto, non cercano mai troppo i riflettori. Indovinate perché... Vengono spesso lambiti da inchieste e scandali, ma ne escono sempre freschi, puliti e profumati. E poi ritornano a lavorare sott'acqua. Come i palombari. Un esempio abbastanza conosciuto potrebbe essere Gianni Letta, uno che muove i fili ma che non vedi e non senti. Però sai che è sempre li. Oggi vi presento un altro palombaro. Di razza. Uno che, a sua volta, è figlio di palombaro. Ma andiamo con ordine. Il palombaro padre è Enrico Ferri nato a la Spezia il 17 febbraio 1942. Un (ex) politico e magistrato italiano. È stato ministro della Repubblica, segretario nazionale del Partito Socialista Democratico Italiano, poi esponente di Forza Italia, in seguito dell'UDEUR. Europarlamentare dal 1989 al 2004. Noto per aver posto il limite dei 110 km/h in autostrada. Enrico ha 3 figli. Uno è Filippo Ferri ex capo della squadra mobile di Firenze. Noto alle cronache per i fatti della scuola Diaz del 2001: per le violenze fu condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi con interdizione dai pubblici uffici. Come premio, Filippo Ferri, è stato nominato il responsabile della sicurezza del Milan. La squadra di calcio di Silvio Berlusconi. Un altro è Jacopo Ferri, il secondogenito di Enrico, sarebbe potuto essere il capolista del centrodestra alle scorse elezioni a Pontremoli, ma già ricopriva il ruolo di Consigliere Regionale in Toscana. Berlusconiano di ferro dal 2000. E' ancora in consiglio regionale ininterrottamente da 14 anni. Dovete sapere che Pontremoli sta ai Ferri come Nusco ai De Mita e Ceppaloni ai Mastella (come direbbe Mario Lancisi). L'altro, il palombaro del giorno, è Cosimo Ferri. Magistrato prodigio. A soli 35 anni, con 553 preferenze, nel 2006 fu eletto al Csm nonostante fosse rimasto coinvolto in Calciopoli. Tre anni fa si è ritrovato in diverse intercettazioni telefoniche imbarazzanti: P3 e Agcom-Annozero. Mai, però, è stato indagato. Da Calciopoli, invece, è uscito dimettendosi da commissario della Figc, così ha evitato di essere giudicato. Nominato Sottosegretario alla Giustizia con Letta nel 2013 in quota Berlusconi. Poi, quando Berlusca passa alla "finta" opposizione, Letta ne chiede le dimissioni. Lui risponde di essere un tecnico e si tiene la poltrona. Poltrona garantita anche nel "nuovo" governo Renzi più berlusconiano che mai. Dopo questa storia di meritocrazia tutta italiana pensate ci sia necessario aggiungere altro? Dove pensate si annidino i problemi di questo paese?
Csm, votate quei due». Polemica sugli sms del sottosegretario Ferri. Messaggino di Ferri alle toghe con indicazioni per il voto. Accuse dalla sua corrente. Lui si difende: non propaganda, consigli privati, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Apparentemente sembra un messaggio di propaganda elettorale come tanti altri, inviato alla vigilia del rinnovo del Consiglio superiore della magistratura, dove oggi e domani giudici e pubblici ministeri sono chiamati a scegliere nel segreto dell’urna i loro rappresentanti nell’organo di autogoverno. È un testo breve e gentile, quasi discreto, inviato via sms a chissà quanti numeri di telefono: «Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Il problema è la firma, aggiunta subito dopo: «Cosimo Ferri». Cioè il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi, quello che lunedì scorso ha annunciato la Grande Riforma riassunta in dodici punti, che per quanto generici indicano comunque una strada. E al punto quattro recita così: «Csm, più carriera per merito e non grazie all’appartenenza», affermazione di principio corredata da varie e ripetute considerazioni del premier non certo compiacenti verso il correntismo tra le toghe. Ora si dà il caso che il sottosegretario Ferri, giudice e figlio d’arte in vari sensi (suo padre Enrico fu magistrato e componente del Csm, ministro e parlamentare socialdemocratico e poi di FI), rappresenti uno strano caso di commistione tra magistratura e politica. Da sempre esponente della corrente più «moderata» o «di destra» delle toghe, Magistratura indipendente, ne è diventato nel tempo il leader indiscusso. Rimanendo tale anche ora che fa parte dell’esecutivo, dicono i suoi detrattori. E certo il messaggio telefonico di cui ieri è stata data notizia sulle mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e delle varie correnti non aiuta a smentire questa voce. Quando entrò al Csm, qualche anno fa, Ferri ne fu il rappresentante più giovane; poi divenne il più votato nelle elezioni al «parlamentino» interno all’Anm, da segretario della corrente. Infine arrivò la chiamata nel governo di Enrico Letta: sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia, quando il partito di Berlusconi faceva ancora parte della maggioranza. Poi lo scorso anno, dopo la scissione di Alfano e il passaggio di FI all’opposizione, restò nell’esecutivo spiegando di essere un tecnico, riuscendo ad essere confermato anche nella compagine di Renzi. Il quale si sentì rimproverare quella scelta, nel primo Consiglio dei ministri, direttamente dal guardasigilli Orlando, democratico fresco di nomina, anche perché c’era già un viceministro ex berlusconiano designato del Nuovo centro destra di Alfano, Costa; ma il premier replicò che ormai la squadra era fatta e quella rimaneva. In questi mesi ha dunque proseguito nel suo lavoro di sottosegretario, impegnandosi sui testi di riforma (soprattutto nel settore del processo civile) che il governo ha predisposto e si propone di presentare in futuro. Senza però tralasciare una sorta di supervisione nella gestione di Magistratura indipendente, accusa chi - all’interno della corrente - ha creato una vera e propria fronda per contestarne leadership; proprio in nome della netta separazione tra l’amministrazione della politica e quella della giustizia. Tra i contestatori ci sono nomi di peso come l’ex pm di Mani Pulite, oggi giudice di Cassazione, Pier Camillo Davigo, il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, il componente dell’attuale Csm Pepe. Che hanno tentato di contrapporre i loro candidati a quelli «ferriani» nelle elezioni primarie, e ora sostengono altri candidati rispetto a quelli indicati dal sottosegretario. Giudicando quel messaggio telefonico un’interferenza bella e buona; e chiedendosi quale sia l’opinione in proposito del ministro della Giustizia, del presidente del Consiglio e del capo dello Stato. Lui invece, Cosimo Ferri, non vede niente di strano in quel sms inviato a poche ore dal voto. E si stupisce dello stupore altrui: «Sono beghe interne alla magistratura, e purtroppo vedo una strumentalizzazione che mi dispiace, perché in un momento come questo la magistratura avrebbe bisogno di grande serenità, non del nervosismo che traspare in chi vuol montare una polemica inutile, sterile e priva di fondamento, frutto di gelosie e cattiverie». Quando però gli si fa notare che forse non è del tutto normale che un membro del governo, cioè del potere esecutivo, faccia propaganda elettorale per due candidati all’organo di autogoverno di giudici e pubblici ministeri, cioè il potere giudiziario, Ferri risponde: «Ma la propaganda elettorale è tutta un’altra cosa! Io ho inviato un messaggio privato, sono un cittadino che conserva i propri diritti, e sono tuttora un magistrato che andrà a votare per il Csm e sceglierà i candidati che considera migliori. Poi sono anche uno che conosce tanta gente, quando mi sono candidato all’Anm ho preso più voti di tutti, 1.199, mi sembra normale condividere le mie idee. Da privato magistrato, ripeto, non da rappresentante del governo».
Toghe e politici nel marasma per il CSM, scrivono Marco Sarti ed Alessandro Da Rold su “L’inkiesta”. Stavolta magistratura e politica si trovano sulla stessa barca, in un mare in tempesta. Tra i flutti c’è il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno delle toghe che arriva a scadenza dopo quattro anni di mandato. È una delle partite più importanti del 2014, temporalmente vicina alla riforma della giustizia che da qualche settimana ha iniziato a prendere forma a Palazzo Chigi. Eppure vige ancora totale incertezza tanto per gli otto membri laici — la cui nomina spetta al Parlamento — che per i sedici eletti dalla magistratura. Dopo la fumata di nera di oggi, a Montecitorio si è deciso di rimandare il prossimo voto a giovedì 10 luglio. Nel frattempo tra le toghe continua lo scontro, iniziato con la faida in procura di Milano tra il procuratore Capo Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo. È la guerra delle correnti, tra Magistratura Indipendente, Unicost e Magistratura Democratica che cercano di ritagliarsi un posto a palazzo dei Marescialli per i prossimi quattro anni. Ma gli ostacoli lungo la strada sono tanti. E il primo macigno riguarda proprio gli equilibri politici. Alle ultime primarie di fine marzo la corrente di Md, vicina al centrosinistra, è uscita a pezzi. Fusa con i Movimenti nella corrente denominata Area non ha collezionato molti voti, al contrario di Mi e Unicost. È soprattutto la prima, la corrente più vicina al centrodestra, sostenuta dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (fondatore di Magistratura Indipendente, ndr) a vantare in questo momento più consensi tra le toghe. E così con un Parlamento a maggioranza di centrosinistra, potrebbero essere proprio gli otto membri laici a bilanciare gli equilibri. Le toghe trattano da mesi su questa partita. Una scacchiera su cui qualcuno ha deciso di giocare anche le nomine dei nuovi capi della procure di Torino, Bari e Firenze. E forse non è un caso che proprio Md-Area sia riuscita a spuntarla sotto la Mole Antonelliana con uno storico esponente come Armando Spataro, ricompensa per un Csm che si promette a forte trazione di destra. Non solo. Toghe e Parlamento dovranno tenere in conto anche la prossima elezione, a quanto pare sempre più imminente, del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano potrebbe presto lasciare. Eppure secondo la nostra Costituzione è proprio lui a presiedere il Csm. In questi mesi il Capo dello Stato ha dimostrato di essere molto presente nella gestione dell’organo di autogoverno delle toghe (vedi la lettera inviata al vicepresidente Michele Vietti prima della decisione sullo scontro tra Bruti Liberati e Robledo). Intanto si chiude uno dei mandati del Csm più criticati nella storia della Repubblica Italiana, con il vicepresidente Vietti coinvolto di striscio anche in alcune inchieste della magistratura. Come Finmeccanica, dove l’ex ad Giuseppe Orsi avrebbe cercato di contattarlo per depistare le indagini. Nel frattempo alle Camere i partiti faticano a trovare un accordo. Nella giornata di oggi deputati e senatori hanno votato a Montecitorio, senza riuscire ad eleggere gli otto componenti laici del Csm, né i due nuovi giudici della Corte Costituzionale. Il Parlamento in seduta comune ci riproverà giovedì prossimo. Sembra vicina l’intesa per i due giudici della Consulta, anche perché dopo la terza votazione andata a vuoto il quorum richiesto si è abbassato dai 2/3 ai 3/5 dei parlamentari. Circola con insistenza il nome dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, di area Pd. Meno scontata l’altra figura. Dopo aver individuato quattro candidature, il Movimento Cinque Stelle ha deciso di puntare sull’avvocato milanese Felice Besostri, già in prima linea nella lotta contro il Porcellum. Su di lui convergeranno anche altri voti, a partire da quelli di Sinistra Ecologia e Libertà. Rischiano però di non essere sufficienti. Ecco allora che il secondo giudice della Corte Costituzionale potrebbe essere espressione di centrodestra. Qualcuno scommette sul senatore berlusconiano Donato Bruno. Ancora in alto mare l’accordo per gli otto membri del Csm. Cinque dovrebbero essere scelti all’interno della maggioranza (uno potrebbe essere espressione del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano). Gli altri tre dalle opposizioni. Nella commissione Giustizia di Montecitorio si dà per quasi certo il nome della deputata dem Anna Rossomando, avvocato penalista. Molto probabile dovrebbe essere l’elezione dell’ex Guardasigilli Paola Severino, protagonista del governo tecnico di Mario Monti. C’è chi punta sull’esponente Ncd Antonio Leone. Ma è all’interno di Forza Italia che sembra esserci parecchia agitazione. I nomi emersi con insistenza sarebbero almeno tre. Il senatore Ciro Falanga, campano, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Il deputato Carlo Sarro, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio. E Antonio Marotta, deputato anche lui, già membro del Csm una decina di anni fa. Particolare non irrilevante: in caso di elezione al Csm, le dimissioni dal Parlamento di Marotta aprirebbero le porte di Montecitorio ad Amedeo Laboccetta. Primo dei non eletti nella circoscrizione Campania 1 e vice coordinatore regionale di Forza Italia.
Toghe in guerra e la spartizione politica delle procure, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Magistrati sull’orlo di una crisi di nervi. Dopo le polemiche per le primarie del Csm, da cui la sinistra di Magistratura Democratica è uscita con le ossa rotte, continuano le giornate intense tra le toghe italiane, alle prese con l’atteso ricambio dei capi delle procure di Bari, Torino, Salerno e Firenze: in alcuni palazzi di giustizia mancano i «numeri uno» ormai da quasi un anno. Le correnti si muovono in modo inconsulto, già prostrate dalla campagna elettorale e soprattutto dallo scontro senza esclusione di colpi dentro la procura di Milano, tra il pm Alfredo Robledo vicino a Magistratura Indipendente e la guida del palazzaccio Edmondo Bruti Liberati, storico leader di Md. Lo scontro andato in scena al Csm martedì 16 aprile 2014 - nell'ambito dell'istruttoria avviata sull'esposto che Robledo ha presentato contro il suo capo accusandolo di violazioni e irregolarità nell'assegnazione dei procedimenti alla procura di Milano - rischia di avere pesanti ripercussioni sulla procura meneghina. E chissà se pure tra i rapporti di forza tra le varie correnti. «Ne resterà soltanto uno» sostengono gli addetti ai lavori. E dovrebbe essere proprio Bruti Liberati che vanta dalla sua anche la sicura permanenza di Ilda Boccassini alla Dda di Milano: Ilda «la rossa» per questioni burocratiche (non ha presentato i documenti) non corre più per il posto di capo nella Procura di Firenze. La vicenda è attraversata oltre che dai vizi procedurali denunciati da Robledo, da un velo di tipo politico, prettamente correntizio. Il pm napoletano che ha indagato sulla vicenda dei derivati è stato molto preciso nella sua deposizione di fronte alle commissioni a palazzo dei Marescialli. Robledo ha tirato infatti fuori un vecchio episodio, uno screzio avuto proprio con Bruti: «Ricordati che sei qui perchà Md ti ha votato», lo avrebbe apostrofato il capo del palazzaccio (il Palazzo di Giustizia, ndr). Minacce, veti, scelte procedurali, di più se ne saprà dopo Pasqua, mentre proprio Magistratura Indipendenti con Antonello Racanelli parla «di un quadro allarmante e preoccupante della gestione della procura di Milano». Veleni, insinuazioni, mentre al Csm si discute appunto delle attese nomine nelle procure italiane. E anche qui è il mercato «delle vacche», parafrasando una toga di palazzo dei Marescialli. In pratica la corrente Area, quella formata da Md e da In Movimento, sta provando a occupare tutte le caselle dello scacchiere. Ma c’è chi, tra Unicost e Mi, ha iniziato a storcere il naso, anche perché i rapporti di forza devono essere preservati e rispettati. Al momento Armando Spataro, storico pm milanese, vicino ad Area da sempre dentro Md, sembra essere in lizza per la procura di Torino, dove dovrebbe sostituire il rimpianto Giancarlo Caselli. C'è chi lo dà ormai per certo. Spataro in realtà doveva essere dislocato a Firenze, ma all’ultimo ha ritirato la domanda, proprio per virare sotto la Mole Antonelliana. Cosa che ha scatenato problematiche nelle trattative. Perché se Torino e Bari finiscono a «sinistra» - quando la seconda era un tempo a destra con Antonio Laudati - così non può succedere per il capoluogo toscano e per Salerno. Nel capoluogo pugliese appariva quasi scontata fino a un mese fa la nomina di Giovanni Melillo, un interno, poi però cooptato al ministero della Giustizia come capo di gabinetto su scelta del Guardasigilli Andrea Orlando: Melillo appartiene alla corrente Area. In lizza per Bari ci sono a questo punto Giuseppe Volpe - attualmente sostituto procuratore generale in Cassazione - e il procuratore aggiunto di Bari, Pasquale Drago. Peccato che il primo sia sostenuto Magistratura democratica e da Area, il secondo da Unicost, fattore che fa pendere il pendolo delle probabilità proprio su quest’ultimo. A Firenze è il tempo delle incognite. Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, che fu battuto a Marsala da Magistratura Indipendente nel 2008, quando fu eletto Girolamo Alberto detto il "corvo”, potrebbe avere qualche possibilità. Ma anche qui si fa largo Unicost con Armando D’Alterio, procuratore di Campobasso. Per la procura fiorentina c’è in pista anche Lucia Lotti, toscana e procuratore a Gela, molto stimata, della corrente di Md. Infine a Salerno, per il dopo Franco Roberti, da sempre in una corrente di sinistra, si fa largo invece Corrado Lembo, procuratore capo a Santa Maria Capo, storico esponente di Magistratura Indipendente, quindi di destra. E qui c'è chi fa notare, soprattutto a sinistra, che il figlio di Lembo, Andrea; fa politica proprio nel salernitano. Un modo per ostacolarlo?
Denunce e faide: i magistrati peggio dei politici, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Da Mani Pulite a Toghe Pulite. A distanza di vent’anni da Tangentopoli, quando notorietà e consensi erano agli apici, la magistratura italiana vive uno dei momenti più difficili della sua storia, spaccata tra le correnti, mal digerita agli occhi dell’opinione pubblica per la lungaggine dei processi e per i costi, in una guerra senza esclusione di colpi tra articoli sui giornali e persino indagini della stessa magistratura. Tra due settimane, il 25, 26 e 27 marzo, ci saranno le primarie per nominare i candidati al rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. La campagna elettorale è in corso, tra spamming via mail, aperitivi e comizi nei vari tribunali, nello stile perfetto della nostra politica. C’è chi a bassa voce se ne lamenta, cercando di evitare di essere coinvolto. E a quanto pare sono tanti a cestinare missive di ogni tipo, dove si tengono «diari» della campagna elettorale o si citano frasi a effetto per conquistare qualche voto in più. Tre le correnti in campo: Unicost (sorta di Democrazia Cristiana delle toghe), Magistratura Indipendente (più vicina alla destra) e Area (zona centrosinistra). C'è poi il comitato Altra Proposta che in pratica si oppone a tutte le correnti e vorrebbe nuove regole di rappresentanza dell'autogoverno dei magistrati. Nel mentre l’attuale Csm deve nominare il nuovi procuratori capo di Torino, Bari, Salerno e Firenze. Alcune sedi sono vacanti da mesi, ma l’incrocio elettorale è talmente micidiale, tra logiche correntizie e di potere, che è stato tutto spostato a data da destinarsi. Si parla di inizio aprile, ma lo stesso vicepresidente del Csm Michele Vietti non ha ancora dato un data precisa. Ad aggiungere benzina sul fuoco, in questi giorni, si è messo Alfredo Robledo (vicino a Magistratura Indipendente), procuratore capo del pool contro i reati della pubblica amministrazione di Milano, che ha denunciato al Csm il Capo della Procura Edmondo Bruti Liberati perché avrebbe «turbato» e «turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio»: una bomba atomica, scagliata contro uno degli storici leader di Magistratura Democratica, ora confluita in Area, ma soprattutto contro Francesco Greco capo del pool per reati finanziari e protagonista proprio di Tangentopoli con l'ex pm Antonio Di Pietro. Il fascicolo non è ancora arrivato sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, ma molti consiglieri hanno letto la notizia sul Corriere della Sera. Nei prossimi giorni la denuncia sarà girata con tutta probabilità alla prima commissione, quella addetta appunto a «rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati». Al tribunale di Milano parlano già di guerra senza esclusioni di colpi. Il clima è irrespirabile, considerando che l’ufficio di Robledo è a pochi metri da quello di Bruti Liberati. Quest’ultimo, intercettato dai cronisti, ha preferito non commentare, idem per Greco, storico pm di Mani Pulite, adesso nel calderone della denuncia, già accusato di non aver indagato su diversi reati fiscali e in particolare su Sea. Del resto, Robledo, in questo documento di 12 pagine, parla di violazione dei «criteri organizzativi» e racconta nel dettaglio diversi punti di rottura con il resto della procura. Come quando nel 2011, in seguito allo scoppio dell’indagine sull’Ospedale San Raffaele che avrebbe poi travolto la giunta lombarda di Roberto Formigoni, fu proprio Bruti Liberati, secondo Robledo, a sottolineare «che si trattava di una situazione molto delicata, essendo in corso trattative sulle quali non avrebbe voluto che le indagini influissero in qualunque modo». È un attacco pesante che avviene nel cuore di quel Palazzaccio che vent’anni fa si forgiava dei galloni per aver debellato la corruzione nella politica italiana, indagando sul Psi di Bettino Craxi e la Dc di Arnaldo Forlani. Ma da allora pare quasi che l’incantesimo della magistratura con i cittadini si sia spezzato. I sondaggi degli ultimi anni, spesso molto sporadici, sono in picchiata. Più del 50% degli italiani sostiene di non credere più nella giustizia. Non solo. I dati europei non sono confortanti. La giustizia civile italiana è la più lenta d’Europa dopo quella maltese e la prima per casi pendenti che attendono ancora una sentenza definitiva. È il risultato che emerge dal Quadro di valutazione Ue della giustizia 2014. «Sono preoccupata per quei Paesi che sono in fondo alla lista”, e dove magari “non ci sono progressi ma regressi”, ha affermato la commissaria alla Giustizia, Viviane Reding. Non solo. Per finanziare il sistema giudiziario in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema più snello che pare funzionare. La nostra nazione ha il maggior numero di casi civili pendenti, ben 4 milioni e 986 mila. I tempi sono lunghissimi: in media circa 600 giorni per una sentenza solo di primo grado. Il quadro, in sostanza, non è per nulla confortante. E questo si aggiunge a faide su faide, in particolare proprio a Milano, dove i magistrati continuano a darsele di santa ragione. A ottobre, prima di Bruti Liberati e Greco, è stato il turno della Boccassini. «I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia» disse durante un convegno alla Bocconi l’11 ottobre. Apriti cielo. Le toghe di provincia decisero di intervenire con un esposto sempre al Csm chiedendo all'organo di autogoverno delle toghe, di valutare le affermazioni a loro avviso «gratuite», «denigratorie» e «generiche» pronunciate da Ilda la Rossa. Da Milano a Torino fino a Firenze e Napoli è un brulicare di veleni e sospetti. Sotto la Mole Antonelliana ha da poco lasciato il posto Giancarlo Caselli, non senza polemiche. A novembre lasciò Magistratura Democratica dopo averla fondata e dopo anni di militanza. Il motivo fu un contributo dello scrittore Erri De Luca al giornale della corrente togata cosiddetta «rossa». In modo velato si parlava della rivoluzione degli anni ’70 e si dava solidarietà ai No Tav della Val Susa, che sono stati indagati e arrestati proprio dalla procura allora guidata da Caselli (oggi in pensione) lo scorso anno per le violenze al cantiere e, per alcuni, atti di terrorismo. Il magistrato di Alessandria se ne andò sbattendo la porta. A tutto questo si aggiungano pure le inchieste piovute sullo stesso Vietti e sugli ex magistrati che sono stati coinvolti nello scandalo Finmeccanica, con al centro una commessa da 550 milioni di euro per 12 elicotteri in India. L’ex presidente della corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti, diventati consulenti di piazza Montegrappa, finirono nel tritacarne, indagati in un procedimento connesso. Il giudice per le indagini preliminari di Busto Arsizio, Bruno Labianca, scrisse: «Gli indagati, informati dell’esistenza di una indagine giudiziaria si sono attivati a porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove, anche con tentativi di pretesa modifica della linea operativa dell’ufficio inquirente che procede e con l’asservimento o, quanto meno la compiacenza presso i maggiori organi di stampa». L'ennesima faida di una magistratura ormai allo sbando.
MAGISTRATI. SI DIVENTA COL TRUCCO.
Tracce diffuse in anticipo. Venerdì scorso 27 giugno 2014, padiglione numero 3 della nuova Fiera di Roma. Sta per cominciare la terza prova del concorso per diventare magistrato, quasi 7 mila partecipanti per 365 posti. La traccia non è stata ancora letta ma una ragazza seduta verso il fondo della sala comincia a scrivere sui fogli timbrati che la commissione ha appena distribuito. Parte da qui il giallo che rischia di travolgere un concorso atteso da più di due anni, scrive Lorenzo Salvia su “Il Corriere della Sera”. In quel momento nessuno sa ancora quale sarà l’argomento del compito di diritto amministrativo ma la ragazza comincia a scrivere su un tema preciso, il giudizio di ottemperanza. I suoi vicini di banco iniziano ad urlare, chiedono l’intervento degli ispettori che girano fra i banchi. Chiedono che sia espulsa. Dicono che, evidentemente, conosceva la traccia in anticipo. Per trovare una soluzione arriva il presidente della commissione, il magistrato di Cassazione Antonio Prestipino. Dice ai candidati che se il compito sarà davvero su quell’argomento la ragazza sarà espulsa. Ma per il momento no, resta al suo posto. Nel padiglione tira aria di ammutinamento: «Noi l’esame non lo facciamo» urlano in coro molti di loro. Passano più di due ore prima che le tracce vengano lette. No, la materia non è quella «prevista» dalla candidata «sospetta». La ragazza resta al suo posto. Ma in aula si sparge la voce che nei cestini del bagno sono state trovate tutte le tracce, sia il titolo che lo svolgimento. Che lo stesso sarebbe successo il giorno prima per la prova di diritto penale. E che quelle due ore di blocco sarebbero servite alla commissione per cambiare al volo le tracce, in modo da evitare quella pericolosa coincidenza che avrebbe mandato a monte tutto il concorso. A giorni di distanza lo raccontano alcuni candidati, chiedendo l’anonimato. Ma, ufficialmente, questa ricostruzione viene smentita. «Sono solo persone in malafede che vogliono sabotare il concorso - dice il presidente della commissione Prestipino - forse perché sanno che la loro prova non è andata bene». Il magistrato nega il ritrovamento dei compiti nei bagni e che la commissione abbia cambiato al volo i temi. Conferma l’episodio della ragazza ma lo spiega così: «Erano solo degli schemi generali su un argomento che lei riteneva probabile uscisse ma che poi non è uscito. Davvero non capisco dove sia il problema». E quelle due ore di stop prima di leggere le tracce? «Nessun cambio di programma. Abbiamo cominciato più tardi per dare più tempo ad un candidato che tra una prova e l’altra doveva fare la dialisi». Ma il giallo della ragazza non è l’unico fatto contestato. Diversi candidati sono stati espulsi perché pizzicati in aula con i codici commentati, che non sono ammessi. Alcuni colleghi, sempre dietro anonimato, sostengono però di averli visti partecipare alle prove ma in una sala diversa. Una finta espulsione, insomma. «Ma figuriamoci - dice il presidente della commissione Prestipino - tra poco diranno pure che sono anche un trafficante di droga, di armi e di bambini. Senza una denuncia formale e senza una prova concreta queste voci, che sono arrivate pure a me, non valgono niente». Il magistrato si dice «già pentito» di aver accettato l’incarico di guidare la commissione. «Quello che sta accadendo è un segno dei tempi. Questo è l’unico concorso pubblico rimasto in piedi, la gente arriva con il coltello fra i denti ed è disposta a tutto pur di arrivare in fondo». Teme ricorsi? «Possibile che ci saranno, e questo rischia di allungare i tempi». In fondo, per chi vuole diventare magistrato, un assaggio del lavoro che verrà.
Concorso magistratura 2014: caos alle prove, annullamento vicino. Agli scritti lamentate irregolarità di ogni tipo. Cosa è successo, scrive “Leggi Oggi”. Magistratura 2014: aria di clamoroso annullamento. A pochissimi giorni dalle prove scritte di una delle selezioni pubbliche più discusse degli ultimi tempi, è un caos completo quello in cui si stanno muovendo Procura di Roma, Codacons e migliaia di candidati inviperiti. Dopo il tira e molla sulla date, infine confermate, erano 365 i posti disponibili in magistratura, messi a bando con il concorso più atteso dalle aspiranti toghe. Tanto è vero che ai blocchi di partenza si sono presentati un numero di iscritti venti volte superiore a quello dei futuri vincitori. Insomma, già di per sé, dando per assunto che tutto si sarebbe svolto nella massima regolarità, un compito davvero difficile attendeva gli oltre 7mila candidati - sulle 20 domande - che hanno presentato domanda di trovare un posto in Procura. Purtroppo, però, è arrivata prima la Procura da loro, che non il contrario. Già al terzo giorno consecutivo di prove, infatti, lo scorso venerdì 27 giugno, si sono sollevate forti rimostranze a opera di alcuni iscritti, che lamentavano palesi irregolarità nello svolgimento del test. Tutto ciò, nonostante fossero state prese le solite precauzioni per questo genere di appuntamenti: ritiro coatto degli smartphone a tutti i candidati, divisione delle singole postazioni per evitare collaborazioni e gli altri accorgimenti contro i soliti furbetti. E invece, qualcosa dev’essere andato storto, dal momento che molti dei candidati hanno denunciato comportamenti al limite dell’incredibile, con concorrenti pizzicati a consultare indisturbati codici commentati, o, ancora, veri e propri gruppetti organizzati per risolvere la prova in comune, che si sarebbero visti soltanto rimproverare il rumore procurato. E tutto ciò, nell’indifferenza dei vigilanti: nessuna misura sarebbe infatti stata presa dai magistrati presenti, né provvedimenti disciplinari per i rei che, sotto gli occhi di tutti, avrebbero fatto il proprio comodo nelle ore di test. Peccato, però, che l’assenza di smartphone o altri dispositivi in grado di registrare fosse stata inibita al candidati, cosicché i coraggiosi che hanno gridato il proprio sdegno in Procura non hanno potuto portare prove concrete a suffragio. O, meglio, gli unici a cui era stato consentito tenere di nascosto i telefonini, sarebbero stati quei pochi favoriti dai commissari. Nel frattempo, il Codacons ha chiesto di poter consultare i verbali della commissione. Intanto, dal governo silenzio completo sulla faccenda. Lunedì, potrebbe tenersi un nuovo episodio: i concorrenti del concorso magistratura 2014 hanno infatti indetto una protesta simbolica in piazza, mentre in rete si ingrossa la rabbia dei tantissimi indignati per le scene viste in sede d’esame, ormai condivise tra i tanti aspiranti che si sentono defraudati del sogno della vita.
Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti, codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.
Il trucco, si sa, vien da lontano. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Ed ancora......"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso nel 2008, scrive Luca Fazzo su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.
Le toghe ignoranti, inchiesta di Fabrizio Gatti sul "L'Espresso". Rimasta doverosamente ignorata dai media ossequiosi del potere giudiziario. Al popolino meglio non far sapere in che mani sono poste le loro vite.
Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nel 2010 nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame. Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile 2010. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
PARLIAMO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. SONO LORO A DOVER SVELARE I CONCORSI TRUCCATI. Scrive “Il Fatto Quotidiano”: Fermate quel concorso al Tar. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si sta svolgendo in questo periodo un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Ora, il dubbio è questo. Se un candidato è entrato in aula con i compiti già svolti, davvero può ritenersi certo che il concorso si sia svolto regolarmente per gli altri candidati? O non è forse legittimo sospettare che i compiti possano averli avuti anche altri candidati? E allora, perché la commissione (composta quasi tutta da magistrati amministrativi e nominata di fatto dal Cpga) non ha annullato il concorso in via di autotutela? Ho già scritto in un altro post la incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Orbene, anche in questo concorso la vittoria del blasonato fratello Mattei era ampiamente anticipata da voci correnti, prima ancora della apertura delle buste contenenti i nomi, tanto da indurmi personalmente (anche per la mia qualità di Presidente di una, pur piccola, associazione di Magistrati) a formalizzare una lettera di chiarimenti, regolarmente protocollata presso l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi. Un’ipotesi rara, in cui è addirittura formalizzato ufficialmente quello che si dice che accadrà di un concorso per l’accesso in magistratura (già oggetto di indagini penali) e che si verifica puntualmente. La mia richiesta di chiarimenti purtroppo non ha mai avuto risposta, mentre pare sia notizia di questi giorni che il fratello Mattei abbia passato gli scritti del concorso per 15 soli posti. Come dicevo, il condizionale è d’obbligo, non avendo il Cpga rilasciato, almeno sinora, alcun comunicato. Vedremo, ma intanto una certezza vi è già: la commissione nominata dal Cpga non ha attivato le pratiche per annullare quel concorso e la mia lettera sulle anticipatorie voci relative alla vittoria del Mattei giace da mesi in qualche cassetto, regolarmente protocollata.
Da "Il Corriere della Sera", invece.....Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo scrivono: Più «amanti» per tutti. Ricordate come il giudice Aldo Quartulli definì gli arbitrati, che consentono ai magistrati amministrativi di guadagnare soldi extra? «Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante». Bene: dopo essere stati più volte aboliti e ripristinati, stanno per tornare alla grande. Grazie a un emendamento che andrà in discussione proprio martedì. Il cuore dell'emendamento, firmato da tre senatori del Pdl, Massimo Baldini, Valter Zanetta e Luigi Grillo (il presidente della commissione Lavori pubblici del Senato rinviato a giudizio per concorso in aggiotaggio per i suoi rapporti con Giampiero Fiorani) è racchiuso in una sola riga: «Sono abrogati i commi 19, 20, 21 e 22 dell'articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244». Arabo, per i non addetti ai lavori. Ma l'obiettivo è chiaro: vengono abolite le norme introdotte nell'ultima finanziaria del governo Prodi che vietavano alle pubbliche amministrazioni, senza eccezioni, di stipulare contratti contenenti la clausola del ricorso all'arbitrato in caso di disaccordo. Pena, l'intervento della Corte dei conti e pesanti sanzioni. Riassumiamo? Gli arbitrati (aboliti dal governo Ciampi, ripristinati da Berlusconi, ri-aboliti da Dini e via così…) sono una specie di corsia preferenziale parallela alle cause civili. Se l'ente pubblico che ha commissionato un lavoro e chi quel lavoro lo ha eseguito vanno a litigare sui soldi, possono chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non sia la lentissima giustizia civile ma una specie di giurì. Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell'altro e i due insieme nominano il presidente. Niente di male, apparentemente. Se non fosse per due nodi. Primo: gli «arbitri» sono spesso giudici chiamati a decidere «privatamente » su cose che a volte toccano lo stesso Comune, la stessa Provincia, la stessa Regione o lo stesso Ministero su cui possono essere delegati a decidere nelle vesti di membri dei Tar o del Consiglio di Stato. Secondo nodo: stando ai dati del presidente dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici Luigi Giampaolino, lo Stato (guarda coincidenza…) perde sempre. O quasi sempre: in 279 arbitrati in due anni tra il luglio 2005 e il giugno 2007, ha vinto appena 15 volte. Sconfitto nel 94,6% dei casi, ha dovuto pagare alle imprese private 715 milioni di euro. Pari al costo del Passante di Mestre. Va da sé che, oltre ai privati, hanno esultato gli arbitri. Che si sono messi in tasca, euro più euro meno, una cinquantina di milioni. Una cosa «indecorosa», diceva un tempo Franco Frattini invocando «l'incompatibilità totale fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi ». «Inaccettabile», concorda il Csm che da anni non consente ai giudici civili e penali di accettare arbitrati. «Indecente», insiste Antonio Di Pietro, che più di tutti ha spinto, da ministro delle Infrastrutture, per mettere fine all'andazzo. Macché: di proroga in proroga, è rimasto tutto come prima. E il divieto assoluto di ricorrere all'arbitrato non è mai entrato, di fatto, in vigore. Peggio: l'emendamento Grillo- Baldini-Zanetta non si limita a ripristinare gli arbitrati. Va oltre. E stabilisce una specie di percorso automatico: o l'ente pubblico e l'impresa privata che vanno in lite si accordano entro un mese oppure, senza più le procedure di prima, si va dritti alla composizione arbitrale. E dato che in questi casi lo Stato perde quasi sempre, va da sé che questo potrebbe spingere perfino le amministrazioni più riluttanti, per non subire oltre il danno la beffa di dover pagare avvocati e spese processuali, a rassegnarsi alla «proposta di accordo bonario». Cioè alle richieste delle imprese. Coscienti di spazzare via tre lustri di tentativi di moralizzazione avviati da Carlo Azeglio Ciampi, gli autori dell'emendamento hanno sciolto nella pozione uno zuccherino: il dimezzamento dei compensi minimi e massimi dovuti agli arbitri. Evviva! Fermi tutti: salvo la possibilità di aumentare del 25% le parcelle «in merito alla eccezionale complessità delle questioni trattate, alla specifiche competenze utilizzate e all'effettivo lavoro svolto». E chi decide l'aumento? Gli arbitri stessi. Non bastasse, la sconcertante manovra per rilanciare gli arbitrati mai aboliti arriva nella scia di altri due episodi, diciamo così, controversi, che riguardano gli stessi magistrati amministrativi, da sempre cooptati a decine in questo e quel governo, di sinistra o di destra, come capi di gabinetto o responsabili degli uffici legislativi. Incarichi che ricoprono continuando a progredire nella carriera giudiziaria come fossero quotidianamente presenti e cumulando i due stipendi. Il primo è la decisione di spostare la definizione delle norme che dovrebbero regolare gli incarichi pubblici. Abolito il tetto massimo di 289 mila euro fissato da Prodi, tetto che arginava alcuni stipendi stratosferici, il governo si era impegnato a fissare le nuove regole entro il 31 ottobre. Macché: tutto rinviato. Nel frattempo non solo tutto resta come prima, ma alcune società pubbliche come il Poligrafico, la Fincantieri o l'Anas hanno rimosso dai loro siti l'elenco delle consulenze e il loro importo, vale a dire uno dei fiori all'occhiello rivendicato sia dal vecchio governo di sinistra sia da Renato Brunetta. Ma la seconda «eccentricità» è forse ancora più curiosa. Riguarda un concorso. Erano in palio 29 posti di «referendario» (traduzione: giudice) nei Tar. Presidente della Commissione: Pasquale De Lise, «aggiunto» del Consiglio di Stato e autore di una celebre battuta sugli arbitrati suoi: «Il guadagno legittimo di qualche soldo». Partecipanti: 415 candidati. Ammessi agli orali, svoltisi in queste settimane: 30. E chi c'è, tra questi promossi? Una è Paola Palmarini, docente alla Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze di cui tempo fa era rettore il marito, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti nonché membro del Consiglio di Presidenza, cioè dell'organo di autogoverno delegato a nominare le commissioni d'esame. Un'altra è Anna Corrado, moglie di Salvatore Mezzacapo, giudice dei Tar e lui stesso membro dell'organo di autogoverno che sceglie le commissioni. Il terzo è Enrico Mattei fratello del magistrato del Tar Fabio Mattei, ammesso agli orali (dopo essere stato inizialmente scartato), grazie a una sentenza del Tar Lombardia firmata da Pier Maria Piacentini, il quale non molto tempo prima aveva avuto dal già citato organo di autogoverno l'autorizzazione ad assumere un incarico molto ben remunerato «di studio e approfondimento dei problemi concernenti concessioni di valorizzazione dei beni demaniali». Incarico «conferito dal Direttore dell'Agenzia del Demanio ». Cioè dalle Finanze.
Ed ancora da “Il Fatto Quotidiano”. Fermate quel concorso per Consigliere di Stato! Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse ieri le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Ma i fatti più gravi sono altri due. In primo luogo la celebrazione, nel giorno di pausa tra le varie prove scritte, di una seduta (che è pubblica) dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa nella sala ove si stava tenendo il concorso, senza spostare i codici legislativi portati dai concorrenti, che sono quindi rimasti accessibili da parte di persone esterne al concorso. In secondo luogo la violazione del principio dell’anonimato: diversamente dagli altri concorsi pubblici, la commissione ha costretto i candidati che avevano bisogno di fogli aggiuntivi per scrivere i temi, a compilare un modulo già predisposto, indicando il numero di fogli presi e firmandolo. In questo modo la commissione, aprendo le buste con le prove da correggere ed incrociando i dati sul numero di fogli aggiuntivi richiesti, ancor prima di aprire la busta con il nominativo del candidato al termine della correzione di tutte le prove, è in grado di conoscere chi dei (soli) 29 concorrenti ha scritto quel tema che si sta correggendo. Per essere più chiari, la commissione sa sin da ora che l’ottimo V. è l’unico ad aver richiesto 12 fogli aggiuntivi per la prova di amministrativo e 14 per la sentenza e 14 per il diritto internazionale. Che lo studiosissimo M. è l’unico ad averne richiesti sempre 8, nei primi tre giorni di prova. Che il bravissimo P. ne ha chiesti 13 per redigere la sentenza, mentre la diligentissima D. ne ha presi 5 per la prova di tributario e amministrativo e 8 per la sentenza. Il bravissimo D. ne ha presi 3 per diritto tributario, 6 per diritto amministrativo, 5 per la sentenza, mentre V. ne ha richiesti, per le stesse prove, rispettivamente 5, 4 e 4. E via dicendo per tutti gli altri concorrenti. Una procedura che rende quindi inutili tutte le accortezze previste per garantire l’anonimato e che, in considerazione del basso numero di concorrenti, avrebbe potuto facilmente essere evitata consegnando un numero maggiore di fogli a tutti i candidati o, semplicemente, non operando il “censimento”. Non è la prima volta che le prove di concorso del massimo organo (il Consiglio di Stato) deputato a giudicare della regolarità di tutti i concorsi pubblici italiani sono oggetto di irregolarità e polemiche: dopo il c.d. “caso Giovagnoli“, nel 2010 il Tar del Lazio ha dichiarato illegittimi i concorsi celebrati negli anni 2006 e 2007. Nel concorso del 2009 sono state corrette circa 700 pagine di compiti in poco più di 3 ore, per una media di 3,5 pagine al minuto: un record da guiness dei primati. Nel 2010, invece, ha vinto un candidato che aveva scritto un libro il cui titolo era esattamente identico al titolo della prova scritta di diritto civile.
Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!
Riguardo il concorso di abilitazione alla magistratura vi è un commento di Valentina Dubini pubblicata su La Voce di Robin Hood. In seguito alle molte richieste e al grande interesse suscitato nei nostri lettori, dalla pubblicazione degli articoli "i veli sui concorsi truccati dei magistrati" e sul livello di credibilità sempre più basso della magistratura italiana vogliamo presentare un breve excursus dal 1992 ad oggi dei casi più salienti, per vedere cosa è stato fatto e se realmente qualcosa è cambiato. Con il primo articolo del 2007 apparso sul tema un nostro anziano avvocato si domandava di quale credibilità potesse ancora godere la magistratura italiana se gli stessi concorsi per entrare a farne parte continuavano ad apparire poco trasparenti, come denunciato nei decenni precedenti da molteplici candidati, senza che si sia mai fatta piena luce sui diversi episodi di brogli e corruzione emersi in ogni parte d'Italia.
Correva l'anno 1992, quando trapelò per la prima volta che anche i concorsi per magistrati venivano truccati col beneplacito del Ministero di Giustizia e degli apparati di vigilanza: "Verbali sottoscritti da gente che non c'era, fascicoli spariti, elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto". Passarono poi ben 13 lunghi anni prima di venire a sapere tramite un articolo di denuncia del Corriere della Sera, pubblicato nel 2005, che i gravi fatti del 1992 non avevano ancora trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia amministrativa italiana né tantomeno sanzione penale.
Nel 2005, nonostante l'autorevole denuncia di Silvio Pieri, ex Procuratore Generale del Piemonte, e le diverse interrogazioni parlamentari sul tema, la scandalosa vicenda del concorso truccato del 1992, risultava finita nel porto delle nebbie, così come ogni altra successiva denuncia del genere. Vale la pena qui ricordare il suggestivo episodio della fotocopiatrice integerrima che smascherò il broglio di una componente della commissione esaminatrice della sessione del marzo 2002 e al contempo magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d' Appello di Napoli, la quale cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm, della corrente di Unicost, sostituendo clandestinamente durante la notte la prova giudicata negativa della sua protetta, ma venendo tradita dall'eccesso di zelo dell'incorruttibile copiatrice, utilizzata nottetempo dall'alto magistrato, che ripartendo al mattino misticamente vomitava fiumi di copie delle pagine contraffatte dalla giudice Dr.ssa Clotilde Renna.
Negli anni successivi, neppure l'agguerrito Ministro Alfano, al pari del Guardasigilli di centro-sinistra Mastella, provava a scalfire l'impenetrabile muro di gomma eretto dalla casta e dalle massomafie che la proteggono, sui criteri e le procedure che governano l'accesso alla magistratura. L'argomento, evidentemente troppo scottante anche per i falsi neoliberisti e i rampanti filoberlusconiani che sulla corruzione giudiziaria hanno prosperato, costruendo la loro fortuna economica e politica, continua così ad essere un tabù di cui nessuno si occupa.
Correva l'anno 2008, quando scoppia il nuovo caso della Fiera di Milano-Rho, in occasione dell'ennesimo Concorso Nazionale per Uditore Giudiziario truccato. Tra i 5600 aspiranti magistrati per soli 500 posti si scopre che c'è chi si può permettere di introdurre impunemente telefonini, appunti, codici "irregolari", rispetto alle norme dettate dal concorso e addirittura libri di testo, tanto da scatenare un vero e proprio putiferio. Mentre decine di candidati urlavano in piedi "vergogna!", un altro gruppo esprimeva il proprio sdegno chiedendo di annullare la prova.
Ma "more solito" tutto vien presto messo a tacere e il livello di preparazione e di moralità dei giudici italiani e la conseguente disponibilità a "non lasciarsi ammorbidire dal potere", restano quelli che tutti abbiamo avanti agli occhi ogni giorno nelle aule d'udienza: aperto favoreggiamento dei più forti, nepotismo, corporativismo, prepotenza e arroganza mischiate spesso ad aperta ignoranza ed assenza di rispetto nei confronti di avvocati e soggetti più deboli. (C'è persino chi scrive durante la prova riscuotere con la "q", chi confonde la Corte dell'Aja con la «Corte dell'Aiax», o un maturo Presidente di sezione di Corte d'Appello civile a Milano che alle soglie della pensione non conosceva neppure la differenza tra un reclamo in corso di causa ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c. proposto al collegio da uno ex art. 669 septies c.p.c. proposto allo stesso giudice di merito).
La casta corrotta al pari della classe politica si protegge per autoriprodursi. Ma la cosa che più fa scalpore nel caso del concorso di Rho è il fatto che, messi a parte i dissidi tra il Guardasigilli Alfano e il C.S.M., è lo stesso organo di autogoverno della magistratura a richiedere con voto a maggioranza la frettolosa archiviazione del caso. Tutto normale anche per il Ministero di Giustizia, nonostante le molteplici denunce inquietanti di tanti candidati che segnalavano con dovizia di particolari come durante la prova milanese fossero saltate tutte le regole del gioco e che rampolli figli di noti magistrati avessero potuto fruire del tutto indisturbati di materiale vietato. Circostanza veramente anomala tenuto conto che il concorso per magistrati è ritenuto l'esame più controllato nel nostro Paese. I testi a disposizione dei candidati prima di venire ammessi e introdotti in aula vengono preventivamente verificati e timbrati da un'apposita commissione esaminatrice. Un cancelliere di Tribunale controlla siano realmente dei codici, che non vi siano nascosti appunti o fogli volanti e che siano conformi al bando. I nuovi brogli di Milano-Rho non potevano quindi venire liquidati, ancora una volta, laconicamente e senza alcuna indagine, per coprire le solite spinte corporative e gli oscuri interessi di chi controlla e manipola nell'ombra l'accesso in magistratura, prediligendo le logore logiche di nepotismo e di clientelismo, da cui si alimentano solo le massomafie, il malaffare e non di certo la legalità. Le molteplici proteste dei candidati della prova svoltasi alla Fiera di Milano-Rho per cui dovette persino intervenire la Polizia Penitenziaria per proteggere la commissione esaminatrice cieca, sorda e complice, non sono quindi ancora una volta servite a nulla.
La complicità della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Una cinquantina di candidati si recò in Procura a Milano per denunciare la gravità dei fatti di cui erano stati diretti testimoni, percependo che la Commissione intendesse mettere tutto a tacere per favorire i soliti raccomandati. Ma il procedimento, come di rito, viene frettolosamente archiviato, nonostante la quantità delle denunzie e la convergenza delle testimonianze, tutte acclaranti gravi irregolarità. Ciò, peraltro, senza disporre alcuna accurata necessaria indagine, seppure l'indignazione avesse inondato i siti web, estendendosi agli stessi consiglieri togati del Movimento per la giustizia e Magistratura Democratica che chiedevano un'inchiesta del Csm sulle innumerevoli irregolarità denunciate dai candidati. Dai media si apprende della richiesta di apertura di un fascicolo da parte della 9° Commissione di Palazzo dei Marescialli con l'obiettivo di "avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell'assoluta affidabilità della procedura di selezione". Ma, come denunciato, il 19 dicembre il C.S.M. definiva con una frettolosa archiviazione, eludendo ogni accertamento sullo svolgimento delle prove scritte del concorso indetto con D.M. 27/2/2008, svoltesi a Milano nei giorni 19/21 novembre 2008. La pratica era stata aperta da "I Giovani Magistrati", all'indomani delle inquietanti notizie fornite da stampa e televisione, in ordine alle modalità di espletamento del concorso. Dal sito www.movimentoperlagiustizia.it si apprende che nel corso della discussione plenaria, i consiglieri del Movimento per la giustizia chiesero invano il ritorno della pratica in Commissione per l'espletamento di ulteriore attività istruttoria, già inutilmente da loro richiesta anche in sede di Commissione, non condividendo la circostanza che la Commissione avesse voluto frettolosamente portare all'attenzione del plenum del C.S.M. una delibera monca, articolata sulla base di un'attività istruttoria carente, costituita essenzialmente dall'acquisizione delle sole relazioni del presidente della commissione di concorso (17, 20, 22 nov. e 1.12.08) e del direttore generale direzione magistrati del Ministero (25.11 e 9.12), nonché dalle audizioni dei commissari di concorso e di altri funzionari del Ministero di giustizia e della Procura Generale di Milano. "Nessun cenno nella delibera in esame del contenuto delle 19 missive, pervenute alla 9° Commissione anche via e-mail, delle quali più della metà regolarmente sottoscritte da candidati che segnalavano disfunzioni gravi o meno gravi riguardanti soprattutto il ritardo verificatosi il 19 novembre nella dettatura della traccia di diritto amministrativo e la presenza in loco di testi non consentiti". Per saperne di più, in relazione alla dinamica degli eventi, i tre consiglieri dissidenti aggiungono di avere inutilmente richiesto l'audizione di alcuni dei candidati firmatari degli esposti. Nessun cenno nella delibera del C.S.M. del contenuto della risposta del Ministro della Giustizia all'interrogazione parlamentare che, peraltro, si era sviluppata nel senso di una presa di distanza dall'operato della commissione di concorso. Il sito dei giovani magistrati del Movimento per la giustizia denuncia poi di avere sostenuto con forza che non vi fosse alcuna urgenza di definire, in tempi così brevi, una pratica dai risvolti talmente delicati, con una delibera che, agli occhi dell'opinione pubblica, avrebbe corso il rischio di essere additata (n.d.r.: come in effetti, poi, accaduto) "come una risposta corporativa e sostanzialmente "a tutela" dell'operato della commissione di concorso". Per di più, in una situazione in cui era in corso di indagini preliminari il procedimento aperto presso la Procura di Milano (iscritto a mod. 45), a seguito delle citate denunce pervenute dai candidati. Del resto, diversi sono gli aspetti inquietanti mai chiariti dal C.S.M. e dalla Procura di Milano, le cui archiviazioni hanno proceduto di pari passo per mettere tutto a tacere. Secondo quanto affermato nella relazione del Presidente Fumo sarebbero stati "schermati" i settori riservati ai candidati onde evitare comunicazioni telefoniche. Questo assunto, come si legge nel sito dei giovani magistrati, è stato smentito dal Direttore generale del Ministero, dott. Di Amato, che ha ammesso la mancanza di schermatura elettronica nei padiglioni ove si svolgeva il concorso, riscontrata peraltro dal sequestro di apparecchi telefonici che risultavano funzionanti all'interno dei locali. È appena il caso di rilevare che, come si legge nella relazione ministeriale, la "possibilità di una schermatura elettronica non ipotizzabile per la sede di Roma" era stata una delle ragioni che avevano condotto l'autorità competente alla scelta di Milano quale sede esclusiva di concorso. Quanto all'identificazione di circa 5.600 candidati con tesserini privi di fotografia e alla carenza di controlli anche dei testi e dei codici all'ingresso delle sale di esame (almeno 28.000 volumi), inutilmente proseguono i giovani magistrati di avere fatto richiesta di acquisizione di notizie più in dettaglio sui controllori (250 persone per ogni turno dislocate su 26 postazioni). Del pari, inutilmente hanno fatto richiesta di notizie sui 23 funzionari di segreteria e sui 750 addetti alla vigilanza durante le prove, che avrebbero potuto portare ad accertare le ragioni della discrasia tra l'enorme numero di addetti al controllo e gli insufficienti effetti del controllo medesimo. Accertamenti che avrebbero dovuto quindi trovare ingresso quantomeno in sede penale, onde poter escludere che l'indifferenza della commissione alle clamorose proteste dei candidati abbia inteso favorire i soliti raccomandati e che la prova invero "non fosse solo la solita farsa". Quanto allo svolgimento delle prove non ha poi convinto la scelta di non sorteggiare le materie nei diversi giorni di esame. "È vero che non vi era obbligo di legge in tal senso, ma è pur vero che ragioni di oppurtunità e trasparenza avrebbero dovuto indurre la commissione di concorso a procedere al sorteggio, così come le stesse ragioni inducono da anni il CSM a sorteggiare l'individuazione dei commissari di concorso". Ma soprattutto, ciò che non ha convinto i giovani magistrati è stato l'indisturbato allontanamento del commissario, prof. Fabio Santangeli (poi dimessosi il 25.11), il giorno 19, che è stato la principale causa dell'abnorme ritardo nella dettatura della traccia di "diritto amministrativo", avvenuta alle h.14. Parimenti, non hanno per niente convinto in particolare le giustificazioni fornite sul punto dal Presidente della Commissione, secondo il quale non sarebbe stato in alcun modo possibile trattenere nella sala il professore, senza chiarire la ragione perché non fosse stata approfondita sin dal primo momento la disponibilità di tempo del professore, evitando che partecipasse all'elaborazione dei testi. Cosa che poi provocava la ripetizione dell'operazione di individuazione /elaborazione delle tre tracce da sorteggiare, con l'ulteriore conseguenza della dettatura di una traccia ambigua, che ha causato ulteriori problemi di ordine pubblico, a causa delle diverse letture possibili. L'esistenza di queste accertate disfunzioni ed il mancato chiarimento di aspetti essenziali ai fini di un regolare e sereno svolgimento delle prove di esame avrebbero consigliato, secondo gli esponenti del Movimento per la giustizia, maggiore cautela nell'adozione di una delibera di archiviazione da parte del CSM. In definitiva, non si è compreso che solo una adeguata istruttoria avrebbe dissipato tutti i dubbi e reso trasparente l'operato della Commissione. Il nostro voto contrario, conclude il sito dei magistrati dissidenti, è determinato esclusivamente dall'esigenza di accertamento della verità. Esso non significa e non può significare "condanna", ma rappresenta una decisa presa di distanza da una logica di "tutela" preventiva ed incondizionata in favore di tutti i protagonisti istituzionali della vicenda, troppo frettolosamente ritenuti attendibili, pur in difetto di quel "contraddittorio" con le voci dissonanti dei candidati, come da noi richiesto e ribadito. "Il voto contrario non significa quindi che si ritiene sussistere i presupposti per l'annullamento del concorso in via di autotutela, ma testimonia il nostro disaccordo su una risposta istituzionale del tipo "tout va très bien madame la marquise!". Ne deriva che "Madama la Marchesa" dovrebbe trovare del tutto preoccupante e scandaloso che anche l'ennesima indagine sui concorsi truccati in magistratura condotta dalla Procura di Milano sia stata frettolosamente archiviata in breve tempo, trascurando i molteplici riscontri probatori, che avrebbero dovuto indurre il P.M. a svolgere più accurate indagini, il quale senza neppure ascoltare le persone informate sui fatti e i candidati parti lese, prendeva invece per "oro colato" la relazione presidenziale e le sole fonti istituzionali. E' quindi lecito dubitare che gli inquirenti al pari dei politici e dei membri del C.S.M. abbiano agito seguendo quel profondo senso di giustizia che dovrebbe animare coloro a cui è affidata la sorte della legalità.
Cosa si può fare? La parola ai candidati, ai magistrati e ai cittadini onesti. "Basterebbero 4 semplici telecamere ben piazzate, e tutto filerebbe in piena trasparenza. Finalmente si premierebbe e tutelerebbe l'impegno di chi ha studiato seriamente: questo dovrebbe stabilirsi per legge in TUTTI i concorsi pubblici. E perché non si fa? Non c'è rispetto per i nostri figli, così si facilita l'accaparramento dei posti di responsabilità in mano agli ignoranti. Dappertutto. E' veramente grave, questo. E' veramente grave non reagire, non ribellarsi. (Difficile dargli torto e non riconoscere il valore deterrente e dissuasivo dell'idea). "Così si vuole un paese di baroni ignoranti". Da Angelo (Un vero angelo di verità!).
A cosa serve questo concorso in magistratura? A seguito degli scandalosi eventi di Rho, colgo l'occasione per esprimere ciò che ho sempre pensato in merito al concorso in magistratura. In Italia la crisi, e oserei dire la paralisi, del sistema giudiziario è dovuto principalmente alla carenza di personale giudicante, inquirente e amministrativo. Questa situazione non la si vuole affrontare politicamente, perché fa comodo alla classe dominante avere una magistratura che non funziona. Ebbene la struttura del nostro concorso in magistratura consente davvero che si sfornino magistrati quantitativamente e qualitativamente capaci di amministrare bene e velocemente la giustizia? Assolutamente no!! E spiego il perché. Un concorso siffatto richiede una preparazione teorica estremamente elaborata e onnicomprensiva per conseguire la quale si impiegano un elevato numero di anni, in molti casi a due cifre. Se si ha poi la fortuna di passare il concorso grazie solo alla preparazione (e i fatti di Rho dimostrano che solo questa non è affatto sufficiente, o forse non è addirittura necessaria) i neo uditori saranno dei brillantissimi teorici, bravi conoscitori delle più svariate dottrine in materia giuridica, ma emeriti incompetenti da un punto di vista pratico e incapaci di amministrare la giustizia con rapidità ed efficienza, così come sarebbe ora che accadesse in un Stato normale.
E soprattutto si può essere bravi tuttologhi? Perché la magistratura non viene stratificata in competenze per materia? Magistrati che fanno solo civile, altri penale, lavoro, commerciale, fallimentare e così via. Si avrebbero così più magistrati più preparati. Dovrebbero esistere diversi concorsi in magistratura a seconda delle materie e il settore in cui specializzarsi dovrebbe essere individuato già dagli anni universitari. Solo così si potrebbero sfornare tanti magistrati, veramente seri, esperti in determinate materie e quindi capaci e professionali. E' un'ottimizzazione di tempi e risorse. Ma quando a delle conclusioni così semplici non si vuole arrivare, è chiaro che non c'è la volontà di risolvere i problemi e non certo il modo.
Teniamoci le caste, il prestigio e il potere dei pochi, facciamo apparire come condotta deplorevole e facinorosa quella di chi denuncia i misfatti e gli scandali e non quella di chi li compie, proprio come ha fatto la commissione a Rho che anziché denunciare la gravità dei fatti scoperti dai candidati, ha minacciato questi ultimi di procedere a identificazione e a denuncia per turbativa del concorso. Viva l'Italia che se la prende con la parte lesa anziché evitare che si consumino quotidianamente lesioni dei diritti fondamentali dell'individuo. E viva l'Italia dei paradossi: giustizia inefficiente per carenza di magistrati e milioni di laureati in giurisprudenza disoccupati. Neo magistrati mostri di preparazione teorica (nel migliore dei casi) e completamente incapaci di tenere un'udienza o di scrivere una mera ordinanza di rinvio. Da Graziella (Quali sacrosante parole! Sei una vera Robin Hood!).
Ho paura che tutti i concorsi in magistratura fatti in precedenza siano stati truccati e che solo adesso sia scoppiato lo scandalo. Basta svolgere la professione di avvocato per rendersi conto quanto siano impreparati i giovani magistrati. Anch'io al concorso ho visto i miei colleghi copiare le tracce dagli appunti fatti a fisarmonica ma per solidarietà fraterna, non ho voluto fare la spia, ma adesso che è scoppiato lo scandalo ho il dovere morale di dirlo. Come si è potuto verificare tutto questo? Alcuni dicono che tutto ciò si è verificato a causa della negligenza dei controllori, altri dicono che la commissione voleva favorire soltanto i raccomandati. Una verità è certa, ed è che la magistratura è una casta chiusa, riservata soltanto a pochi eletti, cioè a coloro i quali hanno la fortuna di avere gli angeli in paradiso: non si spiegherebbe altrimenti il limite assurdo delle tre volte in cui si può tentare il concorso. Mi auguro soltanto che il ministro Angelino Alfano annulli in autotutela questo concorso al fine di ripristinare la trasparenza e la legalità nel concorso in magistratura. Intanto, gli anni passano e la sospirata toga di magistrato non sembra arrivare mai: di tanti anni di studio non resta nient'altro che l'amarezza. Per non parlare poi della sofferenza dei nostri genitori che vorrebbe vederci sistemati. (Da Michele da Siracusa).
Sui Concorsi per magistrati e simili. Sono il papà di un ex concorrente al concorso. Vi invio il testo di quanto ho scritto al Tgcom, sperando che qualcuno ne faccia una battaglia. Uno dei problemi di questi concorsi, come del resto per molti altri è l'assoluta mancanza di trasparenza. Infatti i concorsisti, molti dei quali prendono praticamente una seconda laurea, tanti sono gli anni che vengono dedicati ad una onerosa (anche economicamente) preparazione integrativa, alla fine hanno solo tre cartucce da sparare (solo tre concorsi); ma il bello è che non hanno nessun feedback dalle correzione dei compiti risultati inidonei; voglio dire che al di là del criptico giudizio non c'è altra informazione che consenta le prossime volte di "aggiustare il tiro". Ma non sarebbe più corretto pubblicare gli elaborati anche "mascherando" le generalità dei concorrenti, semplicemente indicando, come del resto è già, l'idoneità o meno? E' o non è un concorso pubblico per uno dei più importanti ruoli nell'ordinamento della repubblica? Ritengo ciò che è accaduto episodio ignobile e non c'è motivo di ritenere che precedentemente sia stato tutto in regola. Semplicemente, questa volta, la dilagante carenza organizzativa ha creato una situazione così ingestibile che ha avuto il pregio di fare da detonatore al peggiore approccio al concorso di chi si propone di amministrare la giustizia in modo adamantino e, dall' altra parte per chi, parte del sistema, dovrebbe garantire che tutto si svolga nella massima serietà possibile. Credo di non sbagliarmi nel dire che ciò che avviene e le questioni che contornano il prima durante e il dopo del concorso siano la manifestazione più forte di arroganza del potere oggi riscontrabile nel nostro Paese. Non si comprende perché a tanta serietà trasmessa e percepita non corrispondano comportamenti adeguatamente qualitativi, almeno quelli esprimibili attraverso gli atti prodotti, che dovrebbero essere il vero biglietto da visita da presentare al mondo esterno. A.M. (Una delle poche lettere firmate per capire il timore di ritorsioni da parte del sistema).
Egregio Direttore, sono un testimone oculare, aspirante magistrato. Ho letto un articolo sul vostro sito concernente il concorso a 380 posti di uditore giudiziario dove la commissione afferma che c'erano temi gravemente insufficienti. Personalmente partecipai a quel concorso e presi 19 allo scritto di amministrativo sull'acquisizione sine titulo coperto da giudicato, e non idoneo a penale. Credo che la commissione abbia esagerato dicendo quelle cose, perchè ho visto con i miei occhi che alcuni membri della stessa andavano ad aiutare i loro"pupilli", io chiamai il Presidente presente in sala, e per risposta disse che non poteva farci nulla. Sono accadute cose strane ad esempio un mio conoscente seppe in anticipo i risultati degli scritti. Come ne venne a conoscenza? Forse perchè il padre è agganciato politicamente? E' vero che i nomi devono restare segreti alla commissione? Ad esempio alcuni candidati non conoscevano le sentenze relative alla traccia di penale sulle scommesse clandestine e superarono lo scritto, io lessi le recensioni del Presidente Grillo sulla rivista Cassazione penale edita dalla Giuffrè e non lo superai. Altri candidati fecero scena muta alla prova orale e presero il massimo dei voti. Le pongo una domanda, siamo sicuri che la commissione non abbia volutamente esagerato, per mascherare le magagne come voi avete puntualmente pubblicato, avvenuta nei precedenti concorsi? La ringrazio anticipatamente, spero in un Suo riscontro. A.S. (lettera firmata)
Questi magistrati venuti dalla luna si vantano della loro impunità.
Cucchi, Uva, Mogherini: “Autonomia dei magistrati non sia impunità". Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: "Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare?", scrive la Redazione di “Blitz Quotidiano”. Sul tema della responsabilità dei magistrati, Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva, i cui cognomi corrispondono ai casi di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini hanno scritto una lettera aperta a Rodolfo Sabelli, presidente della Associazione Nazionale Magistrati (ANM), che è stata pubblicata dal Fatto nella sua edizione di domenica 15 giugno col titolo: “Da Cucchi a Uva: anche i pm devono pagare”. Scrivono Ilaria Cucchi, Andrea Magherini e Lucia Uva: “Caro dottor Rodolfo Sabelli, scriviamo per conto dei nostri cari Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e Riccardo Magherini. Vogliamo mettere in chiaro che, nonostante lo Stato ci abbia riconsegnato i nostri cari affidati alla sua custodia come cadaveri, noi non abbiamo in alcun modo perso la fiducia nelle Sue istituzioni e, tantomeno, la nostra fede democratica. Noi riteniamo che l’indipendenza della magistratura sia un valore essenziale per il suo buon funzionamento e irrinunciabile per un Paese civile e democratico. Ci consenta però di dirle che noi guardiamo l’associazione che lei rappresenta da una prospettiva privilegiata. Privilegiata dalle tragedie che le nostre famiglie si sono trovate a dover affrontare. Noi crediamo di poter serenamente dire che dietro questi sacrosanti principi di autonomia e indipendenza si celano fenomeni di totale deresponsabilizzazione, quando non addirittura impunità. Noi ammiriamo quei pm che quotidianamente e in silenzio rendono con onestà e professionalità un servizio indispensabile al civile vivere insieme. Che mettono a repentaglio la loro vita. Che sono innamorati della Giustizia. Sono tanti. Tutti o quasi tutti. Ecco noi dobbiamo esprimerle, nel nostro piccolo, tutte le nostre perplessità su quanto succede, o meglio non succede, quando si verifica quel quasi. Se per esempio a Varese un pm paralizza un’indagine per 5 anni con comportamenti sistematicamente censurati da tutti i giudici di volta in volta interpellati. Se questo pm trasforma la sua funzione in un esercizio di potere fine a se stesso arrivando a umiliare e offendere i familiari della vittima fino a esser sottoposto a procedimento disciplinare. Se a Firenze un altro pm, in occasione di una morte sospetta di un ragazzo di 40 anni in mano ai carabinieri, si dimentica di andare sul posto per effettuare le prime indagini delegandole agli stessi carabinieri. Sa a Roma un pm e un giudice, nonostante abbiano di fronte un ragazzo ferito a botte e palesemente sofferente – tanto che morì sei giorni dopo – non se ne accorgono e nemmeno lo guardano in faccia sbattendolo in galera come un albanese senza fissa dimora, quando invece è cittadino italiano con regolare residenza. Se accade tutto ciò e nulla succede a questi magistrati che certo non onorano la loro funzione, noi cittadini cosa dobbiamo pensare? Le anomalie della Procura di Varese sono note a tutti. Che a Firenze sia stato necessario che la famiglia di Riccardo Magherini tenesse per scelta la salma del proprio caro in una cella frigorifera per oltre tre mesi, per consentire al pm di svegliarsi, sequestrarla, iscrivere i protagonisti del suo scellerato fermo sul registro degli indagati e procedere poi alle operazioni post autoptiche, è ormai arcinoto. Che a Roma, a causa di quella “collettiva distrazione” sia iniziato il calvario del povero Stefano, terminato con la sua morte nelle terribili condizioni che sappiamo, è ancora arcinoto. Ma a quei pm nulla ma proprio nulla è accaduto. La prova? Venga a Varese il 30 giugno prossimo. Venga con noi. E si preoccupi perché proprio l’impunità di quei comportamenti può costituire il maggior pericolo per l’autonomia e indipendenza che tanto a cuore sta a noi tutti”.
Ma la gente sa cosa succede nei tribunali?
GIUSTIZIA A ROMA. UNA GIORNATA COME TANTE.
Giornata di ordinaria follia al tribunale di Roma tra prostitute, burini e magistrati oberati dall’obbligo penale. Luglio 14, 2014, scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Basta passare un giorno in aula giudiziaria per capire quanti oneri assurdi e pretese inverosimili gravano sulle spalle di pm e giudici. Come mai nel repertorio dei suoi elettrizzanti tweet Matteo Renzi sfiora appena quel filo che porta dritto al circuito mediatico-giudiziario? “Riforma della giustizia in 12 punti”. Così ha promesso il nostro ganzo leader. Se ne riparlerà in autunno. Ma intanto che ciofeca di hashtag è per un guascone che prende l’Europa con un «se si facesse un selfie sarebbe il ritratto della noia»? Paura di rimanere attaccato al filo, folgorato dal circuito? Sia come sia, può capitare anche al nostro simpatico incantatore di serpenti di ritrovarsi per caso, come è capitato alla canaglia che scrive, dentro l’iCloud del sistema giudiziario disegnato dalla più bella costituzione del mondo. Grazie a Dio, se sei solo un testimone (ma stai alla larga dai processi a Berlusconi), una volta di difesa, l’altra di accusa, puoi stare tranquillo: non corri alcun rischio di finire metamorfizzato in un insetto da espellere dalla società. Certo. Ricoprire ruoli opposti nel giro di qualche giorno, fa un bell’effetto. Specie se ti ritrovi rimbalzato tra Roma e Milano. In tribunali di due pianeti diversi. Come testi della difesa siamo stati convocati a Milano. Dove a dispetto dell’architettura fascista, l’amministrazione della giustizia sembra ispirarsi a una efficienza da tecnicalità ospedaliera. Entri al palazzaccio e, al di là dell’odore e sudore di carte, la sensazione è quella che puoi aver provato in un reparto di terapia intensiva. Convocazione alle 9 del mattino. Minuti di attesa in compagnia di persone stranamente in angoscia per essere testimoni della difesa. C’è un direttore di carcere («perché mi hanno convocato? Cosa ho fatto?») e c’è il pannelliano insolente («questi non sanno neanche chi è Beccaria, desolante che se ne siano impipati dell’amnistia»). Poi, come una botola, si apre la porticina dell’aula dell’udienza. L’impiegata fa l’appello, stila l’ordine di comparizione testi, prende nota di eventuali richieste. Arriva il tuo turno. Reciti l’orazione secondo verità, declini le generalità, rispondi ad avvocati e pm. Il giudice tace, non tradisce emozioni, ascolta. Incombe un silenzio da sala operatoria. Sbrigata la deposizione, vieni gentilmente accomiatato. «Si può accomodare». E sei messo alla porta con neanche una mosca che vola. Seicento chilometri più a sud è tutta un’altra musica. A Roma ci arrivi la sera prima. Pernotti. Non puoi fare altrimenti. L’udienza è fissata alla stessa ora, sullo stesso fuso orario della giustizia ambrosiana. Insomma, sono le 9 del mattino e nell’aula della cittadella giudiziaria capitolina non c’è anima viva. Passa un quarto d’ora e arriva un tizio che ha l’aria del mio pony fornitore di giornali. Ha una sua grazia nella strampalata t-shirt che indossa e nel trasportare una pila di fascicoli che finirà sulla scrivania della corte in un bel tonfo rimbombante per tutta l’aula. Verso le 9.30 si appalesano avvocati e altri tizi, seguiti da cai e semproni. In piedi, salutiamo la messa in moto della macchina giudiziaria: entra il giudice monocratico. Breve conciliabolo con il cancelliere. Partono le udienze. E il giudice sale in cattedra. Dirige il traffico delle domande dell’avvocatura. Azzittisce chi chiacchiera. Interroga i testi con puntiglio e vivacità oratoria. Giganteggia per autorità e competenza. Si avverte in lui addirittura un tocco di umanità e l’acume di non dare per scontato alcun elemento istruttorio. Insomma, ha un impianto da persona non supponente, cerca di capire, entra nei dettagli. Il problema è quella pila lì. Fascicoli che si affastellano sul suo tavolo senza una apparente logica. Delitti gravi e reati bagatellari sono sullo stesso piano e finiscono nello stesso ingorgo. È sufficiente lo spettacolo di una mattina di udienze romane per avere la fotografia della giustizia italiana. Che in virtù dell’obbligo dell’azione penale è come un gigante a cui è stato assegnato l’impossibile compito di risolvere tutti i conflitti e lenire tutte le disgrazie in seno alla vita di un popolo. E in più con un assurdo peso sulle spalle, gravando sul gigante-magistrato pure la faticaccia di traversare le sabbie mobili del giudizio alla luce abbacinante dei media. Che, inevitabilmente, heideggerianamente, invariabilmente, invece della trasparenza realizzano il rumore e l’oscuramento di tutto. Colpisce vedere un pubblico ministero caricato dell’intera casistica che passerà al vaglio della corte nel corso di questa giornata di prima estate. Come farà a studiarsi i contenuti della quotidiana pila di fascicoli e presentarsi a dibattimento in aula sapendo quello che fa, quello che dice, quello che chiede come sentenza? Quanto alla spicciolata di cause che scorrono sotto i nostri sensi, si comincia da una denuncia per violenza privata, rissa, danni per traumi fisici, psicologici, morali eccetera. La montagna si rivelerà il topolino di una baruffa chiozzotta tra donne. Con tre-quattro equipaggi di volanti intervenuti su segnalazione della titolare di una macelleria che testimoniano cose al limite dell’ilarità. A un certo punto spunta il mancato pagamento di una “prestazione”. «Scusi – fa il giudice al poliziotto – che genere di prestazioni?». «Beh, pare che una signora non avesse pagato la parrucchiera». «Ah, la parrucchiera. Ma che c’entra la macelleria?». «C’entra perché l’altra signora è l’esercente di carni e la rissa è avvenuta proprio davanti al suo negozio». «Ma ci sono stati feriti?», chiede il giudice a un altro poliziotto di una seconda volante presente sulla scena del delitto. «No». «Ah – riprende il giudice – non ci sono stati feriti… Dunque si è trattato di un alterco. È così?». «No – interviene il pm – è stato infranto un vetro e distrutto un telefono…». «Quale vetro e quale telefono?», incalza il giudice. In breve, dopo la sfilata delle volanti, l’assenza di feriti e nessun bollettino medico, si viene a sapere che il vetro infranto è in realtà un vetro scheggiato e il telefono di cui nessuno dei testi ricorda la tipologia è un cordless della macellaia che nella concitazione – non si è capito per colpa di chi e perché – è stato raccolto in pezzi a terra. L’udienza viene aggiornata a novembre. Sempre con lo stesso pm, ma con un diverso avvocato d’ufficio, segue il caso di una donna di colore che ha rubato due camicette in un grande magazzino. Di nuovo, sporta denuncia da parte del direttore del negozio, «anche se la signora si è mostrata collaborativa quando è stata scoperta e fermata dalla guardia privata», il pm non può far altro che rappresentare l’obbligo dello Stato a perseguire il reato. Risultato? Sentenza costituzionalmente ineccepibile e umanamente abominevole. La povera incensurata si becca sei mesi di carcere e 800 euro di multa. Segue vicenda notte magica italiana. Una bella, giovanissima e molto ben equipaggiata brasiliana è testimone d’accusa e parte lesa in una movimentata avventura notturna avuta con un giovanotto, iniziata in discoteca e finita prima a letto e poi a botte. Due sono le versioni. La bella sostiene che dopo essere stata convinta dal giovanotto a passare la notte con lui in cambio di un “regalo” (mille euro), già ubriaca di beveroni e dopo essersi fatta convincere a strafarsi anche di cocaina, al settimo rapporto sessuale ha detto basta, sono stanca, non ce la faccio più. Il giovanotto a quel punto, per non sapere né leggere né scrivere, avrebbe preteso la restituzione del “regalo” e pure le chiavi dell’automobile di lei». La bella descrive tutto nei minimi particolari. In estrema sintesi: «Intorno all’una di notte il tale mi ha avvicinato in discoteca e mi ha offerto il “regalo” in cambio della notte insieme. Saremo arrivati a casa mia alle tre, alle sei mi ha menata, è scesa la mia amica, gli ha spruzzato lo spray al peperoncino, lui è scappato, poi però mi ha chiesto scusa e mi ha restituito il regalo e le chiavi. Mi chiedeva di perdonarlo perché stava fuori di testa (“ho moglie e figlio”, diceva), poi la polizia se l’è portato via e io sono andata con la mia amica al pronto soccorso. Perdevo sangue dal naso. Avevo paura». Domanda il giudice: «E al pronto soccorso cosa le hanno detto? Dico, le hanno riscontrato ferite? Ha detto di essere stata presa a calci in faccia, è così?». «Sì, è così, ma il naso non era rotto e il medico mi ha dato una settimana di riposo». Versione della bestia (presunta). Ammette la nottata folle. Ma smentisce che abbia preso a calci la bella («che sennò cor peso che c’ho ’a sdrumavo»), la circostanza dei sette rapporti sessuali («ecche so’ Tarzan?!»), l’ora del fattaccio («ma quali tre de mattina, sarò arivato a’e cinque»). Poi si rivolge al pubblico forse cercando gli occhi della bella: «Aò, ma se stavo nudo sur letto, strafatto, t’ho visto che me rubbavi nei pantaloni…». Ma non fa in tempo a finire la frase che il giudice lo richiama: «Scusi, forse non ha capito, deve rivolgersi alla corte, non all’uditorio». Il ragazzotto cerca di biascicare una replica e il giudice stavolta si incazza: «E non mi dia sulla voce! Si limiti a rispondere alle domande! Ha capito?». L’imputato si stremisce e tace. «Le ho chiesto se ha capito. Ha capito?» «Sì, sì, signor giudice, me scusi…». Ed è come un pallone sgonfio che per un po’ risponde solo a monosillabi. «Sì, no, no, sì, sì, sì…». Ma toccato sul soldo arriva la scarica di adrenalina: «Eh no, giudice, ma quali mill’euri! So’ arivato da lei a’e cinque: e che je davo, mill’euri pe’ du ore? J’avrò dato trescento… mannò, che dico, saranno stati duscento ar massimo. Poi quann’ho visto ’a mano ’nfilata nella tasca dei pantaloni nun c’ho visto più: aò, j’ho detto, ma che stai affà?! E j’ho dato ’no schiaffo. E l’ammetto: pure ’no spintone, ma carci no». «Prosegua», fa il giudice un po’ scettico. «E che je devo dì? So passato prima da un amico a prenne i sordi». «Ma scusi, non aveva già con sé i mille euro del “regalo”?». «Vabbè, mica potevo annà ’ngiro senza sordi». «Ah, “in giro senza soldi”, dice lei», ironizza il giudice. «Sì vabbè, c’avevo questi mille, che poi duscento l’ho dati a lei, ma poi dar mio amico ne ho presi artri cinque-seicento e…». «Dunque, dopo che alla signorina ha restituito il “regalo”, aveva con sé altri cinque-seicento euro. Soldi che le servivano per cosa?». «Ma quali sordi? Quella nun m’ha ridato niente, so’ scese queste cor peperoncino, nun c’ho capito più niente, è arrivata ’a polizia e m’ha portato ar gabbio». «Ci sta dicendo che i soldi li ha lasciati nell’appartamento della signorina?». «Embè, io quelli nun l’ho più rivisti, là li ho lasciati, che tra peperoncino e strafatto di alcol e cocaina com’ero nun c’ho capito più niente». L’udienza viene aggiornata al 2015. Causa quarta e testimone d’accusa un’istruttrice di polizia. Il caso riguarda un automobilista fermato senza Rc auto. Seguiva verbale di sequestro dell’auto, apposizione dei sigilli, intervento del carro attrezzi, trasferimento del veicolo medesimo presso un box indicato dal proprietario dell’auto. Fatto avvenuto nel 2010. «L’anno seguente – prosegue il teste della polizia – nel corso di un sopralluogo constatiamo che all’indirizzo indicato non c’è alcun box e neanche il veicolo». Ennesimo obbligo di legge, scattano denuncia e processo a carico del proprietario. Processo che si attorciglia su carte, verbali, carri attrezzi e su chi ha firmato cosa e per conto di chi. La sostanza è che l’auto è sparita. Il pm conclude la sua breve requisitoria con una richiesta di assoluzione perché «non sappiamo dove è stato portato il veicolo, il box non è mai esistito, il bene è scomparso». Camera di consiglio: l’imputato è assolto. Siamo solo a metà mattina. Sotto i nostri occhi scorre la povera Italia. E potrebbe essere chiunque incappi in un colpo di testa, una disgrazia, nell’irruzione del male o del burocratese. C’è il marito che picchia la moglie un giorno sì e l’altro pure. C’è la vertenza per danni patrimoniali tra soci di una srl. Una per diffamazione a mezzo stampa e un’altra che non inizia nemmeno causa vizio di notifica. La giornata del giudice, del cancelliere, degli avvocati, dei testi e degli imputati, non è ancora finita quando lasciamo l’aula. Roma ci ha riconciliati con la legge. Roma non è il porto delle nebbie. Roma è la luce abbagliante sulla guida a fari spenti nella notte della giustizia italiana.
E poi ci meravigliamo della realtà che ci circonda, aliena ai controlli.
MAFIA, ANTIMAFIA E LE PRESE PER IL CULO…
Ultimissime dalla Sicilia perduta. L'Antimafia che indaga sull'antimafia. Siamo arrivati al punto che l'Antimafia indaga sull'antimafia, come annunciato da Rosy Bindi. Un percorso che si annuncia di complicatissima riuscita. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità. Il direttore di LiveSicilia il 06 Marzo 2015 su "Il Foglio. Sono più di vent’anni che i giudici di Caltanissetta indagano sull’omicidio di Paolo Borsellino. Hanno celebrato quattro processi ma non hanno ancora trovato la strada per venire fuori dal labirinto. Un labirinto giudiziario: dove ogni verità finisce per smentire un’altra verità, e dove ogni pentito viene puntualmente smentito da un altro pentito. In questa Caltanissetta, così nebbiosa e incerta, è arrivata l’altro ieri in pompa magna la Commissione parlamentare antimafia, quella presieduta da Rosy Bindi. Una novità. Basti pensare che in oltre cinquant’anni di vita la gloriosa commissione non era mai andata oltre Palermo e si era guardata bene dal mettere piede in terre scottanti, come quelle che dal Vallone si estendono fino a Mussomeli e che negli anni del feudo furono regno di boss come Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini. Gente senza peli sulla lingua: “Qui, chi mette la testa fuori dalla tana, pum pum”, avvertiva bonario e crudele l’onorevole Calogero Volpe, un democristiano che li conosceva bene e che per sette volte riuscì a farsi eleggere in Parlamento. Ma la Commissione guidata dalla Bindi non è arrivata l’altro ieri a Caltanissetta per capire il perché dei processi che non si chiudono mai o per scovare gli eventuali eredi dei mammasantissima che, con la forza della lupara, spodestarono baroni e sovrastanti, e si impadronirono delle loro terre e delle loro miniere di zolfo. No. L’Antimafia, quella ufficiale, grande e istituzionale, è venuta a Caltanissetta per indagare sull’altra antimafia, quella nata dopo la stagione delle stragi, sull’onda dell’emozione per l’uccisione di Falcone e Borsellino, ma anche perché di quella mafia e di tutto quel sangue non se ne poteva più. Un’antimafia che si è estesa e dilatata ad ogni settore, in ogni provincia, coinvolgendo associazioni spontanee, come “Addiopizzo”, e associazioni di ben più solida consistenza come “Libera”, fondata dal torinese don Luigi Ciotti e trasformata dai suoi manager in una holding di dimensioni nazionali; un’antimafia, quella sulla quale indagherà la Bindi, che ha scavalcato da tempo il recinto doloroso dei familiari delle vittime e ha sempre più coinvolto categorie già strutturate, come quelle degli imprenditori o dei commercianti. La Confindustria siciliana ad esempio, prima con Ivan Lo Bello e poi con Antonello Montante, ha tentato di segnare un confine tra chi pretendeva di gestire le proprie aziende con la complicità protettiva di Cosa nostra e chi intendeva invece battersi per un mercato libero dal condizionamento mafioso. Certo, di errori ne sono stati fatti e non c’è passaggio, nella storia di questa antimafia, come ogni cosa nata in Sicilia, dove non sia affiorato l’immancabile, abusato gattopardismo del tutto cambia perché nulla cambi. Certo, molte di queste associazioni si sono man mano trasformate in lobby, monopolizzando finanziamenti pubblici e arrogandosi perfino il diritto di assegnare attestati di legalità ai propri amici e canaglieschi mascariamenti ai propri nemici. Certo, dopo l’antimafia dell’innocenza è arrivata l’antimafia degli affari e pure l’antimafia del potere: Rosario Crocetta, issando la bandiera della legalità, è riuscito a conquistare la presidenza della Regione siciliana e a distribuire incarichi e consulenze a un cerchio magico di fedelissimi; a cominciare da quell’Antonio Ingroia, che fu pubblico ministero della famosa trattativa tra stato e mafia e che dopo quell’impresa, montata sui giornali di mezzo mondo, tentò pure l’azzardo di una sua discesa in politica. Oggi però, sia la bandiera del governatore Crocetta sia quella dell’ex magistrato Ingroia, amministratore di un’azienda partecipata dalla Regione, mostrano i segni di un profondo logoramento: la Corte dei Conti li subissa con pesantissimi richiami alle regole della buona amministrazione e, in tempi di mafia e antimafia, anche i bambini dell’asilo dovrebbero sapere che non c’è legalità senza l’osservanza delle regole. Ma bastano le cose che sono state sin qui raccontate – errori e sbandamenti, eccessi e sovraesposizioni – per arrivare al punto dove è arrivata la Bindi, e cioè che la vecchia e appesantita Commissione deve finalmente aprire gli occhi non solo sulla mafia ma anche e soprattutto sull’antimafia? La visita in Sicilia era programmata da tempo, nel quadro di un giro di ricognizione che comprende diverse tappe, ma l’arrivo dei commissari parlamentari a Caltanissetta è coinciso martedì con l’arresto di Roberto Helg, il presidente della Camera di Commercio di Palermo che, dopo tanti proclami contro le estorsioni e la firma di tantissimi protocolli di legalità, era stato sorpreso all’aeroporto di Punta Raisi mentre incassava una tangente di centomila euro per agevolare il rinnovo della licenza a un pasticciere. Innegabile esempio di un’antimafia di facciata, anzi da sottoscala, che qualche dubbio in seno alla Commissione lo avrà di certo sollevato. Non solo. A metà febbraio proprio Caltanissetta fu teatro di uno dei più clamorosi ribaltamenti di immagine: Antonello Montante, numero uno di Confindustria Sicilia, braccio destro di Giorgio Squinzi per la legalità e protagonista con Ivan Lo Bello della prima rivolta degli imprenditori siciliani contro boss e picciotti, è finito all’improvviso sotto inchiesta per concorso esterno. Tre o cinque pentiti – non c’è mai una sola verità negli intrighi di mafia – l’avrebbero tirato dentro una storiaccia di amicizie vecchie nate tra paesani in quel di Serradifalco, con l’immancabile corredo di una fotografia, scattata venti e passa anni fa in compagnia di un testimone di nozze poi rivelatosi un malacarne, e con quel codazzo di sospetti, allusioni, illazioni e circostanze tutte da verificare che i pentiti avrebbero consegnato nelle mani dei magistrati. Mentre per Helg la verità, purtroppo per lui, è a portata di mano, per il capo di Confindustria Sicilia ogni interrogativo è destinato a suscitare nuovi interrogativi. Intanto, si saprà mai la verità? Chi stabilirà se Montante, tuttora protetto da una scorta che lo Stato gli garantisce da quattordici anni, è un campione di legalità o un doppiogiochista senza scrupoli? I pentiti che lo mascariano sono mossi da un sincero spirito di giustizia o sono mandati da quegli stessi boss che Confindustria ha combattuto ed emarginato? E se Montante, ipotesi tra le ipotesi, fosse stato silurato da un’altra antimafia magari gelosa e invidiosa del fatto che lui, in virtù dei suoi rapporti con troppi prefetti e questori, fosse diventato una macchina da guerra buona per conquistare altri galloni e altre posizioni di potere? E se dopo le guerre di mafia stessimo per un paradosso assistendo a una guerra tra antimafie? Lo scontro esploso sulla gestione dei beni confiscati, patrimonio di quasi cinquanta miliardi, non potrebbe essere la spia di un conflitto ben più profondo e lacerante? Per la Commissione presieduta da Rosy Bindi l’annunciata indagine “sul movimento antimafia” non sarà comunque una passeggiata. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità. Il caso Montante sta lì a dimostrarlo. Se da un lato ci sono due procure che hanno ritenuto di metterlo sotto inchiesta, quantomeno per verificare le dichiarazioni dei pentiti, dall’altro lato c’è la procura nazionale antimafia che pochi giorni dopo ha ritenuto anzi opportuno inviare al Parlamento una relazione nella quale si legge che Confindustria, proprio per la sua azione di contrasto, è costantemente sotto attacco dei boss, sia a Caltanissetta che nel resto della Sicilia. Rosy Bindi, per evitare equivoci e strumentalizzazioni, ha tenuto a precisare che la Commissione si muoverà “con grande serenità e con intenti non polizieschi, ma politici”. E ha pure tenuto a sottolineare che, “per quanto ci riguarda, abbiamo ritenuto importante l’impegno di Confindustria e anche di altre associazioni nella lotta alla mafia”. Ma ormai il dado è tratto, l’indagine si dovrà fare. E sarà un’impresa difficilissima per la presidente Bindi tenere a bada i cinquanta commissari (25 senatori e 25 deputati) che fin dai prossimi giorni si troveranno di fronte a un arcipelago di sigle, a una complessità di storie e motivazioni, a diverse se non addirittura contraddittorie “visioni del fenomeno”. Fino a quando la materia d’indagine era la mafia, con il suo reliquario di nefandezze, era sin troppo facile mantenere l’unità della Commissione. Ma di fronte all’indagine sull’antimafia e sulle antimafie, ogni partito finirà per seguire la propria convenienza politica. Si parlerà di Crocetta? Quelli che lo sostengono, e sono politicamente schierati con lui, produrranno una relazione di maggioranza per assolverlo da ogni peccato, anche il più lieve; mentre gli oppositori firmeranno quella di minoranza, ovviamente per ribadire le loro critiche e le loro riserve. Lo stesso se mai si discuterà di come la legalità è stata praticata e gestita, nei rispettivi ruoli, da Ingroia o da Montante o da don Ciotti: gli uni tenderanno a glorificare, gli altri tenderanno a demonizzare. E’ la politica, bellezza. Del resto, è dal 1962 che il Parlamento sforna, ad ogni legislatura, una nuova commissione bicamerale. Sono cinquantatré anni che l’Antimafia, quella con la maiuscola e la magnificenza delle istituzioni parlamentari, vaga da un angolo all’altro dell’Italia, raccogliendo documenti e testimonianze per conoscere e approfondire, per combattere e prevenire. Sono cinquantatré anni che a San Macuto si redigono verbali e ci si accapiglia su ogni tesi, su ogni faldone, su ogni dossier. Cinquantatré anni di dibattiti, mai una verità.
«Caro James Bond non lasci Roma, lei è riuscito a far lavorare i vigili». I miracoli dell’agente 007 nella Capitale: gli agenti della Municipale hanno lavorato di notte, le buche stradali lungo il set sono state chiuse, scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera”. Gentile James Bond, dopo averla vista in azione da vicino, bisogna ammettere che la sua fama è davvero meritata. Nel volgere di pochi giorni, lei è infatti riuscito in una serie di imprese che qui, a Roma, parevano assolutamente impossibili da realizzare. Un esempio? Far lavorare i vigili urbani di notte. La prego di voler comprendere il nostro stupore: a lei sembra tutto facile, ma da queste parti l’idea che i vigili stiano ordinatamente lavorando al suo fianco, toglie il fiato. Come certo avrà saputo - a 007 nulla sfugge - il corpo dei vigili urbani, alla mezzanotte dello scorso Capodanno, si rese quasi del tutto irreperibile, lasciando la città preda di micidiali ingorghi; certi vigili caddero colpiti da malattia, altri decisero di andare a donare il sangue, altri ancora furono travolti da gravissimi problemi familiari. Una nottataccia. Un tremendo precedente. Con il suo arrivo, mister Bond, sembra che però molti vigili siano improvvisamente riusciti a risolvere i propri guai: paiono in buona salute, le loro faccende private sono in via di risoluzione. Qualcuno ha insinuato il sospetto che a fargli tornare una gran voglia di lavorare siano stati i premi in denaro previsti per l’impegno notturno: una stupida perfidia; è chiaro invece che i vigili sono solo orgogliosi di aiutarla a sfrecciare sul suo bolide. A proposito: per salvare le sospensioni della sua leggendaria Aston Martin, sono state coperte un buon numero di buche. Creda: un miracolo. E non il solo: ha presente gli argini del Tevere? Sì, esattamente dove scorrazzava l’altra sera. Ecco, gli argini del Tevere non sono mai stati così puliti, sicuri, così belli. Pensi che intere generazioni di romani, da anni, sognano di poterci andare in bicicletta o a passeggiare, a correre. Solo che è impossibile. Perché di solito i camminamenti sono ridotti a discariche di immondizie e umanità: e puoi incontrarci barboni molesti, immigrati sbandati, cani randagi che cercano di azzannarti. Siamo incantati da lei, mister Bond. Dicono dovrebbe pure paracadutarsi su Ponte Sisto: una possibilità che ha scatenato dosi di autentica euforia, tra i cittadini. Tutti sperano infatti che, almeno per qualche notte, il ponte sia sgomberato da quella popolazione cenciosa che abitualmente lo invade: punkabbestia aggressivi, spacciatori, mangiafuoco, mendicanti. Un filo di scetticismo, volendo essere sinceri, c’è solo sulla notizia che con lei, via Nomentana, nelle prossime ore, possa essere chiusa al traffico. Non per mancarle di rispetto: ma nessuno, dia retta, può essere capace di tanto.
Mafia Capitale, gli affari del Pupone: il fallo da dietro su Totti di Fatto e Espresso, scrive “Libero Quotidiano”. Settantacinque mila euro al mese: tanto ha pagato il Comune di Roma dal 2008 ad oggi, a una delle società di Francesco Totti che ha "messo a disposizione" del Campidoglio 35 case in periferia per l'emergenza abitativa. A rivelarlo un capitolo del nuovo libro di Lirio Abbate e Marco Lillo "I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale", appena uscito per Chiarelettere, nel quale gli autori raccontano dello spreco di denaro pubblico che c'è stato, e c'è (43 milioni l'anno), dietro i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, creati nel maggio 2005 dal consiglio comunale. Precisando che "nessuno è indagato per queste storie", Abbate e Lillo raccontano di come siano stati attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne hanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. Ebbene nell'elenco degli immobiliaristi consegnati dal pm Luca Tescaroli al Ros per le "concordate verifiche" c'è anche il residence della "Immobiliare Ten", amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l'83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, scrivono Lillo e Abbate, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del "Capitano": a valle c'è l' Immobiliare Ten, proprietaria dell immobile affittato al Comune; più su c'è invece l' Immobiliare Dieci che possiede - oltre al 100 per cento delle quote della Ten - anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c' è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l 83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l' affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell'estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall'amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine, grande tifoso giallorosso e amico del capitano che addirittura fece pubblicare un necrologio nel 2005 in occasione della morte del padre del capo di gabinetto di Veltroni. Odevaine era infatti il presidente della commissione che doveva decidere chi inserire nella lista degli immobili a disposizione del Comune per l'emergenza abitativa. Il 27 settembre 2007, si legge nel libro "I re di Roma", l'Immobiliare Dieci Srl "spara" l'offerta: per l'affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. In pratica Francesco Totti, o meglio, l'amministratore di allora che non era il fratello Riccardo - subentrato solo nel 2009 - ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio fa sapere alla società che è interessato, ma a un "a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria". Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l'anno. Un'enormità, fanno notare Lillo e Abbate, se si pensa che la società di Totti ha comprato l' immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Nonostante il contratto sia scaduto il 31 dicembre 2014, si legge sul Fatto Quotidiano, l'amministrazione capitolina continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. Case non proprio di lusso, come invece il prezzo lascerebbe presumere. La signora Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano denuncia agli autori del libro che ci sono "infiltrazioni in camera da letto, piove dal bagno di sopra, gli scarafaggi ci tormentano". "Quando siamo entrati qui era tutto in ordine con i mobili ancora imballati", racconta la signora. "Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall'appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà". E ancora: "In realtà qui in via Tovaglieri non c'è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (...)". "Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io - si lamenta Elisa Ferri con Lillo e Abbate - so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d' occhio. Anche l' ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr' ore al giorno, ma solo per lavorarci". E come se non bastasse, "il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune". In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti "ci" costano l'uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste.
Totti e gli affari d’oro col Campidoglio: 75mila euro al mese dalle case popolari, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Le società del capitano della Roma affittano immobili in periferia al Comune di Roma per l'emergenza abitativa. E il canone è extra large: 900mila euro l'anno per 35 alloggi del residence di Tor Tre Teste. A capo della commissione di gara, l'ex vice capo di gabinetto di Veltroni Odevaine, ora in carcere per Mafia Capitale. Un palazzo in locazione anche all'ex Sismi. Il 19 maggio 2014, meno di tre mesi prima di presentare la richiesta di arresto per i protagonisti di “Mafia Capitale”, i pubblici ministeri romani mettono nel mirino i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, uno scherzetto da quasi 43 milioni di euro di spese all’anno nel bilancio di Roma Capitale. (…) Questi centri vengono creati nel maggio del 2005 con una delibera del consiglio comunale ai tempi in cui è sindaco Walter Veltroni. Negli anni successivi vengono attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne fanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. (…) L’amministrazione spende 42 milioni e 597.000 euro all’anno per 33 residence, a cui si sommano i centri della Eriches 29, di Salvatore Buzzi, che ospitano complessivamente 584 persone. Nell’elenco dei Caat troviamo grandi immobiliaristi (…). La procura finora non ha mosso accuse sull’emergenza abitativa. Non mancano casi di estrema “concentrazione”. Su 18 strutture a disposizione del Dipartimento Politiche sociali, ben 16 sono delle solite “coop bianche” (…). Alla fine le cooperative vicine a Comunione e liberazione racimolano grazie ai Caat del Comune più di 8 milioni di euro. Secondo il prospetto del Campidoglio, consegnato ai pm nel maggio del 2014 e poi girato al Ros dei carabinieri, Eriches 29 – quindi il versante “rosso” – costa alle casse dell’amministrazione pubblica ben 5 milioni e 179.000 euro, circa 740 euro al mese per immigrato (…). Nella lista consegnata dal pm Luca Tescaroli al Ros per le “concordate verifiche” c’è anche, all’undicesimo rigo della tabella dei Caat, il residence della Immobiliare Ten, amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l’83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del“Capitano”: a valle c’è l’Immobiliare Ten, proprietaria dell’immobile affittato al Comune; più su c’è invece l’Immobiliare Dieci che possiede – oltre al 100 per cento delle quote della Ten – anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c’è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l’83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell’estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall’amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto, come è accaduto per il gruppo Pulcini e per Salvatore Buzzi, grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine. Nessuno è indagato per queste storie, ma resta lo sperpero di denaro pubblico (…). Il 16 ottobre 2007, dopo la pubblicazione di un bando sulla Gazzetta ufficiale il 13 agosto 2007 e dopo l’arrivo delle offerte, viene nominata dal direttore del Dipartimento Politiche abitative del Comune di Roma in carica, Luisa Zambrini, una commissione di gara. (…) Il presidente della commissione è il “dottor Luca Odevaine”. Qualche giorno prima, il 27 settembre, l’Immobiliare Dieci Srl “spara” l’offerta: per l’affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. Una cifra spropositata. In pratica Francesco Totti, o meglio, l’amministratore di allora che non era il fratello Riccardo – subentrato solo nel 2009 – ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio dispone di sottoporre l’offerta a un “parere di congruità tecnica” e “a seguito di tali verifiche l’amministrazione di Roma ha informato l’Immobiliare Dieci Srl di essere interessata all’offerta in locazione della struttura” però “a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria”. Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l’anno. Un’enormità se si pensa che la società di Totti ha comprato l’immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Il contratto è scaduto il 31 dicembre 2014 ma l’amministrazione continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. (…) La società, inoltre, incassa gli affitti dei negozi – per un totale di 1900 metri quadrati – che sono esclusi dal contratto con il Comune. Al piano terra, infatti, troviamo un bel bar, della catena Blue Ice, e un supermercato Conad. Nel 2007 questi affitti extra erano pari a 231.000 euro all’anno. (…) Lo stabile è il classico immobile costruito per ospitare uffici, non certo appartamenti residenziali. “Quando siamo entrati qui – racconta Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano – era tutto in ordine con i mobili ancora imballati. Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall’appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà”. E ancora: “In realtà qui in via Tovaglieri non c’è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (…)”. “Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io – si lamenta Elisa Ferri – so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d’occhio. Anche l’ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr’ore al giorno, ma solo per lavorarci”. E come se non bastasse, “il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune”. In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti “ci” costano l’uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste. Un bell’autogol per tutti. A questo punto è interessante capire la storia del palazzo di via Tovaglieri. Inizialmente il proprietario, come accaduto per altri residence poi affittati come Caat al Comune, è la società Fimit Sgr, un grande fondo immobiliare italiano nato nel 1998 per iniziativa di Inpdap e Mediocredito Centrale. Fino a maggio del 2007, alla guida c’è Massimo Caputi, un manager molto importante che ha guidato colossi come Invitalia e Grandi Stazioni (…). Il 30 maggio 2007 l’Immobiliare Dieci Srl stipula un preliminare con Fimit per comprare il palazzo di via Tovaglieri e due stabili in via Rasella. La società del Capitano si impegna ad acquistare il “pacchetto” a 16 milioni e 950.000 euro. Il prezzo è buono per gli acquirenti e permette al fondo di fare una plusvalenza di 3,3 milioni. Il vero affare per i Totti sono i due palazzetti accanto a via Veneto, mentre quello di Tor Tre Teste viene infilato giusto per venderlo. In via Rasella, infatti, il Capitano compra immobili quasi totalmente liberi da inquilini, con una superficie netta da affittare pari a 1.860 metri quadrati al prezzo di 10 milioni e 950.000 euro, tutt’altro che elevato per quella zon (…) Ben diversa, almeno sulla carta, la situazione di via Tovaglieri. (…) Nel maggio del 2007, quando la società di Totti firma il contratto preliminare di acquisto al prezzo di 6 milioni con Fimit, è un mezzo bidone: difficile da affittare e con un valore in calo. Tra il preliminare e il definitivo però le cose cambiano. (…) Il 16 ottobre viene nominata la commissione che deve valutare le offerte, presieduta da Luca Odevaine, e venti giorni dopo, il 7 novembre, la società di Totti stipula il contratto definitivo di acquisto con Fimit per il palazzo di via Tovaglieri. Sembra un azzardo ma il 16 dicembre 2008, il Comune e l’Immobiliare Ten firmano il contratto di locazione. (…) Via Tovaglieri, grazie al contratto per sei anni rinnovabile tacitamente, è una gallina dalle uova d’oro (…). I due palazzi di via Rasella sono stati invece uniti e ristrutturati. Oggi ci sono gli uffici amministrativi dei servizi segreti italiani. L’Immobiliare Dieci detiene in leasing lo stabile e ottiene, nel 2013, ricavi per 1 milione e 70.000 euro. Probabilmente pagati tutti dall’Aise (Agenzia informazione e sicurezza esterna). Sul palazzo c’è anche la targa della presidenza del Consiglio. L’Immobiliare Dieci sostiene per via Rasella una rata del leasing pari a 545.000 euro ai quali bisogna assommare altri costi e ammortamenti. Alla fine, il netto utile è di 182.000 euro nel 2013. (…) Francesco Totti, pur essendo il maggiore azionista delle due società immobiliari e quindi “il beneficiario” economico principale, non è amministratore delle due società e potrebbe non essere a conoscenza della genesi e dell’evoluzione dei rapporti con il Comune di Roma e con la presidenza del Consiglio per la locazione dei palazzi di via Tovaglieri e di via Rasella. In Comune raccontano che Francesco Totti, ai tempi di Veltroni sindaco, aveva un buon rapporto personale con Luca Odevaine. L’allora braccio operativo del primo cittadino è un romanista sfegatato. Il Capitano lo conosceva bene e andava anche a trovarlo talvolta nel suo ufficio in Campidoglio. A testimonianza di un rapporto profondo tra i due, c’è un necrologio pubblicato in occasione della morte del padre di Luca, Remo Odevaine (…): “Sinceramente addolorati per la triste circostanza porgiamo le nostre condoglianze. Vito Scala e Famiglia, Francesco Totti e Ilary Blasi”. Il necrologio è datato 15 novembre 2005, quindi precedente alla decisione, da parte della commissione presieduta da Luca Odevaine, di affittare per sei anni a un canone complessivo che supera i 5 milioni di euro il palazzo di proprietà della società dell’amico Francesco. Nonostante ciò, Odevaine non riterrà più opportuno astenersi da quel ruolo che spetterebbe a persone “terze” e in Comune nessuno dirà nulla. Il rapporto tra i due non si è mai interrotto, come il contratto di affitto. Una traccia di questa stima reciproca si trova anche sui quotidiani del 24 gennaio 2013. Quel giorno Odevaine, sotto la bandiera di Fondazione Integra/Azione e in collaborazione con Legambiente e cooperativa Abitus, organizza una partita contro il razzismo (…). “L’iniziativa – scrive Repubblica – è stata apprezzata dal capitano dell’A. S. Roma, Francesco Totti” (…). Un’altra “battaglia giusta” potrebbe essere anche quella contro gli sprechi, che dovrebbe imporre a Totti – certamente all’oscuro dei malaffari di «mafia Capitale» – di migliorare la condizione degli inquilini del palazzo di via Tovaglieri e al Comune di chiudere al più presto il contratto con la società Immobiliare Ten e trovare una sistemazione più degna per 35 famiglie.
Mafia capitale, De Rossi e altri vip al telefono col boss: le intercettazioni. C'è anche il nome del calciatore giallorosso nelle carte dell'inchiesta sull'organizzazione criminale della capitale. La telefonata a Giovanni De Carlo arriva dopo un diverbio in un locale: "Famme sentì Giovanni...". Il boss ha incontrato anche Sculli e le compagne di Destro e Dzemaili , scrive “La Gazzetta dello Sport”. Calciatori, cantanti, uomini e donne dello spettacolo: Giovanni De Carlo, personaggio di rilievo dell'inchiesta Mafia Capitale consegnatosi ieri ai carabinieri del ros, aveva contatti con tutti: "Era un uomo che amava la bella vita, conosceva i migliori locali della movida romana ed era in frequente contatto con personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport", si legge nelle carte dell'inchiesta. Tra gli sportivi sono coinvolti Daniele De Rossi e Giuseppe Sculli. de rossi — Nelle carte dell'inchiesta Mafia Capitale c'è un'informativa del Ros che intercetta telefonate tra Daniele De Rossi e Giovanni De Carlo. Il calciatore chiama la notte del 30 settembre 2013 dopo una lite in un locale. "Avevo pensato che quello aveva chiamato qualche coattone... ho detto famme sentì Giovanni", dice De Rossi. Nell'informativa si dà conto anche dell'intercettazione fatta alle ore 2.56 del 30 settembre 2013. De Carlo, "rispondendo a due tentativi di chiamata fatti poco prima dello sportivo", chiamava De Rossi "chiedendogli di cosa avesse bisogno". De Rossi riferisce di averlo contattato perché "assieme al compagno di squadra Mehdi Benatia, aveva avuto poco prima una discussione in un locale e temendo conseguenze aveva pensato a De Carlo". L'informativa sottolinea che De Carlo, "dando prova di grande confidenza, gli confermava di poter contare sempre sul suo aiuto: 'Chiamame sempre... bravo! Hai fatto bene Danié, amico mio...' ". A prendere le difese di De Rossi è Mauro Baldissoni, d.g. della Roma: "Non montiamo casi. L'indagine in sé è molto seria, bisogna fare attenzione - ha detto alla radio ufficiale del club -. Mi auguro non si strumentalizzi la posizione di nessuno. Non ci sono rilievi penali. Alcuni giocatori stavano festeggiando una vittoria in un locale, a quanto pare un tifoso per eccesso d'entusiasmo era diventato un po' molesto e aveva aspettato Benatia, all'uscita, con atteggiamento minaccioso. De Carlo era all'interno del locale, solo per questo che De Rossi l'ha chiamato. Lo spiegherà Daniele stesso già da domani. In questi giorni è un po' sfortunato. Quando cerca di aiutare i compagni, rischia poi di trovarsi coinvolto in situazioni spiacevoli". Gli investigatori del Ros nella loro informativa riportano anche di un incontro tra Giovanni De Carlo e l'ex calciatore della Lazio Giuseppe Sculli, poi coinvolto nell'inchiesta sul calcioscommesse della procura di Cremona e nipote del superboss della 'ndrangheta Giuseppe Morabito, detto U tiradritt´. Le intercettazioni del Ros hanno appurato anche "numerosi contatti» di De Carlo con le compagne dei calciatori Mattia Destro della Roma e Blerim Dzemaili all'epoca in forza al Napoli e con la coppia Stefano De Martino e Belen Rodriguez. Sempre a De Carlo si era rivolto il cantante napoletano Gigi D'Alessio dopo che i ladri avevano rubato dalla sua casa dell'Olgiata una collezione di Rolex del valore di quasi 4 milioni di euro. In quell'occasione De Carlo si presentò a casa del cantante dove rimase per trenta minuti. E lo stesso fece il conduttore Teo Mammuccari chiedendo "sostanze dopanti per la palestra in particolare GH, ormone per la crescita". "Sono chiacchierone, ma non spiattello i cavoli tuoi in giro...non dico che vuoi diventare Hulk", la risposta a Mammuccari.
Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata. Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Chi crede che la Città dello sport di Tor Vergata, nella landa desolata della periferia a Sud Est di Roma, sia un’opera incompiuta fra le tante, sbaglia di grosso. Perché è assolutamente unica. Non per le sue dimensioni: la copertura reticolare a forma di vela che l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà potuto ammirare chissà quante volte dallo spazio è alta 75 metri e per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni, Iva esclusa. E per completarla ne servirebbero altri 426. Per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita. Numeri che portano realisticamente a escludere che il progetto concepito dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava possa mai vedere la luce, almeno in quella forma. L’unicità di una questa incompiuta, la cui costruzione è paradossalmente cominciata quando già erano stati versati fiumi d’inchiostro sullo scandalo delle opere pubbliche non finite, consiste nel fatto che non si sa nemmeno chi ne sia il padrone. Il terreno sul quale sono stati costruiti gli scheletri delle gradinate degli stadi del nuoto e del basket sono di proprietà dell’Università statale Tor Vergata. Ma ciò non significa che tutto quel meraviglioso cemento e la vela che sormonta le tribune del nuoto (il progetto di Calatrava ne prevede una seconda identica sopra quelle del basket) siano di proprietà dell’Ateneo. I soldi sono statali, certo. Dunque quel mostro è certamente dello Stato. Ma di quale pezzo, nessuno lo sa. E forse non era chiaro nemmeno all’inizio. Già, l’inizio. Vale la pena di ricordare com’è andata. Quando nasce l’idea di realizzare alcuni impianti sportivi sui terreni dell’università di Tor Vergata (600 ettari!) il sindaco di Roma è ancora Walter Veltroni. Si tratta di un’area immensa accerchiata da un’edilizia disordinata e orribile, e priva di collegamenti: anche se a pochissima distanza passano le linee A e C della metropolitana. Per il progetto iniziale viene prevista una spesa di 60 milioni, che subito però raddoppiano. Anche perché nel frattempo Roma si è vista assegnare i mondiali di nuoto del 2009. E siccome salta fuori l’idea di farli nel nuovissimo impianto che si sta costruendo, le operazioni passano nelle mani della Protezione civile di Guido Bertolaso. I mondiali di nuoto non sono forse un Grande evento, e dal 2001 i Grandi eventi non sono sempre stati gestiti da palazzo Chigi con un commissario ad hoc? Ecco allora spuntare anche qui Angelo Balducci, l’ex provveditore delle opere pubbliche protagonista delle inchieste sulla Cricca. Ma sarebbe ancora niente, se l’opera avveniristica progettata da Santiago Calatrava e la cui realizzazione è affidata al gruppo Caltagirone, venisse conclusa per tempo. Peccato però che già quando si comincia a lavorare allo stadio del nuoto è chiaro che difficilmente sarà pronto per i mondiali. E allora? Succede tutto quello che non dovrebbe succedere. A palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e al Comune di Roma s’è insediato Gianni Alemanno. La figuraccia internazionale incombe: ma anziché cercare di evitarla si pensa di risolvere la faccenda spostando le gare nel vecchio impianto del Foro Italico. Quanto alla città dello sport, tornerà buona per le prossime olimpiadi. Per i giochi olimpici, però, non bastano le piscine. Ci vuole anche uno stadio da 15 mila posti per il basket, la pallavolo, il tennis e gli sport al coperto. Che prontamente viene messo in cantiere. Ci sono soltanto un paio di problemini. Il primo è che ci sono soldi soltanto per uno stadio, quello del nuoto: per due impianti non bastano di certo, ma di questo nessuno si cura. Il secondo è che le Olimpiadi a Roma sono ancora nel mondo dei sogni: e quando arriva il governo di Mario Monti anche il sogno svanisce. Un suicidio in piena regola. Non fosse bastato, nel disperato tentativo di dare un senso a quella storia c’era chi aveva pensato di coinvolgere alcuni privati non meglio identificati. Ma l’idea di una trasformazione “commerciale” è per fortuna abortita subito, tanto era balzana. Andateci adesso, alla città dello sport. Vedrete fino a che punto possa arrivare il dilettantismo e l’irresponsabilità di certi politici. E come si possano buttare allegramente dalla finestra duecento milioni dei cittadini. Ora si sta cercando di salvare il salvabile, ma non è certo facile. Un anno fa, durante una riunione di commissione al Comune di Roma, il nuovo rettore Giuseppe Novelli ha fatto intravedere la possibilità di adattare il progetto con “ampliamento della destinazione alla Scienza”, naturalmente “salvo il benestare dell’architetto Calatrava”. Mentre la delegata per l’Ambiente dell’Ateneo, Antonella Canini, si è spinta a ipotizzare, è riportato nel verbale della commissione la realizzazione di “una serra che diventerebbe la più grande d’Europa e potrebbe ospitare piante, farfalle e altri percorsi dell’evoluzione, spaziando come tematiche dall’informatica alla natura. Potrebbe divenire, con il benestare dell’architetto Calatrava, un enorme polo di interesse turistico”. Nascerà allora una facoltà universitaria nello stadio delle piscine? O quella gigantesca serra? Comprensibile che almeno la vittima di questa assurdità, l’Università di Tor Vergata, si faccia venire qualche idea. Ammesso però che qualcuna di queste ipotesi abbia un senso, ed è tutto da dimostrare, servirebbe sempre una somma compresa fra i 60 e i 150 milioni. Si potrebbero ricavare dai fondi europei, pensa Novelli. Ma per il momento non ci sono, anche se sono molti meno dei 426 necessari al completamento della città dello sport. Una cifra che da sola rappresenta il 24,3 per cento dei soldi (un miliardo 751 milioni) che servirebbero per finire le 683 opere pubbliche incompiute censite dal ministero delle Infrastrutture e dall’Ance: 83 delle quali nel Lazio, la regione in assoluto più funestata dal fenomeno.E non possiamo nemmeno immaginare dove il premer Matteo Renzi troverà tutti quei soldi se davvero, come ha detto, pensa di utilizzare gli impianti per le Olimpiadi del 2024: ma questo ci sembra un film purtroppo già visto. Ogni giorno che passa, nel frattempo, corrono il degrado e i costi che si devono sopportare per questo stato di cose, dalla vigilanza alle manutenzioni. Ed è davvero inaccettabile che nessuno dei responsabili di questa follia ai danni dei contribuenti finora abbia pagato.
Città dello Sport, cronaca degli sperperi. Dieci anni di lavori stop and go, già spesi almeno 240 milioni, ma ne mancano 400 per terminare le opere, scrive Paolo Foschi Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”.
2005: Veltroni annuncia il progetto da 60 milioni. Il progetto della Città dello Sport di Tor Vergata viene annunciato l’8 febbraio del 2005 dalla giunta guidata da Walter Veltroni con una conferenza stampa in Campidoglio. Secondo il piano originario, il costo stimato dell’opera è di 60 milioni di euro a carico del Comune grazie ai fondi di Roma Capitale. La consegna del cantiere ultimata è prevista per la primavera del 2008, un anno e mezzo prima dei Mondiali di Nuoto di Roma del 2009.
2006: affidati i lavori, i costi subito raddoppiano. Il 9 maggio del 2006 in Campidoglio l’architetto Santiago Calatrava illustra il plastico del progetto della Citta dello Sport. E il costo stimato è più che raddoppiato rispetto alle prime stime: si parla infatti di 120 milioni di euro. I lavori sono affidati alla Vianini (gruppo Caltagirone), mentre la gestione dei fondi è affidata alla Protezione civile, all’epoca guidata da Guido Bertolaso, che chiama Angelo Balducci (che sarà poi travolto dagli scandali giudiziari legati agli appalti del G8 alla Maddalena), che a sua volta sarà sostituito da Claudio Rinaldi.
2007: Veltroni promette la fine dei lavori in 24 mesi. Il 21 marzo 2007, con i lavori già avviati da qualche mese per la preparazione dell’area, si svolge la cerimonia di posa della prima pietra della Città dello Sport, alla presenza del sindaco Walter Veltroni, del presidente Coni Gianni Petrucci e del progettista Santiago Calatrava. Il sindaco garantisce che entro 24 mesi i lavori saranno terminati.
2008: i costi lievitano ancora, 240 milioni di euro. Il 2008 è l’anno più tormentato per la storia della Città dello Sport di Calatrava. Il preventivo dei costi balza a 120 milioni, le spese lievitano e i tempi sembrano allungarsi, mentre i Mondiali di Nuoto si avvicinano. Gianni Alemanno, da poco eletto sindaco, a ottobre visita il cantiere, si dice ottimista. A dicembre però dopo una frenetica consultazione con direzione lavori, comitato organizzatore dei Mondiali di Nuoto e vari enti interessati, viene issata la bandiera bianca: la rassegna iridata non potrà svolgersi a Tor Vergata.
2009: fine dei soldi, bloccati i lavori. Sfumati i Mondiali di Nuoto, i lavori vengono bloccati dopo che sono stati spesi quasi 250 milioni di euro. Scoppiano polemiche e si assiste al solito rimpallo di responsabilità, mentre Calatrava continua a difendere la validità del progetto.
2011: i lavori ripartono ma senza date di consegna. Nel 2011, con la candidatura (poi sfumata) di Roma per le Olimpiadi del 2020, viene riaperto il cantiere, ma non viene fissata una data certa per la consegna, anche perché intanto la stima complessiva delle spese per il completamento dell’opera arriva a 660 milioni di euro, cioè esattamente 11 volte il prezzo iniziale annunciato nel 2005.
2012: Alemanno annuncia l’arrivo di fondi privati. Il cantiere ufficialmente è di nuovo aperto, ma i lavori procedono al rallentatore. A novembre però il sindaco Alemanno annuncia che le opere saranno completate con fondi privati. A oggi, promessa non ancora mantenuta.
2014: ipotesi orto botanico al posto di una delle «vele». A gennaio l’università di Tor Vergata propone di cambiare la destinazione d’uso della «vela» incompleta: è cioè coprirla (costo stimato 60 milioni) e realizzare un orto botanico al posto dello stadio del nuoto, lasciando aperta comunque la possibilità di utilizzare lo spazio anche per eventi sportivi e eventi vari.
2014: il Codacons propone la demolizione della grande incompiuta. Nell’ottobre del 2014 il Codacons, associazione di consumatori, con una proposta dal sapore anche provocatorio propone la demolizione delle opere incompiute della Città dello Sport di Tor Vergata, perché la struttura lasciata a metà «danneggia il paesaggio e la collettività».
2015: le ipotesi in ballo per completare l’opera. Il 13 gennaio, nel corso del convegno a Roma intitolato «Opere incompiute, quale futuro?», tenuto proprio a Tor Vergata, si è parlato proprio del caso della Città dello Sport. «Sono convinto - ha detto l’architetto Calatrava - che le Vele saranno terminate, non mi è mai capitato in 30 anni di professione che una mia opera iniziata non sia mai stata conclusa. L’avanzamento dei lavori è attualmente al 70-75%». Mancano circa 400 milioni. Il Campidoglio non ha la possibilità di finanziare il completamento delle opere. L’università di Tor Vergata, proprietaria dei terreni, propone di utilizzare fondi europei, il rettore, Giuseppe Novelli, è perentorio: «La Città dello Sport va completata».
Ritratto della Roma mafiosa che fingiamo di non vedere. Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo è una spietata fotografia della Capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità criminali nella città, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Questo libro è dedicato a chi ha fatto finta di niente e ha preferito voltarsi dall'altra parte. Leggetelo, almeno sfogliate qualche pagina, cercate un nome, controllate se - per caso - sotto casa vostra o dentro al ristorante dove di solito andate a mangiare con i vostri amici c'è puzza. Puzza di mafia. Potete mostrare meraviglia, restare a bocca aperta, balbettare qualche scusa, ma d'ora in poi nessuno vi crederà più. Nella migliore delle ipotesi qualcuno vi dirà che siete dei fessi, che avete frequentazioni poco raccomandabili, che pur mostrandovi sempre e ovunque molto politicamente corretti siete stati trascinati in una zona di confine molto scivolosa, "terra di mezzo" la chiama un fascio-boss che tutti conoscono come "Er Cecato". Non ve n'eravate accorti? La mafia c'è davvero anche a Roma? Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo, reporter allenati a inseguire indizi e a metterli sapientemente uno dietro l'altro, è una spietata fotografia della capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità - politica di destra e di sinistra, soubrette, calciatori famosi, attori, cantanti, ultras, "padroni" di cooperative rosse e rispettabilissimi professionisti al di sotto di ogni sospetto - con un sistema criminale che per troppo tempo è stato protetto dal silenzio. Prima di anticipare cosa concedono i capitoli, riportiamo subito uno dei tanti dettagli inediti contenuti in quest'indagine giornalistica, che comprende sì una ricostruzione giudiziaria, ma che ha la sua origine sul campo, dal mestiere di chi racconta la realtà che ha intorno. Il dettaglio da segnalare riguarda un'elargizione di 5 milioni di euro spalmata in sei anni in favore dell'Immobiliare Ten, amministrata dal 2009 da Riccardo Totti, fratello di Francesco, il capitano della Roma che di quell'immobiliare controlla l'83 per cento. Nulla di illecito, niente di penalmente rilevante - e infatti i personaggi di questa vicenda affiorano appena fra le pieghe dell'inchiesta - ma molto significativa per capire Roma e i suoi gironi con protagonisti e comparse tutti allacciati fra loro in affettuosa confidenza. È l'affare dei Caat (Centri di assistenza abitativa temporanea), 43 milioni all'anno da spendere e quel Luca Odevaine che è stato vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni prima e a capo della polizia municipale con Zingaretti poi, che "segue" la pratica per l'affitto di 35 appartamenti arredati a Tor Tre Teste intestati all'Immobiliare Ten. Quasi tremila euro al mese per ogni appartamento nell'estrema periferia romana, "una beneficenza al calciatore più ricco di Roma". Il libro di Abbate e di Lillo sulla mafia che sporca la capitale d'Italia, oltre alla mole di informazioni che ci offre e alla chiarezza dell'esposizione, ha un pregio particolare: parla di un crimine "attuale". È cronaca in diretta, accade tutto sotto il nostro naso. Merito anche dei magistrati che quest'inchiesta hanno sviluppato (da Pignatone a Prestipino, da Ielo a Tescaroli a Cascini) insieme ai carabinieri del Ros, un'inchiesta che può considerarsi a pieno titolo "apripista". Questo libro, ecco il valore, guarda dentro un "laboratorio" criminale. Si comincia dal racconto di come è nata una copertina dell'Espresso e si arriva "al Comune agli ordini di Massimo Carminati", si passa dall'esercito degli "impresentabili" dell'ex sindaco Alemanno e dalla "santa alleanza" fra i rossi e i neri. All'ultima pagina manca il respiro. Però, d'ora in poi, sarà più difficile dire: io non ne sapevo nulla.
Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?
Roma, il super-parcheggio fantasma costato 35 milioni di euro. La struttura, inaugurata due volte, è stata definitivamente chiusa nel 2006 ed è ora un ecomostro inutilizzato all’Aurelio, scrive Gianluca Russo su “Il Corriere della Sera”. Un ecomostro in cemento sotterrato e abbandonato a se stesso da dodici anni. Sul «Parcheggio Cornelia» ancora tutto tace e l’opera, resta chiusa e non serve a niente. Sette piani interrati e oltre trentacinque milioni di euro per il «parcheggio fantasma» che si snoda nei sotterranei del quartiere Cornelia, e che a guardarlo dall’alto, è diventato più una discarica o un dormitorio di fortuna per senzatetto. Seicentocinquanta posti auto muniti di sofisticati meccanismi idraulici con bracci automatizzati per parcheggiare l’auto in cinque minuti. Celle e box a nido d’ape in ogni piano, progettati con «grosse lacune sulla normativa antincendio e gravi problemi strutturali». «Un’opera avveniristica» spiega Marco Giovagnorio, consigliere del municipio XIII, che ha di recente presentato una mozione per chiedere la riapertura e la riconversione dell’opera, sfruttando il progetto del «Piano Urbano Parcheggi» per affidare a un privato la messa a norma del «parking». Nel 2012 il delegato per programma urbano parcheggi, Alessandro Vannini, ha riacceso i riflettori sulla questione concedendo al privato, la presa in carico dell’opera, con l’obbligo di pagare gli oneri concessori al Comune di Roma e riconsegnare alla cittadinanza un parcheggio normale, senza automatizzazioni, né strutture troppo costose da mantenere ma funzionante. Il parcheggio preso in carico dalla società «Progepar a.r.l.», che ha dovuto modificare il progetto originario presentando una proposta di riduzione dei posti auto, prevede di eliminare completamente un piano e la struttura meccanizzata, per ottemperare alle vigenti normative in tema di sicurezza antincendio e provvedere alla ricollocazione di 450 posti auto, di cui 350 a rotazione e 100 pertinenziali inizialmente previsti in via Trionfale. Intanto la Corte dei Conti ha aperto un’indagine per cercare di capirne di più sullo sperpero di denaro pubblico e sull’abbandono dell’opera. Un tentativo di apertura è avvenuto già negli anni novanta sotto la giunta Rutelli e poi con Veltroni, ma del parcheggio Cornelia, nonostante due inaugurazioni e dodici anni di silenzio, ancora è tutto fermo. Quello che doveva essere un’opera strategica per la mobilità del quadrante di Roma nord, oltre che il più grande parcheggio automatizzato d’Europa inaugurato nel 2001, resta oggi un fantasma in cemento sommerso dal degrado, dai costi di gestione elevati che dopo anni di abbandono, hanno portato alla chiusura definitiva dello stesso nel 2006, creando uno spreco di risorse pubbliche quantificabile in quasi cinquanta milioni di euro.
E poi c'è Pompei. La maledizione di Pompei: sequestrati 6 milioni all'ex commissario. Da Legambiente alla corte di Berlusconi: la parabola del manager sedotto dal potere, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Quella di Marcello Fiori è la paradigmatica storia italiana del promettente manager di Stato corrotto dalla politica, un destino di mala pianta pubblica maledettamente simile a Luca Odevaine, quello che "ancora adesso non riesco a crederci" disse Veltroni. Fiori e Odevaine hanno infatti la stessa bella origine da Legambiente. E fu capo di gabinetto di Veltroni l'Odevaine; e capo di gabinetto di Rutelli il Marcello Fiori. L'uno è finito in mafia capitale. L'altro è un rovinatore di rovine, con un solo grande rimpianto, a Pompei avrebbe voluto spendere di più: "È uno scandalo che l'insieme dei siti archeologi italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassa da solo il Louvre". Mannaggia! Di sé dice, ed è vero: "Sono figlio di un muratore e di una mondina". Ma è invece raccontato come la macchietta degli sprechi questo fondatore dei crepuscolari club "Forza Silvio". Infatti la Finanza gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina perché secondo la Corte dei conti deve risarcire almeno 6 milioni di euro alla martoriata Pompei. Ma Fiori, per la verità, fa una vita modesta, non gli si conoscono lussi privati, né aragoste né club massaggi, ha sposato una segretaria e ha un figlio di 17 anni. E del suo maestro Bertolaso ha preso l'idea che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati perché "in Italia a volte ci vuole un'intelligenza militare" ripete. Ma di Bertolaso non ha la comicità di tutti quei giubbotti, scarponcini, cappellini da baseball, caschetti di plastica dura, insomma la muta dell'operaio di Junger, la divisa del milite della fatica. E dunque Fiori ha sicuramente sperperato i soldi ma per cementificare il teatro di Pompei dove poi si esibì un virtuosissimo Riccardo Muti con la quinta sinfonia. E spese addirittura dieci milioni per gli impianti telefonici, centomila euro per spostare 19 pali della luce, 90mila per accogliere Berlusconi che neppure venne, centomila per cacciare 55 cani randagi "perché erano rabbiosi". E diecimila per autocelebrarsi con un libro a tiratura limitata: 50 copie. E ora "rifarei tutto" dice. La spavalderia è come si vede, quella del "pulisco Napoli in dienizzati ci giorni", del "fatemi intervenire prima che ci scappi il morto", e ancora "a Pompei sto facendo miracoli". La stessa sbruffoneria appunto di Bertolaso che è "il modello della mia vita, il più grande e straordinario manager che l'Italia abbia mai avuto nella gestione della cosa pubblica, il servitore dello stato che ha unito efficienza, velocità e umanità". E invece l'Italia ricorda Bertolaso come l'imperatore di tutti gli appalti sporchi, lo sciacallo della protezione incivile che imponeva costi maggiorati e senza controllo e si affidava a imprese che lucravano in nome della fretta e della furia. Un passo dietro lui, il mite e discreto Fiori ad ogni uscita si esibiva un po' di più sulle macerie dell'Aquila mentre organizzavano il G8. Finché come Bertolaso si mise a parlare da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso: "Non ho paura dei tribunali. Venissero loro a lavorare". Il diavolo piegava la testa e seguiva il suo comandante. Era un profilo, una sagoma, un esecutore d'ombra che diventava a poco a poco un altro uomo, un altro Bertolaso. Per 12 anni Fiori è rimasto alla Protezione civile dei Grandi Eventi e dei disastri, delle risate degli speculatori e dello strazio delle vittime, degli show sulla morte orga- per Berlusconi. Finché un giorno Giovanni Minoli a Radio 24 gli chiese: qual è il difetto di Berlusconi? "È troppo buono" rispose lasciando allibiti quelli che lo avevano conosciuto da ragazzo. Io stesso lo ricordo giovane cronista a Montecitorio, preciso e stimato collaboratore della Dire, l'agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer. Veniva da Legambiente appunto, nemico di quelle discariche di cui sarebbe diventato il Signore. Riccioluto, occhi chiari, belloccio, il suo intercalare in escalation romanesca era ed è ancora: "ciccio, ti dico che se fa così. Fidate!" Il mondo era quello di Mattioli e Scalia, Chicco Testa, Ermete Realacci, Enzo Tiezzi, Giovanna Melandri con Odevaine al seguito, Michele Anzaldi, Renata Ingrao. Qualcuno dice che aiutò Valerio Calzolaio a scrivere la legge sull'inquinamento acustico, di sicuro Renato Strada gli passava i documenti della commissione Ambiente. Fiori si occupava di consumatori. Ed era amico di Della Seta e di Francesco Ferrante. Dunque nessuno si meravigliò quando il sindaco Rutelli gli chiese di aiutarlo nel restituire il "decoro urbano" a Roma. Tutti lo ricordano "informatissimo, sempre attivo, l'uomo dei dati, delle carte, delle leggi, della soluzione geniale ai problemi disperati". Sul decoro urbano disse subito: "C'è un rapporto tra la bruttezza e il malaffare e l'indecenza estetica è la forza d'urto di interessi organizzati ". Poi si mise al lavoro e sfornò uno studio articolato di bonifica, quartiere per quartiere, piazza per piazza: insegne, bancarelle, marciapiedi. Quando fu eletto Sergio Mattarella, Rutelli, non solo per vanità, elencò i suoi ragazzi:, Renzi, Gentiloni, Giachetti, Franceschini, Filippo Sensi, Linda Lanzillotta... E poi: "Sono affezionato a Marcello Fiori che guida i club di Forza Italia". Adesso infatti Fiori vuole rifondare il berlusconismo "nel nome di Einaudi, Benedetto Croce, John Stuart Mill, ma anche Borges, Vittorini, Calvino e Leopardi". E ha lasciato il ruolo di dirigente dello Stato per intrupparsi con gli irriducibili di Salò, come un Toti qualsiasi. Dunque Fiori è lo Smeagol del Signore degli Anelli, un hobitt che, inserito nello Stato, anno dopo anno si è lasciato guastare dall'anello della Forza. E come nell'Epica di Tolkien, gli si annerivano i denti mentre contava i miliardi del Giubileo accanto a Roberto Giachetti che, - come nel caso di Odevaine, - "ancora non riesco a crederci". Poi mentre seguiva Bertolaso tra i disgraziati dell'Aquila gli esplosero i ponfi e le pustole del potere. E ovviamente, prima di mostrificarsi definitivamente nel Gollom, passò per Sandro Bondi che lo spedì Commissario a Pompei, ma soprattutto divenne, anche lui, un cocco di Gianni Letta, come Bertolaso appunto, e come Scelli e Bisignani. Letta è anche il referente politico della cricca, di Angelo Balducci ma è soprattutto il capo, anzi l'amico composto di quella brutta Italia che, come nel caso di Fiori, ogni tanto ancora viene fuori da quel Vaticano dei corridoi che è il mondo dei funzionari, dei dirigenti, dei soprintendenti e dei Commissari Supereroi con pieni poteri. C'è ancora in Italia un bertolasismo diffuso che pervade tutto, come un blob che attraversa le fessure e si impossessa dei grandi eventi, delle feste nazionali, delle ristrutturazioni, delle ricostruzioni, dei rifacimenti, degli ammodernamenti, da Pompei sino all'Expo. Abbiamo un commissario persino all'anticorruzione. Dunque quella di Fiori non è solo la storia drammatica di una grande speranza del management pubblico rovinata dalla politica. È anche il sintomo di una brutta infezione della democrazia italiana.
E poi c'è l'Eterna Incompiuta. A3: morte per l’operaio, milioni per il manager, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se leggete il sito “Viaggiare informati”, i dati che riguardano la Salerno-Reggio Calabria sembrano un bollettino di guerra e se trovate i punti esclamativi (quattro), insieme all’indeterminatezza della scadenza, dovrebbero mettervi sull’allarme. Per chi viaggia sulla Salerno-Reggio Calabria non c’è bisogno di punti esclamativi: uno sta già in allarme di suo. Guidare un Hammer, uno dei veicoli americani usati negli scenari di guerra, capaci di resistere anche a un Ied, Improvised explosive device, che so un’autobomba o un ordigno collocato in una buca sul terreno, piuttosto che la vostra automobile vi sarebbe di conforto, vi darebbe un po’ di sicurezza. Quella coi quattro punti esclamativi è la disposizione dopo l’incidente – il quarto mortale negli ultimi due anni – sul viadotto Italia, 1160 metri di lunghezza, 225 di altezza, con 19 campate, il più alto della Penisola e il secondo in Europa. La campata stradale ha ceduto di schianto. Nel crollo è morto un operaio, un venticinquenne, Adrian Miholca, rumeno. Miholca era alle prese con la demolizione della quinta campata del viadotto, direzione Reggio Calabria, quando c’è stato il crollo che ha fatto sprofondare la fetta di asfalto su cui stava spostandosi il trattorino guidato dall’operaio. Ottanta metri di volo. Adesso hanno chiuso tutto, anche perché precipitando la campata è andata a sbattere su un altro pilone rendendo instabile tutta la struttura. I lavori sul viadotto sono stati appaltati nel 2005. Poi, tra contenziosi vari, il cantiere è stato aperto un paio d’anni fa. Il progetto prevede la messa in sicurezza del collegamento, con una parziale demolizione «dell’impalcato del vecchio viadotto», per stare alle parole ufficiali dell’Anas. Cioè, su una carreggiata si viaggia in doppia corsia e sull’altra si facevano quelle che l’Anas ha definito «prove di demolizione». Poteva essere una tragedia. Che la giungla di appalti e subappalti, costringendo a lavorare anche dodici ore al giorno in condizioni di precarietà di contratti a termine, sia la causa principale della mancanza di sicurezza appare talmente scontato da ritenere irritanti le parole del sottosegretario alla presidenza Delrio: «Fatto indegno di un Paese civile». Già, lo si scopre solo quando muore qualcuno. Una lunghezza di 443 chilometri. Nel 1962, l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani prevedeva la pratica risolta in due anni e invece n’è venuto fuori un cantiere lungo più di cinquant’anni. Solo le profezie sono rimaste incessanti. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro Nerio Nesi (governo Prodi). «Finiremo nel 2004- 2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché nel settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Nel 2011 Giulio Tremonti, ministro all’Economia in carica, fece un blitz a sorpresa sulla Salerno-Reggio Calabria e scoprì che tanti cantieri erano aperti, ma senza uomini al lavoro. Se sulla A3 «ci sono molti cantieri, vuol dire che qualcosa è in atto però serve l’autostrada». Qualcuno chiese: bisogna finire questi cantieri? «Infatti. Prima è meglio è», rispose Tremonti. Entro il 2013? «Vediamo, vediamo». Sì, ciao. Tutto era iniziato con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione che quella strada rappresentava dopo un secolo «il compimento dell’Unità d’Italia». Craxi, nel 1987, allora premier, assicurò: la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata sistemata con mille miliardi di lire, ovvero 983 milioni di euro di oggi. Cinque anni più tardi i miliardi erano diventati già cinquemila. Altri cinque anni e il preventivo salì a seimila. E ancora: su a 6,9 miliardi di euro nel 2004, a nove nel 2008, a nove miliardi e 698 milioni nel 2010. In un articolo del 2007, sul Corriere della Sera Sergio Rizzo scrive che ogni chilometro dell’A3 è costato 20,3 milioni di euro. Una cosa senza possibilità di paragone nel mondo. L’Europa a un certo punto s’è stufata. Nel 2012, dopo le ripetute testimonianze riguardanti pizzo e mazzette accertate nei tribunali, l’Unione europea ha ingiunto all’Italia di dirottare su altri progetti i 388 milioni di euro di fondi europei destinati al tratto autostradale. Certo, la Salerno-Reggio Calabria non è solo una storia di mazzette, pizzo, sprechi, errori, morti. D’altronde, la pessima condizione dei viadotti e delle strade è dappertutto in Italia. In Sicilia, l’ultimo viadotto a crollare, lo Scorciavacche sulla statale 121 tra Palermo e Agrigento, ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana: inaugurato alla vigilia di Natale del 2014 è stato chiuso alla fine dell’anno. All’inizio di luglio 2014 collassò il viadotto Petrulla sulla statale 123 tra Licata a Ravanusa. Subito dopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nella stessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della Balata Baida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di un anno prima, febbraio 2013, s’era ammosciato il Verdura sulla statale 115 tra Trapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta venne giù un pezzo del ponte Geremia II. Succede anche al Nord: il caso più grave, con un autista di camion morto, risale a una decina d’anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò il viadotto Capodiponte. L’incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Po tra San Rocco al Porto e Piacenza. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nel fiume un’intera arcata trasformando la strada in una botola. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il 2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano in provincia di Matera si abbassarono all’improvviso di 2 metri. Nello stesso periodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopo in Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L’11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzo sulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all’altezza di Scoppito. Però, come dire, la Salerno-Reggio Calabria è ormai una metafora del paese. Quando i lavori dell’Autostrada del Sole ebbero inizio, nel 1956, il boom economico era dietro l’angolo e quello era inizio di un sogno. Doveva unire Nord e Sud, velocizzare i trasporti, dunque il mercato, e la mobilità degli uomini. Doveva rappresentare una prova concreta di quello che era, almeno a quei tempi, lo spirito italiano. Il terminale dell’infrastruttura doveva essere la Calabria, fino allora considerata la terza isola, proprio per la scarsità di collegamenti con il resto del Paese. Però, invece di raggiungere l’estremo sud, si fermò a Napoli. È così che nasce la Salerno-Reggio Calabria, declassificata nel piano dell’Iri tra le cosiddette autostrade aperte, quelle cioè che non potevano essere soggette a un pedaggio per le particolari condizioni di sottosviluppo dei territori attraversati, e la si affida all’Anas. Così, il sistema autostradale del centro nord, gestito da Società Autostrade per conto dell’Iri, cresce fino a far raggiungere all’Italia il primo posto in Europa quanto a dotazione autostradale, mentre al Sud inizia il calvario. La scelta di abbandonare l’iniziale progetto sulla litoranea tirrenica e di addentrarsi nel cuore della montagna calabrese, sulle pendici del massiccio della Sila, orograficamente molto complessa, per acconsentire il passaggio a Cosenza voluto da Mancini e Misasi – allungando il suo percorso di 40 km, entrando per 22 km in galleria e dispiegandosi per 45 km su viadotti -, fu determinante: opere di ingegneria colossale, viadotti su viadotti, il trenta per cento del percorso dentro gallerie. Quasi trent’anni dopo il termine del percorso, nel 2001, il Piano generale dei trasporti e della logistica pronuncia una sentenza inequivocabile: «L’A3, la Salerno-Reggio Calabria non ha caratteristiche autostradali, anche se è classificata come tale». Non ci sono gli standard minimi richiesti per un’autostrada. Dal 1997 in avanti l’A3 diventa un enorme cantiere senza soluzione di continuità che attraversa tutto il tracciato dell’Autostrada, montagne comprese. Le condizioni difficili permangono. L’autostrada più difficile da costruire adesso è ovviamente la più difficile da ammodernare. Di fatto, ha raggiunto l’obiettivo opposto per il quale era stata pensata, voluta, progettata, costruita: separare il Nord dal Sud, isolando logisticamente il Meridione. La Calabria rimane la terza isola d’Italia. Dopo l’incidente mortale al rumeno Adrian Miholca sul viadotto Italia, il presidente dell’Anas Pietro Ciucci ha pensato di mandare un telegramma di condoglianze. Pochi giorni prima, è stata presentata un’interpellanza urgente alla Camera per chiarire la questione dei compensi percepiti da Ciucci. Succede che nel 2013 l’attuale presidente e amministratore dell’Anas Pietro Ciucci decida di non fare più il direttore generale. Forse un uomo e tre cariche erano davvero troppe. Così, si autolicenzia, cioè il Ciucci presidente e il Ciucci amministratore delegato licenziano il Ciucci direttore generale. Risoluzione consensuale. Succede pure però che lo stesso Ciucci direttore generale avanzi al Ciucci presidente e al Ciucci amministratore delegato riconoscimento “dell’indennità di risoluzione senza preavviso”. Questa vale circa ottocentomila euro, e quella, la risoluzione consensuale, vale circa un milione. Totale un milione e ottocentomila euro. Una somma che non potrebbe sommarsi, dato che delle due l’una, o è consensuale o è senza preavviso. Ovviamente, aspettiamo tutti di sapere quanto varrà la buonuscita del Ciucci presidente e anche quella del Ciucci amministratore delegato. Ora, certo, l’A3 è stata una gruviera, la ‘ndrangheta ci ha bagnato il pizzo per decenni e le cosche hanno fatto affari di lusso, la follia della scelta del percorso più complesso è stata il male dell’origine e strologate dei politici succedutesi e le porcate di appalti e subappalti hanno fatto il resto. Però, ecco, almeno i soldi del telegramma di condoglianze sentite se li poteva risparmiare Ciucci.
E poi ci sono loro: gli "innominati".
La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ” corretta” , o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale” : e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.
«Legalizzate gli spinelli» Lo chiede l’antimafia, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Non lo dice Marco Pannella. Non è una campagna dei radicali. Signori, è il procuratore nazionale antimafia, che parla. O meglio, l’organismo da lui presieduto, la Dna: depenalizzate. Rendete lecito l’uso e la diffusione delle droghe leggere. Non perdete tempo. Perché di tempo, a dare la caccia agli spinelli, ne stiamo perdendo pure troppo. Lo dice con una chiarezza micidiale la relazione annuale 2014 della Direzione Nazionale Antimafia. Ci sono sei cartelle interamente dedicate alla questione degli stupefacenti – e riportate interamente in questa pagina. C’è un’analisi impietosa del fenomeno, con dati che fanno impressione: in Italia l’anno scorso sono stati immessi sul mercato 3 milioni di kg di cannabis, tra hashish marijuana e piantine. Tradotto in dosi, fanno 200 per ciascuno italiano. Duecento spinelli a testa, vecchi e bambini compresi. Parliamo dunque di qualcosa come 10 miliardi di dosi, o canne, commercializzate ogni anno nel nostro Paese. E questo si legge nella relazione dell’antimafia, nonostante siano impiegata «enormi risorse umane e materiali» per contrastare il fenomeno. Ma è come voler svuotare il mare con un secchiello da spiaggia. «Con le risorse attuali non è né pensabile né auspicabile, non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul front anti-droga inteso in senso globale, comprensivo di tutte le droghe », ma neppure « tantomeno, è pensabile è pensabile spostare risorse all’interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto al traffico delle (letali) droghe pesanti al contrasto al traffico di droghe “leggere”. In tutta evidenza sarebbe un grottesco controsenso». Ecco: sarebbe un grottesco controsenso. Si darebbe la caccia agli spinelli, anziché perfezionare per esempio l’azione nei confronti di produttori e spacciatori di droghe sintetiche, campo nel quale «la tecnica d’indagine» non è ancora sufficientemente «matura». Tenete poi conto, ci dice la direzione anti-mafia guidata da Franco Roberti, di altre due questioni. Da una parte «le ricadute che la depenalizzazione avrebbero in termini di deflazione del carico giudiziario di liberazione di risorse disponibili delle forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali» e, soprattutto, « di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite»( e qui nulla si aggiunge quanto a introiti che lo Stato potrebbe ricavare con la vendita legale). Dall’altra parte, l’antimafia ricorda opportunamente«la minore deterrenza delle norme penali riguardanti le cosiddette droghe leggere, sancita dalla recente sentenza numero 32/2014 della Corte costituzionale, che sostanzialmente non consentono l’arresto in flagranza». Quest’ultimo particolare aspetto fa prevedere, sempre nella relazione, una diffusione sempre in maggiore crescita delle droghe leggere. E d’altra parte se la Dna è arrivata a chiedere apertamente la depenalizzazione della cannabis (del suo uso privato e, evidentemente, anche della sua commercializzazione) è proprio perché i dati del 2014 sopra ricordati corrispondono addirittura al 120% di quelli del 2013. Cioè, nel nostro Paese, in un anno appena, la quantità di hashish e marijuana che c’è in giro è assai più che raddoppiata. Si tratta ormai di «un fenomeno oramai endemico, capillare e sviluppato ovunque, non dissimile, quanto a radicamento e diffusione sociale, a quello del consumo di tabacco ed alcool». La conclusione del documento difficilmente avrebbe potuto essere più chiara: «Spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo, in quanto parliamo di un mercato oramai unitario anche nel settore degli stupefacenti) sia opportuna una depenalizzazione della materia». Ma a questo punto, come si fa ad avere ancora dubbi?
Voto di scambio di Grillo: prestiti con i nostri soldi. Il trucco dei Cinque stelle per captare consensi: aiutano le imprese con il microcredito ma dimenticano che il fondo è foraggiato dagli stipendi pubblici dei parlamentari, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Quando si dice l'allievo che supera il maestro. Il Movimento Cinque stelle è riuscito in un'impresa leggendaria. I grillini sono passati dal vecchio assunto della sinistra cachemire et champagne «abbiamo una banca!», di fassiniana memoria, a «siamo una banca!». Direttamente. L'idea è ghiotta, non c'è che dire, e anche furbona. Lo slogan efficacissimo: «Possiamo salvare un'impresa al giorno per i prossimi 10 anni, i soldi li mettiamo noi dai nostri stipendi». Nemmeno quel gran ganassa di Matteo Renzi con lo spot elettorale degli 80 euro al mese seppe fare di meglio. I Grillo boys annunciano fino a 25mila euro di finanziamento (con una possibile ulteriore integrazione di 10mila, per un totale di 35mila euro) di cui potranno godere subito duemila imprese. Un fondo di rotazione alimentato dalle rate restituite e dai nuovi stanziamenti che arriveranno dagli stipendi del M5S e dal ministero dello Sviluppo economico. E c'è pure un sito, www.microcredito5stelle.it , che spiega tutto. Il gran capo Beppe specifica sul blog: «Non servono garanzie reali, basta un business plan e un'idea sostenibile di impresa. Il credito viene erogato a tassi molto bassi su un termine fino a 7-10 anni». Tutte le persone che vogliano intraprendere una nuova attività imprenditoriale o che abbiano un'impresa da meno di 5 anni da oggi possono bussare a casa Grillo. Microimprese fino a 5 dipendenti, società a responsabilità limitata semplificata e cooperative fino a 10 dipendenti, lavoratori autonomi e società di professionisti. Un bel consulente del lavoro e il gioco è già fatto. La Banca (nazional) popolare Cinque Stelle ha aperto gli sportelli. Il Movimento dice di avere già 50 milioni di euro disponibili. Soldi che arrivano dai due Restitution day , quando i parlamentari Cinque Stelle hanno versato la metà delle loro indennità insieme alle eccedenze della diaria non rendicontata, compresi i famigerati scontrini. Tradotto: soldi pubblici. L'iniziativa è nobile. I parlamentari grillini hanno deciso di destinare quei soldi a un fondo per le imprese e non al loro conto corrente. Ma va comunque specificato che il loro bel gesto non è stato reso possibile grazie ai fondi personali, ma bensì con parte dei soldi pubblici che gli stimatissimi onorevoli-cittadini ricevono ogni mese da Camera e Senato. La cosa è ben diversa. Tutti coloro che da ora in poi riceveranno soldi dalla Bank of Grillo («40 imprese al mese»), matureranno un enorme debito di riconoscenza nei confronti di chi gli ha fornito quei finanziamenti. Riconoscenza che potrebbe essere sfruttata da Grillo, Casaleggio & Co. al momento più opportuno. Sotto elezioni per esempio. Silvio Berlusconi è stato accusato di voto di scambio per molto meno. Ma, come insegna il nostro presidente del Consiglio, in politica non conta tanto quello che si fa, ma quello che si fa credere di aver fatto. Occhi sgranati, voce tremante, sguardo spiritato, Alessandro Di Battista (che, infatti, da grande aspira a fare il premier) ha pubblicato sul blog di Grillo un video per presentare questo «giorno storico» e invitare tutti al mercato romano del Testaccio insieme al vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio con il quale si è cimentato nello sport preferito dai Cinque Stelle: lo srotolamento dello striscione (con cifra dell'assegno da 10 milioni per il fondo microcredito). Strette di mano al banco del pesce, sorrisi a quello dei formaggi, selfie con gli ambulanti. Passa dall'auto congratulazione («È una cosa buona, datecene atto») alla lezione di filosofia («Un mare è fatto di tante gocce»). Il banchiere Di Battista della Bank of Grillo ora è pronto a incassare.
E poi c'è la Rai. Rai, i giudici assolvono Libero e Oscar Giannino: "E' lottizzata, non è diffamazione", scrive “Libero Quotidiano”. La lottizzazione politica in Rai? E' cosa nota. Con questa motivazione la Corte di Appello di Milano ha assolto dall'accusa di diffamazione Oscar Giannino, il giornalista di Libero Enrico Paoli e l'allora direttore Alessandro Sallusti, portati a processo nel 2008 da viale Mazzini a causa di alcuni articoli pubblicati su Libero nel febbraio 2008. La tesi di quegli articoli, corredati da un diagramma, era chiara: in Rai le 900 poltrone dirigenziali erano spartite a seconda dell'appartenenza politica, seguendo un rigoroso manuale Cencelli che rispettasse le quote riservate a destra, sinistra e tecnici. Gli allora presidente e direttore generale della tv pubblica Claudio Petruccioli e Claudio Cappon non la presero bene e adirono alle vie legali. "Non era sicuramente un documento ufficiale Rai, e non è dunque il prodotto di una illecita schedatura domestica - spiegano i giudici milanesi -, tuttavia deve ritenersi atto informale interno, di provenienza verticistica, perché redatto da soggetto molto ben informato dell'effettivo organigramma". E sulla distribuzione "politica" dei dirigenti, la Corte d'Appello sottolinea come sia "circostanza notoria" che in Rai "anche i soggetti più che meritevoli siano avvantaggiati dalle conoscenze in ambito politico, perché sovente per fare carriera le sole doti personali non bastano e la meritocrazia è concetto di eccezionale applicazione, riservato a quei rari casi che emergono dal coro per peculiari e incontestabili capacità".
"Rai lottizzata", l'articolo di Oscar Giannino su Libero del febbraio 2008. Ripubblichiamo il pezzo di Libero del 7 febbraio 2008 a firma Oscar Giannino. Che l’organico Rai fosse figlio delle lottizzazioni era noto da tempo. Un direttore di Rete a te, una testata a me. Meno nota era l’esatta ripartizione di questa lottizzazione, figlia degli accordi fra maggioranza e opposizione. Del tutto sconosciuta era invece l’entità, più o meno esatta, di quanto fosse vasta e diffusa la presenza del centrosinistra all’interno dell’assetto organizzativo della Rai. La prova di tutto questo è contenuta in un documento ufficioso in cui si dà conto da che parte sta chi occupa posizioni dirigenziali che vanno dal ruolo di direttore a caporedattore. La fotografia che ne esce fuori è una vera onda rossa. Quando parliamo di parte alta dello schema, tanto per esser chiari, facciamo riferimento all’area Staff, limitandoci al Cda, ai direttori e ai vice (tabella di pagina 11). Ebbene su 36 posizioni, 21 sono occupate dal centrosinistra, 13 dal centrodestra e 2 da tecnici. Quante volte gli esponenti di centrosinistra, in questi ultimi due anni, hanno gridato che la politica doveva star fuori dalla Rai, quante volte hanno accusato il centrodestra di voler militarizzare la Rai? Quante volte? Colorando le caselle si scopre un’altra realtà. Volete un altro esempio? Presto fatto. Prendiamo l’area staff e l’area editoriale nella sua parte più ampia. Su 164 posizioni , 95 sono colorate di rosso, 62 di blu e 7 di verde. Più della metà fa massa critica. Scendendo verso il basso il rosso diventa alta marea. Per fare un altro esempio, i deputati e senatori di Forza Italia, nonché membri della commissione di vigilanza sulla Rai, sostengono che i tg regionali «sono troppo sbilanciati a sinistra». Possibile, essendo Rai Tre tradizionalmente di sinistra. Sta di fatto che gli esponenti azzurri, a partire da Paolo Bonaiuti, vice presidente della commissione di vigilanza Rai, hanno chiesto all’azienda i dati dell’osservatorio di Pavia, che si occupa di monitorare quanto spazio viene dato a ogni partito. Certo, osservando la divisione “dei pani e dei pesci” di cui vi diamo conto in questa e nelle pagine successive, qualche dubbio ci viene, e diventa difficile dar torto agli esponenti azzurri. Stando al gioco del “chi sta con chi”, tanto in voga in Rai, si scopre che all’interno della testata giornalistica regionale, su 51 posizioni dirigenziali, ben 32 sono occupate da vice direttori e capiredattori che, per la vulgata interna dell’azienda, sarebbero di centrosinistra. Sarebbero. Perché questo non è un documento ufficiale, ma una variazione sul tema: l’assetto organizzativo corrisponde ai fatti, i colori invece, un po’ come le bandierine di Emilio Fede, sono stati piazzati lì secondo le «voci di dentro», riprendendo le indicazioni dell’editore, cioè la politica. E pensare che i nomi “colorati” sono quelli di professionisti. E non tutti hanno una tessera in tasca. Se poi uno volesse andare sino in fondo, scoprire che alcuni rami dell’albero rosso-blu sono isole completamente rosse, fa un certo effetto. Ribadiamo, si tratta di professionisti dell’informazione, dipendenti della Rai, la cui colorazione dipende da una presunta appartenenza politica. Spesso però da quella presunta appartenenza dipende il ruolo, soprattutto nelle posizioni di vertice, come quelle di direttore e vice direttore. E volendo disquisire sui direttori delle testate giornalistiche, 9 in totale, al centrosinistra ne toccano quattro, altrettante al centrodestra, mentre una è di competenza tecnica. Par condicio rispettata dunque? No, non è esattamente così. Perché secondo il risiko Rai, nel gioco dei vice direttori il rosso fa la parte del leone, finendo così con il controllare la macchina dell’informazione. Seguendo lo schema che trovate in questa pagina, al Tg3 l’unica voce fuori dal coro è quella di Anna La Rosa. Un capo redattore contro tutti. Mica male no? Qualcosa di simile avviene a Rai News 24 e a Radio Uno e Gr Rai, guidati da Antonio Caprarica. Il quale, tanto per dare l’idea di quanto sia flessibile il gioco dei rossi e dei blu, sta puntando ad occupare una casella dell’area televisione. Della radio, l’ex fashion corrispondente da Londra, non ne potrebbe proprio più. Per chi volesse divertirsi un po’, invece, seguendo le regole del gioco enunciate all’inizio di questo pezzo, vi ricordiamo che la Rai e Deborah Bergamini, ex direttore del Marketing Strategico dell’azienda, ieri hanno raggiunto un accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con effetto dal 31 gennaio. Chi prenderà il suo posto? Di che colore diventerà quella casella? Attualmente è verde, si accettano scommesse. Nel frattempo uno dei verdi dell’albero rosso-blu, ieri ha battuto un colpo. Il Consiglio di Amministrazione della Rai infatti ha approvato a maggioranza il piano di produzione 2008 della fiction. Il Cda ha anche avviato l’esame del piano di produzione e trasmissione 2008 delle reti televisive, illustrato dal vice direttore generale per il prodotto, Giancarlo Leone. All’interno del Cda poi è stato affrontato anche il caso di Michele Santoro, che con il suo Annozero è finito nel mirino del garante dell’Agcom. Ma questa è un’altra storia, che non fa parte dei rossi e dei blu in senso stretto, visto che i conduttori sono sì schierati, ma in modo netto, senza dover ricorrere a tabellini o tabelloni. Insomma il gioco della lottizzazione in Rai, alla fine, rischia di essere tutt’altro che una cosa seria, se non fosse che quelli che ci credono di più sono quelli che stanno dentro al gioco. E non fuori. Ma sì, avanti popolo rosso-blu.
Stipendi Rai, la metà dei giornalisti del servizio pubblico guadagna più di 105 mila euro, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo decenni di lottizzazione dei partiti sulla Rai, viale Mazzini sembra più un Titanic affollato, eppure fa ancora gola a tanti, soprattutto ai giornalisti. E non c'è da stupirsi se si considera che su 1.581 giornalisti del servizio pubblico, la metà guadagna più di 105 mila euro all'anno. Un'allegra comitiva dove il più sfigato è un caposervizio (in tutto 279), fino a salire con dirigenti giornalisti e capiredattori che (303 fortunati) che incassano stipendi tra i 120 mila e 240 mila euro. Non di più solo grazie all'imposizione del ministero del Tesoro che ha stabilito il tetto massimo per i dirigenti nelle società partecipate. I dati messi insieme dal Fatto quotidiano aggiungono anche i 64 inviati speciali dei tg della Rai che a cranio guadagnano 126 mila euro. E poi ci sono i 150 vice capiredattori che in media portano a casa ciascuno 120mila euro per un totale sul bilancio aziendale di 18 milioni di euro. Se c'è una cosa che non si può contestare all'azienda di viale Mazzini è come sa gratificare economicamente i propri dipendenti. Il buon cuore con i soldi pubblici trova la sua fulgida espressione anche con i 688 redattori ordinari con contratto a tempo indeterminato che in media beccano all'anno 85 mila euro, roba avveniristica per tante altre redazioni. Un po' più sfigati sono i redattori "a scadenza" che incassano ciascuno 54 mila euro annui. I dirigenti in tutta la Rai sono 262. Nonostante le promesse di spending review della gestione Gubitosi, nel 2013 ne sono arrivati altri 13. In 35 sono stati promossi e ovviamente a questi meritevoli manager è stato adeguato lo stipendio, sempre con il tetto massimo di 240 mila euro. C'è poi la pletora degli 8.501 dipendenti, tra impiegati di varie mansioni, quelli di fascia superiore guadagnano in media 67mila euro. C'è un gruppone di 1360 lavoratori a tempo determinato. Di questi 262 sono altri giornalisti, 349 sono operatori di regia. Ma il vero mare magnum dello sfruttamento, continua il Fatto, spunta nella tabella "collaboratori con contratto di lavoro autonomo, a progetto e partite Iva". Un esercito di 10.019 persone che in tutto costano 110 milioni di euro. 31 di questi nel 2013 hanno incassato 310 mila euro a testa, 175 hanno portato a casa tra gli 80 mila e i 240 mila euro. Tutti gli altri, più di 9 mila dipendenti autonomi hanno i compensi più disparati da poche decine di migliaia di euro.
E poi ci sono le province. Gattopardi di provincia: aboliti gli enti, non è cambiato nulla. Doveva essere la grande riforma per tagliare gli sprechi e modernizzare il paese. Ma è ancora tutto bloccato. Tra impiegati che dormono sulle scrivanie e dirigenti che saltano su poltrone migliori, scrive Fabrizio Gatti “”L’Espresso”. Il principe dei Gattopardi è uno come Fabrizio Sala. No, non è un refuso di stampa. Il nome del principe siciliano era Fabrizio Salina, certo, ma solo nel famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il nostro Gattopardo di provincia, quasi omonimo, viene dalla Brianza. «Cambiare adesso con Sala si può», promette il motto sui suoi manifesti con lo stemma del Popolo delle libertà. Non conoscete Fabrizio Sala? Appunto. L’importante è che lo conoscano loro: l’amico Paolo Berlusconi, il fratello Silvio con cui il principe si fa fotografare prima delle elezioni, l’onorevole da aiutare nella ricerca di una casa, insomma tutti quelli che da vent’anni militano nel cambiamento perché l’Italia rimanga com’è. Ed eccolo, da assessore provinciale all’Ambiente e alle bonifiche a Monza, riapparire accanto al governatore della Lombardia, Roberto Maroni: sì, oggi il principe dei Gattopardi è assessore regionale all’Expo e all’immagine delle imprese lombarde nel mondo. È riuscito a svignarsela dalla Provincia. Dal 2013 rappresenta l’esposizione mondiale di Milano per conto della Regione. E chissà se, come eredità, Sala, 43 anni, si è portato anche il mucchio di soldi e il conto aperto con il costruttore che a Monza le bonifiche le aggirava facendo taroccare i documenti. Nessun reato contestato all’assessore, per carità. Solo coincidenze. Mettetevi comodi. Perché questo viaggio nel caos dell’intramontabile Provincia attraversa l’Italia. Da Nord a Sud, isole comprese. Un momento, però. Le Province non dovevano sparire? Già: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», è scritto nell’immortale romanzo. Partiamo. Non ci sono soltanto principi. I Gattopardi hanno pure i loro re. Il titolo va a pari merito ai due dipendenti incontrati nella sede della Protezione civile della Provincia di Napoli: la mattina di lunedì 16 febbraio alle 11.25 fanno beatamente la nanna. Uno accasciato sulla scrivania in ufficio, l’altro stravaccato sulla poltroncina accanto. Meno male che un loro collega è sveglio: sta guardando attentamente un cartone animato alla tv. Almeno non la tengono accesa per nulla. E il capo dov’è? Ah, eccolo in cortile a dire che lui riceve «mille e duecento euro al mese e non riesco nemmeno a vivere... Cioè, mi vai a impegnare a me che sono operaio specializzato con un lavoro che non mi dà allegria, non dà gioia...». Forse il cartone animato non lo faceva ridere. La copertina dell'Espresso Dovrebbero tenere puliti e pronti all’uso il grande capannone e i locali dove ospitare i senzatetto e i materiali di soccorso in caso di calamità: il rischio Vesuvio, terremoti, alluvioni. Questa è una base operativa della Protezione civile. La loro divisa blu è linda come il vestito di uno sposo. Mentre capannone e locali fanno letteralmente schifo. Ridotti in quel modo sono inutilizzabili come rifugio per gli sfollati: spanne di guano di piccione, macerie, rifiuti ovunque, vetrate rotte, cavi elettrici strappati. A Vibo Valentia, quattro ore di autostrada più a Sud, per milleduecento euro al mese farebbero festa: qui i Gattopardi si sono mangiati la cassa, la Provincia è in dissesto e gli impiegati non ricevono lo stipendio da cinque mesi. Per questo a pranzo ci si ritrova in un garage, davanti a una ruspa irreparabile perché non ci sono soldi. Cuociono sulla brace salsicce comprate con la colletta. Solidarietà tra colleghi: anche oggi, chi non può permettersi di fare la spesa ha evitato la fame. La famiglia dei Gattopardi di Provincia costa cara. Ma c’è posto per tutti: assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari, amici, operai, assenteisti, dormiglioni e poliziotti, cioè agenti della polizia provinciale, la settima forza pubblica, ultima esosa invenzione del federalismo di quartiere. In questa Italia che cambia per rimanere quella di sempre, trovi anche un famoso procacciatore di spogliarelliste: famoso per i gestori di locali di lap-dance e per i compagni di lavoro che hanno visto il custode timbrare il cartellino in una scuola della Provincia, a Vimercate in Brianza, e poi mettersi al telefono (della scuola) a organizzare spettacoli. La più grande riforma del governo dopo il Senato, avevano detto. Sarebbe questione di mesi, secondo l’ottimistico piano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, e della ministra per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia. Il 31 marzo le Province devono presentare le liste dei soprannumerari. Li chiamano come i membri dell’Opus Dei, forse il lapsus di qualche alto burocrate devoto: ma è l’elenco del personale in esubero che sarà trasferito, messo in mobilità o collocato a riposo dal 31 dicembre 2016. Sono quasi ventimila persone sui 54.242 dipendenti provinciali assunti in tutta Italia, di cui 51.968 a tempo indeterminato e 1.200 dirigenti. In contemporanea arrivano i tagli alla spesa: 2,9 miliardi già persi dal 2009, via un altro miliardo nel 2015, via due miliardi nel 2016, via tre miliardi nel 2017. A parità di servizi, però, e quindi di costi: strade (piene di voragini), manutenzione e riscaldamento nelle scuole (al minimo), trasporti (ridotti), assistenza ai disabili (quasi inesistente), stipendi (in ritardo). Le Province di Biella e Vibo Valentia hanno dichiarato il dissesto. Molte altre, come Novara, Verbano, Imperia, Ascoli, Chieti, Potenza, Lecce hanno formalizzato la mancata copertura delle spese. Numeri in pareggio solo in apparenza ad Alessandria, La Spezia, Bologna, Teramo, Isernia, Foggia, Messina, Siracusa: in realtà nell’esame di fine 2014 la Corte dei conti ha rilevato che anche quei bilanci sono fuori equilibrio. E per risparmiare su luce e riscaldamento, da Milano a Bergamo si sta discutendo se introdurre la settimana corta nelle scuole provinciali. Un disastro. Avanti di questo passo la «road map», come hanno definito il programma dandogli lo stesso nome del processo di pace in Palestina, rischia di trasformarsi in una drammatica Intifada: la protesta sta per riunire studenti lasciati al freddo, dipendenti disperati, fornitori non pagati sull’orlo del fallimento. E relative famiglie. Presto sapremo se Matteo Renzi passerà alla storia come il premier delle riforme. Oppure il principe del caos. E per dimostrare di essere sulla strada del risparmio, anche la Provincia di Reggio Calabria è stata promossa città metropolitana. Reggio Calabria una metropoli? Certo, se lo vogliono i Gattopardi, Reggio diventa una metropoli: appena 180 mila abitanti il capoluogo, 550 mila la provincia, conti sottozero e debiti fuori bilancio. Già, i debiti fuori bilancio. Ecco un’altra eredità delle Province. Sono costi dovuti a imprevisti: sentenze di condanna, liti nell’acquisizione di beni, disavanzi nelle aziende controllate. Fanno 186 milioni nel 2013, ultimo rilevamento, suddivisi tra 75 enti: 12 euro per abitante in Sicilia, 7 in Liguria, quasi 6 in Abruzzo. Un aumento medio dell’80 per cento rispetto al 2012. Ma in Basilicata raggiunge il 934 per cento, in Campania il 714, in Sicilia il 584, il Liguria il 492. Una massa consistente «che non compare nelle scritture contabili», denuncia la Corte dei conti, «e rende i bilanci non veritieri». Eppure, questo strangolamento a mani nude delle Province alla fine inciderà soltanto sull’1,26 per cento della spesa pubblica nazionale: dieci miliardi da ridurre a meno della metà. Il grosso, 562 miliardi destinati all’amministrazione centrale e 163 miliardi alle Regioni, non verrà toccato. Resteranno compensi e vitalizi da favola a parlamentari, segretari, sottosegretari e deputati regionali. I Gattopardi, certo, ringraziano. Andiamo avanti. Vimercate, incrocio di superstrade e di clan della ’ndrangheta, è sulla via che da Milano porta ad Arcore. È qui che potete incontrare un dipendente della Provincia di Monza con due lavori: di giorno custode dell’istituto scolastico più grande della zona e sempre di giorno procacciatore di spogliarelliste. Come fa? Lui certo non dorme in ufficio. Le ragazze vanno ingaggiate prima che tramonti il sole. La sera devono essere già pronte per lo spettacolo. A volte succede che davanti alla scuola arrivi l’autocisterna con il gasolio per il riscaldamento. E il custode non si trova. Ha timbrato il cartellino, è vero. Ma lui non c’è, confessano i colleghi. Tanto il suo stipendio lo paga la Provincia. Cioè i cittadini. Sicuramente le spogliarelliste sono meno pericolose dei mafiosi cresciuti in Brianza. Lo ha capito Rosario Perri, primo assessore al Personale della Provincia monzese, costituita soltanto nel 2009. E primo a dimettersi nel giro di un anno: l’hanno tirato in ballo nell’operazione «Infinito» alcune confidenze telefoniche tra boss della ’ndrangheta. Lui dice che straparlavano, ma ha dovuto lasciare. Un viaggio di 740 chilometri e in fondo alla valle appare Isernia, Molise, la seconda provincia più piccola d’Italia: 87 mila abitanti, 22 mila il capoluogo e la metà dei comuni compresa tra i 127 e i 796 residenti. Ciascuno con i suoi sindaci, assessori, consiglieri, segretari, municipi, uffici tecnici, anagrafe, vigili, elezioni, ordinanze. Questa è la cronaca di una giornata qualunque in via Giovanni Berta, sei piani di palazzo grigio, sede dell’amministrazione provinciale e quasi due milioni e mezzo di debiti fuori bilancio. Alle 8.28 un impiegato timbra il cartellino. Poi esce a comprare il giornale. Tre colleghi timbrano alle 8.29, salgono in ufficio. Alle 8.40 camminano tutti insieme verso il bar Sayonara. Caffè, chiacchiere. Alle 8.55 uno va via. Alle 9.02 solo i due rimasti ritornano in ufficio. Oggi l’Ordine dei commercialisti ha organizzato un convegno: l’amministrazione degli enti locali, è l’argomento. Per fare numero hanno invitato quattro scolaresche delle superiori. Ma la sala sotto la biblioteca è troppo piccola. Il magazziniere della Provincia porta le sedie avanti e indietro. Gran baccano e discussione tra funzionari e professori fino alle 9.50. Gli studenti vengono mandati via, mattinata persa. Il convegno può cominciare: tre relatori, otto partecipanti, tre sul balcone a fumare. L’ufficio turistico apre alle 9 tutti i mercoledì, dice il cartello. Sono quasi le 11, è mercoledì. Ufficio turistico chiuso. Roma non è lontana. Dal primo gennaio la Provincia ha lasciato il posto alla Città metropolitana di Roma Capitale. L’eredità comunque resta a carico dei cittadini. A cominciare da un bell’impegno di 263 milioni: l’acquisto della nuova sede unificata, la Torre Parnasi, dal nome della famiglia di costruttori e proprietari dell’area. E i soldi? Arriveranno dalla vendita degli uffici storici: i palazzi di prestigio del centro saranno ceduti per trasferire personale, sportelli e servizi in un’area di estrema periferia all’Eur, lontana dalla metropolitana, tra un centro commerciale e la superstrada. Insomma, per il momento la spesa è certa, le entrate ancora no. I romani devono ringraziare il presidente provinciale Enrico Gasbarra, che ha dato il via all’operazione Parnasi. E il suo successore Nicola Zingaretti, attuale presidente della Regione Lazio, che l’ha portata a termine. Sul suo sito, elencando i meriti della scelta, Zingaretti ammette che «l’idea è stata avviata dalla precedente amministrazione» e che solo così ha potuto evitare «una salatissima penale». Scherzi tra Gattopardi e principi del Pd. Torniamo nell’elegante sede presidenziale di palazzo Valentini, sopra le Domus romane a due passi da piazza Venezia. Piani alti. L’usciere seduto in corridoio si occupa di cose private sul computer portatile. Sì, qui mantengono ancora gli uscieri come ai tempi di Alberto Sordi, Totò e i re di Roma. Ultimo sguardo al piano terra, la sala operativa della polizia provinciale. Porta aperta. Gli affreschi bellissimi e la stanza con il tavolo di faggio e il maxi schermo. La chiamano ancora sala Odevaine, dal nome dell’ex comandante Luca Odevaine arrestato a dicembre con il boss fascista Massimo Carminati per l’operazione «Mafia capitale». Su questo stesso piano, al di là della parete divisoria, c’è anche la sala operativa della prefettura. A un chilometro, la sala operativa del ministero dell’Interno. A un chilometro e cento metri, la sala operativa della questura. La più alta concentrazione europea di monitor, video, personale di turno giorno e notte, telecamere piazzate ovunque. È così che pochi giorni fa, su questi stessi schermi, hanno potuto assistere all’arrivo indisturbato dei tifosi olandesi. E alla devastazione di piazza di Spagna. A Napoli la polizia provinciale, 150 dipendenti, ha addirittura una motovedetta. «Ci tengo a ribadire che in Italia siamo forse l’unica polizia provinciale a possedere un parco nautico così importante», dice Alberto Bouchè, dirigente promosso al grado di comandante della polizia navale della Provincia. A guardarla meglio la presunta motovedetta è un piccolo e comodo yacht cabinato, buono per portare i turisti in gita a Capri. Quella di Napoli è anche l’unica polizia provinciale ad avere una parcheggiatrice abusiva davanti al proprio comando. «Noi siamo riconosciuti come una delle forze più cattive sul territorio rispetto ai reati ambientali», assicura la comandante, Lucia Rea, «questo ce lo riconosce il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza». Magari. Basta scegliere l’entroterra di Pompei, meta mondiale del turismo. Superata la strada panoramica, si sale a piedi lungo una mulattiera. Siamo nel parco nazionale del Vesuvio, un gioiello naturale. C’è soltanto questo stretto passaggio. Non sarebbe difficile bloccare l’accesso di auto e furgoni. Invece vengono qui a scaricare rifiuti industriali, fusti tossici, vecchi mobili, amianto, migliaia di barattoli di olio e pelati, scarti di verniciatura, frigoriferi. Strati di plastica colorata si alternano alla roccia lavica fin sotto la splendida pineta che abbraccia il vulcano. All’ombra del sottobosco appaiono da lontano distese di funghi colorati. Da vicino si trasformano in quello che sono: colli di bottiglia che spuntano dal terreno. È il paesaggio di Marcovaldo inventato da Italo Calvino. Eppure ad appena cinque chilometri la polizia provinciale ha il suo comando distrettuale. Nei fine settimana, quando aziende e artigiani si liberano dei rifiuti, l’ufficio ovviamente è chiuso. Due anni fa la tv della Provincia (sì, hanno anche la tv) ha girato proprio qui un documentario su Lucia Rea e i suoi agenti. Esclusi i tubi di eternit e un’auto abbandonata che hanno fatto rimuovere, dal giorno delle riprese tutto il resto non si è mosso. E molto altro si è aggiunto. «Chiediamo a questo punto anche l’intervento delle altre forze, come i carabinieri, come la polizia», dice Andrea Valente, comandante del distretto di Nola. Pure loro alla fine devono chiamare la polizia. Quella vera. E che ne sarà delle migliaia di agenti provinciali sparsi per l’Italia? Il viaggio di Fabrizio Gatti fra i Gattopardi di provincia. Fra sprechi, scandali e degrado. Come a Napoli: dove i dipendenti dormono nell'ufficio della Protezione civile provinciale e la struttura che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità è ridotta a una discarica. Molti nuclei hanno dato ottimi risultati. Quindi resteranno. E forse si occuperanno di Protezione civile. Come gli operatori della base di via Cupa del Principe, periferia di Napoli. Con la trasformazione della Provincia in città metropolitana, i dipendenti della Protezione civile sono già passati al Comune. C’è adesso il dirigente? «No, pare che non è venuto», risponde il caposquadra degli addetti alle pulizie e alla manutenzione. Due dei suoi uomini continuano a dormire in ufficio, il terzo guarda i cartoni animati in tv. Dovrebbero andare a rimuovere la sporcizia, le bottiglie, i rifiuti, gli anni di guano di piccione accumulati sulle scale. E magari anche riparare, dove è possibile, i buchi nel tetto, le finestre sfondate. Napoli è una delle città italiane più a rischio. Una base della Protezione civile non può essere ridotta a questo schifo. Si fa avanti il più alto in grado. Stavo vedendo in quali condizioni tenete la sede... Lui ride: «Infatti è meglio non vederla». Lei è il responsabile? «Il responsabile sta in ferie. E poi il dirigente sta a San Giacomo, la direzione. Qui c’è solo la struttura operativa per Napoli». Dovrebbero fare tutti un pellegrinaggio a Vibo Valentia. I dipendenti pubblici non hanno cassa integrazione. Luca Greco, 52 anni, ufficio concessioni della Provincia di Vibo, Bruno Schipano, 47, ufficio ragioneria, Ornella Zappiato, 50, avvocato dell’ufficio legale, e tutti i loro colleghi non vedono soldi da novembre. Fanno i turni per le pulizie degli uffici. Lavorano al freddo. Oppure si raccolgono nell’aula del consiglio. È l’ora di pranzo. Adesso ci si sposta nel garage dei mezzi. Anche oggi salsicce, pane e formaggio. Un bicchiere di vino. Fuori piove, vengono tutti qui. Non solo per mangiare: in tutta la sede, l’unica fonte di calore è la brace sotto la griglia.
Province, lo spreco resiste. Viaggio fra Gattopardi e privilegi. Alla Protezione Civile di Napoli i dipendenti dormono in ufficio mentre la struttura è una discarica. A Roma e Monza si mantengono palazzi inutili. E gli assessori si riciclano con nuovi incarichi. Anche dopo la soppressione, gli enti continuano a macinare debiti, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Napoli, i due dipendenti della Protezione civile della Provincia dormono in ufficio E le Province? Sono state ridotte soltanto sulla carta. Nella realtà continuano a generare potere, favori e sprechi. L'inchiesta di copertina che lancia il nuovo «Espresso» in edicola e online su Espresso racconta il viaggio da Nord a Sud dell'inviato Fabrizio Gatti attraverso l'Italia dei Gattopardi di Provincia: politici, assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari ma anche impiegati e operai che hanno sfruttato e sfruttano gli enti pubblici per i propri privilegi. Tante storie di piccolo e grande degrado. C'è l'assessore all'Ambiente della Provincia di Monza che parla al telefono con un costruttore, poi condannato per alcune finte bonifiche: « Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Hai ragione», risponde il politico del Pdl che, riformata la Provincia, ha fatto carriera: oggi Fabrizio Sala è assessore all'Expo per la Regione Lombardia. Ecco la telefonata tra l'attuale assessore all'Expo della Regione Lombardia, Fabrizio Sala, e il costruttore brianzolo Angelo Narducci, condannato a gennaio in primo grado per alcune bonifiche fasulle. La conversazione risale al 2010 quando Sala era assessore all'Ambiente della Provincia di Monza. «Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Aaaahhh», risponde l'assessore Sala e ripete sei volte: «Hai ragione». L'attuale assessore all'Expo risponde così alle domande dell'Espresso: «Dal 1997 svolgo l'attività professionale di promotore finanziario. Sono quindi tenuto al rispetto del segreto professionale, bancario e al rispetto della privacy». C'è la casa con lo «sconto amico» al figlio del senatore Paolo Romani , anche lui consigliere provinciale. Ci sono i dipendenti nella base operativa della Protezione civile della Provincia di Napoli filmati mentre dormono in ufficio o guardano la tv : intanto intorno a loro la struttura, che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità, è sommersa dai rifiuti. C'è la polizia provinciale che ha addirittura uno yacht mentre vicino al comando di Pompei nessuno controlla le discariche di rifiuti tossici che hanno invaso il parco nazionale del Vesuvio. Rifiuti, abbandono e sporcizia nel parco del Vesuvio. Mentre la polizia provinciale ha pure uno yacht. Ma ecco anche lo spreco della sala operativa degli agenti provinciali di Roma, dove ancora esiste la «sala Odevaine», dal nome dell'ex comandante arrestato nell'inchiesta «Mafia capitale». E le spese folli per la nuova sede della Provincia romana: 263 milioni che due presidenti Pd hanno lasciato in eredità ai cittadini, mentre l'eliminazione delle Province era già in discussione. O la nuova sede in Brianza: oltre 24 milioni di costo e gran parte dei locali vuoti. L'analisi economica mette a nudo conti sottozero e debiti fuori bilancio. I tagli del governo azzerano i servizi, ma non le furbizie. In Sardegna le quattro Province più piccole d'Italia sono state abolite nel 2012, ma continuano a produrre spese: ora si chiamano «ex Province». A Vibo Valentia, una delle Province che ha dichiarato il dissesto, i dipendenti, senza stipendio da cinque mesi, cuociono sulla brace in garage le salsicce comprate con la colletta: così anche chi non può più permettersi di fare la spesa, ha da mangiare.
I dinosauri della burocrazia che non vogliono cambiare. In un libro Corrado Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo». Non solo: un viaggio nella cancrena dell’immobilismo, scrive Andrea Garibaldi su “Il Corriere della Sera”. Corrado Giustiniani, per 25 anni inviato speciale de «Il Messaggero», ha scritto un libro sui Dinosauri che non sono animali estinti, anzi. Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo» nel Paese dove «i cittadini sono i peggio serviti». Giudizio generale, che fotografa un «sistema», senza condannare chi lavora con scrupolo. Secondo i dati di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, segretari generali, capi di gabinetto, capi dipartimento dei ministeri guadagnano due volte e mezzo i loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi. Nell’agosto del 2014 «The Economist» ha scritto: «Per guadagnare 136 mila euro l’anno una ricerca su Internet rivelerà che tu debba essere il direttore dell’information technology in una società inglese, il governatore dello Stato di New York o un usciere del Parlamento italiano». Il «caso dinosauri» ha un altro aspetto, oltre a quello economico: «Qual è il cuore della questione burocratica in Italia? L’assenza della cultura del risultato», ha detto il giurista Sabino Cassese. Nel libro Giustiniani annota: «Per allacciarsi alla rete elettrica in Germania sono necessari 17 giorni, in Italia 124. Per un permesso di costruzione in Finlandia bastano 66 giorni, in Italia 234». Nell’anno 2009 Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione del governo Berlusconi, fece approvare un decreto «per favorire la produttività, l’efficienza e la trasparenza del pubblico impiego». Prevedeva premi per i migliori. Solo che l’applicazione delle norme non sempre corrisponde agli intenti. In molti casi gli obiettivi per ottenere i premi erano stabiliti dalle stesse amministrazioni. Prendiamo gli Esteri. L’Ufficio comunicazione viene premiato, scrive Giustiniani, se distribuisce almeno 10 mila rassegne stampa (fatte compilare, peraltro, da una società esterna) o esegue almeno 100 accrediti per giornalisti stranieri. La Direzione per la promozione del sistema Paese, che ha il compito di catalogare le opere d’arte nelle ambasciate, si dà metà del premio se visita almeno tre ambasciate in un anno e l’altra metà se le visite guidate alle collezioni della Farnesina staccano almeno 500 biglietti. Gratifiche per il minimo del proprio dovere. I dirigenti pubblici italiani guadagnano in media poco meno di 300 mila euro l’anno. Uno dei provvedimenti del governo Renzi è stato l’imposizione di un tetto a 240 mila euro lordi, prendendo come limite le retribuzioni più basse nel pubblico impiego, moltiplicate per dieci. Positiva inversione di tendenza, dunque, e Giustiniani ne segnala altre. Ecco gli avvocati dello Stato, che non possono più sommare gli alti stipendi alle parcelle obbligatorie che le amministrazioni da loro difese dovevano versare. Ecco, per gli stessi avvocati dello Stato, il divieto di partecipare ad arbitrati. Ecco i tagli alle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato. Ed ecco, di contro, i ricorsi contro i tagli, quasi duemila nei due rami del Parlamento. Cambiamenti faticosi, da queste parti.
Dinosauri, burocrati che ci affossano. Tra proteste e proposte, un viaggio nell'Italia dei privilegiati, scrive Marzia Apice su “L'Ansa”.
CORRADO GIUSTINIANI, "DINOSAURI. Nessuna riforma ci libererà dai superburocrati di Stato" (Sperling & Kupfer, pp.206, 17 euro). "Li ho chiamati dinosauri nella speranza che si estinguano. Ma poiché hanno 50 anni di media, credo che dovremo aspettare". La prende con ironia il giornalista Corrado Giustiniani, mentre racconta all'ANSA del suo ultimo libro, chiamato per l'appunto "Dinosauri" (Sperling & Kupfer) in riferimento ai tanti burocrati che affollano le strutture dello Stato lasciando per lo più irrisolti i problemi dei cittadini. Stipendi alti, anzi i più alti del mondo nella Pubblica Amministrazione, a fronte di un Paese che oltre alla crisi economica ci mette del suo in tema d'inefficienza, servizi al cittadino inesistenti, per non parlare di corruzione, opacità e lentezze, e commissioni d'inchiesta che si risolvono in una bolla di sapone lasciando ogni cosa inalterata. Iniquità e ingiustizia dilaniano l'Italia, gravandola di una zavorra che sembra essere il primo ostacolo verso la tanto agognata ripresa. "Il problema - spiega il giornalista - è senza dubbio culturale, ma non solo. In Italia, ci sono persone che diventano ricche con i soldi pubblici, che hanno bonus e privilegi pur non raggiungendo i traguardi: questo non è più accettabile, e non si tratta di essere qualunquisti, perché la generazione dei giovani rischia di non avere un futuro". "Se i politici fissano gli obiettivi, i dirigenti pubblici hanno autonomia di realizzazione", continua, "è così dal '93, e non può essere sempre colpa degli altri se non si ottengono risultati. La vittoria di un concorso pubblico non può essere una giustificazione a vita. E' ora che gli uffici divengano fabbriche in cui produrre, come ha ben esemplificato Sabino Cassese". Snello nella struttura e nel linguaggio, appassionante come un'inchiesta, il libro prende per mano il lettore e lo trascina in un viaggio nelle storture italiane, raccontando dati e storie, citando nomi e fonti, enumerando alcuni di quei 70mila fortunati (tra giudici costituzionali, ambasciatori, avvocati dello Stato) che sembrano avere diritto a tutto, senza dover rendere conto del proprio operato. Se è senz'altro necessario agire su più fronti, anche "cambiando la cultura giuridica predominante nella scelta dei candidati dei concorsi - afferma ancora - a tutto discapito della chiarezza nel linguaggio con cui si scrivono i provvedimenti", forse la riforma della pubblica amministrazione targata Renzi-Madia "potrebbe addirittura far sperare in qualcosa di buono". "Ora c'è lo slogan delle riforme anche se non sempre sono una panacea - precisa - i tempi di risposta sono lunghi, ammesso che si riesca a penetrare in tutti i settori. In ogni caso, il ruolo unico della dirigenza e la maggiore mobilità dei dirigenti senza più paletti tra amministrazioni diverse sono un'opportunità, ma la precarizzazione dei candidati con l'incarico a 3 anni li porterà a produrre di più, o li legherà maggiormente al carro della politica?". Una domanda che resta senza risposta, almeno in attesa che la riforma si realizzi, e a cui ne seguono almeno altre tre: come organizzare una Scuola della Pubblica Amministrazione davvero efficace? Perché non si riesce in Italia a "fare i giapponesi", ossia a copiare - visto che da soli non se ne esce - quello che di buono in materia di amministrazione di Stato accade negli altri Paesi? E ancora, perché non ci si ispira ai criteri di assunzione adottati dall'Ue? Un ginepraio di problemi, eppure, da noi non è sempre stato così. "Quando iniziai a fare il giornalista negli anni '70 pensavo, guardando le retribuzioni di allora, che un alto dirigente pubblico avrebbe dovuto guadagnare anche di più, proprio per il difficile lavoro che lo attendeva", racconta Giustiniani con amarezza, aggiungendo che "negli anni '90 c'è stato però un boom retributivo a cui non è corrisposto un miglioramento nei servizi. Ora è tempo di darci una regolata e cambiare verso la trasparenza".
La burocrazia italiana è un dinosauro famelico, scrive Silvano Guidi su “Resegoneonline”. Per le scartoffie che non producono reddito, ma anzi lo consumano, ogni impresa, in media, spende 7.000 euro l'anno. Sembra che il presidente del Consiglio incaricato, Matteo Renzi, ne abbia consapevolezza: la vera metastasi che rallenta lo sviluppo dell'Italia, il tumore pernicioso e silente che succhia e neutralizza le energie vitali del Paese si chiama "burocrazia". Ma sarebbe ancora meglio passare dal terreno astratto di "categoria", che tutti e nessuno colpisce, ai singoli burocrati, agli uomini e donne degli uffici (dal francese bureau, ufficio), agli addetti, con nome e cognome, che esercitano il potere appunto degli uffici (di infimo, basso, medio, mediocre, alto, altissimo, supremo livello). Sono personaggi di potere, interpreti e strumento di regole e procedimenti che solo loro conoscono e manovrano, facendone leva vessatoria, e incentivo alla corruzione, per qualunque cittadino costretto a sottostare alle forche caudine dei bizantinismi normativi. Dall'addetto ad un ufficio pubblico a cui ci si rivolge per una pratica fino al megafunzionario di ministero, che scivola a suo agio fra leggi e regolamenti, i burocrati rallentano, impastoiano, imboscano, negano, concedono; spesso con discrezionalità sacrale. Il vero potere è il loro. I tempi li decidono loro. I costi che derivano dalla loro azione li determinano loro (ma li paghiamo noi). La Cgia di Mestre (associazione molto quotata , per la serietà dei suoi studi, di artigiani e commercianti) ha messo a confronto i servizi alle imprese, offerti dalle amministrazioni pubbliche dei diversi Paesi di Eurolandia, per giungere alla seguente conclusione: la burocrazia italiana è tra le meno efficienti (al 15mo posto in UE e addirittura al 65mo nel mondo), ma in compenso è tra le più onerose, costando ad ogni impresa, in media, 7.000 € l'anno. La burocrazia italiana è pessima fornitrice di servizi (in Europa fanno peggio solo Grecia e Malta) ed è anche la peggiore pagatrice del Continente, tanto che parecchie aziende italiane sono fallite e falliscono non per debiti, ma per crediti non riscossi. Ricorda Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia: "Il 74 per cento degli artigiani e commercianti lavora da solo; pertanto la gestione degli adempimenti burocratici viene svolta direttamente dal piccolo imprenditore oppure, in alternativa, da un fiscalista a cui lo stesso artigiano o commerciante è costretto a rivolgersi. In entrambi i casi perdendo tempo e denaro supplementare". Flavio Briatore non ha peli sulla lingua e accusa: "Il vero problema dell'Italia è la burocrazia: un dinosauro famelico che ha generato infiniti altri piccoli dinosauri che sono ovunque. Bisogna semplificare leggi, in modo che ogni cittadino possa capirle. Oggi invece per capire le leggi servono gli avvocati. E la burocrazia famelica ha creato, a proprio uso e consumo, un linguaggio incomprensibile per giustificare la propria essenzialità e sopravvivenza". Quanti siano i superburocrati in Italia è stima evanescente: il vero potere nasconde se stesso. E questo potere, da domani, lotterà contro Renzi e i suoi ministri, per la gran parte giovani, neofiti e inesperti; e quando non inesperti non sufficientemente grintosi. L'esercito dei burocrati è silenzioso, felpato, inossidabile e guadagna molto, a volte moltissimo. Sono eminenze grigie (ma chissà quanti giovani dinamici professionisti farebbero meglio di loro!) che si scambiano i posti, si coprono a vicenda, occultano gli errori, appartengono alla stessa rete di protezione. Dai, Matteo! Dimostra che hai davvero capito da dove cominciare il ripulisti.
Meglio se taci, scrivono Guido Scorza ed Alessandro Gilioli. Siamo un Paese in cui per aprire un blog bisogna obbedire a una legge del 1948, altrimenti si rischia un processo penale; siamo un Paese in cui non puoi fare il giornalista se non hai la tessera dell’Ordine, ma per avere la tessera devi fare il giornalista. Siamo un Paese in cui un’autorità amministrativa può chiudere un sito web senza nemmeno passare da un giudice. Siamo un Paese insomma nel quale tutto sembra suggerire che «è meglio se taci». Lo scrivere, diffondere e fare informazione è disincentivato dalla paura dei processi, dalla minaccia di risarcimenti milionari, dalla confusione delle norme e dalla burocrazia. Nel loro viaggio, Gilioli e Scorza ci raccontano e spiegano questo paradosso attraverso casi concreti, vergognosi e grotteschi. Non solo per denunciarli, ma soprattutto per cambiare le cose. Nell’interesse della democrazia. La rete è libera. Libera per natura, per definizione, si pensa spesso. Perché chiunque può aprire un blog o postare quello che preferisce sui social network. Chiunque può leggere on line le opinioni più diverse, comprese quelle strampalate, eccentriche, assurde, complottiste, perfi no razziste e violente. Chiunque può caricare o scaricare un video a piacimento, compresi quelli pornografi ci o quelli in cui ci si fa esplodere con una cintura esplosiva; e c’è tutto, in Internet, dal Ku Klux Klan al Califfato islamico, dai teneri gattini al gruppo Facebook che invita all’omicidio di Justin Bieber. E così via...
“Meglio se taci”, contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia. Nel libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e Guido Scorza (avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it) il caos normativo in un Paese in cui chi fa informazione online è ancora soggetto alla legge sulla stampa del 1948. E dove il digital divide è aggravato per parte politica da una "radicata subcultura nemica della libertà della rete", scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Ordine e contrordine, uguale disordine. Eccolo l’iter normativo che regola l’informazione sul web in Italia, dove i blog rischiano ancora di essere condannati per il reato di stampa clandestina e chi pubblica notizie può incorrere nell’esercizio abusivo della professione. Perché “non è possibile fare il giornalista senza tessera dell’Ordine, ma per averla bisogna fare il giornalista”. Sono solo la punta dell’iceberg delle contraddizioni riordinate in “Meglio che taci” (Baldini&Castoldi), il libro di Alessandro Gilioli (L’Espresso)e dell’avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it Guido Scorza. Un’inchiesta che attraverso esempi di cronaca mostra come spesso l’interpretazione delle norme si traduca in censura, obiettivo condiviso da disegni di legge presentati in Parlamento che puntano a imbavagliare il web, ignorando che i provvedimenti validi nel mondo reale sono già estesi anche in ambito digitale. Molto lontano dal “far west” immaginato da deputati e senatori, tra i quali prevale “spesso una radicata subcultura nemica della libertà della rete“. Un caso in cui la difesa del diritto d’autore è diventato pretesto per censurare l’informazione è la vicenda del forfait di Gabry Ponte raccontata dall’emittente locale “Vera Tv Abruzzo”, che si è vista rimuovere i video su YouTube dove aveva ricostruito la vicenda. E poi c’è la vicenda di Carlo Ruta, blogger siciliano condannato per il reato di stampa clandestina in primo grado e in appello prima che la Cassazione precisasse che a un blog non è applicabile la legge sulla stampa del 1948. Non ultima la storia di PnBox, web tv di Pordenone che dava semplicemente voce ai cittadini, segnalata all’ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione. Un’accusa poi smontata davanti ai giudici: l’attività della web tv, hanno detto, “non è paragonabile a quella di un giornalista perché non prevede alcuna rielaborazione critica dei contenuti”. Stessa accusa anche per Pino Maniaci, direttore di TeleJato, tv antimafia di Palermo che dopo due rinvii a giudizio e altrettante assoluzioni, ha preso il tesserino dell’Ordine. Come se la “patente” da giornalista fosse la condizione indispensabile per denunciare fatti criminosi e infiltrazioni mafiose. E questo in cosa si traduce? Nel pagamento nel bollettino annuale all’Odg, che per Gilioli e Scorza è fatto di “burocrati e gabelle” e che “non ha più alcuna funzione se non quella di garantire stipendi, segretarie, uffici e brandelli di potere si suoi incravattati vertici”. Lasciando da parte i casi giornalistici, in Italia il 34 per cento della popolazione non ha “mai aperto un browser” in vita sua. In più, siamo penultimi in Unione Europea per velocità della connessione misurata. Il digital divide italiano però si spinge oltre i confini della banda larga e “della scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali”. Come? Ad esempio con il compenso per la copia privata promosso dal Mibac di Franceschini, che disincentiva l’acquisto di device digitali. Ed è anche il Paese dell’ostacolo al wi-fi, dove gli esercenti possono rischiare multe da migliaia di euro se mettono a disposizione della clientela alcuni tablet. Perché in base all’articolo 110 del testo unico che disciplina la messa a disposizione del pubblico di apparecchi da gioco – “il cui impianto originario risale a un regio decreto del 1931″ – sono equiparabili alle slot-machine. E se sul fronte trasparenza andasse meglio? Magari. Perché in Italia manca un Free of Information Act (Foia), legge che esiste dalla Svezia al Ruanda, per garantire ai cittadini una pubblica amministrazione trasparente. A dire il vero, ad annunciare un Foia nazionale era stato il governo Monti. Ma il testo non aveva nulla a che vedere con il modello Usa a cui avrebbe dovuto ispirarsi e ribadiva solo quello che le norme già prevedevano. Se esistesse, potremmo, ad esempio, conoscere nel dettaglio il contenuto del famigerato dossier Cottarelli sulla spending review. Proprio quello che né Palazzo Chigi né il Ministero dell’Economia allo stato attuale riescono a trovare. Oltre i confini nazionali, poi, rimangono aperte le domande sulle policy arbitrarie di Facebook e Google, big player che godono di potere incontrastato sul mercato virtuale e che decidono anche quali notizie possono pubblicare gli utenti. In occasione della diffusione del video della decapitazione di James Foley, ad esempio, Dick Costolo di Twitter ha avvisato che la pubblicazione degli immagini avrebbe potuto causare la sospensione dell’account. Questioni in cerca di sintesi e risposte, che coinvolgono Europa e Stati Uniti. Senza spingersi tanto oltre, però, possiamo limitarci al recinto italiano. Per vedere che anche dentro i nostri confini c’è già – e ancora – molto da fare. Alessandro Gilioli, alla faccia della rete libera, scrive Ilaria Bonaccorsi su “Left”. Meglio se taci. Alessandro Gilioli, giornalista de L’espresso, e Giulio Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie, nel loro ultimo libro “istigano” alla rivoluzione, quella per la libertà d’informazione che passa per «un accesso libero, non discriminatorio e neutrale alla rete». Una rivoluzione già in atto, di cui protagonisti sono «tanti ragazzini pieni di estro, genio, creatività che all’estero danno vita a piattaforme di informazione dal basso, citizen journalism e whistleblowing in stile Wikileaks» ma che in Italia, raccontano i due autori, avrebbero gettato la spugna, patteggiato la minore delle pene possibile e rinunciato ad esprimersi. Troppo duro lo scontro contro il dinosauro a tre teste (malapolitica, tv e giornalismo della carta) che non ha intenzione di estinguersi, né di evolversi, e sbatte la coda per sfasciare tutto. Un colpo è, per esempio, l’ultimo ddl che riforma la legge sulla stampa, approvata al Senato e in discussione alla Camera. Per capire se è veramente l’ennesima «legge bavaglio», ne abbiamo parlato con Alessandro Gilioli.
Il dubbio che questo ddl possa essere una difesa contro tanto pessimo giornalismo le è mai venuto?
«Certo che sì: la nostra categoria è sputtanata almeno quanto quella dei politici e l’Ordine renderebbe miglior servizio al Paese se si autodissolvesse, dato che serve solo a perpetuare se stesso e a mettere recinti alla libera comunicazione. La battaglia invece è per non far retrocedere ulteriormente un Paese che è già al 49° posto nel mondo per libertà di espressione: non per difendere una categoria scarsamente stimata».
Una delle cose che prevede questa riforma è che in caso di diffamazione non ci sia più il carcere per i giornalisti, ma multe fino a 50mila euro. Eppure giuristi e cronisti sono arrivati a dire: #meglioilcarcere. Perché?
«La nuova norma è stata pensata per mettere al sicuro politici e potenti del-l’economia non “dai giornalisti”, ma dalle critiche in genere, anzi soprattutto da quelle dei semplici cittadini, sui social o nei blog. I giornalisti assunti in un’azienda non temono più di tanto quelle multe, che vengono pagate dagli editori che sono assicurati; al contrario, i cittadini che non hanno le garanzie dei giornalisti assunti si troveranno in una condizione di maggiore fragilità. Lì scatterà l’autocensura».
Altro punto contestato del ddl è il diritto all’oblio: chi crede di essere oggetto di diffamazione potrà scrivere a siti web e persino a motori di ricerca, chiedendo di eliminare quei contenuti ipoteticamente diffamatori.
«Sul diritto all’oblio la soluzione più intelligente mi pare quella indicata dal Garante per la Privacy, nel 2013, quando ha proposto di non cancellare nessuna notizia, anche se superata dai fatti, bensì di aggiornarla. Quindi se uno scrive che il signor Y è probabilmente un ladro e poi il signor Y viene prescritto o assolto, non si cancella l’accusa ma la si integra con un visibile “update”. Tutte le altre formule di diritto all’oblio, in questa legge così come nella sciagurata sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che delega il potere di cancellazione a Google, sono violazioni del diritto alla conoscenza, alla cronaca, alla storia».
Ma le risposte vanno date. Le regole della comunicazione da noi sono ferme al 1948. Chi deve farlo e come?
«Contemperare il diritto alla privacy e all’onorabilità con il diritto di cronaca e di opinione non è facile, ma nemmeno impossibile. Pensare che la strada giusta sia quella penale, nel 2015, è fuori dal tempo. Oggi il patrimonio più importante per ogni cittadino è la reputazione: tanto quella di chi ha diritto a non vedersi attribuire pubblicamente fatti che non ha commesso, quanto quella di chi scrive le sue opinioni, sia giornalista o no. Quest’ultimo perde ogni autorevolezza e credibilità se viene identificato come “bufalaro”: quindi il modo migliore per contemperare i due diritti sarebbe semplicemente un sistema di rating (publico) che classifica sia chi scrive sia chi fa causa contro chi scrive. Dopo la quarta o quinta volta che un giudice stabilisce che Tizio è un bufalaro chi crederà più a quello che scrive Tizio? Dopo cinque o sei volte che Caio fa causa per diffamazione e il giudice gli dà torto, che reputazione avrà Caio, se non quella di chi tenta di censurare? Oltre questo scenario forse futuribile, già da subito si possono bilanciare meglio le cose. Ad esempio, se il querelante ha torto, alla fine paga lui, fino all’ultimo euro, rimborsando anche i danni morali di chi ha dovuto perdere il sonno per difendersi da un’accusa infondata».
Nel libro ripetete che «un “freedom of information act” sarebbe un antidoto contro le mazzette». Ma che l’unica cosa che si percepisce in Italia è un «ostruzionismo burocratico regolamentare». Domanda retorica: un’informazione poco trasparente serve a una politica poco trasparente?
«Un Freedom of information act costringerebbe alla più assoluta trasparenza su appalti e gare, e quindi sarebbe un colpo contro la corruzione a ogni livello. Ma, certo, è un po’ come con il famoso tacchino che difficilmente è felice quando arriva il Thanksgiving: non tutta la politica è così entusiasta di una norma che abbatte la corruzione».
Anche la rete non è un’oasi di libertà. facebook, twitter e google sono i padroni, noi gli ospiti. Da una parte loro garantiscono la comunicazione, dall’altra si riservano diritti e poteri assoluti.
«Siamo talmente imbevuti di mentalità proprietaria e privatista da considerare normale che Facebook ci possa censurare perché “tanto è un’azienda privata”. Sciocchezze: l’iniziativa privata non può prescindere dall’interesse pubblico. E l’articolo 21 della Costituzione non può essere calpestato da presunte policy aziendali e da censori che spesso non capiscono gli stessi contenuti perché scritti in altre lingue. Nel libro abbiamo raccontato tre o quattro casi di censura esilaranti, per la loro stupidità. Ma non c’è molto da ridere, se le corporation del web diventano i nuovi poliziotti della Rete».
A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? Sulla carta lo decidono l’editore e il direttore, ma è giusto che riguardi anche un intermediatore di contenuti altrui?
«Se l’intermediatore non ha responsabilità per i contenuti immessi da altri, com’è giusto e com’è stato stabilito a livello Ue, non si capisce perché poi debba avere il potere di filtrare e censurare contenuti. Se usa questo potere, assume implicitamente la responsabilità di quanto fa apparire e contraddice quella non responsabilità a cui tutti gli intermediatori tengono moltissimo. È una questione da risolvere con norme nazionali o internazionali che siano cogenti e rispettino i principi di libertà costituzionale: nessun intermediario, in nessun Paese, può essere più censorio delle leggi del Paese in questione. Ad esempio, in Italia: nessuna censura preventiva e la possibilità di oscurare un contenuto solo su decisione della magistratura, che valuta sentendo le parti e concedendo appelli. Sono principi di base. Oggi Fb, Twitter o Youtube invece sono allo stesso tempo poliziotti, giudici e legislatori».
«La poca democrazia dei network può indebolire quella della società reale», denuncia il filosofo Peter Ludlow. Sta accadendo questo?
«Ludlow fa presente che se ci abituiamo a pensare che è lecito e normale essere censurati da un’azienda digitale, disimpariamo a considerare la libertà d’espressione un valore inalienabile e rischiamo di finire per considerare accettabile essere censurati in genere. Temo non abbia torto».
Le cinque cose peggiori di quello che definite il bestiario della regolamentazione anti-digitale italiana?
«Più che di regolamentazione anti-digitale, anche se poi molte norme impattano soprattutto sulla rete, parlerei di norme contro la libertà d’espressione, che ci dicono appunto “meglio se taci”. Tra le varie brutture ci sono senz’altro la norma del 1948 sulla stampa clandestina, che oggi non so se fa ridere o piangere; il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica, che è frutto del combinato tra l’articolo 348 del Codice penale e la legge sull’Ordine del 1963; la legge 41 del 1990, che è il contrario esatto di un Freedom of information act; il regolamento Agcom sul copyright, che rende il nostro Paese l’unica democrazia al mondo in cui un’autorità amministrativa e di nomina politica può oscurare dei siti Internet. Poi ovviamente ci sono infinite regole minori che, interpretate in modo stupido, producono risultati tragicomici. Nel libro raccontiamo la vicenda del titolare di una piadineria di Asti che è finito nei guai per aver messo a disposizione dei clienti quattro tablet: gli è arrivata la Finanza contestandogli di gestire “apparecchiature atte al gioco d’azzardo”, perché ovviamente con i tablet si può “anche” andare sui siti di scommesse.»
LEI NON SA CHI SONO IO?
Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia, dove però il gip ha archiviato.
Per questi signori è meglio che i pubblici ufficiali siano corrotti?
CORRUZIONE: ARRESTATO IL SINDACO DI MARINO.
Corruzione e peculato, arrestato il sindaco di Marino. Ai domiciliari il primo cittadino eletto con il centrodestra del Comune vicino Roma Fabio Silvagni, un dipendente e tre imprenditori, tra cui un agente della Polstrada. Le indagini riguardano autorizzazioni illecite per un centro commerciale in cambio di assunzioni pilotate e tangenti per i permessi di costruzione, scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Sono stati arrestati dai carabinieri il sindaco di Marino, comune vicino Roma, un dipendente comunale e tre imprenditori, tra cui un agente della Polstrada di Albano in malattia da un anno, ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di corruzione e peculato. Le indagini, iniziate nello scorso mese di giugno e dirette dal procuratore di Velletri Francesco Prete e condotte dai carabinieri del nucleo operativo e radiomobile della compagnia di Castel Gandolfo comandata dal tenente Alessandro Iacovelli e da personale della polizia giudiziaria, corpo forestale dello Stato, hanno riguardato tra le altre cose la realizzazione di un punto vendita di una nota catena commerciale, del valore di circa 3 milioni di euro, per il quale - secondo gli inquirenti - il primo cittadino Fabio Silvagni, eletto a maggio del 2014 per il centrodestra, avrebbe rilasciato illecitamente le necessarie autorizzazioni in cambio dell'assunzione di una ventina persone da lui indicate per garantirsi così un ritorno politico ed elettorale. Ci sarebbero inoltre dei video, girati all'interno dell'ufficio del sindaco, in cui gli imprenditori venivano sollecitati a versare 1200 euro per finanziare feste e sagre del Comune in cambio dei permessi per costruire. Altrimenti nulla. Una gestione privata del bene pubblico con tanto di tangenti e nomi da sistemare, insomma. Funzionava così a Marino. Il cui sindaco dall'inizio del suo mandato ha potuto contare su geometri corrotti, un poliziotto della stradale e l'uomo che rifornisce dei gruppi elettrogeni la Rai e Mediaset. Un sistema blindato in cui se volevi lavorare dovevi essere della partita, versando centinaia di euro, altrimenti eri fuori. Dalle prime ore del mattino è scattata dunque l'operazione dei militari per eseguire in alcuni comuni dei Castelli Romani l'ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip del Tribunale di Velletri, che ha disposto gli arresti domiciliari per gli arrestati. Sequestrato anche un capannone di 200 metri quadrati. Dagli accertamenti condotti dall'Autorità giudiziaria con l'ausilio dei periti, il locale non è risultato conforme al piano regolatore generale del Comune di Marino: la destinazione d'uso sarebbe stata cambiata da agricola in commerciale. Il primo cittadino viene anche ritenuto responsabile di un ulteriore episodio di corruzione in relazione ad un mandato di pagamento di 100mila euro emesso dal Comune di Marino per lavori appaltati dall'amministrazione ed effettuati da un'impresa edile locale. In questo caso il sindaco avrebbe personalmente beneficiato di una somma di denaro pari al 3 per cento di quella liquidata all'imprenditore, suddivisa con il dipendente comunale, suo complice. Ora gli inquirenti stanno verificando eventuali irregolarità di altre procedure di appalto per capire se queste venissero in qualche modo "pilotate" in favore di imprenditori amici. Al sindaco viene infine contestato il reato di peculato: in più occasioni si sarebbe appropriato per usi personali e con la complicità di alcuni dipendenti di una società del Comune di Marino, di carburante per la sua auto personale.
Corruzione e peculato, ai domiciliari il sindaco di Marino Silvagni e un poliziotto, scrive “Il Messaggero”. Stamani (9 aprile 2015) i carabinieri del nucleo operativo di Castelgandolfo hanno dato esecuzione in alcuni comuni dei Castelli Romani a un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip del Tribunale di Velletri che ha disposto gli arresti domiciliari per il sindaco di Marino e per altri quattro indagati (un dipendente comunale e tre imprenditori) ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di corruzione e peculato. Le indagini iniziate nello scorso mese di giugno - dirette dal Procuratore della Repubblica di Velletri Francesco Prete - hanno, tra l’altro, riguardato la realizzazione di un punto vendita di una nota catena commerciale, del valore di circa 3.000.000 di euro, per il quale il primo cittadino avrebbe rilasciato illecitamente le necessarie autorizzazioni in cambio dell’assunzione di persone da lui indicate per garantirsi così un ritorno politico ed elettorale. Verso le 6.30 di stamani i carabinieri del nucleo operativo di Castelgandolfo diretto dal tenente Alessandro Iacovelli hanno poi perquisito la sede del comune di Marino e in particolare l'ufficio del sindaco. Il primo cittadino di Marino, secondo l'accusa, avrebbe favorito, con la complicità di un dipendente comunale, B.S. di 56 anni, le iniziative imprenditoriali di una società operante a livello nazionale nel settore dei servizi per lo spettacolo e della ristorazione, con sede legale in Roma, concedendo in maniera illecita l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso (da artigianale a commerciale) di un immobile sito nel comune di Marino, per la realizzazione di un punto vendita di una nota catena commerciale di ristorazione. A fronte dei permessi necessari per avviare l'attività commerciale gli imprenditori, D.B. di anni 43 e G.T. di anni 40 - quest'ultimo appartenente alla sottosezione della Polizia Stradale di Albano Laziale e in aspettativa per malattia da circa un anno - hanno assunto nell'esercizio commerciale una ventina di persone segnalate dal sindaco, garantendogli così un indubbio ritorno in termini di peso politico ed elettorale. Le utilità non si sarebbero limitate ai posti di lavoro, ma avrebbero avuto a oggetto somme di denaro sotto forma di sponsorizzazione di eventi organizzati dal Comune. Contestualmente agli arresti, è stato posto sotto sequestro un immobile sito in Marino sede dell'attività commerciale con annesso parco giochi, del valore complessivo di circa tre milioni di euro. Dagli accertamenti condotti dall'Autorità giudiziaria con l'ausilio dei periti, il locale non è risultato conforme al piano regolatore generale del Comune di Marino. Il primo cittadino viene anche ritenuto responsabile di un ulteriore episodio di corruzione in relazione ad un mandato di pagamento emesso dal comune di Marino per lavori appaltati dall'amministrazione ed effettuati da un'impresa edile locale. È stato possibile ricostruire il personale interessamento del sindaco per l'emissione da parte dei suoi uffici di un mandato di pagamento di una somma di 100.000 euro in favore dell'imprenditore marinese G.F., di anni 73, per lavori affidatigli dal Comune. In questo caso il sindaco, sempre secondo l'accusa, avrebbe personalmente beneficiato di una somma di denaro pari al 3% di quella liquidata all'imprenditore, suddivisa con il dipendente comunale B.S., suo complice. Su tale fronte sono in corso accertamenti su lavori pubblici già eseguiti, finalizzati a verificare la regolarità delle relative procedure di appalto ed eventualmente se queste venissero in qualche modo «pilotate» in favore di imprenditori amici. Sempre al sindaco viene contestata dalla Procura l'induzione indebita a corrispondere utilità a pubblico ufficiale sollecitando i vari imprenditori locali interessati a ottenere permessi di costruire, a versare all'Amministrazione Comunale la somma di euro 1.200 da utilizzare per finanziare le iniziative del Comune, in particolare feste e sagre, prospettando loro il diniego dei permessi in caso di mancata adesione alla richiesta. Anche in questo caso lo scopo del sindaco, come emergente dalle indagini, sarebbe quello di accrescere il proprio consenso elettorale. Al sindaco viene infine contestato il reato di peculato poiché accusato di essersi, in più occasioni, appropriato per usi personali e con la complicità di alcuni dipendenti di una società del Comune di Marino, di carburante per la sua auto personale. A carico di alcune società riconducibili all'imprenditore D.B., con sede in Roma e nei Castelli Romani, sono state disposte poi perquisizioni effettuate con l'ausilio del 1° Gruppo di Roma della Guardia di Finanza, per verificare eventuali irregolarità nella loro gestione contabile e fiscale. Su tale fronte sono attualmente al vaglio degli inquirenti le recenti aperture, operate da una di queste società, di ulteriori punti vendita della stessa catena di ristorazione, in altre aree del territorio nazionale, per verificare se anche in quei casi siano state poste in essere condotte illecite.
BUROCRATI PIU' CORROTTI DEI POLITICI.
L’assessore ex magistrato: “A Roma la burocrazia è più corrotta dei politici”. Parla Alfonso Sabella, entrato in giunta dopo Mafia Capitale: “Da tre mesi annullo gare e invio segnalazioni in Procura”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Va direttamente al cuore del problema, Alfonso Sabella: «Ho trovato un sistema alterato di assegnazione delle commesse pubbliche con profonde e antiche radici». Quando è arrivato a Roma come assessore alla Legalità, il 23 dicembre scorso, il ciclone di Mafia capitale era già passato per il Campidoglio facendo morti e feriti. Grande fiuto investigativo quand’era magistrato negli anni delle stragi mafiose a Palermo, nel palmarès le catture di Luchino Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e la bassa macelleria delle stragi dei Corleonesi, Sabella è stato scelto dal sindaco Marino per un compito delicato.
Assessore, cosa ha trovato al Campidoglio?
«Una macchina amministrativa totalmente fuori controllo. Paradossalmente ai miei tempi a Palermo le carte erano tutte al loro posto, voglio dire veniva garantita una loro regolarità formale. A Roma no. Da tre mesi e passa sto firmando una serie di richieste di annullamento di gare in autotutela. Quando mi sono insediato, ho trovato un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze».
Questo cosa significa?
«Sia chiaro, volendo si può truccare anche la gara pubblica però questo dato dimostra l’esistenza di una patologia e occorre intervenire. La patologia è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla. Aggiungo che anche la politica sana di un’amministrazione come quella Marino ha avuto difficoltà a controllare questa burocrazia».
Se dovesse qualificare questa patologia, insomma analizzare quello che non va, come sintetizzerebbe la situazione?
«La maxitangente Enimont fu un maxi finanziamento illegale della politica. Oggi dobbiamo parlare di microtangenti ai burocrati e di briciole ai politici. E preciso che il ceto politico amministrativo potrebbe anche non essere oliato con le tangenti perché in realtà le sue scelte e decisioni si fermano alla politica di indirizzo. Chi decide tutto sono i burocrati, i dirigenti comunali».
Lei come si sta muovendo?
«Con una direttiva di giunta, ho azzerato la possibilità di attivare le somme urgenze e gli affidamenti diretti. E ho dettato le regole per le procedure negoziate per ridurle all’osso e in ogni caso renderle trasparenti come una casa di vetro».
Lei è arrivato al Campidoglio dopo la retata del procuratore Pignatone su Mafia capitale. Cosa ha trovato, al di là delle macerie?
«Una mafia che come la lama calda di un coltello aveva tagliato in due del burro senza trovare la minima resistenza. Una mafia che, nel periodo della giunta Alemanno, aveva occupato i settori delle politiche sociali e dell’ambiente del Campidoglio, Insomma, rifiuti e immigrazione».
Dunque un cancro circoscritto?
«No. Non è che gli altri settori fossero sani, i fenomeni corruttivi purtroppo sono diffusi. Ho la prova della distorsione della procedura a favore di determinate ditte, non delle mazzette».
Ma girano mazzette al Comune di Roma?
«Spetta alla Procura di Roma accertarlo, per quanto mi riguarda ho già segnalato e continuo quasi ogni giorno a inviare denunce alla Procura su queste “distorsioni” diffuse».
Da palermitano, qual è la differenza tra la mafia siciliana, Cosa nostra, e Mafia capitale?
«Questa romana non usa i kalashnikov come i Corleonesi ma la mazzetta e non controlla il territorio di Roma strada per strada, quartiere per quartiere. Ha occupato alcuni spazi delle istituzioni. Quando sono arrivato in Campidoglio, i mafiosi erano scappati o comunque si erano clandestinizzati. Le fragilità del sistema sono rimaste intatte».
Tutto questo che ricadute ha sulla cittadinanza?
«La corruzione e la distorsione delle procedure hanno un costo in termini di qualità e quantità di servizi garantiti ai cittadini».
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
Bufala capitale n. 2, retate, arresti e foto, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Ecco il sequel: Mafia Capitale 2. In realtà l’inchiesta è la stessa, alcuni dei 44 nuovi provvedimenti cautelari sono notificati a soggetti già colpiti dal primo uragano, ed è il caso di Salvatore Buzzi. Ma questo secondo filone scoperto dalla Procura di Roma aggiunge al vecchio romanzo criminale qualche tratto nuovo. Resta il primo teorema: i consiglieri comunali ma anche regionali sono ordinariamente “in vendita”, pronti a concedere piaceri, a spianare appalti per la Coop regina, la 29 Giugno, e non solo. Secondo, che l’irresistibile e greve humor romanesco pervade ogni parola. Soprattutto quando i responsabili delle società, che gestiscono il business dei migranti come quello delle case popolari, si esprimono sui politici: trattati ora con disprezzo, altre volte con considerazione per la «serietà» e la «discrezione», in certi casi con rabbia. Gli inquirenti,e il gip di Roma Flavia Costantini che firma le ordinanze, ci mettono il carico da novanta, soprattutto per i personaggi più in vista. Il top della classifica spetta in questo senso a Luca Gramazio, consigliere regionale eletto con il Pdl dopo esserne stato capogruppo anche al Comune. Lui è tra i 19 che finiscono materialmente dietro le sbarre (ad altri 25 toccano i domiciliari, mentre la lista dei 48 indagati si completa con 4 nomi che non subiscono in questa tornata ulteriori provvedimenti restrittivi). Gramazio sarebbe l’uomo capace di mettere in comunicazione la rete di Carminati e Buzzi con le istituzioni. Tutte le istituzioni capitoline, evidentemente. Un’opera diplomatica condotta con una competenza non limitata a poche specializzazioni, dicono i pm. Secondo i quali l’esponente del centrodestra sarebbe persona di «straordinaria pericolosità». Gramazio è una delle icone di questa bufera, in effetti la più appariscente. Anche a lui vengono contestate l’associazione a delinquere di stampo mafioso, la corruzione e la turbativa d’asta. Altri reati che ricorrono nelle ordinanze eseguite ieri sono la turbativa d’asta, le false fatturazioni e il trasferimento fraudolento di valori, sempre con l’aggravante delle modalità mafiose. Ma se Gramazio è la star di questa seconda puntata, c’è un esempio ancora più calzante, per comprendere che considerazione avevano i capi delle coop dei loro interlocutori politici. Si tratta dell’ex presidente del Consiglio comunale Mirko Coratti, del Pd. Uno che insieme con il capo segreteria Franco Figurelli avrebbe ricevuto soprattutto una promessa, 150mila euro, in pratica un modesto anticipo, 10mila euro, e che soprattutto, secondo Buzzi, «non fa gioco di squadra». Da qui il soprannome: «Balotelli». Ecco, pare di vederlo, il ghigno irridente tipico della romanità un po’ triviale ma implacabile, geniale nel ritrarre le persone con un nomignolo. In tutto questo la mafia non c’è. Ma nessuno tra il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, si fa venire lo scrupolo di precisare che stavolta c’è sì tanta ”Capitale” ma di mafia davvero poca e collaterale. Peraltro resta ancora da capire quale fosse la tara mafiosa del troncone principale, quello che ripercorreva anche le gesta dell’eminenza grigia Massimo “ er cecato” Carminati. Qui si incrocia appena una conversazione telefonica tra l’instancabile Buzzi e un presunto ambasciatore della famiglia Mancuso, organizzazione ’ndranghetista. In ballo il sostegno alla campagna elettorale di Gianni Alemanno per le Europee di maggio 2014. Il capo della coop 29 Giugno dice a tale Giovanni Campennì: «Basta che non sia voto di scambio… tutto è legale… uno po’ votà gli amici?!». E quell’altro non si sottrae: «Va bene… allora… è qua la famiglia? La famiglia è grande… un voto gli si dà». E poi però, come fa notare lo stesso Alemanno, «nei due comuni controllati dalla famiglia Mancuso ho preso un numero ridicolo di preferenze». Più che mafia calabrese, una classica sòla romana. Però lo spettro del malaffare, della tangentopoli alla vaccinara, quello sì è amplissimo. Ci sono di mezzo pure le coop bianche, in particolare una piuttosto nota, ”La Cascina”, che si è vista arrivare ieri mattina i carabinieri per una perquisizione. Quattro manager dell’azienda sono stati arrestati: si tratta di Domenico Cammissa, Salvatore Menolascina, Carmelo Parabita e Francesco Ferrara. Solo quest’ultimo finisce in carcere, gli altri tre vanno ai domiciliari. Questo particolare segmento dell’inchiesta romana vede tornare in scena un altro nome forte della prima ondata, Luca Odevaine. Che avrebbe ricevuto anche lui una «promessa», così definita: «Una retribuzione di 10.000 euro mensili, aumentata a euro 20.000 mensili dopo l’aggiudicazione del bando di gara del 7 aprile 2014». La Cascina si occupa dell’accoglienza dei migranti. E si sarebbe messa d’accordo con le coop rosse di Salvatore Buzzi su una «gara per l’individuazione dei centri in cui accogliere 1278 migranti già presenti a Roma e altri 800 in arrivo». Odevaine però è tra quelli per i quali il gip non accoglie la nuova richiesta di custodia cautelare, per quanto l’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni sia comunque, da 6 mesi, in carcere a Torino. La vicenda sciocca i politici e c’è da crederlo. In ore non semplici per il Pd Matteo Renzi reagisce con uno stentoreo «in galera chi ruba». L’altro Matteo, Salvini, chiede la testa di Marino, il quale si fa spalleggiare dall’assessore magistrato Sabella per ricordare che da quando c’è lui è tutto diverso. Matteo Orfini dice che è solo una «banda di destra». Copione prevedibile, e non troppo appassionante. Sempre colorite sono invece le conversazioni tra Buzzi e Carminati, di cui le ordinanze offrono nuovi estratti (in una l’ex Nar adombra vaghe ipotetiche minacce, del tipo che se i politici non rispettano «gli accordi» lui proromperebbe in un «ahò», seguito dall’ovvio «te ricordi da dove vengo?». Ma stavolta la telefonata del giorno è tra Buzzi e Figurelli, quello che stava nella segreteria del Coratti-Balotelli. Si parte sempre con un «ahò», seguito da un haiku: «Ma la sai la metafora? La mucca deve mangiare». Buzzi rafforza: di’ al tuo capo (sempre quello che «non fa squadra» finché Buzzi nun s’o compra) che «qui la mucca l’amo munta tanto». Quell’altro abbozza e media: «Ahò, ma questa metafora io gliela dico sempre al mio amico, mi dice: non mi rompere il cazzo perché se questa è la metafora lui ha già fatto, per cui non mi rompere». Tradotto: Buzzi, che sarebbe grossomodo la mucca, aveva già avuto appalti, favori e così via. Alla fine è una trattativa come tutte, è consisteva nel tentativo di Coratti, per interposto Figurelli, di pagare un prezzo non eccessivo per far assumere alla 29 Giugno una ragazza. In un’altra telefonata Buzzi si sperticherebbe in complimenti non proprio da galantuomo per una «fica da paura» che avrebbe preso in cooperativa. Secondo i pm è la stessa della telefonata precedente. Di sicuro sono gli stessi il linguaggio e le scene della prima volta.
Le immagini dei blitz firmate dai Ros, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Il copia e incolla i giornalisti ormai non lo fanno solo rispetto alle ordinanze dei pm. È nata una nuova moda. Anche le immagini vengono dalle procure e dalle questure. Gli arresti per mafia capitale sono stati fatti a uso e consumo dei media e per evitare che qualche giornalista avesse un guizzo di autonomia e facesse riprese non consentite, hanno filmato tutto loro, i Carabinieri Ros. Le immagini che accompagnano le notizie erano rimaste, fino a qualche mese fa, l’ultimo baluardo in difesa dell’autonomia dei giornalisti. Sì, è vero quando ci sono rinvii a giudizio o ancora meglio arresti, gli articoli sono il copia e incolla delle ordinanze. Da tempo immemorabile ormai il lavoro dei giornalisti è diventato quello di riportare ciò che dicono i magistrati: gli operatori dell’informazione si sono dimenticati che il giornalismo nasce come contropotere non solo della politica e degli affari, ma anche delle procure e dei tribunali. Ma anche se la situazione era tragica, si poteva sperare in una rinascita legata alle immagini che coraggiosi videomaker andavano a fare sul luogo del “delitto”. Adesso anche questa piccola luce, questa flebile speranza si è dissolta. Non so se lo avete notato, ma adesso anche le immagini vengono “passate” direttamente dalla procura. Non sono fatte dai cameraman di Rai, Mediaset o La7 ma direttamente dai carabinieri o dalla polizia che compiono gli arresti per poi distribuirle insieme alle ordinanze. Copia e incolla anche per le immagini. Non vogliamo essere a tutti i costi innocentisti o garantisti. È invece una questione di metodo. Le accuse, non solo non sono una condanna come dice la Costituzione, ma vanno sempre verificate… andrebbero sempre verificate facendo un lavoro di inchiesta autonomo da quello dei pm e delle forze dell’ordine. Invece, anche nel caso di mafia capitale, tutto ciò che esce dalla Procura viene considerato oro colato, a tal punto da essere riportato senza nessuna distinzione o considerazione autonoma. Ora si è aggiunto un nuovo tassello. Gli arresti vengono fatti in diretta tv, filmati da coloro che dovrebbero avere un altro ruolo. Non è un passaggio qualsiasi. E un ulteriore deterioramento del ruolo che dovrebbe svolgere l’informazione. Ma non solo. In primo luogo testimoniano la gestione spettacolare di un’inchiesta, la cui valenza stabiliranno i diversi gradi di giudizio, ma che indubbiamente è stata condotta in modo da fare breccia nei media. In questi anni è stato usato dalle procure ogni mezzo: intercettazioni sbattute in prima pagina, vite private rovinate, avvisi di garanzia che arrivano prima ai giornali che ai diretti interessati. L’aggiunta delle immagini che sfociano direttamente da procure e forze dell’ordine incrina ancora di più la nostra capacità di comprensione. L’immagine gode di uno status di oggettività. Pur essendo un punto di vista sulla realtà ha un’immediatezza che tende a confondersi con la “verità”. Ho visto quindi è. Per questa ragione il lavoro sulle immagini è simile alle intercettazioni: lasciano poco spazio al dubbio, alla verifica, alla possibilitàdi ricostruire il contesto. Ma finché erano immagini che nascevano da un occhio terzo, quello dell’operatore dell’informazione, si creava un’alterità che dava la possibilità di ragionare, di usare il senso critico, di non fermarsi a una sola versione. Questo lavoro, che è non il succo del garantismo ma del giornalismo, sta diventando sempre più difficile, complicato per chi lo fa e per chi legge, sente o vede le notizie. Ieri le immagini degli arresti che avete visto non godevano di questa alterità, non provavano minimamente a essere un occhio terzo tra chi arresta e chi viene arrestato. È vero che negli ultimi anni l’uso delle immagini è diventato sempre più descrittivo rispetto al testo della voce fuori campo. Non un’aggiunta, non uno strumento in più, ma quasi una sorta di sottofondo privo di vita propria. Oggi è peggio. Anche quel poco di autonomia è perduta: ci dobbiamo accontentare delle immagini con sopra il timbro Carabinieri-Ros.
Coltello e tangente, la lingua
della suburra. Dalle minacce alle battute sessiste, il romanesco criminale dei
signori dell'arraffo. Nella intercettazioni diventano protagonisti tangenti,
appalti e volgarità. E il rispetto che si deve a chi manovra denaro, scrive
Francesco Merlo su “La Repubblica”. Non bastano le manette. Roma, "'a mucca che
amo munto tanto", va espugnata e affidata allo Stato, come Berlino e come
Washington. Ci vuole una legge speciale che dia a Palazzo Chigi i pieni poteri
sul cuore della capitale, nel territorio dentro le mura aureliane per esempio,
come Berlino appunto che è Stato nell'ansa della Sprea, dalla Porta di
Brandeburgo alla Siegessäule, e come Washington, tra il Lincoln Memorial e il
Congresso. Tocca insomma al governo strappare Roma non solo ai Carminati, ai
Buzzi agli Odevaine, alle cooperative rosse come la "29 giugno" e a quelle
simoniache di Cl che si chiamano piamente Cascina e Domus Caritatis, ma anche ai
Consigli comunali che "devono stare ai nostri ordini perché li pago e vaffanculo
", e alle Giunte che sono "la mucca che se non mangia non può essere munta". Da
decenni queste istituzioni di Roma sono corrotte o inadeguate, con i sindaci
complici o ignavi: "Se Marino resta sindaco altri tre anni e mezzo, col mio
amico capogruppo ce magnamo Roma". Il presidente del Consiglio come il papa re,
dunque. Solo un'amministrazione statale, infatti, può ridimensionare, nella
città-universo ormai degradata a suburra, i capibastone e i sovrastanti che
marcano il territorio come il consigliere comunale Giordano Tredicine, che è
stato arrestato ieri: "Se non t'arrestano - gli dice Buzzi - tu diventi
primo ministro". E quello: "Perché? Me possono arresta'? ". E Buzzi ridendo: "Li
mortacci tua, se te possono arrestà!". Fumantino e minaccioso Giordano Tredicine
ha infatti portato nelle istituzioni la selvaggia illegalità degli ambulanti
sparsi per Roma, il pittoresco delle roulotte che vendono cibo, con il loro
minestrone di esseri umani: pakistani e armeni, cingalesi e tailandesi e
filippini, tutti sotto il controllo di una sola grande famiglia, appunto. Dice
di lui Carminati: "Quello viene dalla strada! Lui è serio, e poi è uno che è
poco chiacchierato, nonostante faccia un milione di impicci ". Ed è degradato a
mafia anche il tradizionale romanesco criminale di "Er più" che era un capo
brigante, ma non un padrino. Il linguaggio d'amore e di coltello che Dumas
racconta nel Conte di Montecristo diventa infatti linguaggio di appalto e di
tangente con "zozzo e zozzone" al posto di "cornuto e sbirro". Mentre "l'elenco
della mangiatoia" sostituisce "gli amici degli amici". E "o li cacci o li
compri" a proposito dei consiglieri comunali è quel che dice don Mariano Arena a
proposito dei carabinieri. La mucca poi è un'ossessione perché è la cresta, il
pizzo, la ricotta, è keynesismo mafioso: "la mucca se non mangia non può essere
munta", "se la vuoi mungere gli devi dare da magnà", e "quanto l'amo munta", "la
mucca in tre mesi deve magnà...". Come si vede, più che una metafora è
un'equazione, è il saggio di profitto, non l'arraffo bruto ma un arraffo che è
già impresa. Qui è degradato a popolo di mafia anche il popolo dei quartieri. È
stato per esempio arrestato Luca Gramazio che, secondo l'accusa, con una mano dà
alla mafia quello che con l'altra prende dalla politica istituzionale "perché
- dice Buzzi - una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso". E questa
sarebbe una frase perfetta anche in bocca al padrino di Corleone. Buzzi racconta
che "Gramazio ha dato un milione di euro al comune di Ostia... per il verde. E
ora il verde ce deve tornà tutto a noi". E infatti "il presidente del Municipio,
che io c'ero andato a parlà, sta facendo gli atti per darceli tutti a noi".
Anche Luca Gramazio appartiene, come Tredicine, ai cani di razza che fiutano gli
umori grassi del territorio romano. È figlio di Domenico Gramazio detto "er
pinguino" che nel Msi era il popolano un po' goffo e intransigente, una specie
di comparsa del Rugantino, un fascista sociale di quelli moralisti e spaccamondo
che prendevano tantissimi voti. Partecipò al famoso lancio delle monetine contro
Craxi davanti all'hotel Raphael, gridava "ladri ladri" al tempo di Tangentopoli,
mostrava le manette in Parlamento. Ecco: la legge del contrappasso ha saltato
una generazione. Papà Gramazio non è indagato anche se, si racconta
nell'ordinanza, "andava con il figlio a trovate Carminati, er cecato". Chi ha
trascritto le intercettazioni nota che il nome Carminati "viene pronunziato, per
precauzione, a bassa voce", proprio come accade nella mafia siciliana con i nomi
degli uomini d'onore, della gente di rispetto: Totò Contorno persino arrossiva
quando, d'un fiato, diceva "don Masino".
Ed è "il rispetto" che Carminati pretende dai consiglieri comunali, "quei pezzi
di merda" che "non vogliono obbedire" anche se, dice Buzzi, "io li pago e dunque
vaffanculo ". Ma cos'è il rispetto secondo Buzzi e Carminati? "Se tu non
rispetti gli accordi, tu lo sai chi sò io. Te ricordi da dove vengo". Ed è la
fedina penale che qui viene esibita come stemma nobiliare, cicatrici non di
guerra ma di malavita che affascinano Gramazio junior a conferma che la destra
missina, che pure aveva in testa un progetto di società e nel cuore sentimenti e
ideali, a Roma è diventata mafia. Roba da far inorridire la buonanima di
Almirante, che diceva: "Se qualcuno ruba va in carcere, ma se ruba uno dei
nostri bisogna dargli l'ergastolo". E Teodoro Buontempo, er pecora, cercava un
riscatto nell'educazione dei figli: dormiva in una Cinquecento ma li mandava a
studiare nelle università inglesi. È un piccolo mondo antico che l'inchiesta
Mafia Capitale archivia per sempre. In questo copione, Gianni Alemanno, pugliese
sedotto dalla romanità, che posava a ideologo della destra sociale, è il primo
responsabile politico del sistema criminale, una sorta di Ciancimino de Roma. Ma
non è con le mille assunzioni clientelari che Alemanno ha seppellito il mondo
dei camerati missini. No, l'ex sindaco era arrivato a chiedere
all'organizzazione mafiosa un aiuto elettorale per le europee. E Buzzi si era
rivolto alla 'ndrangheta perché, come abbiamo già sentito, "una mano lava
l'altra e tutte e due lavano il viso". Gli chiede Alemanno: "Devo fare delle
telefonate? Devo fare qualcosa?". E Buzzi: "No, no, no, tranquillo, tranquillo.
Ora manderemo a... Milardi l'elenco di persone, nostri amici del sud, che stanno
al sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Davvero solo una legge
speciale e d'emergenza può riportare la criminalità romana a un livello
fisiologico e costringere a rifugiarsi nei loro covi i pregiudicati e gli
insospettabili come Luca Odevaine, quello - ricordate? - che si chiamava
Odovaine e cambiò nome per non farsi riconoscere, l'ex capo di gabinetto di
Veltroni formatosi in Legambiente. Dalla mafia romana percepiva uno stipendio di
20.000 euro mensili, regolarmente registrato nella contabilità da sottosuolo che
la segretaria di Buzzi appuntava sul libro nero. Lo stesso Carminati, notando la
copertina nera, disse: "Mamma mia, mi inquieta un po'". E non perché la
disonestà gli turbava la coscienza, ma perché il nero lo depistava. I libri neri
per il fascista Carminati sono quelli di Céline, di Guénon, di Evola e dei
giapponesi che raccontano la morte dei guerrieri e non le pretese di Odevaine
che voleva un euro per ogni rifugiato venduto: " Se me dai cento persone
facciamo un euro a persona.. . Non lo so, per dire: hai capito? Ti metto 200
persone a Roma, 200 a Messina, 50 là, e le quantifichiamo ". Il traffico è
odioso e il pervertimento è di ideali, questa volta, rossi. Ma c'è anche la fine
della natura bonaria e cinica di Roma che è la città più grande d'Italia (20
volte Napoli) e con il centro storico più esteso del mondo, la più popolosa (più
di tre milioni di abitanti censiti), la più bella ( ça va sans dire ), e ormai
purtroppo la più degradata, la più corrotta e la più perduta tra le capitali
dell'Occidente: un suk di illegalità, abusivismo, fogne a cielo aperto e
sporcizia per le strade, sottosviluppo nei cortili, l'asfalto tutto buche e
avvallamenti, il centro storico assediato dai mendicanti, le auto in terza fila,
la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la
cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ...
Insomma la scenografia è perfetta per le ordinanze di Mafia capitale che come ha
scritto il New York Times "sollevano nuove domande circa la capacità dell'Italia
di riformarsi". Non si può infatti continuare a fingere, come fa il sindaco
Marino, che Roma "città per bene" non somigli ogni giorno di più a Buzzi, a
Carminati e a Odevaine e sia solo vittima e non anche complice, forse qualche
volta persino peggiore di loro. Ecco perché questa seconda ordinanza della
Procura non è solo un atto giudiziario, un supplemento di certificazione,
l'aggiornamento della mappa dell'aporia e del sistema mafioso che controlla e
plasma tutto, strade e uomini, traffico e sporcizia. Questa ordinanza è
neorealismo ed è un trattato di linguistica moderna dove il codice più innocente
è quello di sporcizia banale sulle "dù zinne" della "fica da paura che abbiamo
preso a lavorà alla raccolta differenziata ". Questo in fondo è il Bagaglino,
volgarità ordinaria, intermezzo comico da vecchia Roma: "Si chiama Ilenia". "Già
si presenta bene" risponde Figurelli a Buzzi. "E se è un cesso la famo scopà da
M", e qui l'iniziale del nome di battesimo del presunto bruto sessuale potrebbe
aprire una faida da film di Tarantino. Con la M, per dire, comincia Massimo, che
è il nome di Carminati. Questa ordinanza è infine un documento storico e le sue
428 pagine ci rimangono dentro come una preghiera. Non sarà infatti il processo,
non saranno le condanne il Big Bang di una città che si prepara al Giubileo e
aspira ad ospitare le Olimpiadi. Non basteranno i giudici a farla scendere dal
taxi del sottosviluppo e della mafia perché, come dice Buzzi "bisogna stare
attenti a scenne dal taxi: con noi sali, ma non scenni più".
Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.
Cooperative nere e cattoliche: il concordato di Carminati per il business della disperazione. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a spartirsi una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa Un servizio garantito grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni, scrive ancora Francesca Sironi su "L'Espresso". C'è un rapporto del gennaio 2014, firmato dagli ispettori della Ragioneria dello Stato, che dice già tutto. Che porta alla luce le irregolarità degli appalti garantiti dal comune di Roma a una maglia di tre cooperative: il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi, braccio destro dell' ex terrorista nero Massimo Carminati, entrambi finiti in carcere per l'indagine che ha colpito la mafia fascista della capitale; il “Consorzio casa della solidarietà” e “Domus Caritatis”. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a fare "stecca para" - per usare il lessico di Romanzo Criminale - trasformando la disperazione in un business d'oro. Insieme, queste tre associazioni si spartivano una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa. Ovvero per dare un letto temporaneo a chi perde la casa. Un servizio importante, garantito però grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni. «Va rilevato come l'affidamento sia avvenuto in via diretta, In assenza di qualsivoglia procedura concorrenziale», scrivono i funzionari dell'Ispettorato: «sebbene l'importo sia largamente superiore al limite previsto dalla legge secondo cui il fornitore dovrebbe essere individuato mediante una gara europea». Ma quali gare: nella capitale i problemi si risolvevano fra amici, hanno rivelato le indagini della procura di Roma. E anche quando c'erano dei bandi, loro riuscivano a pilotarli. Soldi sicuri, che intascavano sempre, nonostante le casse indebitate del Campidoglio. E non solo dal municipio: ma ottenevano finanziamenti pure dalla Prefettura e da Bruxelles. I patti lateranensi di Carminati hanno resistito fino a pochi giorni fa. Perché l'allarme della Ragioneria di Stato è stato ignorato? Nessun esponente della giunta Marino lo ha letto? Nessuno si è insospettito? Grazie alle procedure “straordinarie” dettate dalle “emergenze” (che potevano durare anche anni, come quella “abitativa”, o “migratoria” o “dei Rom”) una cooperativa quale quella di Salvatore Buzzi era riuscita a raggiungere il controllo di 2.965 posti letto: servizi per minori stranieri non accompagnati, adulti richiedenti asilo, nomadi, famiglie italiane travolte dalla crisi, uomini senza tetto e madri sole. È lo stesso “Gruppo 29 giugno” di Buzzi a vantare risultati straordinari, soprattutto in termini economici, nel bilancio del 2013. L'Italia era in crisi. Loro no: le intercettazioni dei magistrati svelano quanto fosse profittevole lucrare sulle disgrazie della gente. Perché queste sofferenze, garantiva Buzzi al telefono, «rendono più della droga». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Il sistema ha funzionato alla perfezione fino all'intervento dei magistrati. Nessuna denuncia ha fermato i nuovi padroni del business del sociale, capaci di arricchirsi anche con gli sbarchi di Mare Nostrum, la marea umana di profughi fuggiti dalle guerre in Siria e in Libia che ha raggiunto le coste italiane negli ultimi mesi. A maggio del 2014 la “Eriches” dell'ex detenuto modello Salvatore Buzzi gestiva solo a Roma 493 posti letto. Considerando una media di 40 euro di rimborso giornaliero a persona, gli stranieri portavano un introito assicurato di 20mila euro al giorno. Anche qui, dalle tabelle pubblicate proprio su Il Tempo, il quotidiano romano il cui direttore è stato intercettato dagli inquirenti a colloquio con “il Nero”, si trovano altre due sigle ricorrenti: Domus Caritatis e Casa della Solidarietà. Insieme controllano 1.436 ospiti. Un giro di denaro fra i 50 e i 57mila euro al giorno. Il fatto è che queste tre cooperative, Eriches, Domus Caritatis e Casa della Solidarietà, non sono esattamente concorrenti. Da una parte c'è Salvatore Buzzi, il braccio aziendale, secondo i pm, del fascista Massimo Carminati. Dall'altra c'è Tiziano Zuccolo (non indagato): presidente della Casa della Solidarietà e rappresentante dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, la rete di Domus Caritatis. Nelle intercettazioni riportate dai Pm, Buzzi e Zuccolo commenterebbero fra loro “un patto” di divisione degli affari “al 50-50", metà e metà. Ma non è solo dalle conversazioni telefoche che emergono intrecci fra i due. C'è una società, la Maika Immobiliare. Fondata nel 2006 per essere messa in liquidazione nel 2008. Era controllata dalla Sarim immobiliare, srl appartenente all'organizzazione di Buzzi; da Sandro Coltellacci, anche lui arrestato per l'indagine sul “Mondo di mezzo”; da altri due soci. E da Tiziano Zuccolo in persona. Registrato come proprietario del 16 per cento del capitale. Nel 2007, quando Report mandò in onda una puntata in cui i due giornalisti autori del servizio interrogavano Buzzi su degli affidamenti inusuali ricevuti dall'Università di Roma Tre, la Maika esisteva ancora. E aveva sede legale in via Castrense 51. Dove fino al settembre del 2008 ha avuto domicilio anche un'altra cooperativa emersa alle cronache negli ultimi tempi: “Un Sorriso”, l'associazione che gestiva il centro per minori stranieri di viale Giorgio Morandi, Tor Sapienza (che ha spiegato in un' intervista a Repubblica la sua estraneità al consorzio, dal quale anzi avrebbe ricevuto ripetute e gravi minacce per anni). Il luogo degli scontri. Degli scandali. Delle polemiche. Da cui gli adolescenti sono stati portati via. Per finire in un'altra struttura. Di chi? Di Domus Caritatis. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», vanta il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi nel bilancio: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello Sprar, (la rete nazionale dei comuni per la gestione dell'emergenza) una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore». La “stabilizzazione” era garantita da rapporti stretti con le istituzioni: stando agli atti, per trasferire "un numero imprecisato" di minori stranieri non accompagnati, più di 100, da una comunità considerata inagibile, «Buzzi si interessava a un edificio disabitato, nella disponibilità del Comune di Roma, coinvolgendo un collaboratore nel progetto di occupazione abusiva dell’edificio». Lo stabile, localizzato in via del Frantoio, avrebbe ospitato, una volta "squattato", gli adolescenti. «In una conversazione intercettata, il 2 gennaio 2013, Buzzi riferiva, infatti, che avrebbe interessato “Caradonna”, identificato, poi, nel presidente del V Municipio - Ivano Caradonna - competente su via del Frantoio, affinché, dopo la loro occupazione, le autorità locali non avessero provveduto allo sgombero». Nel segno della legalità. Ci sono anche altri intrecci che aiutano la stabilità. E riguardano questa volta i servizi. Nella primavera del 2013 il catering di una grande struttura per minori stranieri gestita dal consorzio di Buzzi proprio in via del Frantoio 44 viene sostituito da un momento all'altro. Al posto del fornitore precedente arriva la Unibar di Giuseppe Ietto. Come mai questa decisione? «La scelta delle aziende veniva operata da parte di Carminati», scrivono i Pm: «gli imprenditori di volta in volta selezionati venivano messi a conoscenza degli interessi del sodalizio e delle modalità con le quali ci si prefiggeva di raggiungere gli obiettivi, sicché si veniva a generare un rapporto altamente fiduciario». Una gestione interna, insomma. Poi la Unibar assume la figlia di Carminati. Il “Nero” aiuta Giuseppe Ietto in un appalto. E il sodalizio si stringe. Anche grazie alla ricchezza del business. Nel pomeriggio dell'otto gennaio del 2013, parlando con un imprenditore, «Carminati espone le consistenti possibilità di guadagno derivanti dalla fornitura del servizio di catering presso i centri di accoglienza per famiglie», riportano i magistrati: «”Qua se guadagnà qualche soldino ... cioè ...capito?"», dice: «"Siccome che stiamo a parlà di 8/900 pasti. Tre euro ciascuno. E per ogni pasto, visto che pagano in ritardo, ti danno mezzo euro in più”». Continua il Guercio: «Praticamente se ritardano a nove mesi a limite non ti frega un cazzo, ogni giorno prendi una cosa in più, sai li parliamo di un migliaio di pasti al giorno, una cosa, una cosa … calcola che st'amico mio, ogni giorno più che passa si prenderà, credo 600 Euro in più al giorno, caricato sui pasti!» Gli operatori hanno provato a lamentarsi della qualità del cibo: gli è stato detto che andava bene così. Ora sia Buzzi, che Ietto che Carminati sono in carcere. E sì che avevano pronto un progetto solidale proprio per i detenuti: «Un punto cottura per una mensa da allestire all’interno del carcere femminile di Rebibbia», riportano i Pm: «Progetto ideato da Carminati, il quale lo ha indicato a Buzzi e a Carlo Guarany (vicepresidente della cooperativa “29 giugno”), come imprenditore di riferimento per l’attuazione».
Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su "Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.
Mafia Capitale atto secondo: "Veltroni bene, ma co' Alemanno se pija de più". Mafia Capitale nella città corrotta. La politica capitolina al servizio de "er Cecato" e del suo braccio destro Buzzi. E le mazzette come chiave per entrare nei business che contano, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Massimo Carminati e Riccardo Brugia Rutelli? «Noi abbiamo cominciato a cresce con lui». E Veltroni? «Diciamo con Veltroni siamo andati bene noi». Alemanno? «co Alemanno sotto certi aspetti se pija molti di più.. specialmente sul sociale». La consolidata infiltrazione di “mafia capitale” nell’amministrazione capitolina spiegata a un emissario della 'ndrangheta. Un'infiltrazione «essenziale ai fini dell’assegnazione dei lucrosi appalti pubblici indetti dal comune di Roma». L'atto secondo di Mafia Capitale è soprattutto la narrazione di un città in cui la corruzione è il concime che fa crescere piccoli o grandi fortune personali. Roma corrotta da capi bastone e da manutengoli del potere locale. Roma corrotta dall'ambizione di un uomo, Massimo Carminati “er Cecato”, che da delinquente della malavita romana con il mito del Duce è diventato modello, risorsa e valore aggiunto per molti imprenditori che grazie a lui hanno piegato pezzi importanti dell'amministrazione pubblica ottenendo così «un sacco di lavori», come ha ammesso, intercettato, il manager delle coop e braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Nell'ultima retata sono stati arrestate 44 persone (tra carcere e domiciliari) e altre 21 sono indagate dalla procura antimafia di Roma che coordina i carabinieri del Ros della Capitale in questa seconda tranche dell'indagine Mondo di mezzo. Un sistema governato dal clan di Massimo Carminati. «I fatti corruttivi spiegano e sono spiegati dal contesto in cui si muove l’organizzazione a seguito del mutamento della compagine politica di maggioranza nel consiglio comunale di Roma e la conseguente rimodulazione delle attività corruttive», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari, che aggiunge: «In effetti, a seguito del mutamento nella maggioranza del Comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, mafia capitale investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi, del seguente tenore: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh... capisci”». Il lessico dell'organizzazione di Carminati rappresenta l'essenza del clan dall'animo trasformista e dalle pelle camaleontica. «Poi ce pigliamo e misure con Marino», è ancora Buzzi che detta la linea politica da intraprendere una volta chiusa l'era di Alemanno al Comune. Ma sempre «nel solco della linea strategica tracciata da Carminati di una rimodulazione dell’attività corruttiva in relazione ai diversi decisori pubblici». Il primo obiettivo raggiunto dall'imprenditore del clan è il Pd Mirko Coratti, in quel periodo presidente del Consiglio comunale. C'è anche Franco Figurelli, ex capo segreteria dell'assemblea capitolina, a libro paga della cosca. «Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». Insomma, per usare le parole del re delle coop, «so’ tutti a stipendio...». I politici disposti al compromesso in fondo non sono altro che bovini da foraggiare: «La mucca che se non mangia non può essere munta», una metafora che Buzzi ricorda a Figurelli, il quale promettendo di ricordare il detto a Coratti, ne approffitta per chiedergli un favore: l'assunzione di un amica. Dell'assuzione si sarebbe interessato proprio Coratti, attivato a sua volta dal compagno della madre della ragazza, un consigliere dell'VIII municipio. Per sistemare due nipoti anche un dirigente del Comune, ha accettato di scendere a patti con Buzzi. Ma oltre ai favori e ai piaceri personali, questa vicenda è anche una storia di soldi. Gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo rintracciano alcuni versamenti effettuati dalla cooperativa 29 giugno di Buzzi all'associazione che faceva capo a Coratti. Una sorta di fondazione, di quelle che oggi vanno tanto di moda tra gli esponenti dei partiti, per canalizzare le donazioni. D'altronde »il finanziamento pubblico è destinato a finire», osservano due fedelissimi di Buzzi. L'ex presidente dell'assemblea in cambio del denaro ricevuto ha, secondo gli inquirenti, abbracciato la causa del clan. In che modo? Appalti per i rifiuti, fondi pubblici e certezza che il Comune pagherà i debiti verso la coop. Oltre a Coratti e Figurelli, tra gli indagati c'è anche Massimo Caprari consigliere comunale del Centro democratico. Per lui l'organizzazione di Carminati aveva previsto mille euro al mese più benefit: «la promessa di erogazioni continuative di denaro, tra le quali quella costante di una percentuale dei lavori ottenuti dal Comune da parte delle cooperative riconducibili al Buzzi». La corruzione è servita a Buzzi & Co per ingraziarsi oltre che uomini del Pd anche alcuni del centrodestra. Il nome che spicca in questo nuovo capitolo di Mafia Capitale è Giordano Tredicine, 33 anni, consigliere comunale e vice coordinatore di Forza Italia nel Lazio. Rampollo della famiglia di venditori ambulanti che gestisce la massima parte dei camion bar della città. «Buzzi lamenta, in una conversazione con Gammuto, che se avesse vinto la maggioranza di centrodestra la sua scuderia sarebbe stata pronta e in essa indicava un ruolo specifico di Tredicine, oggi consigliere di minoranza all’Assemblea Capitolina». Insomma, il giovane era uno della scuderia, uno dei cavalli pregiati a cui il clan poteva affidare alcuni compiti. Secondo il ras della coop 29 giugno a destra pescavano a piene mani: «se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati, partivamo a razzo,... c’amo l’assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta’ assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più». Buzzi e il clan avevano istaurato con Tredicine "un rapporto di remunerazione corruttiva". Buzzi a Carmninati: «A Giordà se non te arrestano diventerai primo Ministro» me fa’ dice: ...li mortacci tua...te possono arresta’ (ride). Però come sto sul pezzo a Giordano non c’ho mai visto nessuno ehh.. credimi, mai nessuno». Persino nel feudo dei clan del litorale romano, Fasciani e Spada in primis, Mafia capitale è riuscita a comprare politici. «Le indagini svolte hanno consentito di verificare l’esistenza, nel X dipartimento, di decisori pubblici remunerati dall’organizzazione riconducibile a Buzzi, Carminati e Testa. Le risorse economiche pubbliche erano originariamente stanziate dalla regione, attribuite al comune, che, in parte, li smistava ai municipi», scrive il gip. Nella lista degli inquirenti è così finito il mini sindaco di Ostia, Andrea Tassone del Partito democratico, che nei mesi precedenti agli arresti si era lanciato in campagne per la legalità e contro le cosche. Stando all'inchiesta, un'antimafia di facciata. «Significativa, circa la individuazione in Tassone del capo di Solvi (faccendiere del politico), è la circostanza che egli sia stato delegato dal medesimo al controllo di voti e preferenze per conto della lista civica Marino alle elezioni comunali, secondo quanto si desume da fonti aperte», annotano gli investigatori. E sempre Solvi a «raccordare Buzzi e Tassone in vista dei loro incontri». Ma è proprio Buzzi a confessare il rapporto con Tassone: «Tassone è nostro, eh…è solo nostro..non c’è maggioranza e opposizione, è Mio». E poco dopo aggiunge: «perché noi pagamo tutti come vedi”...noi nell’ambito de ste cose..nell’ambito di questa monnezza pe tenè (fonetico) i voti gia semo arrivati a 43 mila euro, eh...Tassone 30...10 Alemanno 40». Tassone stipendiato? Secondo l'imprenditore legato al boss Carminati sì, e non sembra, a suo dire, accontentarsi: «Remunerazioni che evidentemente non bastavano, posto che Buzzi, qualche giorno dopo, riceve da Tassone una ulteriore richiesta di denaro, pari al 10% del valore di un affidamento. Uno dei motivi della sua visita ad Ostia veniva svelato dallo stesso Buzzi che, si lamentava che il “Presidente” (del X Municipio, Andrea Tassone) gli avesse chiesto il “10% in nero”». Le richieste a Tassone, per il tramite del faccendiere Solvi, sono tutte finalizzate a ottenere favori e agevolazioni dal X municipio. Anche qui le «mucche» hanno bisogno di cibo per poi ottenere più latte. Secondo Buzzi l'accoglienza dei migranti è un business più remunerativo della droga. E anche meno rischioso. Tra gli espisodi di corruzione elencati negli atti della procura antimafia di Roma diversi riguardano proprio l'emergenza abitativa e l'accoglienza dei migranti. Uno degli episodi raccolti dagli inquirenti ruota attorno alla Società Cooperativa Deposito locomotive di Roma San Lorenzo, «oberata di debiti, assillata dalla necessità di dover pagare cambiali, con asset invenduti costituiti da 14 appartamenti in zona Case Rosse – Settecamini». Il politico di riferimento del clan è in questo caso Daniele Ozzimo, ex assessore comunale alla Casa, in quota Pd, mentre il dirigente comunale è Guido Magrini, Direttore del dipartimento delle Politiche Abitative. Il sospetto dei magistrati è che l'assessore abbia chiesto a Buzzi «150. mila euro per risollevare le sorti di una cooperativa, in cambio del mantenimento di una convenzione relativa all’emergenza alloggiativa assai remunerativa per Buzzi». «Tocca vede’, nei limiti del possibile, salva’ sta cooperativa. Stamo a parla’ di centocinquantamila euro entro venerdì», riferisce l'imprenditore a un sodale, che chiede chiarimenti: «Senti, ma in cambio di centocinquanta, qual è il beneficio o l’opzione per noi?». E Buzzi risponde: «che tu opzioni gli appartamenti, no? Loro c’hanno quattordici appartamenti invenduti». Luca Odevaine invece (già arrestato nel primo filone d'inchiesta), era l'esperto dell'affare immigrazione. «Aveva instaurato rapporti di natura corruttiva con esponenti del gruppo imprenditoriale “La Cascina” mettendo a disposizione di tale gruppo il suo ruolo istituzionale di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, nonché il suo ruolo di componente delle tre commissioni di gara per l’aggiudicazione dei servizi di gestione del C.a.r.a. di Mineo, ricevendo in cambio la promessa di una retribuzione fissa mensile determinata in una prima fase in 10 mila euro ed elevata a 20mila dopo l’aggiudicazione della gara del 7 aprile 2014». La cooperativa vicina a Comunione e Liberazione è una holindg con un fatturato enorme. Partita come mensa per gli studenti ora gestisce ospedali, hotel, pasticcerie, catering. Odevaine era dunque stipendiato da Buzzi e dalla Cascina. Interrogato dopo l'arresto ai pm ha dichiarato: «Quello che facevo io …. era di facilitare il Ministero da una parte nella ricerca degli immobili che potessero essere messi a disposizione per l'emergenza abitativa». E Le somme di denaro (anche nella forma di pagamento dell'affitto di immobili) che ha ammesso aver percepito da Buzzi? Semplice. Li riceveva per l'attività che svolgeva per conto della sua cooperativa, di «facilitatore dei rapporti con la pubblica amministrazione … in ragione delle mie conoscenze maturate nel tempo». Il centro per richiedenti asilo di Mineo è una gallina dalle uova d'oro per gli imprenditori dell'accoglienza. Hanno capito che speculare è possibile sul villaggio della solidarietà inventato dal governo Berlusconi e dall'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni. Odevaine nei dialoghi intercettati spiega ai suoi interlocutori il metodo per mascherare le tangenti. Attraverso i subappalti affidati a ditte amiche che poi avrebbero gonfiato le fatture oppure attraverso la sovrafatturazione sfruttando una società di import export dello stesso Odevaine: «Altra ipotesi può darsi, può essere con la ... con l'impresa questa mia di import export, loro comprano alcune cose all'estero, tipo il caffè per esempio...quei soldi rimangono fuori e lì non ce l'ho le rotture di coglioni che ci sono qua, nel senso che se i soldi stanno lì, stanno nella società e io li prendo personalmente non succede un cazzo». E' sempre l'esperto di immigrazione, poi, a spiegare come versare le mazzette: «fallo... in più tranche però lo puoi fare, dici questi ce l'avevo in cassa». Per avere successo servono le relazioni. Odevaine conosce a fondo gli equilibri politici. Sostiene di essere stato lui a mettere in contatto La Cascina con il sottosegretario Giuseppe Castiglione. «Per cui ho conosciuto loro gliel'ho presentati a Castiglione... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e Liberazione, insieme ad Alfano e adesso loro ... Comunione e Liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del Centro Destra ...Castiglione». Il suo interlocutore a questo punto gli chiede: «Comunione e Liberazione appoggia Alfano?». Odevaine ribatte: Sì, stanno proprio finanziando ... sono tra i principali finanziatori di tutta questa...questa roba si ... e Lupi è infatti è il Ministro delle Opere Pubbliche e Castiglione fa il sottosegretario ... all'Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia ... cioè quello che poi gli porta i voti ... perché poi i voti loro ce li hanno tutti in Sicilia». Per vincere le gare sull'accoglienza il gruppo di Carminati non badava a spese. E pagava chiunque potesse agevolare i propri interessi. Secondo gli inquirenti anche il sindaco Fabio Stefoni di Castelnuovo di Porto avrebbe ottenuto una lauta ricompensa. Il patto, secondo gli investigatori, consisteva nel pagamento di una somma « a titolo di contributo elettorale e dalla promessa di dazione di 0,50 Euro per immigrato al giorno, da parte di Buzzi per indurre Stefoni a consentire o, comunque, a non opporsi all’apertura di un centro di accoglienza a Borgo del Grillo, nel comune di Catelnuovo di Porto».
Capitale corrotta, nazione infetta. Il celebre titolo de “l'Espresso” ha compiuto 60 anni ma continua a essere di un'attualità sconcertante.
Per il Pd a rubare sono sempre gli altri. Renzi si erge a paladino della legalità: "Chi viola le regole, deve pagare tutto". Ma il Pd non fa mea culpa. Marino: "Vado avanti, ho fatto pulizia". E Orfini chiama in causa i servizi segreti, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Mafia Capitale, si sa, è cosa di tutti. Gli arresti riguardato l'intero spettro politico. Ci mangiavano tutti. Pochi erano gli esclusi dal banchetto. Ma alla mangiatoia, per usare la metafora di Salvatore Buzzi, un posto privilegiato ce l'aveva proprio il Partito democratico con i suoi esponenti locali, i suoi amministratori e le sue cooperative. Diciannove persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l’ennesimo terremoto la seconda tranche dell’inchiesta denominata "Mafia Capitale" che già lo scorso dicembre aveva fatto scattare le manette ai polsi di 37 indagati, con il coinvolgimento di altri 40. Ancora una volta, l’ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all’alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra, del Campidoglio a della Regione Lazio: risultano tutti a libro paga dell’organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo e si aggiudicava i migliori appalti. "Un Paese solido è quello che combatte la corruzione come sta avvenendo in Italia con decisione e forza - commenta il premier Matteo Renzi - mandando chi ruba in galera, perchè è giusto che chi ha violato le regole paghi tutto e fino all’ultimo giorno". Ma sono solo dichiarazioni di circostanza. Perché, come dice anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini, al Nazareno sono convinti che a rubare siano sempre glia altri. "Le amministrazioni di Marino e Zingaretti - commenta Orfini in conferenza stampa - sono state un baluardo della legalità". Eppure, aldilà di Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl in consiglio comunale e poi in Regione, la seconda "retata" di Mafia Capitale ha fatto scattare le manette ai polsi di numerosi esponenti dem. Tra questi spiccano Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale in quota Pd, dimessosi a dicembre dopo la prima ondata di arresti, e il suo capo segreteria, Franco Figurelli. Per i pm, avrebbero ricevuto la promessa di 150mila euro, la somma di 10mila e l’assunzione di una persona segnalata da Coratti in cambio di una serie di favori da fare alle cooperative di Buzzi. In cella anche Daniele Ozzimo, ex assessore piddì alla Casa, Angelo Scozzafava, ex capo del quinto dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute di Roma, e Pierpaolo Pedetti, anche lui eletto consigliere comunale nel 2013 con il Pd, presidente della Commissione Patrimonio. Insomma, al pari di altre forze politiche, il Pd continua a comparire nelle carte dell'inchiesta. Eppure Orfini resta ancora convinto che non ci siano le condizioni per sciogliere il Comune di Roma, "perché questo significherebbe andare incontro alle richieste della criminalità". Dal canto suo, il sindaco di Roma Ignazio Marino rivendica il "cambiamento epocale" della sua giunta e si dice soddisfatto "della legalità contabile che abbiamo portato nella nostra città". "Continuiamo in questo modo - commenta il primo cittadino di Roma - la linea amministrativa che abbiamo assunto in questi due anni di governo sta dimostrando che veramente stiamo cambiando tutto". Per difenderlo, Orfini chiama addirittura in causa i servizi segreti: "Chiederò al Copasir di occuparsi della vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota come Carminati» e di come «abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità". Ma il teorema non regge proprio. "Che cos’altro deve accadere perché Marino se ne vada e si torni alle urne?", replica il leader della Lega Nord Matteo Salvini che vede proprio nel sindaco piddì il primo responsabile. Anche il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni di Marino: "Questa è l’ennesima prova che il sistema dei partiti è totalmente marcio, ivi incluso il Pd romano".
Fuoriluogo, scrive Franco Corleone su “L’Espresso”. L'onestà politica secondo Benedetto Croce. L’invocazione ossessiva dell’onestà è ben giustificata da mille episodi della cronaca del malaffare e però un bagno di razionalità può essere utile. Leggere il saggio di Benedetto Croce presente nel volume Etica e politica appare dissacrante di tanti luoghi comuni. “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”, così esordisce il filosofo e prosegue contestando la deriva per un Paese di affidare la cosa pubblica a onesti uomini tecnici. Croce definisce strana la pretesa che nelle cose della politica si chiedano non uomini politici ma onest’uomini. “Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica?- si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”. Vale la pena di leggere gli esempi della storia che presenta Croce per giustificare la sua posizione, ma soprattutto è istruttiva la sua conclusione: la disonestà coincide con la cattiva politica, con l’incapacità politica. Una tesi paradossale che esalta la politica e in tempi di crisi, di vero abisso della politica, rappresenta una lezione aristocratica.
Mafia Capitale, la Procura: "Rubano tutti". Gli arresti posticipati per non influenzare il voto delle regionali, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. "Rubano tutti, ecco il filo rosso di questa seconda parte dell'inchiesta....". A piazzale Clodio, sede della procura capitolina, il procuratore Pignatone non riceve i giornalisti e tutti i pm coinvolti, l'aggiunto Prestipino, i pm Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e Paolo Ielo, declinano gentilmente dichiarazioni e commenti. "Rubano tutti" resta l'amara constatazione dopo mesi di indagine e dopo aver riscontrato le dichiarazioni a verbale di numerosi manager e imprenditori che hanno spiegato "il sistema di potere trasversale ad ogni partito e maggioranza" che ha gestito ogni affare nella Capitale almeno negli ultimi dieci anni. Proprio per questa trasversalità, è stato chiaro a tutti che la seconda parte di Mafia capitale avrebbe avuto ricadute pesanti nelle settimane prima del voto già infuocate da una campagna elettorale durissima. "Abbiamo ritenuto necessario, per non influire sul voto, attendere la chiusura delle urne prima di procedere agli arresti" afferma una fonte in procura. Lo dimostrano le date: la richiesta della procura risale a marzo, l'ordinanza è stata firmata il 29 maggio, venerdì, quando già imperversava sul voto la lista dell'Antimafia. Attendere qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E così è stato deciso. Se in Mafia capitale parte Prima è stato protagonista Il sistema delle cooperative rosse che faceva capo a Salvatore Buzzi, nella parte Seconda la parte del leone la fanno le cooperative bianche. Al centro di molti passaggi dell'ordinanza lunga 500 pagine c'è infatti La Cascina, cooperativa bianca che fa riferimento a Comunione e Liberazione. Tra i 44 arresti di questa mattina per corruzione e concussione aggravati dalla modalità mafiosa, anche Menolascina, manager della cooperativa. Secondo l'accusa, la cooperativa garantiva un premio mensile di 10 mila a Lica Odevaine in quanto il tecnico che garantiva, dal tavolo nazionale per l'emergenza immigrazione, la gestione degli appalti per i centri profughi e immigrati. Una volta che La Cascina ha ottenuto l'appalto del Cara di Mineo (7 aprile 2014), il premio per Odevaine è stato raddoppiato (20 mila euro mensili). La cooperativa è emersa anche in un'altra delicata inchiesta del Ros dei Carabinieri: quella che ha portato in carcere Ettore Incalza, il super direttore generale del ministero delle Infrastrutture, e ha costretto alle dimissioni l'ex ministro Lupi (che non è mai stato indagato).
Il tariffario delle tangenti: “Un euro a migrante”, scrive “La Stampa”. Le intercettazioni del Ros svelano le mazzette. Il ras delle coop sociali Buzzi al telefono: «La mucca deve mangiare per essere munta». Mucche da mungere solo se ben foraggiate. Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e in carcere per l’inchiesta di Mafia Capitale dello scorso anno, così si esprimeva al telefono con altri indagati. A pagina 21 dell’ordinanza del gip Flavia Costantini, che conta 500 pagine, si legge che «ha ricevuto l’eloquente risposta che la mucca era stata ben foraggiata dall’attività di Coratti (ex presidente del consiglio comunale ndr) considerazione alla quale altrettanto eloquentemente Buzzi ribadiva che «la mucca era stata munta tanto». Nell’ordinanza, che riporta appunto le intercettazioni telefoniche, viene evidenziato che ciò «è un’eloquente dimostrazione di un rapporto corruttivo continuativo nel tempo». «Le erogazioni di utilità di Buzzi, esecuzione della linea strategica delineata di concerto con Massimo Carminati - si legge nel provvedimento - avevano l’evidente funzione di asservire agli interessi del gruppo politici che gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». Ma la 29 giugno non è l’unica cooperativa interessata dalla «mungitura della mucca», il giudice scrive, infatti, ancora: «Gli esponenti del gruppo La Cascina (coop attiva, dal 2012, anche nel settore dei servizi per l’immigrazione, e oggetto questa mattina di perquisizione da parte dei carabinieri del Ros, ndr) avevano promesso a Luca Odevaine una retribuzione fissa mensile, concordata prima in 10mila euro al mese e poi aumentata a 20mila euro e commisurata al numero di immigrati ospitati dai centri gestiti dal gruppo». La cifra - spiega il Gip - è il «prezzo per lo stabile asservimento della sua funzione di pubblico ufficiale componente del Tavolo di Coordinamento sull’immigrazione istituito presso il ministero degli Interni» e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio come componente delle commissioni di aggiudicazione delle gare indette per la gestione dei servizi presso il Cara di Mineo». L’effettiva, periodica consegna delle somme pattuite, sarebbe confermata dalle intercettazioni ambientali e, «con certezza», in «almeno cinque episodi», dalle indagini tecniche. La conferma arriva dalle stesse parole di Odevaine, intercettato nell’ambito dell’inchiesta: «...altre cose in giro per l’Italia... possiamo pure quantificare, guarda ... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va be’ ... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...». Questo è lo stralcio di una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, grazie al quale il gip Flavia Costantini prospetta l’esistenza di «un vero e proprio tariffario per migrante ospitato». A titolo esplicativo Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e spiega: «Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so’ almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so’ 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...». Costantini sottolinea come Le indagini dei carabinieri del Ros abbiano evidenziato «la straordinaria pericolosità di Luca Gramazio». L’amministratore di centrodestra «potrebbe sfruttare la rete ampia dei collegamenti per fornire nuova linfa alle attività delittuose e agli interessi dell’associazione» capeggiata da Massimo Carminati, «nonostante lo stato detentivo di numerosi sodali». In un altro passaggio viene evidenziato come per le elezioni al parlamento europeo del maggio 2014, Gianni Alemanno, chiese l’appoggio a Salvatore Buzzi. Quest’ultimo si sarebbe mosso per ottenere il sostegno alla candidatura anche con gli uomini della cosca `ndranghetista dei Mancuso di Limbadi. «Un ulteriore tassello idoneo a corroborare il rapporto di reciproco riconoscimento tra le due organizzazioni - scrive il giudice - è costituito dai riscontri intercettivi effettuati in occasione delle elezioni del Parlamento Europeo 2014, che hanno visto il politico Giovanni Alemanno, candidato nella lista «Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale», nella circoscrizione Sud». Buzzi, in una conversazione con Massimo Carminati, intercettata il 21 marzo del 2014, riferiva l’esito di un incontro avuto poco prima con Alemanno negli uffici della «Commissione Commercio» a Roma. «Buzzi - scrive il gip - riferiva del sostegno richiesto in quell’occasione dall’ex primo cittadino («no, no era pe’ la campagna elettorale ... una sottoscrizione e poi se candida al sud») e rappresentava al sodale come avesse individuato Campennì, indicato con il solo nome di battesimo, quale strumento idoneo per assecondare tale richiesta (».. da Giovanni ... gli famo fa ..«). Buzzi, il giorno seguente contattava «Giovanni Campennì, al fine di interessarlo per «da ’na mano a Alemanno ... in campagna elettorale ...«. Il tentativo «di Buzzi di mascherare, in maniera evidentemente strumentale con l’interlocutore («sto numero è intercettato ... però so telefonate legali ..»), l’illecita richiesta pervenutagli, facendola passare come innocua e legittima istanza volta ad ampliare il consenso elettorale (»? basta che non sia voto di scambio .... tutto è legale ... uno po’ vota’ gli amici???!!!»), nell’ambito di una circoscrizione elettorale particolarmente ampia («? mica può venire li!!! Scusa ... no perché la circoscrizione è grandissima .... è Abruzzo .... Campania .... la Calabria .... Puglia .... Basilicata ..... come cazzo fa? ... èèè ....»), veniva perfettamente compreso da Campennì, il quale, avendo evidentemente ben inteso il vero senso della richiesta («ah ste chiamate so legali??? ...»), aderiva prontamente alla richiesta, non potendo evitare, tuttavia, di sottolineare la propria capacità di poter attingere a un ampio bacino di consensi pilotabili, facendo ricorso a una metafora particolarmente espressiva («va bene .... allora .... è qua la famiglia è grande ... un voto gli si dà»).
Mafia Capitale, 44 arresti tra politica e affari. In manette anche big di Pd e Forza Italia. Seconda ondata di provvedimenti cautelari nell'inchiesta sulla malavita romana. Tra i reati contestati associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta e false fatturazioni. Tanti i nomi della politica locale coinvolti, scrive Lirio Abbate su L’Espresso”. Il clan mafioso di Massimo Carminati aveva in pugno politici regionali e comunali attraverso i quali riusciva a gestire appalti e incassare milioni di euro di soldi pubblici. Su Roma si abbatte così il secondo atto giudiziario di mafia Capitale, con 44 arresti eseguiti stamani dai carabinieri del Ros che hanno condotto le indagini, coordinate dalla procura antimafia di Roma. E così, accanto al cecato, compaiono nel provvedimento cautelare il capogruppo prima del Pdl e poi Forza Italia alla Regione, Luca Gramazio, ma anche l'ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti e l'ex minisindaco di Ostia Andrea Tassone, entrambi del Pd. Ma c'è anche l'ex consigliere comunale del Pdl Gerardo Tredicine. E poi soci e amministratori di cooperative bianche che si erano aggiudicati incarichi per l'emergenza immigrati. Mafia Capitale secondo atto: i carabinieri del Ros hanno eseguito 44 nuovi arresti tra Lazio, Abruzzo e Sicilia. I reati contestati sono associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Il blitz è scatato all'alba nelle province di Rieti, Frosinone, l'Aquila, Catania ed Enna. Altre 21 persone risultano indagate. Su di loro sono in corso perquisizioni. uesta seconda tornata di arresti, secondo gli inquirenti, "conferma l'esistenza di una struttura mafiosa, operante nella capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministratori ed imprenditori locali". Tra gli arrestati ci sono anche il consigliere regionale di Fi, Luca Gramazio, l'ex presidente del consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, l'ex assessore Daniele Ozzimo, Giordano Tredicine e l'ex presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone. Sono dunque 44 le persone arrestate (fra detenzione in carcere e quella domiciliare) con le accuse a vario titolo di associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, con l’aggravante delle modalità mafiose. E poi ci sono altre 21 persone indagate per le quali sono scattate stamani le perquisizione. Gli interventi dei carabinieri sono stati effettuati nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania e Enna.Salvatore Buzzi parla con Massimo Carminati e gli dice che i consiglieri comunali dovevano stare ai loro ordini poiché vengono pagati e, pertanto, devono rispettare gli accordi perché "se non rispetti gli accordi, lo sai da dove vengo". Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, in questa nuova fase, hanno permesso di acquisire ulteriori elementi sul metodo mafioso attuato dal clan Carminati, confermato anche dalle testimonianze rese da diversi imprenditori vittime. È questa un'altra grande sorpresa: la collaborazione di molte delle vittime del clan. Gli imprenditori chiamati nei mesi scorsi dagli investigatori non hanno negato di aver subito pressioni o violenza ed hanno parlato, facendo cadere lo strano di omertà che aveva avvolto molti altri. E grazie alle indagini è stata confermata la centralità nel clan Carminati di Salvatore Buzzi, che era a capo di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate. Un giro di affari per 150 milioni di euro solo con il Campidoglio. Il consigliere Luca Gramazio è accusato di associazione mafiosa «in qualità di esponente della parte politica che interagiva, secondo uno schema tripartito, con la componente imprenditoriale e quella propriamente criminale».La malavita romana lucra sulla pelle dei più poveri, e gli ultimi arresti dimostrano quanto il sistema fosse capillare. Per fortuna c'è anche chi si ribella all'omertà che dilaga a Roma. Il nostro inviato spiega come si evolve l'inchiesta "Mondo di mezzo". Gramazio prima nella carica di capogruppo Pdl al Consiglio comunale di Roma ed in seguito come capogruppo Pdl (poi Forza Italia) presso il Consiglio Regionale del Lazio, sfruttando la propria appartenenza alle due assemblee amministrative e la conseguente capacità di influenza nell’ambiente istituzionale «poneva in essere condotte strumentali al conseguimento degli scopi del sodalizio».
Mafia Capitale, le nuove telefonate. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». La metafora di Buzzi per spiegare il sistema delle tangenti, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Sono ancora una volta le intercettazioni telefoniche e ambientali nelle quali Salvatore Buzzi racconta il suo ruolo di corruttore a comporre il secondo capitolo di Mafia Capitale, che arriva dritto nel governo di Roma (cinque consiglieri comunali arrestati e altri indagati, insieme a funzionari di vari livelli finiti anch’essi in carcere), della Regione dove pure sarebbero stati siglati “accordi spartitori”, e del sistema di gestione dell’emergenza immigrati. Secondo i pubblici ministeri della Procura di Roma e il giudice dell’indagine preliminare che ha concesso i nuovi arresti – basati su ulteriori accertamenti e verifiche svolte dai carabinieri del Ros – l’organizzazione guidata dal “signore delle cooperative” Buzzi e dall’ex estremista nero Massimo Carminati ha esteso la propria rete corruttiva in maniera sempre più trasversale, passando senza problemi dall’amministrazione capitolina di centro-destra, quando era sindaco Gianni Alemanno, a quella di centro-sinistra, guidata da Ignazio Marino. Continuando a comprare, attraverso consistenti somme di denaro e “altre utilità”, gli amministratori e i funzionari che servivano a pilotare le gare e ottenere l’assegnazione degli appalti. E così, per un buon numero dei nuovi inquisiti è scattata l’aggravante di aver favorito, grazie alla “vendita” delle proprie funzioni, “l’associazione mafiosa diretta da Carminati”, già riconosciuta come tale da una pronuncia della corte di cassazione. Secondo il giudice Flavia Costantini che ha firmato la nuova ordinanza d’arresto, le frasi pronunciate da Buzzi nei dialoghi con Carminati e altri personaggi coinvolti nei “di mezzo”, “di sopra” e “di sotto” scoperchiati dall’inchiesta, rivelano “circostanze veritiere”, che peraltro hanno trovato riscontro nelle indagini degli investigatori del Ros. In una telefonata del 15 ottobre 2014 – un mese e mezzo prima degli arresti del 2 dicembre – il manager delle cooperative parlava con Franco Figurelli, all’epoca appartenente alla segreteria del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, e prendendo spunto dalla richiesta di assunzione per una ragazza avanzata da Figurelli, rendeva chiara la sua filosofia.
Buzzi: “Ahò ma, scusa ma lo sai... la sai la metafora?
Figurelli: “Eh…”.
Buzzi: “La mucca deve mangiare”.
Figurelli: “Ahò, questa metafora io glielo dico sempre al mio amico, mi dice: ‘non mi rompere, perché se questa è la metafora lui ha già, già fatto, quindi non mi rompere’...”.
Buzzi: “Ma... fai fa... fagli un elenco...
Figurelli: “Salvatò…”
Buzzi: “Fagli un elenco della mangiatoia, digli, oh” (ridono)
Figurelli: “Salvatò, te voglio be... già me rompe… dice: ‘E’ possibile che Salvatore a noi ce risponde così?’, ho detto: ‘Ahò, che te devo di’, gli ho detto, ‘questa è la metafora che me dà il cammello e della cosa… quindi che te devo fà?’” (…)
Buzzi: “Sì, ma io investo su di te, lo sai che investo su di te”.
Figurelli “Eh, meno male” (…)
Buzzi: “Ahò, però diglielo: ‘guarda che ha detto Buzzi che qui la mucca l’avemo munta tanto… (sovrapposizione di voci)”.
In altre occasioni, e parlando con altri personaggi, Buzzi tornava spesso sulla stessa metafora, per spiegare – nell’interpretazione dell’accusa – che politici e funzionari dovevano foraggiare le sue cooperative (attraverso gli appalti) per poi ricavarne qualcosa anche per loro (le tangenti): “Se la mucca non mangia non può essere munta”; “La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià”; “La mucca può essere munta solo se mangia”. Secondo l’accusa che ora li ha portati in carcere, Figurelli e Coratti (i quali hanno cambiato incarico dopo la retata di dicembre) ricevevano un vero e proprio “stipendio” per mettere le proprie funzioni al servizio del gruppo guidato da Buzzi e Carminati. I quali, con il cambio di maggioranza in Campidoglio, hanno dovuto “investire nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale”. In un’altra conversazione intercettata, dopo un lungo elenco di nomi e di cifre lo stesso Buzzi, afferma: “Perché noi pagamo tutti, come vedi”. E il 17 novembre scorso, appena 15 giorni prima di essere arrestato nell’operazione del 2 dicembre, faceva proclami agguerriti, che nel linguaggio evocano espressioni da Romanzo criminale: “Noi comunque … ti dico una cosa… lui (Marino ndr) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma”.
Secondo capitolo dell'inchiesta Mondo di Mezzo della procura di Roma e dei carabinieri del Ros: 44 gli arresti in corso di esecuzione in Sicilia, Lazio e Abruzzo per associazione per delinquere ed altri reati. Ventuno gli indagati a piede libero. Sullo sfondo il business legato ai flussi migratori e alla gestione dei campi di accoglienza per migranti, scrive Panorama. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, e del gip Claudia Costantini, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti altre 21 persone sono state perquisite in quanto indagate per gli stessi reati. I provvedimenti riguardano gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros nei confronti di Mafia Capitale, il gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. Secondo gli investigatori, gli accertamenti successivi a quella tornata di arresti hanno confermato "l'esistenza di una struttura mafiosa operante nella Capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministrativi ed imprenditoriali locali". In particolare le indagini hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un "ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori. Secondo il magistrato, Luca Gramazio "svolge un ruolo di collegamento tra l'organizzazione da un lato e la politica e le istituzioni dall'altro, ponendo al servizio della stessa il suo 'munus publicum' e il suo ruolo politico". Un collegamento che, sul piano politico, si traduce nella costruzione del consenso necessario ad assecondare gli affari del sodalizio; sul piano istituzionale, si materia di iniziative formali e informali intese per un verso a collocare nei plessi - sensibili per l'organizzazione - dell'amministrazione pubblica soggetti graditi, per altro verso nell'orientare risorse pubbliche in settori nei quali il sodalizio, in ragione del capitale istituzionale di cui dispone, ha maggiori possibilità di illecito arricchimento. Egli, inoltre, "elabora insieme ai vertici dell'organizzazione le strategie di penetrazione della pubblica amministrazione". Infine, sostiene ancora il gip, il consigliere regionale, "riceve dall'organizzazione per un verso una costante erogazione di utilità, per altro verso protezione e sicurezza in tutti quei casi in cui si rende necessario". Secondo gli inquirenti della Procura di Roma sarebbero state versate a Luca Gramazio mazzette per oltre 100mila euro dal gruppo guidato da Massimo Carminati. In particolare nella contestazione presente nell'ordinanza del gip Costantini si spiega che il consigliere regionale avrebbe avuto "98mila euro in contanti in tre tranches (50.000-28.000-20.000)"; ma anche "15mila euro con bonifico per finanziamento al comitato Gramazio". Inoltre, anche per "l'assunzione di 10 persone, cui veniva garantito nell'interesse di Gramazio uno stipendio; la promessa di pagamento di un debito per spese di tipografia". A carico di Gramazio jr è ipotizzata "l'aggravante di aver agito al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso indicata al capo 23". "Il ruolo di Luca Gramazio, quale personaggio vicino all'associazione in esame, era già emerso, ma è stato possibile solo successivamente, con un ulteriore e più approfondito vaglio del materiale investigativo, delineare il ruolo dello stesso all'interno dell'associazione, che può ricondursi al capitale istituzionale di Mafia Capitale" ha affermato Costantini, nell'ordinanza di custodia cautelare che riguarda anche il consigliere regionale. Delle perquisizioni in corso nell'ambito di Mafia Capitale, una riguarda la cooperativa "La Cascina", vicina al mondo cattolico. Gestisce tra l'altro il Cara di Mineo, in Sicilia. La perquisizione rientra nel quadro degli accertamenti sulla gestione degli appalti per i rifugiati. I Ros hanno poi perquisito anche gli uffici della Manutencoop a Zola Predosa (Bologna). Secondo quanto si apprende i militari del comando emiliano-romagnolo agiscono su delega della Procura di Roma e oggetto del loro interesse è il sequestro della documentazione in un ufficio, un faldone relativo ad una singola gara che si è tenuta a Roma e che coinvolge il colosso cooperativo. "Credo che la politica nel passato abbia dato un cattivo esempio ma oggi sia in Campidoglio che in alcune aree come Ostia abbiamo persone perbene che vogliono ridare la qualità di vita e tutti i diritti e la dignità che la Capitale merita". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino sulla nuova ondata di arresti per l'inchiesta su Mafia Capitale. E a chi gli chiede notizie riguardo sue possibili dimissioni, taglia corto: "Dimissioni? Continuiamo in questo modo. Stiamo cambiando tutto. Una politica antica non solo nei metodi ma anche nei contenuti, e in alcuni casi gravemente colpevole è stata allontanata da me".
Mafia capitale 2: ecco chi sono i politici arrestati. Nell'operazione Mondo di Mezzo bis dei Carabinieri del Ros finiscono in carcere 44 persone, la maggior parte esponenti della politica romana, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". L'operazione Mondo di Mezzo Bis. Mondo di Mezzo, secondo atto. Non è stata certo una novità. Le indagini condotte dai Carabinieri del Ros e gli arresti effettuati a dicembre scorso facevano intuire che all'inchiesta di Mafia capitale ci sarebbe stato un seguito. E ,a distanza di meno di sei mesi, altre decine di arresti spaccano il mondo politico e imprenditoriale romano, abruzzese e siciliano. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti, in tutto 44 e che per la maggior parte riguardano politici, ci sono state perquisizioni a carico di altre 21 persone indagate per gli stessi reati. Gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros sono legati al gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. In particolare, le ultime indagini, hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori.
Manette per Luca Gramazio. Tra i 44 arresti del Ros nel nuovo filone di Mafia Capitale c'è anche Luca Gramazio. Questi è accusato di partecipazione all'associazione mafiosa capeggiata da Carminati, che avrebbe favorito sfruttando la sua carica politica: prima di capogruppo Pdl al Consiglio di Roma Capitale ed in seguito quale capogruppo Pdl (poi FI) presso il Consiglio Regionale del Lazio. Luca Gramazio è figlio dello storico senatore di An Domenico. E' stato consigliere comunale Pdl a Roma nella maggioranza di Gianni Alemanno.
Carcere per l'ex presidente Coratti. In carcere c'è anche l'ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, candidato come Consigliere del Municipio III a soli 24 anni e nel 2001 entrato a far parte del Consiglio. Successivamente ha assunto la carica di Presidente del Consiglio comunale mentre era sindaco Veltroni.
In cella anche Daniele Ozzimo. In manette anche l'ex assessore alla Casa del Campidoglio, Daniele Ozzimo. Viene eletto nel 2008 al Consiglio del Comune di Roma nelle liste del Partito Democratico ricoprendo la carica di vice Presidente della Commissione Politiche Sociali e diventando membro della Commissione Lavori Pubblici, Scuola e Sanità.
Arrestato anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. I Ros hanno posto in arresto anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. Nel 2006, Tredicine diventa consigliere al IX Municipio con 1.576 preferenze ed è nominato Presidente Gruppo Consiliare Forza Italia. Nel 2008 è eletto in Consiglio Comunale con 5.284 preferenze, risultando il consigliere più giovane del Gruppo Consiliare del Comune di Roma. Viene nominato Presidente della Commissione Politiche Sociali e Famiglia e Vicecapogruppo del Pdl in Consiglio Comunale.
In manette anche Massimo Caprari. Gli arresti sono scattati anche per il consigliere comunale Massimo Caprari, dal giugno 2013 Consigliere dell’Assemblea Capitolina di Roma Capitale e membro nelle seguenti Commissioni: Lavori Pubblici, di cui è Vice Presidente Vicario, Patrimonio - Politiche Abitative e Progetti Speciali, Urbanistica, Roma Capitale e Riforme Istituzionali, Commissione Speciale Politiche Comunitarie e Commissione di Indagine Amministrativa sull’ATAC, di cui è Presidente.
In carcere anche Andrea Tassone. Le porte del carcere si sono aperte anche per l'ex presidente del X Municipio (Ostia), Andrea Tassone.
In carcere anche il responsabile anti-corruzione degli ospedali laziali, Angelo Scozzafava. Tra gli arrestati di questa mattina anche Angelo Scozzafava, ex assessore comunale a Roma alle Politiche Sociali. Dirigente azienda ospedaliera S. Andrea, Scozzafava era il responsabile anti-corruzione e trasparenza della S.Andrea, una delle principali aziende ospedaliere del Lazio.
Colpita anche la Regione Lazio. I provvedimenti hanno riguardato anche alti dirigenti della Regione Lazio come Daniele Magrini nella veste di responsabile del dipartimento Politiche Sociali... Ancora manette al Campidoglio. In manette anche Mario Cola, dipendente del dipartimento Patrimonio del Campidoglio e Franco Figurelli che lavorava presso la segreteria di Mirko Coratti. In manette anche un costruttore. Arresti domiciliari anche per il costruttore Daniele Pulcini. L'imprenditore era già finito sotto la lente d'ingrandimento della procura di Roma per una maxi-inchiesta sulle tangenti Enpam. Secondo gli investigatori avrebbe pagato una "bustarella" da un milione e 800 mila euro al parlamentare del Pd Marco Di Stefano quando era assessore al Demanio della giunta regionale guidata da Piero Marrazzo. Nuove accuse anche per la Chiaravalle. Nuove accuse per l'indagata marsicana Pierina Chiaravalle, 31 anni, nell'ambito del secondo filone dell'inchiesta. Originaria di Avezzano e agli arresti domiciliari da dicembre 2014
Mafia Capitale: “tra fascisti e ladroni”, scrivono quelli di sinistra. Sì, proprio quelli che indicano la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri occhi. In un mondo di sopra, di sotto, di mezzo, nessuno si salva: cittadini ed istituzioni.
Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia dell’inchiesta , al loro dire profetica, condotta da "l'Espresso", scrive Lirio Abbate.
Quella scattata martedì 2 dicembre 2014 è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno, indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.
Mafia Capitale: Da "Er Cecato" a "o Pazzo" L'alleanza che detta legge nella Capitale. Il clan fascio mafioso di Carminati e la camorra napoletana di Michele Senese detto "O Pazzo" che a Roma Nord ha investito in ristoranti e locali. E al suo servizio ha "La batteria di picchiatori di Ponte Milvio" con a capo Diabolik. Il leader degli Irriducibili della Lazio, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Roma Nord. Ponte Milvio. La zona diventata famosa dopo il film “Tre metri sopra il cielo” diventata il luogo simbolo della Capitale per gli innamorati di tutto il mondo, che qui facevano la fila per attaccare il loro lucchetto in segno di amore eterno. Poi il XX municipio ha deciso, all'unanimità, la rimozione dei lucchetti «per motivi di sicurezza e decoro». Però a Ponte Milvio negli stessi anni, e ancora oggi, scorrazza una banda ben più pericolosa dei gruppi organizzati di innamorati che si spingevano fin qui per legare alle ringhiere la loro promessa di fedeltà. Questa zona chic di Roma, infatti, è sotto l'influenza della Mafia Capitale di Massimo Carminati detto “Er cecato”, finita sotto inchiesta dalla procura antimafia di Roma che ha iscritto cento persone nel registro degli indagati, tra cui l'ex sindaco Gianni Alemanno, e ha arrestato 37 persone. Una cosca fatta da manager, vecchi terroristi neri, imprenditori rossi, politici e reduci della Magliana. Un ibrido criminale la cui scoperta sta rivoltando dall'interno il potere romano. Ma Carminati non è solo su quel territorio. Da lui dipendono altri boss. In particolare gli uomini di Michele Senese detto "o Pazzo". Nei rapporti degli investigatori vengono descritti questi equilibri criminali di Roma Nord. I detective la chiamano la “Batteria di Ponte Milvio”. Particolarmente agguerrita e pericolosa con a capo, scrivono gli inquirenti, Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di Diabolik e noto per essere il capo ultras degli Irriducibili della Lazio. Da settembre scorso è in carcere per traffico di droga. Non solo, la guardia di finanza gli ha sequestrato pure oltre 2 milioni di euro di beni. E scoperto che aveva in mano la commercializzazione dei gadget della sua squadra del cuore. Ai suoi ordini uno stuolo di picchiatori stranieri, albanesi e rumeni. Ma non finisce qui. L'analisi dei carabinieri del Ros va in profondità e scopre che la Batteria Diabolik è al servizio dei «napoletani insediati a Roma nord tra cui i fratelli Genny e Salvatore Esposito che fanno capo a Michele Senese». “O Pazzo” è considerato dagli inquirenti uno dei quattro Re della Roma criminale così come aveva anticipato “l'Espresso” nell'inchiesta del 2012 sui sovrani della mala capitolina. Il gruppo legato a Senese, scrivono gli inquirenti, controlla diversi locali commerciali nella zona: «tra cui il pub Coco Loco, loro abituale luogo di ritrovo». Il boss Senese è considerato un camorrista a tutti gli effetti. La sua carriere inizia nella formazione del padrino Carmine Alfieri. Contrapposti alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E proprio negli anni della guerra tra i due clan che Senese sceglie Roma come base logistica per i traffici e gli investimenti. “Er Cecato” Carminati e “O Pazzo” Senese hanno rapporti cordiali. E soprattutto interessi in comune. Si sono incontrati spesso e anche dopo l'arresto di Senese sono stati registrati ulteriori contatti tra i due clan. Ora pure Carminati è in carcere. Ma il loro regno non è ancora al tramonto.
Eppure la storia racconta un’altra cosa.
Scandalo di Capodanno 2015: Vigili assenteisti dagli a Marino, scrive Aurelio Mancuso su “Il Garantista”. Il diluvio di certificati medici giunti il 31 dicembre, insieme a permessi per donazione di sangue, assistenza parenti o per gravi motivi, per cui l’83,5% dei vigili urbani dell’urbe ha marcato visita, è un altro grave segnale che si abbatte su una città colpita già dalle inchieste su mafia capitale. Non sfugge a molti osservatori, che sia in atto un tentativo, perlomeno varie azioni anche indipendenti tra loro, di disarcionare un sindaco ritenuto scomodo, non compatibile rispetto a comportamenti, abitudini che si sono sedimentate. Si percepisce che la “casta” compiacente, o peggio che si faceva corrompere o si associava ai progetti criminali sugli appalti, sulla povera gente, sia la parte più esposta di un andazzo generale coerente con la volontà di aggirare le regole, di utilizzarle per condizionare la politica, per mantenere sempre un clima di emergenza. Di tutto questo si avvantaggia sicuramente Matteo Renzi, che ha buon gioco a scrivere su twitter: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano ”per malattia il 31dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole del pubblico impiego. #Buon2015». Così un episodio gravissimo, collegato anche all’atteggiamento degli autisti della metro A che solo in sette su ventiquattro si son presentati la sera di Capodanno, diventa immediatamente questione nazionale, rende “inevitabile” l’intervento del governo, per correggere le storture come quelle emerse a Roma. I vigili non vogliono che parta la rotazione prevista dalla riforma varata dal comandante e appoggiata convintamente da Marino e, avevano minacciato un’assemblea sindacale proprio nella notte di San Silvestro, gesto poi rientrato, che però in molti sospettano sia stato trasformato in quello che è avvenuto: uno pseudo sciopero. La prima reazione del Campidoglio non lascia dubbi su come la pensa Marino: «Stigmatizza l’atteggiamento di quanti hanno cercato di sabotare i festeggiamenti del Capodanno con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata». Lo staff del sindaco accusa che le divergenze sorte nelle ultime settimane sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio: «Sono state prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri. Perciò sarà rigorosamente ricostruita l’intera vicenda a favore dell’autorità giudiziaria e di garanzia. Ogni condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente». Le opposizioni se la prendono però con il sindaco. Giovanni Toti consigliere politico di Fi denuncia: «Roma città fuori controllo: 83,5% dei vigili assenti a Capodanno. Macchina amministrativa bloccata e il Pd non vuole votare». Gli fa eco Matteo Salvini, segretario della Lega: «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema della città: il sindaco Marino». Ogni occasione è buona per contestare il sindaco chirurgo, però nessun esponente della passata maggioranza di centro destra che ha amministrato la capitale, riconosce ciò che ai cittadini romani appare lampante: negli scorsi anni la macchina comunale è stata abbandonata e questo ha determinato un generale abbassamento del rispetto delle regole, ma soprattutto degli utenti che ogni giorno subiscono un generalizzato disservizio. Marino non ci sta e anche lui su facebook lapidario scrive: «Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità». E’ probabile che molti impiegati pubblici non abbiano compreso che dall’emersione dello scandalo “mondo di mezzo”, Roma è diventata il luogo su cui si giocherà la credibilità non tanto del primo cittadino ma del presidente del Consiglio, intenzionato, come segretario del Pd, attraverso il commissariamento di rivoltare come un calzino il partito locale e, con azioni dell’esecutivo, tra cui la riforma Madia in discussione al Senato, di rimuovere tutte le posizioni di rendita, privilegi, comportamenti lassisti. Per chi ancora avesse dubbi è lo stesso sindaco a chiarire: «Ringrazio il premier Renzi e il ministro Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa. Chi ha finto di essere malato, chi ha inventato scuse ne dovrà rendere atto nei modi previsti dalla legge e assumersi le propria responsabilità. A chi ha lavorato e lavora per la città vogliamo ribadire la nostra gratitudine e quella dei romani». I sindacati confederali dopo un giorno di silenzio, ieri hanno emanato un comunicato stampa: «Stigmatizziamo con forza i disagi che si sono verificati nella notte di capodanno, è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Anche questa volta non abbiamo in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti». La premessa, che serve a chiamarsi fuori da ogni responsabilità, però è più chiara quando lascia il posto alla risposta politica: «Pretendiamo che sulla vicenda si faccia totale chiarezza. Anche perché le dichiarazioni di queste ore da parte di amministrazione e governo che sparano nel mucchio finiscono per alimentare polemiche dannose e strumentali che non risolvono i problemi. Quanto sta accadendo non fermerà le nostre rivendicazioni, invece dimostra come sia indispensabile per cambiare le cose ricercare soluzioni condivise con il coinvolgimento dei lavoratori». Il Garante per gli scioperi e persino la magistratura valuteranno l’accaduto, rimane che, i sindacati scrivono: “Bisogna interrogarsi sul clima di esasperazione”, rischiando di fornire un lasciapassare culturale a chi ha utilizzato giuste tutele per scopi non nobili. Alcuni però, vigili interpellati dalle agenzie si sono difesi: «Non possono obbligarci a farlo. Alle 19 del 31 hanno fatto scattare la reperibilità. Non c’era nessun motivo. La reperibilità si fa per motivi di emergenza, come la neve, alluvioni, terremoti o altre calamità. Solitamente la notte di Capodanno lavoravamo in 700 in straordinario. L’anno scorso ce ne sono stati 450. Quest’anno era in strada solo chi aveva il turno. Niente straordinari. Quindi tutto è in regola».
Capodanno 2015 a Roma, l'83,5% dei vigili in turno si dà malato. Il comandante: "Diserzione che infanga l'intero corpo". Polemiche per l'incredibile numero di certificati per malattia, donazione sangue e disabilità giunti. Sullo sfondo lo scontro sul contratto decentrato. Il Campidoglio: "Tutto è andato bene grazie ai sostituti reperibili". Ma il vicesindaco accusa: "Un dato inaccettabile, a rischio la sicurezza dei cittadini". Ritardi anche nella metro e Atac ammette: "A San Silvestro, presenti solo 7 autisti su 24", scrive “la Repubblica”. Per la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili che dovevano lavorare era assente per malattia, donazione sangue, disabilità. A renderlo noto è il Campidoglio. "La serata e la nottata si sono svolte senza intoppi per la mobilità e la sicurezza delle 600 mila persone che hanno festeggiato l'arrivo del 2015 nelle strade della Capitale, a via dei Fori Imperiali e al Circo Massimo. Il servizio degli agenti della Polizia locale di Roma Capitale è stato garantito grazie al previdente ricorso all'istituto della pronta reperibilità, affinché si potesse disporre di un numero sufficiente di personale da impiegare nei servizi di viabilità finalizzati alla sicurezza stradale. Sono state impiegate circa 470 unità, 240 dalle ore 18.00/19.00 (75 di reperibilità) e circa 230 dalle ore 24.00 (45 di reperibilità). Inizialmente, i servizi di Capodanno prevedevano di impiegare circa 700 unità, come nei precedenti anni, in turno straordinario. Ma la mancata adesione allo straordinario aveva indotto il comando del corpo a disporre una ridistribuzione di tutto il personale". Il comunicato del Campidoglio fa riferimento alla dura battaglia dei giorni scorsi, con i vigili che avevano deciso di riunirsi in assemblea e il Prefetto che li aveva richiamati perchè lavorassero. "Dopo il differimento dell'assemblea sindacale dei giorni scorsi, prevista proprio per il 31 dicembre a ridosso della mezzanotte, già ieri pomeriggio era apparso chiaro che, a fronte della iniziale disponibilità di 1000 agenti (in servizio ordinario per il turno di seminotte) si sarebbe giunti progressivamente a 165 unità, per un totale di 835 assenze dell'ultima ora (-83,5%), motivate da malattia, donazione sangue, legge 104, legge 53 art. 19 ecc.. Inoltre, per il turno di notte dal numero iniziale di 300 unità previste si sarebbe arrivati a 185 unità, con 115 assenze riconducibili alle medesime motivazioni (percentuale di assenza del 38%). Ciononostante, proprio grazie alla reperibilità, è stato possibile garantire tutte le chiusure stradali, nonché governare l'afflusso e il deflusso dei tantissimi cittadini e turisti in strada a festeggiare". "Il dato delle assenze per malattia e altre motivazioni, pari all'83,5% è talmente rilevante numericamente da essere inequivocabile e inaccettabile. E poteva essere molto grave per la città di Roma. Tanto più perché arriva nel momento in cui, per altri versi, stiamo cercando un terreno comune di confronto, per concludere positivamente la questione sul contratto decentrato", commenta in una nota il vicesindaco Luigi Nieri. "Nessuno mai, e io per primo, mette in dubbio il legittimo diritto di sciopero per i lavoratori, o il duro ma leale dialogo con l'amministrazione sulle questioni sindacali. Altro - prosegue Nieri - è la mancata assunzione di responsabilità di fronte alla città e ai romani, in occasione di un appuntamento fisso, popolare e seguitissimo, che ieri ha portato in strada a festeggiare il nuovo anno oltre 600mila persone. Il mio più sincero ringraziamento va invece a tutti gli agenti che ieri sera sono scesi in strada per lavorare, con senso di responsabilità e del dovere, per permettere al resto dei cittadini di divertirsi". Parla anche il comandante generale della polizia locale Raffaele Clemente: "Gli agenti che hanno lavorato ieri sera e ieri notte hanno compiuto un eccellente lavoro e per questo li ringrazio, a nome dell'amministrazione, della città e mio personale. Diversamente, non posso che stigmatizzare l'atteggiamento di quanti, tra i miei colleghi, hanno cercato di sabotare, con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata, la festa popolare del Capodanno, cercando di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini ma anche il buon nome dell'intero Corpo degli agenti della Polizia locale e della città di Roma. Le divergenze sorte nelle ultime settimane o mesi, sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio - conclude Clemente- non dovrebbero essere prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri . Per questa ragione, per un evidente bisogno di equità nei confronti di quanti ieri hanno prestato il proprio dovere con professionalità e spirito di abnegazione sarà rigorosamente ricostruita l'intera vicenda a favore delle autorità giudiziaria o di garanzia. Ogni eventuale condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente".
L'ATAC. E nella notte di San Silvestro, rallentamenti fino a 20-25 minuti d'attesa sulla metropolitana A, secondo quanto sostiene la stessa azienda che parla di corse più lente a causa dell'assenza di conducenti nel turno straordinario 23.30-2.30, cioè quello oltre l'ordinario orario di chiusura del servizio metropolitano, organizzato in occasione della notte di San Silvestro. Nello specifico, sui convogli della linea A della metro - dove sono in totale 150 i macchinisti in servizio - erano disponibili solo 7 conducenti sui 24 che sarebbero stati necessari a garantire la regolarità del servizio. Per questo, fanno sapere dall'azienda, le corse sono state più lente dalle 23.30 fino a fine servizio, "circa 10-15 minuti di attesa a fronte di 5". "E' stato invece regolare il servizio sulla linea B", garantiscono dall'Atac.
Vigili malati, «azioni disciplinari». E il comandante va in procura. Madia: «Attivato l’ispettorato». Indagine interna in Campidoglio, all’esito della quale gli atti potrebbero essere inviati alla magistratura. Anche l’Autorità di garanzia sugli scioperi apre un procedimento, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”. Più di otto vigili su dieci in malattia e solo sette macchinisti su 24 alla guida dei treni della metro A: smaltiti i brindisi e i fuochi d’artificio, è bufera sull’astensione di massa della notte di Capodanno. Il primo a intervenire è il premier Matteo Renzi, che su Twitter scrive: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego #Buon2015». Poco dopo il commento del presidente del Consiglio, ecco l’affondo del ministro Marianna Madia: «Ispettorato ministero Funzione pubblica subito attivato per accertamenti violazioni e sollecito azioni disciplinari» assicura in un tweet la titolare della Pubblica amministrazione. E nel pomeriggio il comandante dei vigili, Raffaele Clemente affida l’indagine interna alla sua vice Raffaella Modafferi: dovrà portare alla luce la verità e metterla a conoscenza delle autorità interessate: quella giudiziaria (nel caso si ravvisassero reati penali), quella amministrativa (per uso e valutazioni interne) e, infine, quella di garanzia (Garante degli scioperi). Poi nella serata del 2 gennaio il premier Renzi è tornato sulla vicenda con un post su Facebook: «Il 2015 sarà l’anno della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ci occuperemo di cultura, scuola, Rai, green-act, lavoro. Di pubblico impiego, di modo che non accadano più vicende come quella di Roma dove la notte del 31 dicembre l’83% dei vigili urbani è rimasto a casa per malattia o donazione sangue». La linea dura di Palazzo Chigi è condivisa dal Campidoglio, il vice sindaco Luigi Nieri aveva annunciato in mattina dell’avvio dell’indagine interna aggiungendo: «In tempi rapidi si avranno dei risultati, in base a questi si deciderà se interessare la magistratura». Su Facebook il sindaco Ignazio Marino da un lato esulta per la notte di festa filata liscia anche senza municipale, dall’altro avverte che la «fuga» dalle strade avrà conseguenze:«Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il Capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità. Ringrazio il premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa». «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema di Roma: il sindaco Marino!». ha commentato su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini. E contro il sindaco, su questa vicenda, si sono schierati numerosi esponenti di centrodestra: da Alfio Marchini («città paralizzata dall’incapacità amministrativa del sindaco») a Giorgia Meloni, Fratelli di Italia («Roma non merita un sindaco che non ha neanche il controllo del suo personale»). In realtà per «interessare la magistratura» (sono le parole di Nieri) non si attende la fine dell’indagine interna. Già a fine mattinata il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, viene notato nei corridoi di piazzale Clodio. Al primo piano del palazzo di giustizia infatti incontra il procuratore aggiunto Maria Monteleone: l’accordo è che per ora la magistratura resta in stand by, in attesa dell’esito dell’ispezione avviata dal Comando generale della polizia municipale. Questa durerà alcuni giorni e al termine, se emergeranno indizi di reati, gli atti verranno inviati alla procura. E non solo il governo. Anche l’Autorità di garanzia per gli scioperi avverte che aprirà un procedimento di valutazione sull’«epidemia» della notte di San Silvestro. Al termine delle verifiche, potrebbero essere adottate le sanzioni previste dalla legge, perché lo sciopero nei servizi pubblici essenziali è possibile - ricorda il garante - solo all’interno delle regole della 146 del ‘90. Sul fronte politico, mentre il Pd prende le distanze dall’astensione di massa della municipale, Forza Italia ne approfitta per attaccare Palazzo Chigi sul Jobs act. «Pur potendo accampare altrettante rivendicazioni - osserva il capogruppo democratico in Campidoglio Fabrizio Panecaldo - non per questo poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri, fornai, trasportatori, operai, volontari, assistenti sociali si sono dati malati in massa abbandonando la comunità a se stessa. Su questa vicenda si deve andare fino in fondo». Alessandro Cattaneo, di FI, sottolinea che se da una parte «non si possono legittimare certi comportamenti», dall’altra i vigili «possono dormire sonni tranquilli, grazie a un Jobs act che non ha toccato minimamente la pubblica amministrazione». Anche l’Udc, attraverso il vicesegretario vicario Antonio De Poli, vuole punire la municipale: «Contro i fannulloni serve una linea dura. Vanno individuati i responsabili che hanno permesso una situazione così grave e anomala». Nè la polizia municipale trova un qualche sostegno nelle associazioni dei consumatori. È drastica l’Aduc, che propone di ricominciare da zero: «Se per il Capodanno di Roma Caput Mundi si presentano 165 vigili sui 900 previsti, vuol dire che occorre sciogliere il Corpo e definire nuovi assetti. Stessa sorte dovrebbe toccare all’Atac, che con sette autisti presenti su 24 sulla linea A della metro ha creato non pochi disservizi». A difendere la municipale, insomma, restano solo (alcuni) sindacati, che giustificano i vigili assenti con motivazioni diverse. Per Franco Cirulli, della Uil, «la maggior parte ha donato il sangue e, come previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali, era esentata dal servizio». Il segretario del Sulpl Stefano Giannini sostiene invece: «La maggior parte delle assenze non è stata per malattia, ma per ferie. La verità è che è stato tenuto in servizio un numero di agenti non in grado di coprire l’ordinario. C’è stato un errore di valutazione». E Stefano Lulli, dell’Ospol, precisa: «Il dato delle malattie, a quanto ci risulta, è stato di meno del 50%. Considerati gli agenti malati da giorni, il numero relativo al solo 31 dicembre si abbassa ulteriormente. I medici, poi, le hanno certificate». Anche secondo Lulli c’è stato «un problema di disorganizzazione del comando. In tanti stavolta non hanno aderito volontariamente allo straordinario e questo non è stato calcolato. Il tutto in un Corpo che ha 2.500 agenti in meno rispetto a quelli che dovrebbe avere».
Vigili assenti a Roma la notte di Capodanno, ennesima figuraccia "capitale". La ripicca sindacale dei caschi bianchi che non vogliono accettare le nuove regole, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. L'unica vera malattia che può aver tenuto a casa l'83% dei vigili urbani di Roma la sera di Capodanno si chiama “ricatto”. Da mesi infatti i caschi bianchi sono sulle barricate contro l'introduzione del contratto decentrato (che interviene anche sul salario accessorio) e il piano anti-corruzione che, tra le altre cose, prevede la rotazione degli agenti sui territori. Così, quando il Prefetto ha vietato che si riunissero in assemblea a ridosso della mezzanotte del 31 dicembre, improvvisamente loro si sono ammalati, hanno dovuto prestare assistenza a parenti disabili o sono stati colti da un irrefrenabile slancio di generosità e sono andati a donare il proprio sangue. L'ultima notte dell'anno, mentre per le strade del centro di Roma, tra via dei Fori Imperiali e il Circo Massimo, c'erano 600mila persone che festeggiavano l'anno nuovo. Con i rischi per la sicurezza che si corrono ogni volta che tanta gente si concentra in uno spazio limitato. Tutto è andato bene solo perché era stato disposto l'istituto della pronta reperibilità proprio per far fronte al forfait rifilato non tanto ai propri superiori, ma alla città stessa, dalla stragrande maggioranza dei 700 caschi bianchi cui era stata chiesta la disponibilità a fare un turno straordinario. Ma è stata, lo stesso, l'ennesima figuraccia “capitale. Il comandante Raffaele Clemente ha parlato senza mezzi termini di tentativo di sabotaggio, di una “diserzione che infanga l'intero corpo. Il sindaco Ignazio Marino ha accusato i vigili assenti di essere “ingiustificabili”. Il vicesindaco Luigi Nieri ha definito le assenze “inequivocabili e inaccettabili” e fatto sapere che è stata aperta un'indagine. A livello nazionale il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha annunciato l'invio di ispettori e sollecitato azioni disciplinari. Il premier Matteo Renzi ha twittato: “Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole pubblico impiego”. Il sindacato Sulpl ha giustificato gli agenti con la scusa del “piano ferie sbagliate” mentre il Garante sugli scioperi ha fatto sapere che sarà aperto un procedimento di valutazione. I romani, nel frattempo, hanno già fatto le loro. Quella dei vigili urbani è sempre stata tra le categorie meno amate. E non solo per la raffica di multe che in una città caotica e indisciplinata come Roma è facilissimo prendere. Ma soprattutto per i tanti casi di corruzione, minacce, estorsioni a loro carico svelati da inchieste giudiziarie più o meno recenti che hanno travolto non solo i semplici dipendenti ma addirittura i massimi vertici. Adesso sarà anche peggio. Perché venendo meno - è il giudizio dei più - a senso del dovere e responsabilità, hanno dimostrato di guardare solo al proprio giardino. Il loro egoismo li sta già esponendo – basta dare un'occhiata ai social network - a critiche ancora più dure da parte di chi li considera dei super garantiti che piantano grane se vengono spostati da una parte all'altra della città per evitare insani radicamenti. La loro autorevolezza è sotto zero. Nessuno ci sta a subire ripicche. Soprattutto non ci sta una città che ambisce oggi a ospitare un evento internazionale come i Giochi olimpici. E che invece si ritrova puntualmente ostaggio una volta dei tassisti, l'altra dei bancarellari abusivi, un'altra ancora dai ristoratori e baristi del centro. O rallentata da quei 17 macchinisti della metro che, sui 24 necessari, non erano in servizio la notte di Capodanno. O addirittura messa sotto scacco proprio da chi, per la divisa che veste, dovrebbe invece garantirne la sicurezza, l'ordine, il decoro.
"I vigili assenteisti non sono una sorpresa. Da anni raccontiamo lo sfascio di Roma". Parla il fondatore di "Roma fa schifo", uno dei blog più letti della capitale, in prima linea nel contrasto al degrado. "La loro è un'opera di sabotaggio. Speravano ci scappasse il morto?" Scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. «I vigili urbani volevano che ci scappasse il morto», dice il fondatore del blog “Roma fa schifo”: «Bastava leggere le pagine Facebook loro e dei loro sindacati per capire che si preparavano a un sabotaggio, per protesta contro la rotazione del personale e la riforma dello stipendio accessorio. I vigili urbani si occupano della sicurezza, e sabotarla significa sperare che ci scappi il morto. È gravissimo, come se avessero scioperato i medici del pronto soccorso». A Roma, la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili era assente per malattia, donazione sangue o disabilità. E sulla linea A della metro erano disponibili solo 7 conducenti su 24, con i passeggeri che hanno atteso i treni anche per 20-25 minuti. Una figuraccia di cui parla tutta Italia, ma che sicuramente non ha sorpreso gli autori del blog più letto dai romani, “Roma fa schifo”, che da anni attacca il malcostume degli impiegati pubblici come una delle tante varianti del degrado della Capitale. Ma chi c'è dietro questo discusso sito? C'è Massimiliano Tonelli. Romano, 36 anni, cresciuto tra Montesacro e San Giovanni, si è laureato in scienze delle comunicazioni a Siena. In questa intervista si racconta per la prima volta, e sul caso dei vigili dice come al solito parole forti e chiare: «È un problema locale, perché a Torino ci si vergognerebbe di “buttarsi malati”, mentre a Roma ce ne si vanta al bar. Ma è anche un problema nazionale, di leggi sul pubblico impiego, e quindi è un autogol pazzesco, che consentirà al governo, speriamo, di mettere finalmente mano a una riforma». Tonelli è cofondatore e anima di un network di blog che fustiga Roma e i costumi dei romani: Degrado Esquilino, Cartellopoli, Pro Pup Roma (a favore dei parcheggi sotterranei), Bike-Sharing Roma. Ma il più famoso di tutti è appunto Romafaschifo.com (sottotestata: chi ha ridotto così la città più bella del mondo?), un blog in cui i cittadini raccontano e fotografano la decadenza della città, dalle piccole illegalità alle varie mafie, e che Marino stesso un anno fa ammise di leggere con grande attenzione. Ci lavorano, racconta Tonelli, «4-5 persone, più centinaia, anzi migliaia di potenziali reporter, cittadini comuni che ogni giorno ci mandano circa 150 tra foto e segnalazioni su tutto ciò che non va, sono loro i veri padroni del sito, su cui infatti non trovi il mio nome da nessuna parte». È un blog anche discusso, per i toni usati dagli utenti e dagli stessi gestori. Ma è un simbolo di una città stanca, un vero fenomeno per chi vive nella capitale e non solo, visto che Tonelli ultimamente ha attirato l'attenzione della grande stampa internazionale, da “Der Spiegel” a “Business Week”, dalla “Bbc” alla tv pubblica tedesca, che gli sta dedicando un documentario. E il tutto è tanto più sorprendente se si pensa che Tonelli di lavoro fa altro, ovvero gestisce il sito del Gambero Rosso e, dopo aver lasciato Exibart.com, nel 2011 ha fondato la rivista online Artribune.com.
Come è iniziato il progetto di Roma fa schifo?
«L'idea ci è venuta a fine 2007, in piena epoca Veltroni. All'inizio era uno dei siti del nostro network, ma con il tempo ha acquisito un'importanza particolare. Merito della giunta Alemanno, che diciamo ci ha dato molto materiale. Siamo partiti dalla “teoria delle finestre rotte”, che ha ispirato quello che forse è il nostro unico mito, ovvero il sindaco di New York Rudolph Giuliani, capace di risollevare una New York che stava messa persino peggio della Roma di oggi. Se c'è una finestra rotta, va subito riparata, altrimenti presto verranno rotte altre finestre, e in quell'area arriveranno graffitari, gang, prostitute e scippatori. Insomma, bisogna partire dalle piccole cose, da piccoli comportamenti asociali come chi urina per strada o chi non paga il biglietto sui mezzi di trasporto».
Quando è arrivato il salto di qualità?
«Prima con l'apertura del profilo Facebook, che oggi ha 70mila fan, e con l'account Twitter, che hanno avuto un effetto moltiplicatore sul nostro successo. Ma il vero boom lo abbiamo registrato nell'ultimo mese. Siamo passati da 35-40 mila a 440 mila utenti unici al giorno prima con la pubblicazione delle foto della “fellatio di Castel Sant'Angelo”, un rapporto orale fotografato in pieno giorno sul Lungotevere, ennesima dimostrazione del degrado della città. E poi con un articolo sul sindaco Marino. Picchi che hanno fatto interessare al nostro progetto anche grandi gruppi editoriali, anche se, lo dico subito, non siamo in vendita, continueremo a finanziarci con i banner di Google AdSense. Tuttavia è chiaro che, se avessi altro personale, farei riprendere con più continuità le nostre continue campagne, da quella per lo scuolabus all'aumento delle strisce blu fino allo spazzamento meccanico delle strade».
Se dovesse scegliere tra le tante, quali direbbe che sono le vostre battaglie?
«I cartelloni abusivi, la lotta contro i camion-bar, la sosta selvaggia. Tutti temi su cui i grandi nemici sono il benaltrismo e chi dice «poracci, lasciateli lavora'». Ecco, quello è il segnale. Quando qualcuno dice «ben altri sono i problemi» significa che stiamo toccando un nervo scoperto e dobbiamo picchiare duro. Oggi comunque la situazione più esplosiva sono gli scippi sotto la metro da parte delle gang di minorenni».
Vi siete fatti un bel po' di nemici. In generale più di destra o di sinistra?
«I più accesi sono gli estremi, di entrambi i campi. Da un lato gli antagonisti, i centri sociali, che difendono le occupazioni e ci danno dei palazzinari perché siamo a favore di una trasformazione edilizia intelligente. Pensano che siamo fascisti, ma i veri fascisti sono loro, con i loro slogan vecchi di 40 anni sulle “colate di cemento”. Il loro “poraccismo” è nemico dello sviluppo di Roma, perché le grandi aree urbane, come Parigi, sono le uniche a veder crescere il Pil, e invece a Roma nessuno investe. Dall'altra parte c'è Casa Pound, che ci ha denunciato per diffamazione».
Mai ricevuto minacce serie?
«Solo dai writer, che mi telefonano di notte o scrivono sotto casa. Una cosa non molto simpatica, soprattutto per mia moglie e mia figlia. Veniamo alle note dolenti, come il linguaggio spesso violento che usate verso chi vi critica. O il fatto che sembrate giustificare certe reazioni dei cittadini, come chi, tanto per fare un esempio recente, riga le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Il nostro tono volutamente sprezzante fa parte di un'operazione di comunicazione. È un lavoro giornalistico aggressivo, sì. Vogliamo svegliare la gente di questa città prepotente e ignorante, far capire loro che le buche, i manifesti abusivi, i parcheggi in doppia fila sono l'illegalità, non devono più essere la normalità».
Il vostro linguaggio è sprezzante anche verso gli immigrati. Parlate di “vu cumprà”...
«Un'espressione che continueremo a usare».
...e date voce a cittadini che, soprattutto quando si parla di rom, non usano mezze misure.
«Ascolti, la nostra posizione sugli immigrati è questa. Sono una grande opportunità, specialmente economica, come dimostra il Pil che riescono a generare. Poi, è vero, ci sono stranieri che creano problemi, ma mai quanti ne creano i romani. Diro di più, e l'abbiamo scritto pochi giorni fa a proposito dei rom: noi non siamo capaci di accoglierli. Tanti rom sanno benissimo che qui non c'è certezza della pena, e ci sono leggi per cui se sei una minorenne incinta nessuno ti può toccare. I rom ci sono in tutta Europa, ma solo in Italia ripuliscono i turisti in metropolitana. È lo stesso motivo per cui gli immigrati del Bangladesh, se sono ingegneri, vanno a Londra, e se non hanno qualifiche finiscono per vendere i fiori a Roma. Non sappiamo attrarre immigrazione qualificata».
Prima che scoppiasse il caso di Mafia Capitale, il sindaco Marino era nell'occhio del ciclone per la vicenda delle multe non pagate per la sua Panda. Voi, controcorrente e anche un po' a sorpresa, scriveste un post in sua difesa, che ricevette 34mila condivisioni su Facebook. Lo definiste “sindaco marziano” lodando le sue 10 discontinuità, che i poteri romani, Pd incluso, non gli avevano perdonato: la chiusura della discarica di Malagrotta, i camion-bar via dal centro, l'aumento delle strisce blu, le pedonalizzazioni, la battaglia contro i cartelloni abusivi, la pulizia nelle municipalizzate, i soldi tolti ai consiglieri comunali per la "manovra d'aula", le unioni civili, i risparmi per le forniture, la rotazione dei vigili urbani sul territorio.
«Non era una difesa, perché all'inizio di quell'articolo scrivevamo che forse neanche si era reso conto quali poteri avesse sfidato... Abbiamo voluto solo dire: attenzione, chi vuole la testa di Marino vuole la conservazione. A cominciare dal Pd locale, che è un grandissimo problema per questa città, dalla questione dei cartelloni ai lavori pubblici».
E le altre forze politiche?
«Forza Italia è uguale al Pd, ma meno elegante nelle sue “zozzate”. I grillini, poverini, sono completamente inutili. Per questo dico che, se vogliono dimostrare di servire a qualcosa, dovrebbero entrare in maggioranza, chiedere un assessorato, magari sulla scorta dei 10 punti che abbiamo segnalato sul nostro sito».
Pensa che il vostro sito abbia aiutato a cambiare i romani?
«Sì, a quel 10 per cento che ci scrive: «Prima di conoscervi non vedevo certe cose». È solo una minoranza, ma non fa più finta di niente e si ribella a una grande brutalità, quella dell'abitudine al degrado. D'altronde la “Ryan Air generation” è stato un dramma per i politici italiani. Chiunque con pochi euro può andare a Londra, Parigi o Madrid e vedere che, nonostante la crisi, le altre città europee funzionano».
Ha votato più a destra o a sinistra?
«Sono tanti anni che non voto. Direi mai a destra. Forse l'ultima volta avrò votato qualcosa tipo la Lista Dini».
Il sindaco migliore chi è stato?
«C'è poco da scegliere. Sono anche contro il mito di Petroselli e Argan, che non ci hanno certo lasciato in eredità una città europea. Potrei salvare un po' il primo Rutelli».
Alfio Marchini le piace?
«Mi sembra un populista, che cerca gli applausi. A Roma serve un sindaco che cerchi i fischi, se vuole davvero cambiare la situazione».
A luglio un deputato del Pd, Michele Anzaldi, l'ha proposta come assessore alla cultura.
«Non mi interessa scendere in politica, anche se un po' tutti i partiti, in privato, mi chiedono consigli, perché ho il polso del territorio».
Però Roma non fa solo schifo, su. Ci dica una cosa bella di questa città.
«Non è una città provinciale, né razzista, né chiusa. Può essere una piattaforma interessante anche a livello culturale, se venisse dotata di una informazione adeguata. E poi questo è un momento eccezionale per il cibo a Roma, c'è una bella scena enogastronomica. Lo dice uno che lavora per il Gambero Rosso».
Quanto sei sporca Roma: il malaffare dell'Ama e l'emergenza immondizia. L'azienda rifiuti, l'Ama, spreca fiumi di milioni senza pulire. E senza multare chi insudicia la città. Un disservizio che lede ulteriormente l'immagine della Città eterna. E Che viene denunciato da tempo. Senza risultati, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Un cassonetto ingombro di rifiuti nel centro di Roma Là dentro, in una stanza ad alto isolamento dell’istituto Spallanzani, il medico di Emergency contagiato dal virus sta lottando contro Ebola. Qua fuori, vicino all’ingresso dell’ospedale al numero 292 di via Portuense a Roma, i netturbini dell’Ama hanno abbandonato due camioncini pieni di rifiuti. Le portiere sono aperte, non le hanno nemmeno chiuse a chiave. La Grande Tristezza ti colpisce ovunque. Non c’è bisogno di dritte e soffiate. Se cerchi, trovi. Piazza di Santa Maria Maggiore è una rassegna di cassonetti, rifiuti abbandonati, un cartello divelto, bottiglie lasciate sui gradini. Non appena se ne vanno i turisti, davanti alla basilica e intorno alla fontana comincia il balletto dei ratti. Grandi e piccini. Corrono, raccolgono tra i rifiuti scarti di cibo, si arrampicano a beretti. Chissà quale malsano protocollo prevede che carichi di immondizia maleodorante siano parcheggiati per tutto il weekend proprio davanti a uno dei centri europei più importanti per la cura delle malattie infettive. O forse sì, la risposta è chiara. Basta scorrere l’elenco degli arrestati nell’operazione antimafia che in queste ore ha coinvolto Gianni Alemanno, l’ex sindaco della capitale ed ex ministro Pdl. Franco Panzironi da esperto in incremento delle razze equine è stato amministratore delegato dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti. Giovanni Fiscon con 220 mila euro di stipendio record è l’attuale direttore generale dell’azienda e in Ama può contare sulla moglie. Tutti amici degli amici di Alemanno, dicono le ultime inchieste: da quella sugli sprechi di parentopoli all’ultima sul boss neofascista Massimo Carminati. Panzironi e Fiscon ovviamente sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. Ma in questo clima di allegra famiglia in camicia nera, qualche furgone, qualche cassonetto, qualche sacco può sfuggire al controllo. E continua a sfuggire. Magari vi sarà capitato di vedere sacchetti o rifiuti ingombranti abbandonati per strada, perfino in pieno centro: non è difficile a Roma. Sapete quante multe sono state date per questa sciagurata abitudine? Venticinque in tutto il 2014, da gennaio a ottobre. E se avete pestato una cacca sul marciapiede, in attesa che vi porti fortuna, forse vi incuriosisce conoscere quanti siano i proprietari di cani multati nell’ultimo anno: zero. Perché stupirsi? Se proprio volete chiamare i vigili, provate a cercarli al bar in piazza di Santa Maria Maggiore all’Esquilino: la notte tra il 23 e il 24 novembre ce n’erano addirittura sei in piacevole servizio in divisa per un’ora. Ma il diario di viaggio dell’ultima settimana nel cuore della Grande Tristezza va ben oltre il malcostume. Le pagine romane da martedì raccolgono anche ritagli di cronaca nera: criminalità, politica, appalti e i neofascisti della banda della Magliana ancora lì, in cima alla piramide a muovere soldi e burattini. Turno di notte: sei vigili, due auto, un'ora al bar. Dalle 00.20 all'1.19 sei agenti della Municipale in divisa, tra cui due graduati, con due macchine di istituto hanno chiacchierato al bar-gelateria davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo un'ora sono stati avvicinati da un passante infuriato perché era stato appena aggredito dietro l'angolo da due persone. A quel punto i vigili sono saliti in auto e se ne sono andati, però nella direzione opposta rispetto a quella indicata Il premier Matteo Renzi ha detto e ripetuto di aspettare il 15 dicembre, giorno della consegna dei collari d’oro agli italiani che si sono distinti nello sport, per annunciare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Sull’immagine della capitale nel mondo, però, prima dei collari sono arrivate le manette. Spese fuori controllo per centinaia di milioni. Manager incompetenti. Roma e i romani spremuti. E le casse portate al default. La mafia non è mai stata dalla parte della gente. Né della buona amministrazione. Qualcuno lo segnalava da anni, confrontando la spesa corrente con la totale mancanza di piani per il futuro. Sono i ricercatori dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale, istituita dodici anni fa dal consiglio comunale. Anche quest’anno, cinque analisti e un direttore tecnico hanno lavorato per oltre tre mesi. Dal loro rapporto sul 2014, pubblicato il 24 novembre, non si salva nessuno. Sentite qua: «Nonostante una specifica previsione del regolamento del consiglio comunale, sin dal 2002 non si è mai svolta un’apposita seduta per l’esame e la discussione della relazione annuale». Fantastico: dal 2002 cinque analisti e un direttore tecnico vengono pagati dal Comune e il loro prezioso lavoro da dodici anni viene puntualmente infilato in un cassetto o buttato nel cestino. Non bisogna però essere pessimisti: «La sensibilità e l’attenzione dimostrata dal presidente Coratti nei confronti dell’attività dell’agenzia sicuramente farà sì che tale mancanza venga sanata, dando l’opportunità all’Assemblea capitolina di confrontarsi sull’intero assetto dei servizi pubblici locali». Complimenti all’onorevole Mirko Coratti, presidente Pd dell’Assemblea capitolina, il consiglio comunale romano. Cioè no, un momento: Coratti è tra gli indagati in Comune, corruzione aggravata e finanziamento illecito. Martedì i carabinieri gli hanno perquisito l’ufficio e si è subito dimesso. Anche lui ovviamente è innocente fino a prova contraria. Ma con l’aria che tira, la qualità dei servizi pubblici rischia di non essere più in cima all’agenda. E quando mai lo è stata? È duro il lavoro dell’analista a Roma se oggetto dell’indagine è la pubblica amministrazione: «L’aspetto relativo ai poteri di accesso e di acquisizione della documentazione e delle notizie utili nei confronti dei soggetti gestori e degli uffici di Roma Capitale», denuncia l’agenzia, «dovrà a nostro avviso essere oggetto di uno specifico atto di indirizzo da parte dell’assessore e del segretario-direttore generale, viste le difficoltà, i ritardi e talvolta forse una certa ritrosia a voler mettere tempestivamente a nostra disposizione i dati e le informazioni richieste». Se non ci riescono loro, che sono stati incaricati dal Comune, figuriamoci cosa può succedere a un cittadino qualunque quando va a protestare agli sportelli. Eppure, calcolando le spese e il personale apparentemente sulle strade, la Grande Tristezza dovrebbe essere lucida come il marmo della Pietà di Michelangelo. Sulla pulizia non sorveglia soltanto la polizia municipale. Ai vigili si aggiungono agenti del “Nucleo decoro urbano di Roma Capitale” e gli ispettori dell’Ama, appositamente formati tra gli ottomila dipendenti dell’azienda pubblica. Negli ultimi mesi sono addirittura aumentati. Meno male. Nel 2014 la violazione contestata con maggiore frequenza dagli agenti accertatori dell’Ama, così vengono chiamati, è quella dell’uso scorretto dei bidoncini condominiali, nelle zone dove la raccolta dell’immondizia viene fatta porta a porta: 6 multe al giorno. E quante volte succede che i camion dell’Ama non riescano a svuotare i cassonetti, perché sono circondati da auto in sosta selvaggia? Vigili, agenti del decoro, accertatori dell’Ama sono rigorosissimi: due multe al giorno in una metropoli di due milioni e 889 mila abitanti. È una media: a volte sono quattro, a volte zero. E nascondere rifiuti nel cassonetto non corrispondente? Una multa al giorno. Lavoro durissimo. Forse è per questo che nell’ultimo anno si è rinunciato a punire chi non raccoglie le cacche dei cani da parchi e marciapiedi e chi getta rifiuti per strada: zero contravvenzioni. «Dato che le strade di Roma sono tutt’altro che pulite né sono prive di escrementi di cani sui marciapiedi, il fatto che non siano state fatte multe... assume una connotazione sociale assolutamente negativa», scrivono gli analisti nella relazione che il consiglio comunale non ha mai esaminato, «in quanto avalla comportamenti collettivi incivili e individualisti che danneggiano direttamente e indirettamente l’immagine della città e della popolazione romana, creando inoltre un danno economico: quantificabile nelle maggiori spese di pulizia a carico di tutti i cittadini». Dal 2009 al 2013 l’attività di vigili, agenti e accertatori per difendere il pubblico decoro è comunque aumentata toccando la ragguardevole produzione di 39 verbali al giorno: suddivisi per municipio sono due verbali al giorno, un record per i quartieri di Roma. Soddisfatti del risultato ottenuto, nel primo semestre del 2014 i controlli sono crollati a otto sanzioni al giorno, una ogni due municipi. Poche? Tante? Nei primi dieci mesi del 2013 l’Amsa di Milano ha emesso 49.769 multe per violazione del regolamento dei rifiuti, 170 al giorno, di cui 2.000 solo per il decoro urbano: «Mentre a Roma veniva elevata una sanzione ogni 263 abitanti, a Milano ne veniva emessa una ogni 25: anche se la città lombarda non si può certo definire dieci volte più sporca della capitale», è scritto nella relazione dell’agenzia inutilmente consegnata al consiglio comunale. Mantenere la città pulita costa meno che pulirla spesso. Sanzionare i cittadini incivili è più corretto che far pagare tutti. Intanto pagano tutti. Soltanto per il lavaggio e la pulizia delle strade il piano finanziario 2014 prevede l’impiego di 171 milioni: cioè 60 euro per ciascuno dei residenti romani, neonati inclusi, con un aumento del 60 per cento in dieci anni per le pulizie e del 138 per cento per la rimozione dei rifiuti abbandonati. E i risultati non si vedono. Ma pagano anche gli italiani. A Roma la raccolta differenziata nel 2013 si è fermata al 31 per cento e l’immondizia continua a finire in discarica, violazione che non riguarda soltanto la capitale: per questo, la Corte europea di Giustizia pochi giorni fa ha condannato l’Italia a 40 milioni di multa una tantum e 42,8 milioni per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure obbligatorie. Altri soldi che saranno sottratti agli investimenti, alla città. Che però si trasformavano in ricchezza per i nuovi boss, intercettati mentre mettevano le mani sui contratti milionari per la differenziata e per la raccolta delle foglie. Perfino gli appalti per la manutenzione del verde sono un enigma a carico dei romani. Da Monte Sacro alla periferia Nord-Est costano 0,38 euro al metro quadro, a Nord-Ovest appena al di là del Tevere li pagano 250 euro al metro: il 6.578 per cento in più. E i cartelloni? La selva pubblicitaria che accompagna i turisti da Fiumicino e Ciampino e nel resto della capitale ha reso al Comune appena 265 mila euro in tutto il 2013. A Genova, la città del sindaco Ignazio Marino, su una superficie molto più piccola sempre nel 2013 hanno incassato un milione e 60 mila euro. Certo, sono genovesi. Ma a Roma non resta nulla: si spendono 900 mila euro all’anno per la rimozione dei cartelli abusivi. Allora, chi è il regista della Grande Tristezza? Gianni Alemanno? Il salotto dei suoi uomini manager? Massimo Carminati? Una capitale cresciuta a immagine e somiglianza di un boss non ha futuro se perfino il consiglio comunale da dodici anni se ne frega della qualità dei servizi. Nel frattempo chissà se l’ex sindaco indagato, la sua alleata Giorgia Meloni e quelli di Casa Pound avranno l’onestà di tornare in piazza: «Porteremo il tema della sicurezza in Assemblea capitolina», ha scritto Alemanno sul suo blog il 17 novembre. Ora che è evidente quanto la mafia sia salita in alto, ha ragione: Roma non è mai stata così insicura.
Vigili: gag, disavventure e scandali. I retroscena dello scontro con Marino. I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi...
Brunetta: "La legge c'è, basta applicare la mia riforma". L'ex ministro della Pa: "Ridicolo nascondersi dietro il ddl Madia", scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”.
Onorevole Brunetta, lei è stato per anni simbolo della lotta ai «fannulloni» nella Pa. Cosa pensa dell'episodio romano?
«È un episodio grave che rischia di tramutarsi in un boomerang per chi se ne è reso responsabile. Ma certo colpisce che la sinistra dopo aver combattuto le mie leggi oggi scopra che esistono fannulloni e assenteisti. Quando lo dicevo io mi insultavano».
Renzi invoca nuove regole per il 2015.
«Nascondersi dietro il disegno di legge Madia è ridicolo. Le regole per combattere fannulloni e assenteisti ci sono già e portano il mio nome. Vanno applicate subito, senza scuse, e vanno stigmatizzati certi comportamenti sempre, non solo quando c'è il caso mediatico. È stata la sinistra, è stata la Cgil a combatterle. Sono stati i governi Monti, Letta, e anche il governo Renzi, da oltre 10 mesi, a non applicare queste regole».
In concreto come sono state disattese?
«Proprio sull'assenteismo dei dipendenti. Io pubblicavo i dati delle assenze di tutti i dipendenti della Pa, mensilmente e nel dettaglio. Con la fine del governo Berlusconi questo non è più accaduto. Avevamo ottenuto risultati importantissimi. Ad esempio l'obbligo dei certificati medici online sia del pubblico che del privato con la trasmissione in tempo reale all'Inps. Se vogliono sapere quali medici hanno fatto i certificati, possono farlo in un attimo».
Contro la sua riforma ci furono ribellioni da parte dei dipendenti pubblici?
«No, anzi, la Cgil mise in campo 13 scioperi, tutti falliti, tutti con una partecipazione media del 4%. Il consenso nella Pa era alto, tranne nel Pci-Pds-Ds-Pd, tranne nella Cgil, tranne tra gli intellettuali come Scalfari o Merlo, tranne i cantanti, gli attori e i comici».
Renzi da amministratore locale come si pose rispetto alla sua riforma?
«La applicava salvo dire: "Ma non sono mica Brunetta". Quando era presidente della Provincia di Firenze gli proposi una scommessa: se con la mia riforma tra i tuoi dipendenti l'assenteismo si riduce più del 40% mi regali una Montblanc; se meno del 40% te la regalo io. Vinsi la scommessa, ma la Montblanc non me l'ha mai regalata».
In malattia per cento milioni di giorni all’anno. Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Scrive Paolo Baroni su “La Stampa”. Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps, vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi». In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata: gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725 giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest (0,403). Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link «amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese, oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10% tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale.
Da sinistra si grida al lupo nero, indicando la pagliuzza nell’occhio altrui.
Padrini, terroristi, servizi segreti e massoni: così dalla Magliana è nata mafia Capitale. Quarant'anni fa i capi di 'ndrangheta e banda della Magliana si riunivano al Fungo. Lo stesso luogo dove è cresciuto Massimo Carminati. E che ritorna nell'inchiesta su Mafia Capitale. Che sembra sempre più l'evoluzione criminale della vecchia banda di Romanzo Criminale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. C'è un filo nero che attraversa gli ultimi decenni della storia criminale italiana. È un cordone che unisce l'Italia: da Reggio Calabria a Roma. Dalla 'ndrangheta a Mafia Capitale, passando per la banda della Magliana, terrorismo nero, servizi segreti e massoneria. Con un luogo che ritorna oggi come ieri: il Fungo, zona Eur, Roma. «Con Mancini (Riccardo, l'ex numero uno di Euro Spa inquisito nell'inchiesta su Mafia Capitale ndr) abbiamo fatto dieci processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma... con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo momento magari non sono indagate». Massimo Carminati rievoca il passato dei “neri” di Roma. Lui racconta e intanto le cimici piazzate dagli investigatori del Ros dei carabinieri intercettano. Carminati ricorda gli anni '70, gli anni di piombo, quando la gioventù neofascista della Capitale si incontrava in un luogo simbolo, che ritorna anche nell'inchiesta Mafia Capitale. Il punto di ritrovo di cui parla “er Cecato” è il Fungo. Un acquedotto costruito negli anni '60 all'Eur, a pochi chilometri dalla Magliana. Sotto questa struttura di cemento armato che assomiglia a un enorme fungo si ritrovavano i giovani della destra radicale, molti dei quali sono poi finiti nei nuclei armati rivoluzionari. L'ala più feroce dell'eversione di destra. Ma all'ombra del Fungo, nel ristorante panoramico all'ultimo piano della torre, si sono incontrati pure altri personaggi da romanzo criminale. Alcuni dei quali condividono con il boss di Mafia Capitale il credo fascista e il fiuto per gli affari, di qualunque colore essi siano. È una storia che comincia quarant'anni fa. Nel 1975. In un 'Italia stremata dalla tensione sociale e politica provocata dalle bombe, dal lavoro sporco dei servizi deviati e dagli accordi sottobanco tra organizzazioni mafiose, estremisti neri e 007. Il Paese era terrorizzato. E il peggio doveva ancora arrivare. Solo un anno prima c'era stata la strage dell'Italicus, sei anni prima il massacro di piazza Fontana a cui seguì, l'anno dopo, la bomba che fece deragliare il treno a Gioia Tauro. È in questo contesto di terrore e tritolo che il 18 ottobre '75 allo stesso tavolo siedono tre capi 'ndrangheta tra i più influenti nell'organizzazione calabrese e alcuni esponenti della banda della Magliana. Il summit si è tenuto proprio al Fungo. E qui che la polizia di Stato interviene e arresta Paolo De Stefano, don Peppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale. «Tale riunione, lungi dall'essere una mera riunione conviviale costituiva invece una vera e propria riunione mafiosa ad alto livello» si legge nelle informative dell'epoca. Paolo De Stefano verrà ucciso dieci anni dopo. L'agguato che gli costò la vita diede il via alla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Il clan De Stefano però è tuttora il più potente della città. E nell'organizzazione calabrese è la famiglia che conta di più, quella che negli anni ha saputo creare relazioni più solide con il potere: hanno protetto la latitanza del terrorista neofascista Franco Freda; hanno giocato un ruolo importante nella rivolta dei Boia chi molla per Reggio capoluogo; l'avvocato Giorgio De Stefano, ucciso nel '77, è stato, secondo alcuni pentiti, il contatto tra 'ndrangheta e servizi segreti. Tra spioni ed estrema destra, i De Stefano sono cresciuti e dal poverissimo quartiere Archi dove hanno mosso i primi passi, hanno allungato i tentacoli fino in Francia, radicando i propri affari a Roma e Milano. E proprio nel capoluogo lombardo, stando alle recenti indagini dell'antimafia reggina, ha sede il cuore finanziario del clan. L'indagine Breakfast sta scavando nei segreti societari della 'ndrangheta governata dalla famiglia De Stefano, e ha scoperto complicità nella Lega Nord, con l'ex tesoriere Francesco Belsito, e con uomini un tempo dell'avanguardia armata nera, come Lino Guaglianone, anche lui come Massimo Carminati, ex Nar, e precisamente ex tesoriere del nuclei armati rivoluzionari. Non solo, ma nei rapporti investigativi gli inquirenti segnalano più volte la vicinanza dei De Stefano alla banda della Magliana, «di cui sono noti i collegamenti con la destra eversiva e i servizi segreti». Al Fungo c'era anche Pasquale Condello, detto “il Supremo”. Come i De Stefano è cresciuto nel quartiere Archi. Insieme hanno conquistato Reggio, salvo poi dividersi in una guerra durata sei anni e con mille morti ammazzati. Dopo il sangue è tornata l'armonia e la città è stata divisa equamente. Ancora oggi è pax mafiosa. Il profilo di Giuseppe Piromalli detto “Mussu stortu” è simile a quello di don Paolino De Stefano. Le loro famiglie si uniscono alla fine degli anni 70' per fondare una 'ndrangheta più moderna. Sono i precursori della strategia delle alleanze trasversali con pezzi delle istituzioni e di altri gruppi mafiosi. E sono i promotori dei grandi business con la droga. Per farlo hanno dovuto annientare i vecchi capi bastone. Una volta eliminati è iniziata la loro ascesa criminale. Peppe Piromalli trascorreva molto tempo nella Capitale. L'interesse della 'ndrina di Gioa Tauro era quello di allargare la zona di influenza. Un particolare che verrà confermato dal pentito della banda della Magliana Antonio Mancini, “l'Accattone”. I Piromalli ritornano nell'indagine della procura antimafia di Roma su Mafia Capitale. I pm e i militari del Ros hanno infatti scoperto come la banda de “er Cecato” avesse stretto un patto con i clan calabresi, in particolare con i Mancuso, attraverso però un parente del boss Piromalli, dipendente delle cooperative del braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Quel giorno di quarant'anni fa al Fungo accanto ai mammasantissima della 'ndrangheta c'erano “er Gnappa” Manlio Vitale e “er Pantera” Gianfranco Urbani. Personaggi di spicco della Magliana. Manlio Vitale con Massimo Carminati ha condiviso più di qualche avventura malavitosa. Nel 2000 sono stati indagati per il furto nel caveu all'interno del Palazzo di giustizia. E nella sentenza sulla banda della Magliana i loro nomi vengono accostati spesso. Vitale come Carminati frequentava il Fungo. D'altronde era zona loro. Per questo gli 'ndranghetisti sono stati invitati in quel ristorante. Non solo. Il nome de “er Gnappa” spunta negli atti di Mafia Capitale. Fino a qualche anno fa, almeno da quel che risulta agli investigatori, frequentava Riccardo Brugia, «compare e braccio destro di Carminati». Brugia secondo gli inquirenti è «dotato di una rilevante storia criminale personale e legato al Carminati da una profonda amicizia e dalla comune militanza nei gruppi eversivi dell’estrema destra». «Er Pantera» invece è morto qualche mese fa. Nella banda, alcuni collaboratori di giustizia, lo indicavano come il manager delle relazioni con le altre organizzazioni. Con la 'ndrangheta ma anche con i clan catanesi, in particolare con la cosca di Nitto Santapaola (famiglia alleata con Piromalli e De Stefano). Fu lui, dicono i testimoni, a tenere i contatti con le 'ndrine di Reggio Calabria e a instaurare il traffico di eroina con la Tailandia. Ora che molti dei protagonisti della riunione del Fungo non ci sono più, l'eredità di quei rapporti è passata di mano. A Roma comanda Mafia Capitale e le sue alleate. Una in particolare, la 'ndrangheta. In fin dei conti, quindi, poco è cambiato. Se non il clima. Per questo l'organizzazione guidata da “er Cecato” in un certo senso sembra l'evoluzione criminale della banda dei testaccini, l'anima più borghese del gruppo della Magliana. Un salto di qualità obbligato. Lo stesso passaggio che hanno dovuto mettere in atto le altre mafie. In questo nuovo contesto rapinatori e i killer hanno sempre meno spazio. Ciò che non muta sono le alleanze di un tempo. E spesso ritornano gli stessi cognomi, gli stessi personaggi. Segno che il capitale di relazioni e conoscenze accumulato negli anni passati frutta ancora oggi. E che la mafia più che rottamare riadatta al nuovo corso i vecchi arnesi.
L’altra faccia della medaglia, invece, è la trave nascosta negli occhi della sinistra.
Lo scandalo dei falsi iscritti Pd: "Tesserate persone inesistenti". Una giornalista della Stampa ha ottenuto una tessera dei dem fornendo false generalità: nessun controllo, nessuna richiesta di documenti. Si paga, si firma e si ottiene la tessera, scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Iscriversi al Pd romano è facile. Facilissimo. Tanto facile che basta scrivere un nome falso e un indirizzo mail di fantasia, pagare la quota di iscrizione e la tessera salta fuori senza alcun controllo. Nessuna richiesta di documenti, carta d'identità, patente, codice fiscale: niente di niente. Questa la clamorosa scoperta della cronista de La Stampa Flavia Amabile, che è riuscita ad iscriversi ad una sezione capitolina del Partito democratico fornendo generalità inventate ed ottenendo la tessera del partito senza problemi. Quello delle tessere è stato a lungo un grosso problema per il Pd nazionale, con il numero degli iscritti soggetto a cali di centinaia di migliaia di persone da un anno con l'altro. In Piemonte si sono registrati casi di anziani pagati per iscriversi al partito e votare, in Puglia è stato segnalato un numero di tessere triplo rispetto a quello degli iscritti. Proprio a Roma, alle primarie per il sindaco della primavera 2013, si erano viste file di rom fuori dai seggi, con conseguenti polemiche sulla regolarità del voto. Ora, anche in seguito allo scandalo di Mafia Capitale, il presidente del partito Matteo Orfini, aveva annunciato di voler fare "pulizia" nel Pd romano, passando ai raggi x gli ottomila iscritti della capitale. Sempre su La Stampa, l'esponente democratico ammette di "non essere sorpreso" per la facilità con cui si possono ottenere tessere false, ma chiede anche di "non crocifiggere nessuno" in attesa che "ci si abitui al rispetto delle regole". Iscriversi agli altri partiti, chiosa la Amabile, non è però così semplice. Complice anche una situazione finanziaria che non permette strutture sul territorio articolate come quelle del Pd, spesso l'iscrizione alle formazioni politiche richiede la compilazione di formulari online oppure all'interno di circoli dove i nuovi arrivati vengono "esaminati" più attentamente. Solo a Sel, scrive la cronista del foglio torinese, "nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento".
Venti euro e zero controlli per una tessera falsa del Pd. Nome di fantasia, niente documenti né codice fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo. La tessera finta e la ricevuta del versamento con cui la nostra cronista si è iscritta con nome falso al Pd, scrive Flavia Amabile su La Stampa. Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari. Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano. Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice. Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi. La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni. Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18. Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi. Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli. Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd. Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento. Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.
Militante democrat a sua insaputa. Branco mette alle corde i furbetti. L'ex campione del mondo Branco si ritrova tesserato e scrive a Renzi: cancellato, scrive Matteo Basile su “Il Giornale”. Guai a farlo arrabbiare. Non perché sia cattivo o violento, tutt'altro. Ma perché nella sua più che ventennale carriera di pugile, che lo ha portato ad essere l'europeo più titolato di sempre, Silvio Branco ha imparato molte cose. Tra queste a non farsi mettere i piedi in testa e a guardarsi dalle fregature. Figuriamoci se uno così, abituato a combattere per ottenere risultati, si fa prendere in giro da un partito politico. Succede che nella sua Civitavecchia, città dove Branco è un monumento vivente, il pugile, ritirato solo lo scorso anno dall'attività agonistica alla soglia dei 48 anni, si sia di fatto ritrovato iscritto a sua insaputa al Partito democratico. Lo scorso 20 dicembre infatti si è tenuto in città il congresso straordinario del Pd, con la presentazione delle piattaforme politiche e dei candidati alla segreteria. Inevitabile che nei giorni che hanno preceduto il congresso, come da mondo e mondo accade in ogni partito politico prima di ogni convention, sia scattata la corsa al tesseramento, con i vari dirigenti in prima linea per cercare di «accaparrarsi» quanti più delegati possibili. Missione compiuta si penserebbe dando uno sguardo ai dati, ancora ufficiosi. Un boom in controtendenza rispetto al resto d'Italia e altamente discostante rispetto al clima di anti politica che regna nel Paese: secondo il partito sarebbero state sottoscritte ben 700 tessere in più rispetto all'anno precedente, senza contare che c'è tempo per iscriversi ancora fino a domani, 31 dicembre. Branco, in passato delegato allo sport del Comune visto il suo ruolo di «ambasciatore» italiano del pugilato nel mondo, viene a sapere che anche lui risulta essere nell'elenco dei nuovi iscritti. Un colpo basso che non accetta. «Mi è stato detto che ero tesserato ma non avevo fatto nessuna richiesta né firmato nessun documento - racconta il campione al Giornale - Allora ho messo le mani avanti e inviato una lettera diffidando il partito dall'iscrivermi a qualsiasi lista». Una lettera di fuoco inviata da Branco al segretario del partito Matteo Renzi, al presidente Matteo Orfini e alla commissaria di Civitavecchia Michela Califano. E visto che Branco, come detto, non è solo un grandissimo campione ma in città è un'autentica icona, i dirigenti hanno subito pensato di evitare problemi eliminando il nome del pugile. Una figuraccia del genere, con il tesseramento di un volto tanto noto a sua insaputa, non avrebbe certo giovato al Pd. «Quando ho appreso la notizia mi sono molto amareggiato - confessa Branco - Probabilmente fossi stato il fruttivendolo del paese non ci sarebbe stato clamore e sarebbe stato iscritto a sua insaputa. Nulla contro nessuno, sia chiaro, ma certo non mi va di essere preso in giro». Il campione del mondo dei pesi mediomassimi e dei massimi leggeri, ha quindi evitato il finto tesseramento sul nascere ma pare che a Civitavecchia siano stati in molti a diventare militanti del Pd a loro insaputa. Magari non famosi come Branco ma di certo utili, utilissimi a fare numero. Alla faccia della trasparenza e della correttezza.
Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…
Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.
Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.
Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.
Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.
"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".
L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?
"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".
Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.
"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".
Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?
"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".
E cosa disse a Buzzi?
"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".
E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?
"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".
Cosa che fece?
"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".
E cosa gli disse?
""Ma chi mi hai mandato?"".
E lui?
""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".
Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?
"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".
La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.
"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".
La storia, dunque, è chiusa?
"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".
Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).
Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché necesari a realizare un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.
L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.
Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.
Comunque se i politici onesti son questi?
«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.
Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro, L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.
Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo - "noi la chiamiamo amicizia" - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti - guarda caso - Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.
Così Mafia Capitale voleva conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al Viminale. Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere. Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più ricco, perché come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business. Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!». Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.
Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino Labia su “Panorama”. In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma.
Il furton al caveau della Banca di Roma del Tribunale. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.
Il Guercio nella terra dei ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scrive Mariagrazia Gerina su “Internazionale”. Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la mafia con una battuta: “La piaga di Palermo è il traffico”. Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi 100 indagati e 37 arresti, perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio. Qualche anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di “Quinta mafia” a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia “originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre. Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile. Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima, Massimo Carminati, il primo nella lista degli arresti, er Cecato o anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio. Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate, capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da poliziotti infedeli. È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori, estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile… capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia… Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla “fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008, governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema destra. Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati. Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli, ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà. Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar Bruttone. Un’altra volta è Luca Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di fiducia. Il “grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro, Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar culo”. Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella della cooperativa di ex detenuti da lui fondata (qui il suo racconto diretto) tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille dipendenti, prende nome da un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità. Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena, organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno; Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il “Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a Finmeccanica”. Buzzi ha difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi, “e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli dice: “Va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”. “Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia Capitale. Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro mastro” ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito, che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un funzionario dell’ufficio giardini sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del Partito democratico. Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è dimesso il giorno degli arresti. “Me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva 120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa in una successiva conversazione. È seccato Buzzi quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi, a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici. Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio. In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”, s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”. Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui, come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie, Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”. In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco, eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago di più…”. Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è spuntato un finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce ’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri, sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano, che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco, Mattia Stella (che non è indagato), già segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici, in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le puttane”, gli suggerisce Massimo Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012, che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia. A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini. Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei campi rom nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta ancora di più. Detto con le parole del presidente della 29 giugno: “Tu c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”. Ed è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”. “Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo… vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e gli appalti si fermano. In Campidoglio, come in regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il Guercio in una terra di ciechi.
Mariagrazia Gerina è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scritto Walter Veltroni. Il piccolo principe (Sperling & Kupfer 2007).
Mafia Capitale. La lunga scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni Rossi su “Articolo 21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi, si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.
Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere affari e stringere alleanze. Quel generone comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.
1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”. In realtà i “Signori delle tenebre” cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.
Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”.Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.
Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…
Bentornati nel “porto delle nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto Achille Toro (ormai ex), che patteggia una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8. Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli. Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri di accoglienza che vedeva tra gli indagati Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi. Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice: "E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma, però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5 preventivi prima di assegnare un appalto milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata Daniela Di Sotto, all’epoca signora Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante: “Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era l’allora segretario di suo marito Francesco Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia – operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14, la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche archiviato un’inchiesta (partita da De Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Al centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la sussistenza di reati commessi a Roma”.
Procura romana porto delle nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Corriere della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul "Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani. Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla? Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori, industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate". C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale. Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza". Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico, ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza. "Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio. Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave, il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri della nostra storia recente.
Mafia Capitale, parlano 2 sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi? Si chiede Infiltrato.it. Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la risposta, che lascia a bocca aperta. Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno avevano rivelato al cronista de ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel 2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio: o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per questo”. Come raccontava anche Repubblica, “la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa. Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan (e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr), erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità. Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi. E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte (seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.” Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha fermati? Chi si voleva proteggere?
Gen. Antonio Pappalardo su “Agora Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato». Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati. Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono, stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio, dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere. Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro, ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014. Gen. Antonio Pappalardo.
La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?
Così le coop hanno riempito Roma di profughi e campi rom. "Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250 profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno". Massimo Carminati aveva un braccio destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che "la politica è una cosa, gli affari sò affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di "mettersi la minigonna e battere" per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata" di soldi coi fondi per l'accoglienza degli immigrati e per la gestione dei campi nomadi. "Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse abbiamo ragione noi?". La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia tutto romano nei confronti del Campidoglio. Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse. Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive "il suo ruolo apicale indiscusso, la sua posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica, la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore". Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per rifugiati e immigrati è, secondo la procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come "un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine". "La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno e, al tempo stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio "Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista che, "avendo questa relazione continua" con il Viminale, è "in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso Odevaine a spiegare il perché: "I posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da "ottenere l’assegnazione di fondi pubblici" per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto "Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi - ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".
Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibsnews”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.
Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
"Mafia Capitale". "A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".
Non è più vero che il crimine non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici romani.
A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”. Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso a firma Manlio Cancogni, denunciò con questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione politica e dello sfacelo ambientale. “Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati, seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi storici.
"A Roma mi sento come nella mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì" del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".
"Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".
"Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.
Un approfondimento a 360 affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si considera criminale solo la parte avversa.
Mafia e politica a Roma, Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl", scrive di Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito, no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno». Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale. In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini, ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi, i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl».
Roma tra mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale". Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”. «E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale, descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti, edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’. Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto. Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato, saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.” “Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica, negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di tutti i continenti.”
Roma, le mani della mafia nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari sporchi, scrive “Panorama”. Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37 persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti, riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta che è solo all'inizio ed è destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno, l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione, secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette, nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di 5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal suo incarico. Oltre a Massimo Carminati, tra le carte si incontrano altre conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella, custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana. Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.
Mafia, arrestato il re di Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E' ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione, all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37 persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati, in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico, dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi». Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama, municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».
Mafia a Roma, 37 arresti per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli, Valeria Forgnone e Viola Giannoli su “La Repubblica”. Massimo Carminati Maxi operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con 37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (presidente della cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni". Gli arresti. A capo dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora mettiti la minigonna e vai a battere con questi".
Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.
Massimo Carminati, da molti considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il "Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.
Franco Panzironi, già indagato per la Parentopoli Ama, ora sarebbe un altro dei personaggi chiave dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti. Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.
Riccardo Mancini è un altro nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.
In carcere è finito anche Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. L'accusa parla di corruzione aggravata.
Giovanni Fiscon, attuale direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e turbativa d'asta.
Daniele Ozzimo, assessore capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro portato avanti in questi mesi".
Mirko Coratti, presidente dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per correttezza verso la città e l'amministrazione".
Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito finanziamento.
Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di associazione di tipo mafioso.
Luca Gramazio, consigliere regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e finanziamento illecito.
Tra gli arrestati anche altri nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini e l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi: per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. Gli indagati. Fra gli indagati figura l'ex sindaco della città Gianni Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino - Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'". Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa, Daniele Ozzimo, che ha deciso di dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città. Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti. Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari. Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano: è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati "la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato per un giro di presunte mazzette legate all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri - Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini - sotto la supervisione del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice 'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla col 'mondo di sopra', quello della politica e col 'mondo di sotto', quello criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza, preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma, nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici". "Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli affari criminali a Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia". Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager, funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra, rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera su Roma. Il negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata, serve subito un impegno trasversale".
Ecco la "mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno. Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in Campidoglio, scrive “La Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del procuratore capo Giuseppe Pignatone che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione, secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama Franco Panzironi e l'ex amministratore delegato di Ente Eur Riccardo Mancini, soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".
"Soldi per le elezioni in cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica” L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare attraverso Carminati. "Mi dice - spiega il manager delle coop in un'intercettazione del 20 aprile 2013 - "va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende, dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma - com- menta ora Alemanno con i suoi fedelissimi - è facile tirarmi in ballo. C'è molto millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata, alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho... - dice Buzzi - se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ". Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta. Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6 dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano - annota il gip - e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28 novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa "Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga". Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9 novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in cooperativa".
Appalti e criminalità a Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio Tonacci su “La Repubblica”. La banda, la nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori "a libro paga" come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione", l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di "agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone degli arresti c'è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.
Mafia e politica: perquisizioni, arresti Indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina, in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e 24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350 posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati, finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte». Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano (che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno, alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato 30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio. Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato», precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante». Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale. Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.
«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma. Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, scrive iovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio. Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul “carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale, occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco commendevoli. Nella capitale d’Italia.
«L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici. I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false, forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per «pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino, segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione «Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera» ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini, amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi... dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’ comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti». Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto: «Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio». L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi: «Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che ha continuato a garantire affari e potere.
Carminati, il "Nero" interpretato da Scamarcio, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo». Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono, diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine, omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.
Carminati, dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino». Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».
"Li compriamo tutti. Se vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione. Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale su “La Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale e di raccordo tra gli interessi di Massimo Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si auto-collocava "a sinistra", a gestire le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio Gammuto, figura "tra le più attive - scrive la gip Flavia Costantini - sul versante della corruzione".
Buzzi: "Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".
Ma quella che i magistrati definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra parte del telefono c'è sempre Gammuto.
Buzzi: "E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".
Gammuto: "Va bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".
Buzzi: "Ma Nieri, è entrato Nieri?".
Gammuto: "Non lo so".
Buzzi: "Cazzo ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".
L'ex assessore alla Casa della giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi "estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni "Ozzimo-Alemanno".
Alemanno: "Pronto?".
Buzzi: "Gianni come stai?".
Alemanno: "Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".
Buzzi: "Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)
Alemanno: "Eh, questo mi onora molto".
Buzzi: "No, ma non se fa più".
Alemanno: "Mi onora molto".
Buzzi: "Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).
Alemanno: "Come?"
Buzzi: "Non lo possiamo dire".
Alemanno: "No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".
Buzzi: "Per me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".
Alemanno: "Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere, non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".
Sempre per quanto riguarda i legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e, all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella, relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a "reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.
Caldarelli: "Vabbè, ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta al di là...".
Buzzi: (a bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".
Caldarelli: "Eh, ricordate da diglielo".
Buzzi: "Lui sta con me. Gioca con me ormai".
Caldarelli: "Eh, ricordateglie de questo perché... ".
Buzzi: "Oh ma che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".
Caldarelli ride.
Buzzi: "E che cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh (ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti 10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria, secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire. "Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella - scrive la gip - è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il "Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di "mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.
Buzzi: "Noi dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".
Garrone: "122 euro".
Buzzi: "122 euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè. 120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"
Garrone: "Ho capito".
In un'altra intercettazione, questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.
Buzzi: "Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo tutti 'sti soldi a questo?".
A insistere per i soldi a Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.
Buzzi: "Lui mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto "oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè garantisce, non c'avemo problemi".
I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.
Roma, poltrone ai fascisti. Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi. Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza, da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari, uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni. Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6 milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo, dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra, ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme, tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due "compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi (poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel 1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa, non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso. Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato "Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo. Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel. Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel 2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato, inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride (i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis, riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana», come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti - sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003 insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie, e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.
I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.
Alemanno, il missino che ha scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo «passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli è costata il voltafaccia dei cittadini.
Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”. Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”. Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani. Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine (“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della “rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma, il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.
Buzzi, la mente della coop con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi, senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi , amico mio».
Ozzimo, dal volontariato a ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72, uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza, nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità. Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale. Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).
La foto che imbarazza il ministro Poletti, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni (non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo (indagato); Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato); Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è il pregiudicato Luciano Casamonica.
Da Poletti al Pdl tutti a tavola col capo clan Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010 il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo, l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso” C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi, secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno". Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio, poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti, attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile. Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente, secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel 1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione. Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie, soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59 milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni. Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?
«Ohh ma che... me so’ comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci». A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto “Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini. Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale, ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta», commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della 29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle «bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo il Pd capitolino.
Killer neri e violenti rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia. Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero» nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»). Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni '80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici, dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma. O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà», replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice, “ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane, quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti. Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta, raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero, insieme alla conquista di Roma.
"Bustoni di soldi a tutti, anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica, bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so' tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino, Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama, frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci, tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi, faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere, Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini (assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo pure...».
Il business dei migranti e l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da Massimo Carminati. Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il 15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr) entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29 Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica: l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5 però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al 2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni di euro».
Rapporti anche con Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale Nicola Zingaretti.
Buzzi: è vero, è vero se vince il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.
Guarany: e chi ci va più dal Sindaco poi..(...)
G: va bene, senti un po' Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?
B: con Ciarla?
G: eh
B: ma si fa una cena, famo un incontro.
G: no, no, ma io pensavo di vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.
B: esatto.
G: si, si, poi magari lo famo venì quando famo la cosa con Zingaretti.
S: esatto..
Tangenti a Patané. Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio 2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa .. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ... Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».
Altri agganci con il Pd. Nelle conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da “60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».
Primarie «inquinate». Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava: “non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.
Spunta anche il ministro Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.
C’è pure Bettini. Il 9 aprile 2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti (presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).
L’affare «verde». In una intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ... importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD, ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente per tutto il verde di Roma».
"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.
Minori come schiavi ai Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu “La Repubblica”.
Caporalato al servizio dei negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12 ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile. Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni. "Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno - racconta Flavio Massimo Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito. "Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio - È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3 gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono, "stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni, nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini", sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18 dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car. Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi" come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggradito i lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il grave episodio di settembre - osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì, ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio, solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi finiranno.
Il procuratore: "Fenomeno indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli, descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.
Procuratore, può dirci cosa sta succedendo?
"Polizia e Carabinieri svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia. Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del lavoro irregolare di adulti e minori".
Quando parla di sfruttamento fa riferimento al caporalato?
"Posso dirle che pensiamo che c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla partenza dal loro paese. Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre le ipotesi".
Chi sono i ragazzi che vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?
"Quando vengono fermati ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e vogliono...".
Ma queste strutture non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?
"Il loro dovere verso i ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".
Quindi vengono lasciati soli?
"Ci sono delle regole riguardo alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".
E all'interno del Car come funziona la sicurezza?
"E' un centro privato e quindi la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".
L'avvocato: "Manca una legge ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno. In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti restare nel centro di accoglienza altri tre anni.
Quale legge tutela i minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?
"Una legge al momento non esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile. Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".
I centri di accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in condizioni di sfruttamento)?
"I centri sono tenuti a controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire, c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro. Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".
Con l'aumento degli arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.
"I centri idealmente dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo, basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei ragazzi".
Dall'Egitto sognando di fare fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti, anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività, offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro, responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare, sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza, ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire" è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.
L'economia dello sfruttamento, scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì, perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali, che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma. Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8 ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente. Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil, "sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è "un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia - confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai fondi europei, per esempio.
ROMA. CAPITALE DELLA MAFIA NERA.
Roma è la capitale della Mafia nera. Clan ed estrema destra si sono alleati. Per affari. E per far tacere i cronisti coraggiosi. Parla il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberticon Paolo Biondani su "L'Espresso". Roma capitale: anche per la mafia. Una nuova mafia che uccide, ma solo quando è necessario. Ha una smisurata forza economica. Complici eccellenti tra imprenditori e professionisti. Usa la corruzione per comprare politici e pubblici funzionari. E stringe rapporti con terroristi mai pentiti della destra eversiva, cresciuti all'ombra di storiche protezioni garantite da pezzi dei servizi segreti e da altri settori dello Stato, compresa qualche divisa o toga sporca. A lanciare l'allarme sulla criminalità nera che soffoca Roma è il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Magistrato dal 1975, ha lavorato in Campania, Toscana e Lazio firmando indagini fondamentali contro la camorra. Dall'agosto 2013 guida la Dna, l'organismo centrale che coordina tutte le inchieste antimafia. Roberti è “turbato” dalle intimidazioni subite dal giornalista de “l'Espresso”Lirio Abbate. E in questa intervista disegna per la prima volta un quadro completo, «nei limiti in cui si può, anzi si deve farlo senza danneggiare le indagini in corso» sull'avanzata mafiosa «a Roma e in altre province del Lazio».
Procuratore Roberti, partiamo dai negazionisti: c'è chi ripete da anni che a Roma la mafia non esiste.
«È un'affermazione assurda. Tutte le organizzazioni mafiose sono radicate a Roma da almeno trent'anni. Non si tratta di infiltrazioni esterne: hanno fortissimi interessi e precisi personaggi di riferimento. Capi, complici, riciclatori. C'è un radicamento, una stratificazione che ha origini lontane. A Roma viveva un boss di Cosa Nostra del calibro di Pippo Calò. Il clan Bardellino è cresciuto nel Basso Lazio ed è arrivato fino alla capitale. A Roma c’erano i cutoliani e ora abbiamo trovato i casalesi. La 'ndrangheta c'è sempre stata, dai De Stefano ai Mammoliti e tanti altri. E le nuove indagini portano ogni anno a sequestri e confische per centinaia di milioni».
Ci indica qualche caso esemplare di radicamento mafioso a Roma?
«Per la mafia di oggi, basta citare il Cafè de Paris, un luogo di valore simbolico sequestrato al clan Alvaro della 'ndranghetra. Per il passato, ricordo l'omicidio di Enzo Casillo, ucciso a Roma nel 1983 con una bomba sotto l'auto: era il luogotenente di Raffaele Cutolo, girava con documenti falsi forniti da quegli stessi pezzi di servizi segreti che trattarono con la camorra per liberare Ciro Cirillo, il politico democristiano rapito dalle Br. Oggi sembra un archetipo: la prima grande trattativa Stato-mafia».
Nei mesi scorsi la capitale e la costa laziale sono state insanguinate da troppi omicidi. C'è una guerra di mafia?
«Una volta gli omicidi a Roma venivano liquidati come “regolamenti di conti”. E non si parlava mai di mafia, solo di “mala”. Oggi non parlerei di guerra, anche perché molte indagini sono in corso. Ma alcuni omicidi sembrano avere una finalità strategica più ampia».
È il caso dell'assassinio di Silvio Fanella, il tesoriere di Gennaro Mokbel, l'ex neofascista condannato per il maxi-riciclaggio del caso Fastweb?
«Dico solo che mi riferisco ad alcuni omicidi. E ad altri episodi inquietanti».
Il nostro collega Lirio Abbate, che vive sotto tutela da quando lavorava a Palermo, continua a subire intimidazioni a Roma: sullo speronamento dell'auto di scorta su cui viaggiava, pochi giorni fa, le indagini sono solo agli inizi, ma già in ottobre due sconosciuti hanno lasciato un'auto rubata con pallottole e minacce a suo nome davanti all'ingresso della redazione. «Leonardo Sciascia diceva che i mafiosi odiano i magistrati e i giornalisti perché ricordano. Lirio Abbate ha memoria storica: conosce nomi, date, fatti e sa collegarli al presente. Per questo è visto come un pericolo dalla mafia romana».
Abbate è stato nel mirino pure della 'ndrangheta, ma certe intimidazioni sono iniziate quando “l'Espresso” ha pubblicato i suoi scoop sui “re di Roma” e sui “fascio-mafiosi”: boss, riciclatori, trafficanti di droga ed ex terroristi di destra. A Roma c'è una mafia nera?
«Il legame tra mafia e terrorismo nero va avanti da decenni. Per la strage del rapido 904 è stato condannato un boss di Cosa nostra e a custodire l'esplosivo era un neofascista. Quell’intreccio fu scoperto dal procuratore Vigna con un'istruttoria pionieristica. Le nuove indagini stanno soltanto rendendo più visibile, finalmente, lo stesso tipo di intreccio».
La bomba su quel treno del 23 dicembre 1984 uccise 17 innocenti. Il politico con l'esplosivo era Massimo Abbatangelo, che fu eletto parlamentare del Msi. Il mafioso stragista era Calò, primo alleato a Roma della Banda della Magliana.
«Oggi si tende a dimenticare che la Banda della Magliana è stata un'organizzazione mafiosa a tutti gli effetti. Una mafia romana in grado di trattare con Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta».
Eppure per decenni le sentenze romane hanno negato la mafia. Quando poi si è scoperto che qualche giudice di rango prendeva soldi dal cassiere della Magliana, i reati erano ormai prescritti. C’è stata paura, lassismo, incapacità e talvolta peggio anche nella magistratura?
«In generale è vero che in passato i magistrati e anche le forze di polizia non riuscivano a trovare prove in grado di reggere fino alla Cassazione. Oggi, però, il nuovo procuratore Pignatone e l'aggiunto Prestipino hanno saputo portare a Roma la grande capacità ed esperienza maturate a Palermo e Reggio Calabria. E anche le forze di polizia sono molto più efficaci. Ma non vorrei essere frainteso: magistrati e polizia giudiziaria oggi dispongono di tecnologie molto più moderne e utilizzano leggi approvate solo dopo il sacrificio di giudici come Falcone e Borsellino».
In che senso si parla di "nuova mafia"?
«Negli ultimi anni lo sviluppo dei gruppi criminali è stato segnato dalla globalizzazione dei mercati e dalla saldatura con l'economia. Il riciclaggio, il reimpiego di capitali illeciti, le connivenze nella finanza sono aspetti caratteristici delle organizzazioni mafiose moderne».
La Magliana e i terroristi neri spesso sceglievano obiettivi ricattatori: non si svaligia una banca a caso, ma il caveau del palazzo di giustizia, perché è lì che si nascondono i segreti dei potenti. Oggi la mafia nera ha poteri di ricatto?
«Risponderanno le indagini. Di certo la storia della mafia a Roma è fatta di questo potere di condizionamento».
E la politica è ancora collusa?
«Per una mafia economica l'omicidio è un atto estremo: prima ci provano con i soldi. Infatti i legami con certe cricche legate alla politica sono diventati strettissimi. Oggi la corruzione è lo strumento principe della metodologia mafiosa».
Inseguita e speronata l'auto di scorta dell'inviato dell'Espresso Lirio Abbate. I poliziotti riescono a fermare uno dei fuggitivi. Il giornalista è sotto protezione da sette anni per le minacce di morte ricevute dalla mafia. L'ultimo episodio sospetto martedì sera in pieno centro di Roma. Le indagini della squadra mobile, scrive di Giovanni Tizian su "L'Espresso".Una macchina sospetta che li segue. Poi li sperona. E a quel punto fugge. Un fatto inquietante: nell'auto blindata c'è l'inviato dell'Espresso Lirio Abbate con gli agenti della sua scorta. Da sette anni Lirio vive sotto protezione della Polizia di Stato per le minacce che ha ricevuto dalla Mafia. Dopo lo speronamento, l'auto ha fatto una repentina marcia indietro per poi accelerare cercando di dileguarsi nel traffico del Lungotevere. Sembrava andata, persa. E invece gli agenti che proteggono Abbate l'hanno inseguita fino a quando l'auto dei fuggitivi è rimasta imprigionata nell'incolonnamento davanti a un semaforo. E' a questo punto che uno dei tre poliziotti della scorta è sceso, pistola in pugno, e ha iniziato a correre verso i fuggitivi riuscendo a bloccare il conducente. All'interno dell'auto un ventenne romano, incensurato, che è stato consegnato agli agenti della squadra mobile che adesso indagano sulla vicenda. Dai primi riscontri non sarebbero emersi legami tra il ragazzo e i clan. Gli investigatori ritengono però quantomeno sospette le modalità con cui è avvenuto l'incidente e la reazione di fuga. Nel corso della perquisizione dell'auto da parte degli agenti è stato ritrovato anche un documento che appartiene a un cittadino straniero sul quale si stanno concentrando le indagini. Gli investigatori hanno interrogato a lungo il giovane fermato e che si trovava alla guida dell'auto. Accertamenti sono stati fatti sul suo conto, mentre è partita la ricerca di filmati e immagini delle telecamere fisse di sorveglianza in città lungo il tragitto dell'inseguimento. In questura il giovane fermato non ha saputo spiegare il suo gesto. Anche i controlli alcolici e su sostanze stupefacenti sono risultati negativi. Di certo, se ha agito per conto di qualcuno, questo qualcuno ha scelto molto bene e con cura l'esecutore dell'intimidazione che è persona incensurata senza collegamenti apparenti con la criminalità organizzata. I detective della Mobile continueranno a indagare sull'episodio cercando di capire se c'è un collegamento con le precedenti minacce, anche recenti, ricevute da Lirio Abbate. Intimidazioni che, in alcuni casi, l'Espresso ha scelto di non raccontare per non intralciare le indagini ancora in corso. Abbate ultimamente si è occupato di criminalità organizzata romana, raccontando il potere dei quattro Re di Roma, (Casamonica, Senese, Carminati, Fasciani), e dei rapporti tra alcuni boss della mala e gli ambienti politici e neofascisti della Capitale.
E POI CHIAMALO SE VUOI...METRO'.
Metro C: il primo treno si ferma. Passeggeri costretti a scendere. Inaugurazione con inconveniente: il convoglio si «inceppa». Il Codacons: «Si parte col piede sbagliato». L'Atac replica: «Nessuna interruzione del servizio», scrivono Alessandro Capponi e Ernesto Menicucci su "Il Corriere della Sera". I romani l'hanno attesa per oltre vent'anni, ma poi - alla prima corsa - la «nuova» metro C fa cilecca. Il viaggio inaugurale era previsto alle 5.30 di domenica mattina, ma il treno non è neppure arrivato al capolinea. Il convoglio, partito dalla stazione di Centocelle, si è fermato quattro fermate prima del capolinea di Pantano/Montecompatri (zona dei Castelli romani), «bloccato» alla stazione Due Leoni-Fontana Candida. Lì i passeggeri — giornalisti, qualche addetto ai lavori, alcuni «curiosi» — sono stati fatti scendere dai vagoni. Dopo circa undici minuti (la frequenza con cui passerà la metro è di 12 minuti ogni treno) i passeggeri sono stati fatti salire su un altro treno con destinazione Pantano. E il treno «inceppato»? Prima l’altoparlante ha detto che sarebbe tornato indietro a Centocelle, poi — dopo l’attesa — è stato fatto ripartire con destinazione Castelli. Secondo l'Atac , però, «non c'è stata alcuna interruzione nella corsa del primo treno partito dalla stazione di Centocelle». Ricostruzione che «sbatte» coi racconti dei testimoni oculari. L'azienda municipalizzata dei trasporti, comunque, insiste: «Il treno si è fermato solo alcuni minuti per consentire la soluzione di un problema tecnico proprio per evitare limitazioni e completare la corsa. I passeggeri hanno raggiunto il capolinea senza bisogno di cambiare treno». Il Codacons, l'associazione che tutela i consumatori, va all'attacco: «La linea C — dice il presidente Carlo Rienzi — sembra essere partita col piede sbagliato. Ciò che è accaduto oggi, quando la metro era sotto gli occhi di tutti e avrebbe dovuto garantire un funzionamento perfetto, è di pessimo auspicio. Una linea nuova di zecca, costata miliardi di euro e attesa per anni, non può permettersi alcun problema tecnico. Vogliamo sperare che il guasto odierno non sia un sintomo di ciò che attenderà gli utenti in futuro, ossia una metro dove gli stop e i problemi tecnici sono quasi quotidiani, al pari di quanto già avviene». Alle dieci di mattina, «l'inaugurazione» ufficiale, col sindaco Ignazio Marino, l'assessore alla Mobilità del Comune Guido Improta, quello regionale alle Infrastrutture Fabio Refrigeri. Il sindaco parte da Monte Compatri e prima di salire a bordo ha pagato il biglietto. «Oggi — dice Marino — inauguriamo questo primo tratto ma lo facciamo con la determinazione di arrivare a inaugurare presto le stazioni di Lodi e San Giovanni e quindi finalmente a intersecare le nostre linee della metropolitane in modo che Roma diventi sempre più una capitale europea». Il primo cittadino spiega: «La metro C è un progetto molto importante: dalla visione di Francesco Rutelli negli anni 90 all'attivazione del progetto di Walter Veltroni nei primi anni 2000 fino al grave rallentamento della giunta Alemanno che addirittura indicò che la data di consegna della stazione San Giovanni a data da definirsi, mentre sarebbe dovuta essere pronta nell'aprile 2011. Noi dal primo giorno del nostro insediamento abbiamo deciso che questa era una priorità per i cittadini e abbiamo impresso tutta l'accelerazione possibile a un'opera importante non solo per i romani ma per tutto il Paese». In realtà, nel primo giorno, scoppia anche un altro problema. A denunciarlo Luca Pancalli, assessore agli stili di vita, presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico): «È difficile — dice — la fruizione per chi non è autonomo perché quando si aprono le porte c'è un dislivello tra la banchina e il treno che crea problemi alle persone disabili. Quando c'è tanta gente però non c'è il dislivello perché il peso mette allo stesso livello la banchina con il treno». Pancalli, che era presente all'inaugurazione, parla per esperienza diretta: «Per fortuna — spiega — io sono riuscito a salire perché ho una mobilità in carrozzina che molti disabili non hanno. Dobbiamo pensare a chi sta peggio di noi. Ho detto di questo problema all'assessore Improta che mi ha garantito che stanno già studiando come risolvere la questione». Nemmeno «tagliato il nastro» della tratta Pantano/Centocelle, il sindaco già rilancia: «Stiamo valutando — dice Marino — con l'assessore Improta come completare la tratta tra piazza Venezia e Ottaviano e se deve esserci o meno la stazione di Chiesa Nuova. In questo momento non posso dare dei termini finali, ma certamente vogliamo completare il segmento fino all'incrocio dell'altra metropolitana (la linea A, ndr) a San Giovanni entro il 2015. Mi sembra un cambio di passo, dopo 25 anni, molto importante». Pare che, però, ci siano dei problemi. Le aperture delle nuove tratte (da Centocelle a piazza Lodi, e poi da Lodi a San Giovanni) sono già slittate, rispetto al cronoprogramma fissato a settembre 2013, già di un anno.
Il gran pasticcio del metrò più caro e lento del mondo. Nel rapporto dell'Autorità anticorruzione presieduta dal magistrato inefficienze, errori e negligenze nella costruzione (in ritardo) della linea C, costata 3 miliardi 739 milioni. Ovvero, 692 milioni in più del prezzo di aggiudicazione dell'appalto, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera". Non si salva nessuno. Non si salva il Comune di Roma. Né la sua società, Roma Metropolitane, alla quale era stato affidato il compito di gestire quello che poi si è rivelato l’enorme pasticcio della nuova linea C della metropolitana. Ma non si salva neppure il consorzio di costruttori che sta materialmente lavorando all'opera ormai da 7 anni fra un delirio di 45 varianti e di carte bollate. Il rapporto dell'Autorità anticorruzione presieduta dal magistrato Raffaele Cantone è un florilegio di inefficienze, errori e negligenze: nella migliore delle ipotesi. Trentotto pagine ustionanti, per spiegare come sia stato possibile per la Capitale, per giunta in un Paese nel quale non ci sono mai i soldi per le infrastrutture, conquistare il record del metrò più caro (e forse più lento) del mondo. I soldi, appunto. La metro C doveva costare 3 miliardi 47 milioni? Siamo arrivati già a 3 miliardi 739 milioni. Ovvero, 692 milioni in più del prezzo di aggiudicazione dell'appalto. E senza che sia stata ancora messa mano al tratto che attraversa il cuore antico di Roma. Veniamo poi ai tempi. L'intera linea sarebbe dovuta entrare in esercizio a metà del 2015. Campa cavallo... Ancora non siamo in grado di dire quando verrà costruito il pezzo più delicato, quello che dal Colosseo dovrebbe portare gli ipotetici passeggeri a piazza Venezia e poi via, sotto Corso Vittorio Emanuele, verso San Pietro. E nessuno sa non soltanto «quando», ma nemmeno «se» verrà mai realizzato. Senza quel tratto, oppure con quel tratto ma senza le fermate previste, la metro C non servirà a nulla. Da qui bisogna partire. L'Autorità anticorruzione rimprovera innanzitutto al Comune «la carenza di adeguate indagini per assicurare la fattibilità dell'intervento nel rispetto dei tempi e dei costi preventivati». Senza risparmiare all'amministrazione comunale, che per seguire l'operazione si avvale di una società con 189 dipendenti, giudizi al vetriolo. Come quando sostiene che non si sarebbe tenuto conto di certo pareri della Soprintendenza già sulle tratte più periferiche: «La stazione appaltante si è avventurata nell'appalto dell’opera rinviando, è da ritenersi in modo consapevole, la risoluzione della questione archeologica a una fase successiva». E pur ricordando che la Soprintendenza aveva avvertito che non si sarebbe dovuto tener conto dei tempi e dei costi (!), la circostanza sarebbe comunque assai singolare. Ma anche il consorzio di imprese, composto da Astaldi, dalla Vianini del gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, dalla Ccc della Lega coop e dall'Ansaldo della holding pubblica Finmeccanica, ha secondo Cantone pesanti responsabilità. Il rapporto, innescato dalle denunce e dagli esposti presentati dall’ingegnere Antonio Tamburrino e dal consigliere comunale radicale Riccardo Magi, sottolinea che il General contractor aveva per accordi contrattuali il compito della progettazione, della direzione dei lavori nonché dell’esecuzione degli scavi e delle indagini archeologiche. E le cose non sono andate affatto per il verso giusto, come testimoniano le 45 (quarantacinque) varianti: 33 delle quali, ha accertato l’authority, hanno dato un contributo alla lievitazione dei costi pari a quasi 316 milioni di euro. Per non parlare del contenzioso, letteralmente spaventoso, che ha avuto un culmine surreale nel confronto a colpi di decreti ingiuntivi fra l'amministrazione comunale e Roma metropolitane, società controllata al 100 per cento dal Comune. Il rapporto di Cantone spiega come le richieste di risarcimento più consistenti presentate dal consorzio Metro C si riferiscono «allo slittamento delle tempistiche contrattuali di esecuzione delle prestazioni dovuto a eventi non imputabili al General contractor». Intoppi di che genere? Ritardi nell'approvazione dei progetti, problemi di natura archeologica e nella disponibilità delle aree, mancata concessione di deroghe: prevalentemente ordinaria burocrazia, insomma. Eppure, afferma il rapporto, proprio il meccanismo del General contractor previsto dalla legge obiettivo del 2001, in base alla quale è stata messa in cantiere anche quest'opera, dovrebbe garantire «minori criticità sotto tale aspetto, stante la più ampia libertà e responsabilità organizzativa posta in capo al soggetto affidatario». Pensata nel 1990, ripensata dieci anni dopo, la metro C è partita quando sindaco di Roma era Walter Veltroni, è poi proseguita con Gianni Alemanno, e la rogna è adesso di Ignazio Marino. Una rogna tale che il rapporto non risparmia neppure la sua amministrazione. Nel mirino di Cantone è finito un accordo stipulato il 9 settembre del 2013 con il quale è stata riconosciuta al consorzio una somma aggiuntiva di 90 milioni per le «funzioni di contraente generale». Riconoscimento, afferma la relazione, che «suscita qualche perplessità». Perplessità che erano state sollevate anche dall'ex assessore comunale al bilancio Daniela Morgante, che poi ha lasciato l'incarico. La ragione? Semplice, afferma l'authority: le funzioni di contraente generale erano già previste negli atti di gara. Queste trentotto pagine, possiamo scommetterci, finiranno sul tavolo della Procura.
E POI CHIAMALI SE VUOI...BROGLI.
Pm sul deputato pd: «Soldi a Ginevra scortato da poliziotti». Ricostruiti i movimenti di Marco Di Stefano che nega le accuse: denuncerà la ex moglie , testimone nell'inchiesta, scrive Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera". Soldi nascosti in alcune valigette, portati in Svizzera e depositati su due conti presso la Ubs di Ginevra. Centinaia di migliaia di euro occultati da Marco Di Stefano, il deputato del Partito Democratico accusato di aver preso tangenti in cambio di appalti tra il 2008 e il 2009 quando era assessore al Demanio e Patrimonio della Regione Lazio. I magistrati di Roma hanno dunque scoperto la pista che porta al denaro grazie alla collaborazione delle autorità elvetiche. E l'inchiesta sui lavori affidati agli imprenditori Antonio e Daniele Pulcini, ma anche ad altri costruttori capitolini, entra nella fase decisiva. Entro un mese il fascicolo potrebbe essere chiuso con la richiesta di rinvio a giudizio, svelando nuovi e inediti retroscena. Uno è già noto: nei suoi viaggi per arrivare oltreconfine il parlamentare, ex poliziotto, si faceva scortare dai suoi amici delle forze dell'ordine. La richiesta di rogatoria del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Corrado Fasanelli parte svariati mesi fa. Si chiede di verificare l'esistenza di rapporti bancari tra Di Stefano e le società che fanno capo alla famiglia Pulcini. Le verifiche affidate al Nucleo di Polizia Valutaria hanno infatti già ricostruito i «trucchi» utilizzati dall’allora assessore per consentire agli imprenditori amici di affittare alla «Lazio Service» (società controllata dalla Regione) due palazzi per 3 milioni e 725 mila euro ciascuno. Una cifra fuori mercato che aveva fatto salire alle stelle il valore degli immobili e consentì di venderli all'Enpam a un prezzo che superava di almeno il 50 per cento il loro valore. I testimoni assicurano che per quell’affare Di Stefano ha preso un milione e 800 mila euro, oltre a 300 mila euro incassati dal suo collaboratore Alfredo Guagnelli. Dunque è necessario scoprire dove sia finito il denaro. Sono i finanzieri guidati dal generale Giuseppe Bottillo a ricostruire i viaggi all'estero effettuati dal parlamentare. Documentano i suoi spostamenti, identificano le persone che lo accompagnano, arrivano alla banca. E lì un funzionario accetta di collaborare consegnando le movimentazioni dei conti tra il 2010 e il 2012. Spostamenti di denaro che certamente non sono congrui rispetto al patrimonio di Di Stefano. È la svolta. Perché avvalorano l'ipotesi che quei contanti trasportati in auto siano il prezzo della corruzione. Anche tenendo conto che all'improvviso entrambi i depositi vengono completamente svuotati. Nuovi accertamenti sono in corso per stabilire se il trasferimento finale coincida con l'entrata di Di Stefano in Parlamento, nell'agosto del 2013. Alcuni mesi prima l'esponente del Pd partecipa infatti alle primarie per essere tra i candidati alla Camera ma risulta il primo dei non eletti e al telefono minaccia di «far scoppiare la guerra nucleare a cominciare da Zingaretti», accusa «i maiali che mi hanno fatto fare le primarie con gli imbrogli». La sua ira ha evidentemente effetto: entra a Montecitorio al posto di Marta Leonori, nominata assessore dal sindaco di Roma Ignazio Marino. E subito si schiera tanto da diventare uno degli oratori all’ultima Leopolda, esperto dei «pagamenti digitali». Lui giura di non aver mai preso un euro illecitamente, accusa la sua ex moglie, testimone dell'inchiesta, di averlo rovinato per vendetta, annuncia che la denuncerà per stalking. In realtà sono diverse le circostanze che dovrà chiarire. Perché il ritrovamento dei conti svizzeri apre scenari nuovi rispetto alla sua difesa che si basava sulla mancanza di tracce dei soldi. Ma non è l'unico mistero da risolvere. Dall’8 ottobre 2009 Guagnelli è sparito, potrebbe addirittura essere morto. Questo almeno sostiene il fratello Bruno, il primo a raccontare della tangente presa da Di Stefano e ad avvalorare la tesi dell’omicidio. Di Stefano sostiene che Guagnelli «era un buon amico», ma nega «che fosse stato coinvolto in vicende riguardanti la Regione Lazio». Troppo poco per convincere i magistrati sulla sua completa estraneità.
L'intercettazione sulle primarie truccate di un parlamentare PD accusato di corruzione, scrive Andrea Mollica su Gad Lerner. Il deputato del Partito Democratico Marco Di Stefano, che è stato coordinatore di un tavolo alla Leopolda sulla moneta digitale, è indagato per un caso di corruzione verificatosi durante il suo incarico di assessore regionale del Lazio. Di Stefano, che si occupava di Demanio nella giunta guidata da Piero Marrazzo, avrebbe incassato una tangente da 1,8 milioni di euro aver assicurato alle società dei costruttori Daniele e Antonio Pulcini due contratti d'affitto a sei zeri per conto della "Lazio Service", controllata dalla Regione. Altri 300mila euro, invece, sarebbero stati consegnati a Alfredo Guagnelli, il suo collaboratore più stretto. Il caso è stato rivelato dal quotidiano romano "Il Messaggero", che nell'edizione di giovedì 6 novembre 2014 racconta come la ex moglie di Di Stefano abbia confermato le accuse su cui indagano i magistrati. All'interno del materiale di inchiesta è presente anche un'intercettazione, in cui il deputato del PD parla di primarie truccate. "Ora inizia la guerra nucleare, a comincià dalla Regione, tiro tutti dentro. Sono dei maiali, non è che puoi l'ultima notte buttar dentro gente dopo che ti dici che stai dentro. Ho fatto le primarie con gli imbrogli, no? Non è che sò imbrogli finti, imbrogli ripresi, non è tollerabile questa storia...Se imbarcamo tutti, ricominciamo dai fondi del gruppo regionale. Sansone con tutti i Filistei, casco io ma cascano pure gli altri”. Marco Di Stefano si era candidato alle primarie per l'elezione dei parlamentari organizzate dal Partito Democratico a fine 2012, ed era arrivato al 16esimo posto a Roma città. Nell’intercettazione non è chiaro quale siano le primarie truccate a cui si riferisce l'ex assessore della regione Lazio, ma probabilmente parla di queste consultazioni. Di Stefano fu poi inserito nelle liste del PD alle politiche 2013, e risultò il primo dei non eletti nella circoscrizione Lazio 1. L'esponente democratico è entrato in Parlamento dopo le dimissioni della deputata Marta Leonori, ora assessore a Roma nella giunta di Ignazio Marino. Marco Di Stefano ha diffuso una nota in cui professa la sua innocenza, contestando come al momento non abbia ancora ricevuto comunicazione ufficiale sulle indagini aperte nei suoi confronti.
Giallo primarie Pd, il deputato indagato: "Furono truccate". "Ora inizia la guerra, se casco io cascano tutti". Marco di Stefano, indagato per tangenti, alla Leopolda ha parlato di soldi...scrive Ivan Francese su "Il Giornale". La rivelazione, se confermata, potrebbe essere esplosiva. Il deputato Pd Marco di Stefano, indagato per una presunta tangente di 1,8 milioni, è stato intercettato dai magistrati mentre, parlando al telefono, chiacchiera con un amico di "primarie del partito truccate". Negli stralci delle intercettazioni, pubblicati oggi da Libero, l'ex consigliere regionale del Lazio si sfoga al telefono: "Ora inizia la guerra nucleare, a cominciare dalla Regione, tiro dentro tutti. Sono tutti dei maiali (i suoi compagni di partito, ndr) non è che puoi l'ultima notte buttar dentro gente dopo che ti dici che stai dentro". Di Stefano infatti, dopo un esordio in politica con Ccd e Udc, è stato assessore regionale alle Risorse Umane, Demanio e Patrimonio con la giunta Marrazzo eletta nel 2005. Dopo un breve passaggio dall'Udeur, nel 2008 aderisce al Pd e un anno dopo diventa assessore all'Istruzione sempre in Regione Lazio. Nell'estate 2013 entra alla Camera in seguito alle dimissioni di una sua collega di partito. Il rapporto con i democratici, però, non è così idilliaco come questa brillante carriera potrebbe lasciar pensare. A proposito delle primarie parlamentari organizzate dal Pd nel dicembre 2012, Di Stefano si lascia andare ad insinuazioni che, se confermate, potrebbero aprire falle gravissime nell'intero sistema di democrazia interna del partito: "Ho fatto le primarie con gli imbrogli, no? - dice al telefono - Non è che sò imbrogli finti, imbrogli ripresi, non è tollerabile questa storia.. Se imbarcamo tutti, ricominciamo dai fondi del gruppo regionale. Sansone con tutti i Filistei, casco io ma cascano pure gli altri." Ora, nonostante sia indagato per una presunta tangente che, nell'ipotesi accusatoria, sarebbe stata incassata nel 2008, quando era assessore regionale alle Risorse Umane, Demanio e Patrimonio, Di Stefano continua ad figurare tra gli esponenti di primo piano del Pd laziale e alla Leopolda dello scorso 24 ottobre è anche intervenuto su "l'evoluzione dei sistemi di pagamento nel terzo millennio". Per il momento dal partito nessuno commenta le intercettazioni, in un silenzio imbarazzato che può voler dire tutto e niente. Se però, come c'è da aspettarsi, il bubbone prima o poi scoppierà, possiamo star sicuri che Sansone farà di tutto per morire con tutti i Filistei. Fino all'ultimo, come ha garantito lui stesso.
Ma il sindaco Marino sulla storia delle multe e della Panda rossa se l'è cavata con poco? Scrive Giorgio Dell'Arti su "Altrimondi Gazzetta". Forse la telenovela del sindaco di Roma Ignazio Marino è finita con il consiglio comunale di ieri.
La storia della Panda rossa. Sì. Ignazio Marino, che era senatore, una volta eletto sindaco di Roma lasciò la Panda rossa parcheggiata negli spazi riservati ai senatori, e non poteva. Interrogazioni parlamentari, bagarre, polemiche. Rimossa la Panda, che qualcuno aveva anche sfregiato, il sistema elettronico della città registrò che una Panda rossa con la targa della Panda rossa del sindaco era entrata in centro senza permesso per otto volte. Nuova bagarre, interrogazioni parlamentari e perfino una conferenza stampa dell'oppositore Andrea Augello, gran testa di politicante, che fu anche consigliere di Alemanno e relatore in difesa di Berlusconi quando si trattava di farlo decadere da senatore. Augello rivelò che c'erano stati manomissioni nel sistema informatico del comune, manomissioni perpetrate, a suo dire, per consentire al sindaco di non pagare le multe della Panda rossa. Seguirono notizie di ogni tipo, dalle quali però risultava senza dubbio che anche il Partito democratico s'era stufato del suo uomo, e pensava di buttarlo giù e andare a nuove elezioni: leggemmo i nomi dei candidati, per esempio Paolo Gentiloni, che era appena stato nominato ministro degli Esteri e che Marino aveva battuto alle primarie. Oppure Marianna Madia, che sarebbe stata la prima sindaca della Capitale. Che cosa avrebbero fatto costoro una volta eletti? Nessuno lo sapeva ma, per qualche ragione inesplicabile, parevano di sicuro meglio di Marino. Poi ci furono i disordini di Tor Sapienza, con gli abitanti di quel quartiere che non volevano i rifugiati politici ospitati nella locale sede di viale Giorgio Morandi. E, chiaramente, il degrado di quella periferia e la sistemazione in quel posto infelice degli africani erano colpa di Marino. Vedemmo persino l'ex sindaco Alemanno sfilare contro Marino e chiedere la chiusura del presunto lager di viale Morandi. Ma era stato proprio Alemanno a sistemare lì i rifugiati e a piazzare tutti i rifugiati in genere nei quartieri degradati di Roma Est! E questi quartieri degradati, di cui si incolpa Marino, sono degradati da quando io ero ragazzino e c'erano le baracche!
Lei difende Marino? Come ho detto altre volte, quando tutti danno addosso a qualcuno, a me viene naturale di mettermi dalla parte di questo qualcuno. E il bombardamento su Marino è stato del tutto fuori misura, al punto da accreditare un minimo anche la frase fatta con cui Marino s'è difeso ieri, un tweet in cui accusa i poteri forti di avercela con lui e di ostacolare la sua azione politica. In effetti, Alfio Marchini, costruttore, gli sta facendo campagna contro, con le immense ricchezze di cui gode ha potuto facilmente comprare spazi, specialmente sugli autobus. Marchini, bello e ricco, è sicuro che Roma tornerà al voto la prossima primavera.
Che cosa ha detto il sindaco in questa seduta comunale di ieri? Le multe le ha pagate, per un totale di 1.021,52 euro. «Anche se non dovevo». E in effetti è buffo che al sindaco non sia permesso di girare con la macchina per il centro della sua città. Infatti è permesso, e Marino di ingressi per il centro avrebbe potuto prenderne addirittura tre. Ma ha una sola macchina e, una volta eletto, ne chiese uno solo. E lasciò che scadesse, perché va sempre in bici e la macchina la usa la moglie. L'Amministrazione dimenticò di rinnovarglielo. E l'occhio elettronico beccò la Panda al varco Ztl otto volte. Multandola. Dopodiché la stessa amministrazione comunale, in automatico e per autotutela, bloccò le multe perché si trattava della macchina del sindaco. La cosa s'era già capita, ma Marino ieri in aula l'ha spiegata un’altra volta. E alla fine ha detto: «Per quanto mi riguarda non ci sono dimissioni né elezioni in vista. Andiamo avanti, in modo convinto e deciso».
È vero? Si direbbe di sì. Ai cori di «dimissioni, dimissioni» con cui il sindaco è stato accolto in aula (gente che s’era appiccicata un pon-pon rosso sul naso), ha risposto un coro di supporter del sindaco, che evidentemente esistono («Daje sindaco!», eccetera). Marino ha fatto capire che il rapporto col governo, cioè con Renzi, è buono: «Ho lavorato con il ministro dell’Economia per sbloccare il Patto di Stabilità, assicurando 150 milioni di euro in più per la nostra città che sono già stati inseriti nell’assestamento di bilancio». Prima della seduta il sindaco aveva incontrato il gruppo consiliare capitolino. Alla fine, dichiarazioni distensive da parte di tutti. Forse non ci saranno neanche rimpasti. Se Marino avesse usato l'auto blu, che non ha mai voluto, questo casino non sarebbe successo.
E le indagini della magistratura? Sarà archiviato tutto.
Caso multe, Le Iene: "La Panda di Marino anche in divieto di sosta", scrive "Il Messaggero". Non finiscono i guai per la Panda rossa di Ignazio Marino, al centro del caso multe che ha coinvolto il sindaco di Roma. Ieri l'utilitaria è stata "beccata" in divieto di sosta nel centro di Roma. A denunciarlo il consigliere regionale del Lazio Fabrizio Santori del gruppo misto. «Ieri abbiamo fatto una manifestazione per i Marò a Montecitorio - racconta Santori - e poi siamo andati in zona Sant'Eustachio, dove abbiamo visto verso le 22.40 una macchina bianca con dentro il sindaco. Siamo arrivati là e abbiamo visto che saliva a casa. A questo punto abbiamo notato, in via di Santa Chiara, la famosa Panda rossa del sindaco in sosta vietata. Tra l'altro c'era un cartello ben visibile che specificava come il divieto fosse permanente. Poi abbiamo visto l'altra macchina bianca, con cui era arrivato Marino, in piazza dei Caprettari, parcheggiata su uno stallo per i disabili». «Abbiamo contattato i vigili, ma dopo una mezz'ora è stata spostata in fretta e furia la Panda, mentre l'altra macchina bianca subito dopo. Quando sono arrivati i vigili non c'erano più. La scena è stata ripresa dalle Iene» conclude. La trasmissione Le Iene, in un servizio di Dino Giarrusso, è infatti riuscita a riprendere la Panda del sindaco sotto la sua abitazione in divieto di sosta e lo stesso Marino che cade dalla bicicletta per dribblare le domande dell'inviato. «Tutto è partito - spiega una nota della trasmissione - qualche settimana fa quando, raccontando della panda rossa di Marino posteggiata gratuitamente nel parcheggio custodito del Senato, senza che fosse più un senatore, le Iene hanno scoperto una cosa molto strana: la macchina del Sindaco è stata per molto tempo posteggiata in zona ZTL, cioè a traffico limitato, nonostante il permesso della sua auto fosse scaduto il 23 giugno 2014. Permesso rinnovato ben due mesi dopo, il 21 agosto 2014». La Iena Giarrusso ha provato a chiedere spiegazioni al Sindaco Ignazio Marino che, però, ha preferito non rispondere. «Per sfuggire alle domande dell'inviato - conclude la nota - Marino cade dalla bicicletta».
ROMA...LA GRANDE TRISTEZZA!
Ignazio
Marino, tutti i guai del sindaco di Roma.
Partecipate in rosso. Screzi con i vigili urbani. Poteri forti e Pd
capitolino contro. Marino è sempre più in crisi. Il Comune pieno di debiti. E
gli italiani ripianano, scrive Giorgio Velardi su “Lettera
43”. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, lo ha paragonato nientemeno che a
Mario Balotelli: «Deve imparare a disciplinare il suo talento per convincere
davvero». Non è dato sapere se Ignazio Marino abbia gradito o meno il paragone
con Super Mario, che finora al Liverpool sta deludendo le aspettative e che è
stato scaricato dal commissario tecnico della Nazionale, Antonio Conte.
Il primo cittadino di Roma si augura di non fare la fine dell’ex attaccante del
Milan. La voglia di riconquistare la fiducia dei romani è grande anche se,
passata la bufera del Panda-gate e ribadito che dimissioni ed elezioni
anticipate non sono all’ordine del giorno, il sindaco-ciclista si prepara a
percorrere una salita a tratti proibitiva. Quello delle multe, «pagate anche se
non dovevo», è un problema minimo se confrontato con gli altri che affliggono la
Capitale: il trasporto pubblico che funziona a singhiozzo, i rifiuti che
inondano le strade, le periferie diventate zone di guerriglia. E poi ci sono i
debiti del Comune, che costano 580 milioni l'anno ai contribuenti italiani e che
continuano a lievitare, complice il numero delle partecipate che, dati alla
mano, cozza contro il piano di razionalizzazione previsto dall’ormai ex
commissario straordinario alla spending review Carlo Cottarelli. Dai documenti
consultabili sul sito del Comune risulta infatti come Roma Capitale abbia 150
fra partecipazioni dirette (come il 51% di Acea e il 100% di Ama e Atac) e
indirette in altrettante società. «Liberalizzazioni e dismissioni non sono un
tabù: la mappa delle società partecipate del Comune di Roma fa impressione, e
moltissime vanno semplicemente chiuse perché non hanno valore per il bene
pubblico e per la nostra città», ha ammesso a marzo lo stesso Marino durante
un’audizione alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera. Una delle società
a versare nelle condizioni peggiori è Atac. Lo ha fatto notare Cottarelli ad
agosto nel suo Programma di razionalizzazione delle partecipate locali, dove
l’azienda del trasporto pubblico romano occupa il primo posto fra le 20 società
con maggiori perdite nell’anno 2012, e lo ha ribadito la Cgil, che in un
rapporto presentato alla fine di ottobre ha spiegato come dal 2011 a oggi i
debiti di Atac siano aumentati dell’8% e gli utili scesi del 27%. Solo il
prestito-ponte concesso dal Comune dopo il pignoramento di 77 milioni di euro,
frutto di un contenzioso con Roma Tpl (il consorzio di imprese che si è
aggiudicato per nove anni il servizio di trasporto nelle zone periferiche e
ultra-periferiche della città), ha momentaneamente salvato Atac. Che si trova
comunque in buona compagnia. Anche Ama, l’Azienda municipale ambiente, ha i
conti in profondo rosso. Basta leggere le parole pronunciate a marzo dal
presidente e amministratore delegato dell’azienda, Daniele Fortini: «Abbiamo un
indebitamento di 650 milioni di euro e le esposizioni con i fornitori sono di
una cifra superiore a 150 milioni». E che dire di Fiera di Roma? A luglio
l’amministratore unico, Mauro Mannocchi, ha parlato di «situazione tragica»
visti i 175 milioni di debiti totali. Che l’amore fra la maggior parte dei 6.500
vigili urbani della Capitale e Ignazio Marino non sia mai sbocciato è cosa
risaputa. I caschi bianchi lo chiamano «il dottorino» e il loro non è certo un
nomignolo affettuoso. La situazione era già precipitata a gennaio, quando circa
1.000 agenti erano scesi in piazza in occasione dello sciopero indetto dall’Ospol (l’Organizzazione
sindacale delle polizie locali) per protestare contro il primo cittadino al
grido di «servitori di Roma, non servi di Marino». Mentre a giugno era toccato
ai dipendenti comunali (oltre 62 mila tra Campidoglio e municipalizzate)
manifestare contro il sindaco, reo di aver tagliato dai loro stipendi il
cosiddetto salario “accessorio”, quella parte della retribuzione legata alla
produttività ma diventata negli anni una parte fissa dello stipendio. A dare
nuovamente fuoco alle polveri, oltre alla già denunciata carenza di organico che
per le parti sociali non permette la gestione dei servizi di base, ci ha pensato
la decisione del comandante generale dei vigili Raffaele Clemente di operare una
rotazione degli incarichi per combattere possibili episodi di corruzione. «Dopo
una permanenza di cinque anni per i funzionari e sette per gli agenti nello
stesso gruppo il personale sarà trasferito in un altro municipio», ha spiegato
Clemente in un’intervista a Repubblica il 5 novembre: «Cominceremo a
dicembre con i primi cento funzionari. In 22 mesi ne dovremo spostare 850. Non
ritengo che vi siano particolari fragilità nel Corpo, ma è importante allentare
i vincoli territoriali che si sono costruiti nel tempo». Ovvia la contrarietà
dei vigili, che l’11 novembre sono tornati a protestare attaccando il
comandante: «Non siamo corrotti. Chieda scusa, ci ha offesi». Come Marino, anche
l’ex capo della divisione anticrimine della polizia è inviso alla maggioranza
dei caschi bianchi. La sua nomina, a ottobre 2013, arrivò dopo la rinuncia di
Oreste Liporace, il colonnello dei carabinieri scelto dal sindaco ma costretto a
fare un passo indietro per la mancanza dei requisiti minimi richiesti dal
regolamento della polizia municipale. Uno dei tanti pasticciacci brutti fatti
nell’ultimo anno e mezzo in Campidoglio. Fra ricorsi al Tar e proteste ora
sembra essere arrivati al redde rationem. Il comandante pare
intenzionato a non arretrare di un millimetro, gli agenti idem. Probabile una
nuova manifestazione nelle prossime settimane. C’è poi il capitolo dedicato ad
amici e nemici del primo cittadino. Molti dei quali interni allo stesso Partito
democratico. Michela De Biase, presidente della commissione cultura del
consiglio comunale capitolino e moglie del ministro Dario Franceschini, lo ha
definito «il più grande gaffeur della storia». Ma anche il presidente del
Consiglio Matteo Renzi, che già non aveva gradito i toni con cui a marzo Marino
criticò la decisione dell’esecutivo di ritirare il decreto Salva-Roma dopo
l’ostruzionismo del M5s («Sono pronto a bloccare la città», disse), sembra stia
perdendo la pazienza. Tanto che ora la strada per andare avanti senza intoppi
dovrà necessariamente passare per un rimpasto totale della giunta da operare nel
più breve tempo possibile. Dalla sua Marino può contare su una sparuta schiera
di alleati, da Sel alle associazioni ambientaliste fino a quelle che tutelano i
diritti delle coppie omosessuali. Contro, però, il sindaco ha uno degli uomini
da sempre più potenti della Capitale, quel Francesco Gaetano Caltagirone che –
complice un rapporto privilegiato con alcuni esponenti del Pd romano (e del
centrodestra) – gli ha dichiarato guerra dopo il ridimensionamento subito a
giugno di quest’anno nel Consiglio di amministrazione di Acea, di cui il
costruttore detiene il 15,8%. Non solo. Le cronache raccontano di un incontro
avvenuto in Campidoglio pochi mesi dopo l’elezione del sindaco, in cui egli
avrebbe detto a Caltagirone: «Lei ormai è vecchio, che ci fa con tutti quei
soldi? Li dia alla città». Anche con il re della monnezza, Manlio Cerroni, le
cose non sono andate tanto meglio. Dopo la chiusura della discarica di
Malagrotta, definita da Marino «una svolta per il rientro nella legalità del
ciclo dei rifiuti e per la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini»,
il numero uno del Colari (il consorzio laziale rifiuti) ha querelato il primo
cittadino che, ha spiegato, «persevera nella distorta e diffamatoria campagna
stampa nei confronti della mia persona e delle aziende che rappresento». Pure in
questo caso i rapporti fra Cerroni e la politica (romana e nazionale, da destra
a sinistra) sono noti. Non è un caso, dunque, che la voglia di rinnovamento
abbia portato il «sindaco marziano» ad abbattere un altro sistema di potere a
lui indigesto. Quello delle multe, insomma, rischia di essere fumo negli occhi
rispetto al resto dei guai della Capitale. Marino dovrà superare la salita senza
cadere mai. Anche se il rischio è che qualcuno tornerà a minargli il terreno.
Capitale brucia-miliardi: "Così Roma affonda in un default pagato da tutta Italia". Conti fuori controllo. La relazione della Ragioneria generale: continua a spendere troppo, lo Stato si è accollato i suoi debiti ma la città ha fallito il risanamento E divora oltre cinquecento milioni l'anno dei contribuenti nazionali, scrive Federico Fubini su “La Repubblica”. L'operazione di salvataggio per ora ha fallito nel suo obiettivo più importante: voltare pagina. Quattro miliardi di aiuti in cinque anni da parte di tutti gli italiani non sono bastati alla città di Roma per iniziare a bruciare meno denaro pubblico e a offrire servizi più efficienti. I fondi dello Stato sono stati incassati, hanno tamponato le emergenze in serie della capitale, ma non hanno mai indotto un cambiamento nella gestione finanziaria di un'amministrazione cittadina che già nel 2008 era al default. Anche se molti dei problemi più seri sono concentrati negli anni del centrodestra di Gianni Alemanno, la Ragioneria generale dello Stato non fa sconti a nessuna delle giunte di questi ultimi dieci anni. Al Campidoglio non c'era più Alemanno ma Ignazio Marino il 4 ottobre del 2013, quando due ispettori della Ragioneria hanno avviato una "verifica amministrativo-contabile" consegnata poi mesi fa. La loro relazione, oltre trecento pagine, era destinata ad atterrare su un numero ristretto di scrivanie al ministero dell'Economia e nella giunta. Ma le conclusioni hanno un'evidente interesse pubblico, per la dimensione crescente dei trasferimenti incondizionati da tutte le regioni d'Italia verso la giunta della capitale. La relazione mostra nel dettaglio i conti di questi anni. Per liberare l'amministrazione di Roma dall'assillo dei suoi debiti, dal 2009 al 2012 i contribuenti italiani si sono accollati oneri da 580 milioni di euro l'anno. Durante lo stesso periodo, hanno trasferito a Roma Capitale - la nuova entità libera dai debiti partita nel 2008 - altri 885 milioni di euro solo perché l'amministrazione potesse continuare a funzionare. Infine nel 2013 i contribuenti di tutto il Paese, attraverso governo e parlamento, hanno mandato alla città di Roma altri 485 milioni di euro e si sono accollati debiti per ulteriori 115 milioni nella gestione commissariale che funziona ormai da bad bank della città eterna: l'entità (governativa) che gestisce i debiti e le poste finanziarie più intrattabili raccolte in eredità dalle ultime due o tre amministrazioni. Nessun altro comune italiano, fra le centinaia oggi in dissesto, ha mai goduto di un trattamento tanto privilegiato. Si legge nella relazione degli ispettori della Ragioneria: "L'esame dei dati di bilancio del periodo 2009-2012 (quelli della giunta Alemanno, ndr) dimostra come l'ente, nonostante le difficoltà finanziarie che hanno indotto lo Stato nel 2008 ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, abbia continuato ad aumentare progressivamente la spesa corrente". In sostanza, malgrado la mole dei sussidi dal resto d'Italia, non si è mai cercato di cambiare i comportamenti che hanno già schiacciato Roma sotto una montagna di debiti: "È stata evitata ogni decisione volta ad adeguare il livello e il costo dei servizi forniti dall'ente alle reali disponibilità di bilancio, riproducendo quei comportamenti che avevano portato a uno stato di sostanziale default nel 2008". In certi passaggi la relazione della Ragioneria assume i toni di una vera e propria requisitoria: "Per il proprio risanamento - si legge - Roma Capitale ha fatto totale affidamento sull'intervento statale, senza realizzare in proprio alcuno sforzo per riportare in equilibrio i conti, nemmeno quando si trattava di far cessare comportamenti palesemente illegittimi". Del resto le responsabilità non solo ascritte solo al centrodestra. Secondo gli ispettori della Ragioneria, anche la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino ha riprodotto gli stessi meccanismi: "A seguito del cambio di amministrazione, la situazione non sembra aver fatto registrare particolari miglioramenti - continuano gli ispettori -. L'attuale gestione, in linea con i comportamenti precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell'avanzare richieste di supporto allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare le entrate proprie". In fondo è all'opera fra Ragioneria, ministero del Tesoro, contribuenti e città di Roma la stessa dinamica che divide i Paesi di Eurolandia. I governi europei hanno accettato di finanziare la Grecia, ma chiedono in contropartita che Atene risani i conti per non aver bisogno di nuovi aiuti in futuro. Questo passaggio è mancato a Roma Capitale, secondo la Ragioneria: i sussidi dei contribuenti, offerti senza porre alcuna condizione, hanno prodotto nuovi comportamenti irresponsabili incoraggiando l'idea che altri salvataggi dello Stato sarebbero arrivati comunque in futuro. Così è stato nel 2013. Scrivono gli ispettori: "L'assegnazione di risorse, senza la richiesta di puntuali interventi per ridurre la spesa o sanare i comportamenti irregolari, è una modalità operativa che difficilmente può innescare comportamenti virtuosi da parte di un ente". Per legge ogni comune in dissesto sarebbe tenuto a tagliare la spesa fra il 10% e il 25% ma, visto il suo status di capitale, a Roma non è successo. Secondo le stime della Ragioneria, quegli interventi avrebbero prodotto risparmi per più di 400 milioni di euro l'anno e rimosso la necessità di sempre nuovi aiuti da parte dello Stato. La realtà della giunta capitolina e delle sue società partecipate resta invece un mondo a parte. Con il comune in default, la spesa corrente è cresciuta al galoppo dai 4,1 miliardi del 2009 ai 5,1 miliardi del 2012. Secondo gli ispettori di via XX Settembre, non è neanche attendibile il lieve surplus nei conti presentato nel 2012: se si tiene conto dei debiti spazzati fuori bilancio e dei crediti in realtà inesigibili, dunque posticci, emerge "un reale disavanzo di amministrazione di circa 485 milioni di euro". Tra i casi più estremi indicati nel rapporto della Ragioneria risaltano alcuni grandi appalti e la gestione della grandi controllate al 100%, a partire dalla società di trasporto locale Atac. Dal 2004 (giunta di Walter Veltroni) al 2013, l'azienda dei bus e del metrò ha registrato in media una perdita di 130 milioni l'anno e ha chiuso in utile solo il 2005, mentre nel 2010 è riuscita a perdere oltre 300 milioni di euro su circa mille di ricavi. I costi per il personale pesano per oltre metà delle spese totali, l'azienda è passata da 37 dirigenti nel 2008 (ultimo anno di Veltroni) fino a ben 97 dirigenti nel 2010 (dopo due anni di Alemanno). Ancora due anni fa, l'allora amministratore delegato Carlo Tosti ha ricevuto compensi da 377mila euro per la sua guida di un'azienda municipale capace di bruciare quasi un miliardo e mezzo in un decennio. Quasi nessuno di questi problemi oggi è risolto: il contratto di servizio del comune all'Atac è stato ridotto, senza però affrontare nessuno dei problemi di spreco e malagestione dell'azienda. In queste condizioni, la Ragioneria prevede che perdite per circa 150 milioni l'anno continueranno e dovranno essere ripianate poi dall'azionista. Tutto sarebbe stato diverso se la Legge di stabilità per il 2015 avesse introdotto regole che obbligano i comuni non ricapitalizzare a ciclo continuo le controllate in perdita, obbligandole così a trovare investitori privati o a ristrutturarsi: ma questa norma per adesso non è stata presentata né dal governo, né in parlamento. Ancora peggio (se possibile) il caso di Roma Multiservizi: secondo la Ragioneria, quest'impresa continua a ricevere l'appalto di gestione delle scuole comunali di Roma senza averne titolo ("in violazione delle disposizioni") con un "enorme incremento" del costo del servizio a 52 milioni di euro. Finisce così che fra i pochi risparmi davvero trovati nella città eterna ci sono quelli per "interventi urgenti di manutenzione stradale in caso di eventi meteorologici eccezionali": fondi tagliati da 16 a 1,3 milioni di euro. Gli italiani pagano quattro miliardi, la spesa corrente di Roma aumenta di un miliardo, ma appena piove nel traffico di Roma sarà alla paralisi.
Atac, un anno dopo la truffa continua, scrive “La Repubblica”. Non c'è ancora alcun responsabile per la colossale frode dei biglietti clonati scovata e denunciata da Repubblica. Dodici mesi dopo quel clamoroso scandalo poche cose sono cambiate nell'azienda di trasporto romana. L'indagine interna avviata dal Campidoglio si è conclusa con un nulla di fatto. Mentre la magistratura è alle prese con l'intricata matassa di scatole cinesi costruite a paravento dell'illecito una fonte interna conferma: "Le segnalazioni di codici duplicati, codici assenti e matrici duplicate continuano".
Una denuncia senza risposte. Tutti colpevoli, nessun colpevole, scrive Daniele Autieri. A un anno dall'inchiesta di Repubblica sui titoli di viaggio clonati di Atac, c'è ancora molta opacità sulla vicenda che avrebbe visto coinvolti manager e dipendenti interni, impegnati a mettere in piedi un sistema parallelo di bigliettazione i cui proventi illeciti sarebbero stati dirottati nelle casse di partiti politici e dirigenti corrotti. Al pesante interrogativo sollevato attraverso una serie di testimonianze e documenti interni rimasti fino ad allora inediti, nessuno ha saputo dare risposte. Non l'ha fatto la Commissione d'inchiesta istituita dal sindaco Ignazio Marino; non l'hanno fatto (almeno per il momento) Guardia di Finanza e Procura di Roma che tuttavia sono da mesi al lavoro per far luce sulla vicenda; e non l'ha fatto l'attuale amministratore delegato di Atac, Danilo Broggi, che, invitato nuovamente a spiegare ai lettori come l'azienda abbia arginato il problema, ha preferito evitare il confronto, rifiutandosi di concedere un'intervista. Eppure qualcosa nel corso di questo anno si è mosso, ed oggi - di fronte al nuovo piano industriale dell'azienda che prevede aumenti tariffari e sacrifici per i dipendenti - la tensione è alle stelle al punto che alcune sigle sindacali hanno chiesto che Atac renda più efficienti e tracciabili le entrate ottenute dalla vendita dei biglietti prima di far pagare ai dipendenti il conto salato dei debiti. Il punto di svolta dell'inchiesta giudiziaria su Atac si materializza il 12 giugno di quest'anno quando gli uomini della Guardia di Finanza tornano in azienda per una lunga perquisizione che dura una giornata intera. È la seconda perquisizione in sette mesi e viene anticipata da una gravissima fuga di notizie. Il giorno prima dell'accesso - secondo quanto ricostruito da almeno due fonti interne - un dirigente aziendale avrebbe chiesto ai suoi collaboratori di nascondere ai finanzieri alcune fatture "sensibili". Nonostante ciò la Finanza cerca di far luce sulle operazioni di quattro manager finiti sul registro degli indagati (l'ex-ad Gioacchino Gabbuti, l'ex-direttore generale Antonio Cassano, e i dirigenti Anselmi e Pesce) e di due prestanome (Marcello Bonura e Umberto Bianchi). Secondo il decreto di perquisizione firmato dai pubblici ministeri che conducono l'inchiesta, Laura Condemi e Alberto Pioletti, attraverso questi e altri indagati sono transitate le società utilizzate per trasferire all'estero parte del denaro nero drenato dalle casse di Atac "tramite la creazione di un canale parallelo di produzione, distribuzione e vendita di biglietti". In particolare - recita il decreto - Gabbuti e alcuni altri manager si sarebbero appropriati della somma di 2,4 milioni di euro mediante la stipula di 52 contratti di consulenza per attività di mera facciata con la società Pragmata, di cui lo stesso Gabbuti era socio occulto. Oltre alla Pragmata, il decreto indica altre aziende come la "XIII Ottobre" o la "Tanya Invest", controllate attraverso fiduciarie sanmarinesi, che farebbero sempre riferimento a Gabbuti e che ottenevano da Atac consulenze con lo scopo di dissimulare il trasferimento di fondi all'estero o di "ostacolare l'identificazione della provenienza illecita del denaro". Mentre l'inchiesta giudiziaria va avanti, all'interno dell'azienda sopravvivono non poche anomalie nell'ambito del sistema di bigliettazione elettronica. Un manager che chiede di rimanere anonimo conferma che tuttora "arrivano agli uffici competenti segnalazioni di codici duplicati, codici assenti, matrici duplicate". "Inoltre - spiega ancora la fonte - la catena di comando che guida i sistemi informatici, e quindi la bigliettazione, è rimasta occupata perlopiù dagli stessi dirigenti che hanno gestito l'unità negli ultimi anni". Un altro caso strano riguarda l'appalto per la dematerializzazione dei titoli di viaggio, quindi per la vendita dei biglietti attraverso internet, cellulare, o altri strumenti. La gara è stata indetta nel mese di agosto, quindi nel pieno delle vacanze, e a vincerla è stata la Vix, la società nata dalle ceneri della vecchia Erg che si occupa ancora oggi della gestione di parte dei sistemi informatici. "Se ci saranno responsabili li metteremo in carcere e butteremo la chiave", aveva detto il sindaco di Roma Ignazio Marino un anno fa. E la sua indignazione si era trasformata nell'istituzione di una Commissione di inchiesta riunita per la prima volta il 14 novembre del 2013 e presieduta dall'onorevole Massimo Caprari. L'organismo ha lavorato per oltre sei mesi, interrogato amministratore delegato e manager di Atac, visitato i luoghi chiave del processo di bigliettazione, dalla società Mecstar che produce i titoli di viaggio alla Sipro che li stocca e li distribuisce. Tuttavia nulla di insolito è stato riscontrato dai membri in visita negli stabilimenti, nonostante la "Relazione investigativa sui titoli di viaggio" redatta nel 2012 avesse denunciato alcune gravissime anomalie come l'esistenza nei depositi della Sipro di milioni di biglietti invenduti e mai distrutti. L'ultimo verbale della Commissione è datato 4 giugno e racconta il sopralluogo compiuto nel cosiddetto "bunker" di via Salone, il Centro di smistamento interventi dove viene gestita la bigliettazione elettronica. La visita termina alle 16 e il verbale si chiude con una promessa che è anche un auspicio: "I processi per la sicurezza stanno migliorando e l'obiettivo è quello di arrivare ad una completa migrazione dei titoli su carta elettronica".
Tutti colpevoli nessun colpevole, scrive Carlo Bonini. Nel Paese in cui tutti sono responsabili perché nessuno davvero lo sia, l'affaire Atac sollevato ormai un anno fa da un'inchiesta di Repubblica non fa eccezione. Nella notte del trasporto pubblico su gomma e ferro e del suo debito monstre (1, 6 miliardi di euro, con un deficit annuale che ha superato i 250 milioni), tutti i gatti sono e rimangono grigi. I sindaci e le giunte che si sono succedute alla guida del Campidoglio, il management di nomina politica che ha avuto nel tempo la responsabilità di gestione di una delle più grandi aziende di trasporto pubblico in Europa (12 mila dipendenti). Non sono stati infatti sufficienti dodici mesi - non una settimana, non un giorno - non solo a venire a capo dei risvolti giudiziari della stangata dei biglietti clonati (e qui siamo nella media dei tempi di un procedimento penale: più o meno 5 anni tra l'avvio di un'indagine preliminare e la sua definizione in un processo passato in giudicato), ma anche solo ad increspare le acque immobili dell'amministrazione capitolina. A ottobre 2013 dello scorso anno, la faccia improvvisamente torva del sindaco Ignazio Marino aveva promesso di "buttare la chiave" una volta venuto a capo di una caccia senza quartiere agli amministratori infedeli. Ma quella minaccia che era insieme un impegno al rigore dei comportamenti e alla trasparenza verso una città che muore di traffico ogni giorno e ogni giorno si stipa in un parco mezzi indegno di una grande capitale europea, si è spenta in un buffetto. Meglio, in un auspicio con cui una commissione di inchiesta del Campidoglio ha concluso che sui biglietti tutto è in regola. Anzi, che le cose migliorano a vista d'occhio e possono ancora migliorare. Tuttavia, non potendo negare che siano circolati e continuino a circolare "biglietti clonati", l'Atac e con lei l'amministrazione capitolina hanno dunque visto bene di declassare la faccenda a una truffa da soliti ignoti. Sono volati gli stracci. E nelle peste (nonostante l'inchiesta penale veda indagati l'ex amministratore delegato e il suo direttore generale) sono sin qui finiti solo pochi disgraziati sorpresi a trafficare con qualche fotocopiatrice in provincia. La scommessa è stata, come sempre, lasciare che il tempo e il silenzio annichilissero la voglia e l'urgenza di qualche risposta. Non a caso, a Repubblica, che in questo anno non ha smesso di sollecitare testimoni, fonti interne all'azienda, inquirenti, dandone di volta in volta conto, l'unico a non voler rispondere anche solo a una domanda, è stato il nuovo amministratore delegato di Atac, Danilo Broggi, l'uomo personalmente scelto dal sindaco per "cambiare verso". Forse perché l'accountability, politica o aziendale che sia - l'obbligo di rendere conto delle proprie decisioni e delle scelte non solo future ma anche passate - ha in Italia e in primis a Roma, una nota declinazione. Quella che consente di sottrarsi sempre alle domande che non piacciono e che fa il verso alla battuta di un celebre film di Totò e Peppino: "Io? E che c'entro io? E che mi chiamo Pasquale?".
Roma, va in scena la Grande Tristezza. Viaggio nella capitale sfasciata dal degrado. La stazione Termini invasa dalle bancarelle, il Colosseo "ostaggio" dei Centurioni, Fontana di Trevi ridotta a un suq, i cantiere aperti ovunque, i cartelloni pubblicitari che rovinano alcuni dei luoghi più celebri. Il nostro viaggio nella Capitale vittima del malcostume. I centurioni che assediano il Colosseo, l'evasione fiscale dilagante, i venditori ambulanti ovunque, i quartieri senza servizi. Viaggio nell'Urbe abbandonata a se stessa. Una città invasa da sporcizia e topi, soffocata da bancarelle e auto. Che va avanti nel disinteresse di tutti. E dove a guidare le proteste per la legalità è la famiglia a capo dell'esercito di ambulanti, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Che Grande Tristezza è diventata Roma. Una città che sta seppellendo se stessa. Sì, sì, la storia. L’arte. La bellezza. Ma la sua vera immagine sta da un’altra parte. Prendete i vigili. Scusate: la polizia di Roma Capitale. Ma come fanno a dire che non si vedono mai in giro? Certo, a volte devi stare alzato fino a tardi la sera, come i bambini romani a gennaio con la speranza di incontrare la Befana. Turno di notte festivo tra domenica 23 e lunedì 24 novembre. Pagano di più, la notte. Eccoli qua davanti, a pochi metri: addirittura sei vigili in divisa, tutti insieme, le auto di servizio parcheggiate, un’ora passata a lavorare al bar. Non proprio un’ora: dalle 00,23 alle 00,37 dentro il bar, dalle 00,37 all’1,18 davanti al bar. E forse non proprio a lavorare. Da come gesticolano, dimostrano comunque impegno e dedizione. Sono quattro agenti e due superiori con i gradi sulle spalle. Probabilmente costituiscono più del cinquanta per cento della forza notturna in azione sulle strade dalla stazione Termini al Quirinale. Tutta concentrata in un unico punto della città: tra le tazzine di caffè appena bevute al bancone e le chiacchiere sul marciapiede. E quanto amore per gli animali da parte dell’Ama, l’azienda di Roma Capitale che raccoglie i rifiuti. I suoi netturbini fanno di tutto per lasciare un po’ di immondizia sparsa in giro in modo che anche i roditori abbiano da mangiare. Mentre me ne sto seduto sui gradini della fontana di Santa Maria Maggiore, con alle spalle i mosaici della basilica e nelle mani la telecamera puntata sui vigili al bar di fronte, devo spesso schioccare le dita o battere un piede: decine di ratti sgusciati dai sampietrini sembrano interessarsi alle scarpe o alle pieghe calde del mio giaccone ed è l’unico modo per tenerli lontani. Tra poche ore papa Francesco verrà proprio qui, a pregare prima del viaggio a Strasburgo. Chissà se noterà lo spargimento di cellophane, bottiglie e cassonetti ammaccati intorno a questo luogo storico e sacro. E chissà se i ratti, almeno quelli che adesso fanno la sentinella con il muso all’insù, punteranno anche le pieghe della sua ampia veste papale. L’avete mai visto il pupazzo di Balotelli nudo che le bancarelle vendono durante la messa in piazza San Pietro? E le fontane di piazza Farnese, che quando l’ambasciatore francese fa festa diventano il parcheggio privato per i Suv degli invitati e i camion del catering? Roma oggi è pure la piscina gonfiabile piena di detersivo davanti all’ingresso ai Fori Imperiali. Oppure Trinità dei Monti, coperta da un paio di scarpe stampate su un immenso cartellone pubblicitario. Ma anche i marciapiedi intorno alla stazione Termini, affollati di bancarelle e la notte di diseredati come mai se ne sono visti. E le bottiglie di birra vendute a 50 centesimi, perché i disperati diventino alcolizzati e non smettano più di comprare alcol. Roma sono i nuovi quartieri costruiti in cooperativa dove sono spariti i soldi per le opere di urbanizzazione e migliaia di proprietari si ritrovano con appartamenti senza strade, telefono, fognatura e illuminazione. E perfino il vino con le immagini celebrative di Mussolini e Hitler in vendita in via del Viminale, quasi sotto le finestre del ministro dell’Interno e del capo della polizia. Non è un oltraggio alla memoria di tutte le vittime romane dell’Olocausto? «Mbeh», risponde l’oste, «mica c’è stampata la svastica sull’etichetta». Sette giorni e sette notti, in giro con una telecamera, non bastano a conoscere Roma. Ma molto si intuisce. Da caput mundi a capitale kaputt: la discesa a precipizio di una metropoli in decomposizione che è sintesi dello sfascio italiano. Chi poteva, ha arraffato qualcosa. O continua ad arraffare. Fanno come i ratti di Santa Maria Maggiore la notte: si mangiano tutto il mangiabile che trovano. In piccolo e in grande. Ufficialmente sempre in forma legale, s’intende. E ora che le casse del Comune sono vuote e i servizi allo sfascio, per fortuna Roma ancora esprime una classe dirigente gaudente. Come la nostra icona dello sport nel mondo: il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Sua l’idea di dimenticarsi dei monumenti, delle scuole, degli ospedali, delle strade che cadono a pezzi. E perché mai dovremmo investire nel patrimonio storico e culturale che già esiste? No, la capitale e l’Italia, per rilanciare la loro immagine e attirare turisti, hanno bisogno di ben altro: decine di nostri milioni per candidare Roma alle Olimpiadi 2024. Cosa gli puoi rispondere? Gli ricordi quello che è successo nel 2009 con i mondiali di nuoto e i soliti costruttori che hanno disseminato l’Italia di debiti per centinaia di milioni e i quartieri di impianti sportivi pubblici mai completati: mentre piscine e club privati, come il circolo Aniene di Malagò, certo che si sono finanziati e allargati. Oppure gli batti una pacca sulle spalle convinto che stia scherzando. Invece il premier, Matteo Renzi, e il sindaco di Roma, Ignazio Marino, gli hanno dato ragione. Marino sta addirittura impegnandosi perché la Roma abbia il suo nuovo stadio privato da sessantamila posti. Vedete che nella Suburra è sempre carnevale? Allora forza, si parte. Se volete andare in piazza Farnese la sera e fotografare i giochi di luce proiettati dalle due fontane, cercate di capire cosa hanno organizzato nell’antico palazzo che ospita l’ambasciata di Francia. Eviterete di perdere tempo. Stasera l’ambasciatore fa festa e la fontana di sinistra non si vede più. Ecco, si possono ammirare i riflessi dei lampioni sulle carrozzerie: Suv con la targa del corpo diplomatico, auto e schiere di furgoni del catering. Piazza Farnese e le sue fontane ridotte a parcheggio privato. In piazza della Cancelleria è perfino peggio. Ma qui l’ambasciatore non c’entra. Qualcuno abita nel quartiere, gli altri sono andati a cena nei locali di Campo de’ Fiori. E hanno ammassato (è l’unico verbo in grado di descrivere la scena) macchine ovunque. Anche piazza Sant’Agostino, davanti alla chiesa che ospita opere come la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, è un pezzo di storia sepolto dalle lamiere. Roma è la città italiana con il maggior numero di auto per abitante: 71 ogni cento, compresi bambini e neonati. Purtroppo la città è sempre dominata dai costruttori di palazzi, non di autobus. Romano anche il record di incidenti: 39 pedoni e 97 ciclisti investiti nel 2013. Non serve andare in periferia. Basta uscire dal centro e trovarsi a camminare sfiorati dal traffico, lungo strade senza marciapiede. Proprio in mezzo allo struscio di migliaia di turisti e non solo, Abdus Sattar, commerciante ambulante arrivato dal Bangladesh, vende di tutto: i soliti souvenir, la statuetta bianca del papa, il Colosseo in miniatura, caricabatterie e cavi Usb per il cellulare, qualche pianta di plastica, due o tre vasi di ciclamini e bustine con semi di cetriolo, peperoni, zucchine, pomodori, basilico e rughetta. Dalla fontana della Barcaccia, lo sguardo su piazza di Spagna si apre lungo la scalinata e si stampa dentro un paio di scarpe americane illuminate giorno e notte al centro di un gigantesco cartellone pubblicitario. È l’immagine di Roma che centinaia di migliaia di selfie scattati dai turisti ogni giorno mandano in giro per il mondo. Il valore del prodotto reclamizzato è da poco aumentato. Fino a qualche settimana fa lì c’era un piatto di pasta. Addio Trinità dei Monti: la facciata fino a novembre 2015 sarà coperta dalle impalcature. Ordinaria manutenzione, dice il cartello del cantiere, la seconda in meno di dieci anni. Eppure per tutta la settimana su quei ponteggi non si è mai visto un muratore: stanno lavorando dentro, non fuori. L’ultima volta, al posto della pubblicità, avevano riprodotto la facciata sul telo. Molto più elegante. Evidentemente imbrattare con gigantografie i luoghi più suggestivi d’Italia non è più vietato. Giordano Tredicine è il vicepresidente dell’Assemblea capitolina, il consiglio comunale. Lo chiamano onorevole perché si è deciso che tutti i consiglieri di Roma Capitale siano onorevoli. È stato eletto nel Pdl. E pochi giorni fa era in marcia con l’ex sindaco Gianni Alemanno. Partecipavano alla manifestazione contro il sindaco Marino, i nomadi e gli immigrati aperta dalle bandiere dell’organizzazione di estrema destra Casa Pound al quartiere Esquilino: lo stesso della basilica di Santa Maria Maggiore, dei ratti in piazza e dei vigili al bar. Eppure le teste rasate di Casa Pound, invece che a Marino avrebbero potuto rivolgere le loro lamentele a uno degli ospiti d’onore della loro marcia: proprio l’onorevole Tredicine. Se c’è una famiglia di imprenditori che a Roma ha fatto da traino all’arrivo di migliaia di ambulanti bengalesi, è la sua. I Tredicine, attraverso padri, figli, mogli, fratelli, detengono gran parte delle licenze comunali che contano nel commercio turistico. E le subaffittano agli immigrati. Sempre bengalesi. È intestata ai Tredicine anche la concessione affidata a pagamento a Tara Shahidul Alam Khondoker in cima alla scalinata di Trinità dei Monti. Così conferma il commesso di turno. I turisti arrivano da tutto il mondo per salire qui al tramonto e si ritrovano davanti una distesa di trolley di plastica, valigie e borse cinesi che i commessi di Khondoker hanno messo bene in mostra. E quando piove, si aggiunge lo svolazzo dei teli di cellophane. Il rumore di due generatori a benzina impedisce ormai di ascoltare il respiro di Roma: quel brusio di voci e passi che, chissà, forse ancora sale da via Condotti. Il sole che tramonta nel Tirreno è coperto dagli ombrelloni stile Rimini anni Settanta che i ritrattisti hanno piantato sulla balconata. Uno verde, un altro arcobaleno. I venditori di rose circondano le coppie. Un ambulante lancia in continuazione una palla di gel per terra e a ogni impatto, dal gel esce un grido. Così, per tutto il giorno. I generatori alimentano i due camion bar ai due lati della balconata. Quello di Islam Saiful e l’altro di Bhuyan Al Amin, due ambulanti bengalesi che hanno in gestione le licenze di Antonio Molinaro, altra famiglia di commercianti come i Tredicine. «A Molinaro diamo 1.800 euro al mese», raccontano al banco di Bhuyan Al Amin. E quanto si guadagna al mese? «Non sappiamo, siamo operai». Con l’arrivo continuo di turisti, nella buona stagione sono comunque migliaia di euro al giorno. Risponde invece il commesso di Hossain Delowar, che vicino a Santa Maria Maggiore dice di avere affittato la licenza per 600 euro al mese da uno dei Tredicine, ennesimo parente dell’onorevole. Soltanto 600 euro al mese di affitto? «Sì». E quanto si guadagna? «200 euro al giorno minimo». Duecento euro al giorno minimo, siete aperti sette giorni su sette, sono seimila euro al mese. «Sì», risponde il commerciante. I Tredicine sono il motore che ha fatto dei bengalesi la comunità più numerosa di Roma. Ed è grazie ai subaffitti stile Tredicine se l’immagine turistica della capitale è stata completamente consegnata nelle mani degli immigrati asiatici. Ormai gestiscono quasi tutte le bancarelle, i negozi di souvenir e spesso i tour per la città. Provate anche voi, se ci passate. Andate alla Fontana di Trevi, comprate un souvenir e chiedete lo scontrino. Il commesso davanti al romanissimo titolare della postazione di ciondoli e ninnoli vi dice candidamente che non ve lo dà, perché nessuno lo fa. Se provate altrove, può capitare che ci sia da smontare la bancarella. È successo vicino alla stazione Termini: il blocchetto fiscale obbligatorio era nascosto sotto anni di evasione. Lungo il viale senza più traffico, una coppia di ragazzi da giorni gonfia una piscina di plastica verde, la riempie di acqua e detersivo e attrae i pochi bambini con una nevicata di bolle. Non è spettacolo, è commercio. I flaconi di quell’intruglio viscido sono in vendita da 8 a 13 euro. Il commesso sul camion bar di Mohammed Nur Islam dice che la sua licenza è di proprietà della famiglia Molinaro, mentre i Tredicine sono a metà del viale verso piazza Venezia. Dev’essere allegro stamattina. O al contrario è nostalgia di casa. Ha comunque messo la musica a manetta. Un ritmo frenetico e acuti di kamanjah, il violino arabo, accompagnano la visita dei turisti davanti alle rovine. Vigili e carabinieri inseguono inutilmente lo sciame di ragazzini bengalesi che offrono bacchette portatelefonino per farsi l’autoscatto. I centurioni romani davanti al Colosseo no, non li tocca nessuno. Ed eccone quattro depredare vigliaccamente una mamma americana con un ragazzino. Si fanno dare la macchina fotografica. Uno scatto. Sessanta euro, signora. Lei protesta. Le prendono dalle mani due banconote da venti euro. Una foto, quaranta euro, trenta secondi in tutto. E un’altra voce che parlerà male di Roma e dei romani nel mondo. Ci vorrebbe Sergio Endrigo per raccontare la nuova espansione edilizia della capitale d’Italia. Ma questa non è via dei matti numero zero. Via Decimomannu esiste ed è a poche centinaia di metri dalla sede del consiglio della Regione Lazio. Edilizia convenzionata significa che sono stati impiegati soldi pubblici per calmierare i costi. Ma l’Isveur, l’Istituto per lo sviluppo edilizio e urbanistico che riunisce i costruttori romani, non ha mai completato le opere di urbanizzazione. Così migliaia di appartamenti finiti e pagati non possono essere abitati. Intanto i ladri rubano grondaie di rame, caldaie, infissi. A centinaia, non potendo pagare sia l’affitto sia il mutuo, sono andati comunque a viverci. Senza rete fognaria, senza telefono, senza illuminazione, senza negozi, senza depuratori. Case nuovissime si aprono su tratturi di fango. In attesa delle opere, il quartiere di Pian Saccoccia ha intanto dovuto pagare 97 mila euro di contributi per gli enti religiosi. No, non è un obolo per i moccoli tirati in questi anni, ma l’ennesimo balzello: così, nel Lazio, prevede la legge sull’edilizia convenzionata. Papa Francesco sta presiedendo la cerimonia di canonizzazione di sei beati. Domenica 23 novembre la piazza è piena. «Non possiamo discostarci da questo modello, se non vogliamo diventare dei mercenari», scandisce la voce di papa Bergoglio dagli amplificatori. Un ambulante prova a vendere un pupazzino di Balotelli a torso nudo che muove la testa. Chiede quindici euro. Tra immagini sacre e crocifissi, espongono perfino un Francesco Totti, l’elmo di plastica dei centurioni, la testa di Cesare. Cosa c’entrano con piazza San Pietro? Ragazzi sandwich girano a offrire tour sugli autobus panoramici. In mezzo ai fedeli appare addirittura una specie di Gabibbo vestito da patatina fritta. Mucchi di rifiuti seguono la passeggiata notturna dalla stazione Termini fino alla piazza di Santa Maria Maggiore. Ecco arrivare la prima delle due pattuglie di vigili. Una breve pausa per un caffè non si nega a nessuno. Ma se almeno facessero un giro a piedi, vedrebbero in quali condizioni è ridotta la zona. Cose rimediabili in poche ore. Il palo abbattuto in via Carlo Alberto. I sacchetti caduti fuori dai cassonetti e mai più raccolti. I lampioni bruciati. La sporcizia. Gli abitanti onesti di questo e degli altri quartieri di Roma se lo meriterebbero. Invece no, non si allontanano dal fascio di luce delle vetrine dell’Antico Caffè Santamaria. Forse sanno già tutto. I quattro agenti e i due graduati conversano in piedi sul marciapiede. Mentre dentro ormai hanno finito le pulizie. All’1.18 si ferma un clochard. Protesta perché mentre loro sono lì a chiacchierare lui, dice, è stato appena aggredito. I vigili lo guardano. Il clochard si allontana sbuffando. Dopo 55 minuti di sosta, i sei finalmente risalgono in macchina. Ripartono. Al di qua della strada, i ratti rovistano da ore indisturbati la piazza. Basta starsene adesso un po’ in disparte a guardare. Saltano sulla fontana. Bevono e si lavano sui bordi lucidi di travertino proprio dove di giorno si abbeverano turisti e pellegrini. La loro notte ricorda anni di ruberie. Li vedi correre ovunque ci sia da mangiare. Instancabili, insaziabili, impuniti. Fino all’ultima briciola.
Roma città eterna? No, città incompiuta. Ecco le grandi opere rimaste ferme al palo. Dalla Metro alla nuvola di Fuksas, dallo stadio della "Magica" all'allargamento dell'aeroporto di Fiumicino: tutti i cantieri più importanti della Capitale sono fuori controllo. Mentre i costi lievitano e i tempi diventano biblici, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Grazie a Ennio Flaiano sappiamo che cosa succede se un marziano sbarca a Roma. Sarebbe interessante provare con un antico romano a Roma. Dalla civiltà che ha inventato grandi strade, acquedotti e reti fognarie alla caput mundi di oggi la differenza è traumatica. Fallimenti, incompiute, ritardi e costi impazziti sono diventati l’ordinaria amministrazione di una città che si rifiuta di comportarsi come una normale capitale europea e che non sa più progettare. Se progetta, non realizza. Se realizza, è soltanto per affittare o vendere l’ennesimo quartiere-dormitorio che consuma gli spazi residui di terreno a cavallo del grande raccordo anulare. L’attesa messianica di un cambio di rotta è stata affidata alle Olimpiadi del 2024. Dopo la bocciatura di Roma 2020 ad opera del governo Monti, altro giro altra corsa. Stavolta mostrano di crederci tutti: il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il numero uno del Coni, il romano Giovanni Malagò, e il sindaco Ignazio Marino. Sognare non costa nulla, tanto la gara per la sede di Giochi si farà nel 2017. Ecco intanto quello che vedrebbe l’antico romano tornato al futuro dell’anno 2014.
METRO C. È costata più della Domus Aurea di Nerone. In compenso, ci salgono meno viaggiatori che turisti al Colosseo. Ogni previsione di traffico fatta alla vigilia dell’inaugurazione è stata smentita al ribasso. Invece di 12 mila passeggeri l’ora, il biglietto lo pagano in 12 mila al giorno mentre la media quotidiana di visitatori all’Anfiteatro Flavio è di 16 mila. È un flop che ha fatto dire all’assessore alla mobilità Guido Improta: «Se entro il 2015 non avremo un incremento significativo, gli enti finanziatori dovranno fare una riflessione su quest’opera». Gli enti in questione sono, in ordine di importanza, lo Stato (70 per cento), Roma capitale (18 per cento) e la Regione Lazio (12 per cento). Finora hanno speso 1,88 miliardi di euro e dovranno investire almeno 3,74 miliardi in totale per portare la linea fino al Colosseo. Con l’allungamento del percorso fino a Ottaviano il conto totale si aggirerà sui 6 miliardi. A oggi, il troncone aperto al traffico (Centocelle-Pantano) non ha interscambi con le altre due linee. Il sistema driverless è costosissimo (40-50 milioni all’anno contro i circa 30 delle altre due linee) e ha comunque un macchinista a bordo di ogni treno per l’alto rischio di guasti. L’ultima corsa parte alle 18,30 e passa un convoglio ogni dodici minuti in media. Infine, le linee di superficie (l’autobus 105 e la preistorica linea Giardinetti-Pantano) sono molto concorrenziali nel prezzo perché non hanno varchi elettronici e dunque non richiedono, nei fatti, l’acquisto del biglietto. A meno di possedere un’alta coscienza civica, l’evasione rimane alta ed è uno dei motivi, insieme alle assunzioni clientelari della giunta Alemanno, per cui la municipalizzata dei trasporti Atac è tecnicamente fallita. La ciliegina sulla solita torta è la triplice inchiesta sulla metro C della magistratura ordinaria, della Corte dei conti e dell’autorità anticorruzione di un sempre più oberato Raffaele Cantone. I magistrati stanno passando al setaccio l’accordo transattivo firmato nel settembre 2013 dalla giunta Marino e dal consorzio affidatario Metro C (Vianini-Caltagirone, Lega coop, Ansaldo e Astaldi). La somma ha portato in cassa al consorzio 368,8 milioni di euro di extracosti. Questo condono tombale ha suscitato molte critiche ma scarsa spinta ai lavori che, nell’ipotesi originale, dovevano concludersi per il Giubileo del 2000. Il rispetto dei tempi non è mai stato un problema per i costruttori. Anche la fermata della metro B1 in viale Jonio (163 milioni di euro per qualche centinaio di metri affidati alla Salini) è slittata dal marzo 2013 fino all’ultima proiezione a febbraio 2015. Per le altre fermate della B1, le imprese hanno incassato un premio di accelerazione di 22 milioni di euro a fronte di quattordici mesi di ritardo.
CITTÀ DELLO SPORT DI TOR VERGATA. Chi viaggia nel quadrante di SudEst del Raccordo anulare vede alta sull’orizzonte la Vela ideata dall’architetto Santiago Calatrava. Doveva essere il simbolo della Città dello sport la cui apertura era prevista per i Mondiali di nuoto del 2009 sotto la regia della cricca dei Grandi Eventi, di Angelo Balducci e di Guido Bertolaso. L’appalto è stato affidato alla Vianini di Francesco Gaetano Caltagirone, vero imperatore della Roma attuale, con un investimento iniziale da 400 milioni di euro poi lievitato a quasi 700 milioni. A parte la Vela disegnata dall’archistar spagnolo, i 256 milioni di euro già spesi hanno prodotto una piscina incompleta con stadio da tremila posti in disuso e un’area dismessa della quale non si sa bene che fare. Sulla carta, si pensava a un palasport da 15 mila posti con la copertura di una seconda vela. Ma l’ipotesi prevalente punta a ridimensionare il progetto originale. L’assessorato all’urbanistica del Comune sembra intenzionato a mantenere la vocazione sportiva del progetto magari nella prospettiva di vincere la corsa ai Giochi del 2024. Fra le proposte alternative per riattivare l’impianto, che sorge a poca distanza dalla seconda università romana in un’area caratterizzata da gravi problemi di criminalità, c’è la realizzazione di un giardino botanico nell’invaso della piscina olimpionica. Ma sono tempi duri per gli orti, come dimostra anche la vicenda della tangenziale est. La pista stradale in mezzo alle case immortalata da alcune scene di Fantozzi doveva essere sostituita da un giardino botanico lungo due chilometri. Bocciato per ragioni di costi. Il Comune si limiterà a demolire la tangenziale per 10 milioni di euro entro il 2016.
STADIO DELL’AS ROMA. Jim Pallotta, proprietario del club giallorosso, ha proposto di giocare nell’arena del Colosseo dove una volta combattevano reziari e mirmilloni. Per quanto assurda, l’idea potrebbe rivelarsi più realizzabile del nuovo stadio di Tor di Valle. L’ex ippodromo è un concentrato di problemi ambientali, logistici e giuridici. Sui primi si può passarci sopra, sui secondi si è annunciato un potenziamento del trasporto nella speranza che l’Atac esca dal pantano del default. La questione dei diritti sui terreni è più difficile da sciogliere e minaccia di spostare ben oltre la primavera del 2015 l’inizio dei lavori che dovrebbero concludersi nel 2017. Semplificando, la vicenda è questa. Tor di Valle è stata ceduta dalla Sais della famiglia Papalia, proprietaria dell’ippodromo di Agnano, ai costruttori Parnasi, project manager del nuovo stadio. Entrambi i gruppi sono in difficoltà finanziaria e legati ai prestiti di Unicredit, a lungo azionista della Roma. A garanzia della cessione valutata in 42 milioni di euro, i Papalia hanno ricevuto in pegno il 50 per cento dell’Eurnova dei Parnasi, che hanno versato una caparra di appena 600 mila euro per i terreni. Ma il garante finale è rimasto Unicredit che ha imposto ai Parnasi di ricapitalizzare un’altra delle loro società (Parco delle Acacie Due) lo scorso 18 agosto, tre mesi dopo il fallimento della Sais dei Papalia. A luglio Gaetano Papalia è finito sotto inchiesta per una maxitruffa agli ippodromi di Napoli, Roma, Siracusa e Firenze. Sulla vicenda specifica di Tor di Valle, la magistratura romana sta cercando di chiarire se il complicato rigiro di pegni e finanziamenti tra Papalia e Parnasi possa configurare una bancarotta per distrazione. L’ipotesi peggiore per i tifosi in attesa della nuova arena romanista è una revocatoria che riporterebbe Tor di Valle in mano al curatore del fallimento Papalia.
NUVOLA DI FUKSAS. Il nuovo centro congressi dell’Eur, progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas e realizzato da Condotte, doveva costare 323 milioni di euro ed essere completato il 2 dicembre 2010. Poi entro il 2 maggio 2011. Poi entro il 31 ottobre 2011 e così via al ritmo di un paio di promesse solenni all’anno. Alla fine del 2011 c’erano già otto varianti al progetto originale e il costo era salito a 356 milioni. Ad agosto 2012 c’è stata la nona variante. A marzo 2014 Fuksas, direttore artistico della Nuvola, è stato estromesso con l’accusa - secondo i suoi detrattori - di essere il responsabile delle varianti a catena. L’inaugurazione, di rinvio in rinvio, è fissata all’11 aprile 2015, per agganciare il centro congressi alle iniziative dell’Expo milanese. Ma Intesa, la banca che ha anticipato i soldi, ha già annunciato la chiusura dei rubinetti a Eur spa se la legge di Stabilità non metterà sul piatto 100 milioni di euro. Condotte, per parte sua, si è allineata: senza soldi, le ruspe si fermano. E arrivederci Expo 2015. A oggi la società pubblica Eur spa ha già speso per la Nuvola 225 milioni di euro. Il risultato è stato ribattezzato dagli abitanti della zona “Sarajevo” o “Beirut”.
AEROPORTO DI FIUMICINO. Fra i progetti è il più grande (due miliardi di euro di spesa approvata su un progetto per complessivi 12,5 miliardi) e anche quello con maggiori probabilità di andare in porto sotto il profilo della fattibilità finanziaria. La società concessionaria, Adr del gruppo Benetton, ha ottenuto ritocchi tariffari e prolungamento della concessione al 2044. In aggiunta, c’è l’ingresso di Etihad nell’azionariato Alitalia che potrebbe essere presto seguito da altri investimenti da parte dei fondi sovrani di Abu Dhabi. I lavori, fissati per decreto dal governo Letta l’8 agosto 2013, sono iniziati con la regia di Spea, la società di progettazione di Autostrade-Atlantia (Benetton). Ma il piano è molto più ambizioso e punta alla quarta pista e a una seconda aerostazione sui terreni di Maccarese, anche questi di proprietà dei Benetton e in parte protetti come riserva naturale. Gli ambientalisti e il sindaco di Fiumicino Esterino Montino (Pd) sono contro l’ampliamento, ma i sondaggi e le trivellazioni sono già partiti. Intorno al Leonardo da Vinci la battaglia è appena iniziata.
Roma degradata. Italia impaurita, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. Nostra inchiesta sui guai della capitale. Dalla sporcizia in centro al malessere delle periferie. Ma il suo declino riguarda il Paese intero. Perché l’invivibilità a cui sono condannati i suoi abitanti può anticipare una tendenza nazionale. Sfascio Capitale è il titolo della copertina di questo numero. Sintesi dell’inchiesta del nostro Fabrizio Gatti condotta lungo strade note ai più e in quartieri sconosciuti agli stessi romani, per giorni e notti. E che notti cupe, quando cala il sipario sulle luci scintillanti della Città Eterna. La grande bellezza - potenza di un Oscar - trasfigurata nel colpevole abbandono. Sotto gli occhi di turisti disincantati non meno dei suoi stessi abitanti. Monumenti assediati dagli abusivi, sporcizia dilagante, topi in agguato. Questa è la documentazione raccolta in una serie di video pubblicati sul nostro sito www.lespresso.it. E poi il malessere oscuro delle periferie, contorno di una ricchezza che non appartiene loro. Metropoli cosmopolita e arretrata. Qui, nella corona di spine di quartieri lontani dai palazzi del potere, cova un’insorgenza popolare di cui abbiamo provato a raccontare le origini la scorsa settimana (“l’Espresso” n. 47). Alle esasperazioni delle persone oneste, sulle cui spalle si scaricano le tensioni di una immigrazione problematica e conflittuale, si mescolano le manovre di una destra fascio-leghista. C’è Casa Pound e il padano Mario Borghezio nelle proteste di piazza. Ma innanzitutto c’è il disinteresse della politica, intesa come strumento di composizione dei conflitti in una società complessa. Roma appare come una metropoli fuori controllo capace di amplificare oltre misura le paure degli italiani. La città non solo è male amministrata - il che sarebbe in qualche modo emendabile - ma è ormai senza guida: politica, culturale, morale. Le responsabilità non sono solo di un sindaco isolato e impopolare quale è Ignazio Marino, considerato colpevole ben oltre la sua inadeguatezza. Chiama in causa le classi dirigenti del Paese. Roma non è soltanto un problema dei romani. Purtroppo per l’Italia. Se si andasse a votare da qui a qualche mese per il Campidoglio, per ridare ai cittadini una nuova amministrazione - come forse piacerebbe a qualche notabile - non è azzardato prevedere un astensionismo esasperato. Il non-voto come arma spuntata contro le non-decisioni. Roma è questione nazionale, dunque; l’esasperazione di un declino nel quale si specchiano preoccupati gli italiani del Nord e del Sud. L’illusione dell’assegnazione delle Olimpiadi 2024, con il loro carico di rifacimenti, appalti e ulteriore consumo del territorio urbano, è un espediente per parlar d’altro. È un modo per affidare alle tifoserie in servizio permanente effettivo, quelle sempre pronte a dividersi tra favorevoli e contrari di qualsiasi cosa si parli, un dibattito destinato alla inconcludenza. Il Grande Evento sbandierato come risolutore dei problemi della tremenda quotidianità. Alla quale non sono estranei quei lavori pubblici infiniti di cui Gianfrancesco Turano traccia la mappa. La Roma politica invece è intenta a valutare le ripercussioni del voto in Emilia Romagna e in Calabria, immersa nelle manovre per il Quirinale, tentata o terrorizzata, dipende dai punti di vista, dalle elezioni anticipate (Damilano). Finora Matteo Renzi, che prima di scalare Palazzo Chigi è stato sindaco di Firenze con successo, ha preferito non impicciarsi dei mali della Capitale: troppo fitta di impegni la sua agenda. Eppure lo sfascio romano non può essergli indifferente. Un titolo coniato dall’“Espresso” quasi sessant’anni fa ed entrato da allora nel linguaggio pubblico recitava: “Capitale corrotta, Nazione infetta”. L’inchiesta di Manlio Cancogni denunciava il sacco edilizio che stava deturpando in maniera irrimediabile la città e le ricadute su tutto il Paese. Oggi Roma e i romani sembrano condannati a una nuova invivibilità, anticipatrice di una tendenza destinata a farsi nazionale. Difficile cambiar verso all’Italia se la Capitale va per il verso storto.
I rom lanciano sassi contro gli studenti: sit in e proteste in una scuola di Roma. Si infiamma pure Torrevecchia. Contro le scolaresche bottiglie e sassi. Oggi il sit in di protesta: "Stop alle violenze", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. La periferia di Roma torna a infiammarsi. Nei giorni scorsi i rom, che vivono nel campo nomadi di via Cesare Lombroso, avevano bersagliato le scolaresche della zona lanciandogli addosso bottiglie e sassi. Oggi Blocco studentesco e CasaPound hanno organizzato un sit in di protesta. "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono" recitava lo striscione attorniano da decine di Tricolori. Ma le onlus Arci Solidarietà ed Eureka ha accusato ai manifestanti di aver "bloccato" l’ingresso dei bambini rom in diverse scuole nella zona nord di Roma. Oltre 500 giovani ha voluto mostrare solidarietà agli studenti bersaglio di offese, lanci di sassi e bottiglie con bandiere italiane e un grande striscione. "Vogliamo andare a scuola tranquilli - hanno detto gli studenti - ieri stavamo camminando per entrare a scuola e un mattoncino ci ha sfiorato le teste". Da giorni, infatti, la "convivenza" tra i rom che vivono nel campo di Torrevecchia e i ragazzi che frequentano gli istituti Tacito e Domizia Lucilla è tesissima. Per questo Fabio Di Martino, coordinatore di Blocco Studentesco, vuole promuovere una sorta di presidio permanente della zona. Venerdì prossimo la manifestazione verrà, quindi, replicata per obbligare il sindaco Ignazio Marino a riflettere su quanto sta accadendo. Dopo gli scontri di Tor Sapienza e dell'Infernetto, si scalda un'altra borgata romana. "Perché sono stati stanziati milioni per i campi rom, togliendo fondi per i disabili ed anche alla cura delle scuole, fatiscenti e carenti di ogni necessità?". Le domande di Di Martino sono le stesse domande che si stanno facendo molti abitanti di Torrevecchia. Domande a cui l'amministrazione comunale non ha mai voluto rispondere facendo così montare il malcontento e l'indignazione dei residenti. L'iniziativa di CasaPound e Blocco Studentesco si è svolta pacificamente. Ma, a distanza di diverse ore dal sit in, le onlus Arci Solidarietà ed Eureka hanno provato a montare la polemica accusando i manifestanti di aver bloccato i bambini e i ragazzi del campo rom impedendo loro di andare a scuola. "Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità - hanno denunciato - si è tentato di negare un diritto fondamentale e inalienabile, come il diritto ad andare a scuola". "Sono tutte menzogne", ha replicato a stretto giro Di Martino accusando le due cooperative, che gestiscono il campo nomadi, di inventarsi ricostruzioni "folli". "Per costoro lanciare sassi contro gli studenti fuori dall’istituto è una prassi legittima e costituzionale - conclude il coordinatore di Blocco Studentesco - mentre una manifestazione studentesca con 500 ragazzi che protestano davanti al loro istituto è fuorilegge, nonostante il diritto di manifestare sia garantito da quella stessa Carta che questi personaggi dicono di voler difendere".
Il sit in non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule, scrive “Rai News”. Anche le attività all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola". Lo sottolinea in una nota la questura di Roma, riferendosi al sit in che si è svolto questa mattina alle 8 a Primavalle, vicino al campo nomadi di via Cesare Lombroso e in particolare in via Sebastiano Vinci, all'altezza dell'intersezione stradale che conduce all'entrata degli istituti scolastici Cartesio, Tacito e Stendal. Smentite quindi le notizie che riportavano come la manifestazione avrebbe impedito o comunque intralciato l'accesso a scuola degli studenti rom. Circa 200 studenti, fanno sapere dalla Questura, si sono radunati in un sit in spontaneo, non preavvisato, a poche centinaia di metri del campo nomadi di via Cesare Lombroso. "La manifestazione di protesta - spiega la nota della Polizia -, orientata contro le presunte aggressioni e violenze da parte dei nomadi ai danni delle scuole e degli studenti, svoltasi anche con gli interventi oratori di personaggi esterni agli istituti, riconducibili comunque al blocco studentesco è terminata intorno alle ore 9, dopo l'accensione di alcuni fumogeni e lo srotolamento di diverse bandiere con il tricolore". Sono in corso accertamenti da parte degli agenti della Polizia per identificare le persone che hanno aderito all'iniziativa.
ITALIANI. RAZZISMO ED ESASPERAZIONE.
Ritrova il camper rubato dai rom ma per la legge diventa casa loro. Le autorità: "Dobbiamo garantire ai nomadi un posto dove stare". Il proprietario: "Una follia", scrive Fabrizio Boschi su "Il Giornale". Salvini, i campi rom, il lunotto rotto, le proteste, i centri sociali, i fumogeni, le bombe carta. Ma è stato lui a provocare? O sono stati quei bravi ragazzi del collettivo Hobo di Bologna ad aizzare per primi? Ma sono saliti loro sul cofano o è stato il segretario della Lega ad accelerare per investirli? Tutte questioni di vitale importanza per il futuro dell'Italia. Poi in mezzo a tutte queste chiacchiere ricordiamo una storia da stropicciarsi gli occhi per due ore, che fa ben capire in che folle Paese viviamo. Siamo a Porto Recanati. Gli zingari rubano il camper a Giorgio Capitanelli, molto conosciuto in città, operaio del Comune, ex calciatore e allenatore delle giovanili del Portorecanati. Dopo la denuncia e varie ricerche, affidandosi ai suoi amici su Facebook , Capitanelli ritrova il mezzo, un Iveco modello Icaro, in un campo rom di Bologna, ai margini della A14, grazie alla segnalazione di un camperista. «Mi sono fiondato là - racconta - da uno svincolo dell'autostrada ho notato il campo nomadi e non ci ho messo molto ad individuare il mio camper. Ho chiamato la polizia che dopo un po' è arrivata sul posto. Ci saremmo aspettati di poter tornare a casa con il nostro camper. E, invece, ci hanno detto di lasciarlo lì». Da qui inizia la puntata di Scherzi a parte . Dopo i dovuti accertamenti la polizia conferma che si tratta effettivamente del suo mezzo. Il camper viene messo sotto sequestro giudiziario ma le autorità ordinano a Capitanelli di lasciare il veicolo nella disponibilità dei ladri perché «si trattava di zingari senza casa e abbiamo il dovere di garantire una dimora alla famiglia con prole». Questa follia ha anche un nome: «diritti acquisiti». Anche una merce rubata può trasformarsi in «diritto acquisito» se il ladro è povero. «Cose dell'altro mondo. Mi stanno bene le tutele. Ma dovrebbero valere per tutti. Mi sembra un paradosso che queste tutele vengano garantite con il camper nostro, acquistato con il lavoro e i sacrifici. Non è pensabile che in un paese civile possa accadere una cosa simile». Il camper è ancora a disposizione della Procura fino a non si sa quando. «Il camper è mio ma è a disposizione della Procura da un anno e nella disponibilità, chissà di che genere, di una famiglia di zingari. Riuscirò più a riaverlo?», racconta Capitanelli sul Corriere Adriatico. Magari potrebbe farselo rivendere dagli zingari. Tanto a 'sto punto... Follia per follia.
Prova a sfrattare le due arabe che occupano la casa popolare: gli sparano e feriscono il figlio. Ha tentato di sfrattare chi gli occupava illegalmente l'alloggio popolare. Ma le due inquiline abusive, due donne arabe, hanno chiamato un amico che ha sparato contro l'uomo e il figlio 17enne, scrive Sergio Rame su "Il Giornale". Ha tentato di sfrattare chi gli occupava illegalmente l'alloggio popolare. Ma le due inquiline abusive, due donne arabe, hanno chiamato un amico che ha gambizzato l'uomo e ferito brutalmente il figlio 17enne. È successo a Tor Bella Monaca, periferia di Roma, un'altra periferia degradata come Tor Sapienza. L'uomo, 45 anni, legale assegnatario dell’alloggio, è stato gambizzato con un colpo di pistola. Insieme a lui c'era anche il figlio che è stato ferito alla testa con il calcio dell'arma. Padre e figlio sono stati soccorsi e trasportati in ospedale dal 118. Non sono in pericolo di vita. L'episodio è accaduto al secondo piano dell’edificio. A dare l'allarme alcuni vicini che hanno raccontato alla polizia di aver sentito forti rumori, come di una porta sfondata, e poi lo sparo. Quando l'ambulanza è arrivata i due feriti erano nella tromba delle scale. Dal palazzo sarebbe stato visto un uomo fuggire, ora ricercato dalla polizia. Sulla vicenda indaga il commissariato Casilino Nuovo. Dai primi accertamenti emergerebbe che alla base del ferimento ci sia una lite con i precedenti inquilini per l'occupazione dell'appartamento. Il 45enne, che al momento sembrerebbe il legittimo assegnatario dell'alloggio popolare, avrebbe tentato di sfrattare due donne arabe che occupavano lìappartamento. Dopo un'accesa lite le inquiline straniere avrebbero chiamato un amico per farsi difendere che si è presentato nel palazzo armato di pistola. Dopo aver buttato giù la porta ha esploso il colpo mirando alle gambe del 45enne. Poi ha colpito il ragazzo sedicenne con il calcio della pistola per guadagnarsi la fuga. Anche le due donne sono scappate prima dell'arrivo delle forze dell’ordine. Padre e figlio sono stati ricoverati al policlinico Tor Vergata e non sono in pericolo di vita. Il proiettile sarebbe, infatti, entrato e poi uscito dalla gamba.
L'uomo verrà ascoltato nelle prossime ore dagli investigatori che stanno indagando per far luce sull’aggressione e sull'occupazione dell'appartamento conteso per chiarire se siano stati commessi eventuali illeciti.
Tre case su 4 occupate da stranieri. A Milano soprattutto egiziani e romeni, quasi sempre con bambini Il racket dei quartieri segnala i luoghi: sfondare le porte costa 500 euro, scrivono Andrea Galli e Gianni Santucci su "Il Corriere della Sera". I report sono riservati. Arrivano sui tavoli della questura e delle istituzioni. Contengono indirizzi e dettagli degli interventi degli ispettori Aler (l'azienda degli alloggi popolari). E raccontano la battaglia per la casa che si combatte ogni giorno a Milano. L’ultimo dossier racchiude la settimana dal 20 al 26 ottobre: 54 tentativi di occupazione (16 «riusciti», gli altri sventati). Bisogna scorrere quell'elenco per capire chi sono gli abusivi che hanno «rubato» gli ultimi alloggi popolari: nel quartiere San Siro, «donna cingalese con tre minori», «coppia romena con minori», «donna marocchina in gravidanza», «donna bosniaca con tre minori»; al quartiere Calvairate, «donna romena con tre minori», «coppia georgiana con un minore»; in altre zone: «due donne italiane con minori», «donna italiana con minore». Eccolo, il quadro. Per la stragrande maggioranza donne. Non solo: donne straniere. È una tendenza ormai stabile. E spiega sia l’aspetto sociale, sia i retroscena criminali della deriva che sta travolgendo le periferie milanesi. Da gennaio a ottobre 2014, i tentativi di occupazione abusiva in città sono stati 1.278 , circa il doppio rispetto al 2010 (erano 667). In quegli appartamenti, in 3 casi su 4, c’erano cittadini stranieri, tra cui 256 egiziani, 205 romeni, 143 marocchini. Gli italiani che hanno occupato o tentato di occupare sono stati 324. Queste cifre spiegano anche quali siano i gruppi che hanno sentinelle nei quartieri (per trovare gli alloggi vuoti) e fanno affari sfondando le porte per 500 euro. Bande criminali di zona, non racket organizzato. Scacchiere fluido: i nordafricani si sono allargati dove non hanno avuto il contrasto della criminalità italiana, negli storici quartieri di Corvetto, Giambellino, Calvairate. Al loro fianco, s’è gonfiata l'«immobiliare clandestina rom»: nel 2011 erano entrati in una ventina di case popolari, ora ne hanno in mano oltre 130 (l'Aler ne ha sgomberate altre 70). Al Gratosoglio si muovono i rom allontanati dalle baraccopoli della periferia Sud. La situazione è così compromessa, in quella zona, che non esitano a occupare anche in un palazzo abitato da poliziotti. L’altra forza delle periferie è l'«immobiliare rossa», antagonisti che hanno spostato la loro azione dall’obiettivo «no Tav», all'«abitare nella crisi». Controllano decine di case tra i due Navigli; si sono stabiliti a San Siro; manifestano per impedire gli sgomberi. Quando Aler e forze dell'ordine intervengono per un’occupazione, dentro trovano quasi sempre donne con bambini. C’è un motivo: senza una rete di assistenza sociale, non si possono allontanare. Gli uomini agiscono prima (per sfondare le porte) e dopo: portano i mobili, cambiano le serrature. Così, «consolidano» le occupazioni.
L'urlo delle periferie: la pazienza è finita, scrive Maria Grazia Poletti su "Il Tempo" del 13 novembre 2014. Cinquanta comitati e associazioni contro i quartieri ghetto. Sabato 10mila persone dall’Esquilino in corteo sotto al Campidoglio. «La pazienza è finita». E «la rabbia potrebbe esplodere di nuovo». Lo hanno detto anche al sindaco Ignazio Marino i comitati di quartiere di Tor Sapienza chiamati in Campidoglio dopo le due notti di scontri davanti al centro di accoglienza rifugiati in via Morandi costati 13 contusi tra i celerini. Arrabbiati anche loro per essere stati mandati allo sbaraglio, senza un lavoro di intelligence, che non si può più fare per i continui risparmi forzosi. «È stato chiesto un intervento urgente, la grande paura è l'effetto domino della violenza» spiega Roberto Torre, vicepresidente del comitato Tor Sapienza reduce dall’incontro. «Lo spostamento del centro di accoglienza chiesto al sindaco non è l'unico problema, tre i centri di accoglienza immigrati a via Morandi, via Collatina e via Tiratelli e due campi nomadi a via Salviati, più una serie di campi abusivi a macchia di leopardo». Una bomba, insomma. Come la lettera dei celerini finita stamattina sulla scrivania del questore di Roma, Nicolò D’Angelo. Tutti arrabbiati. Tor Sapienza ridotta a un ghetto da vent’anni, esplosa nelle due notti di guerriglia urbana; e la rabbia delle altre periferie dimenticate: Torre Maura, Romanina, Ponte Mammolo, Fidene, Primavalle, Ciampino, Ponte di Nona, Magliana e anche il ricco Eur. Toni forti, mai ascoltati prima, persino dalla Caritas: «Istituzioni incapaci di gestire i quartieri più lontani dal centro» scrive la Caritas. Ed è «vergognoso - continua - che mentre da settimane nelle nostre periferie cresce la protesta, con episodi di violenza la classe politica capitolina non trovi di meglio da fare che discutere per giorni di otto multe non pagate». E p. Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli chiede che «le periferie geografiche non diventino periferie umane». Il vaso è colmo. Dopo Corcolle, Tor Pignattare e Tor Sapienza, pronta a esplodere Ponte di Nona. L'ultima chiamata alle istituzioni sabato, con il corteo alle 11 dall'Esquilino per la prima manifestazione dei quartieri dimenticati, contro degrado, campi rom e immigrazione fuori controllo, roghi tossici e trasporto pubblico inesistente. 50 tra comitati e associazioni, 38 quelli nella mappa qui sotto. Con i leader, tra gli altri, Franco Pirina del Caop Ponte di Nona, Patrizia Vergani e Danilo Cipressi dell’Eur, Giuseppe Gerardi di Settecamini tra 10 mila persone in piazza.
Proteste anti-immigrati, riesplode la rabbia Roma, bombe carta e cariche della polizia. I residenti in strada a Tor Sapienza: «Chiediamo più sicurezza». Auto e cassonetti dati alle fiamme e scontri con gli agenti. Due feriti lievi ricoverati in ospedale, scrive "La Stampa". Ora hanno tutti paura a Tor Sapienza, periferia est di Roma. Non solo i residenti stanchi «dei furti e delle rapine». Ma anche gli immigrati e gli operatori del centro di prima accoglienza che ieri sera hanno subito un tentativo di assalto con bombe carta e sassi da parte di un gruppo di violenti spalleggiati anche da qualche residente. La tensione si respira nell’aria intorno alla struttura gestita dalla cooperativa “Un sorriso”, in cui sono ospitati anche una cinquantina di minori stranieri. Le forze dell’ordine presidiano il centro. La scorsa notte decine di persone, molti giovani a volto coperto e con bastoni, lo hanno attaccato con gli agenti schierati a difesa. Il Reparto mobile è intervenuto caricando e in 15 sono rimasti feriti. La procura ha aperto un'inchiesta. Si visionano i filmati delle tv e delle telecamere di sorveglianza per identificare i responsabili. Gli oggetti scagliati sui poliziotti sono arrivati anche dalle case del quartiere, riferisce la Questura. «Un gruppo di veri criminali» li ha definiti il sindaco Ignazio Marino, che ha chiamato il questore. L'indomani a Tor Sapienza si respirano rabbia e stupore, con accenti razzisti e minacce contro i migranti in molti commenti anche sui social network. Migranti che ora vogliono andarsene, anzi due minori sotto choc sono già stati trasferiti. Una parte degli abitanti attribuisce agli ospiti del centro gran parte dei problemi della zona, tra microcriminalità e tentate violenze sessuali. «Hanno fatto bene e se non avevo da lavorare ci andavo anche io ieri sera a dare fuoco ai negri», ha scritto qualcuno su Twitter dell'assalto di ieri sera. «Basta sottomissioni e stare fermi a guardare - ha postato su Facebook Marika -, troppo abbiamo sopportato e ora abbiamo detto basta!». Forte il risentimento nei confronti delle forze dell'ordine. «Invece di difendere noi ci vengono contro ma non vi vergognate ??? - scrive Valentina -. Se succede qualcosa a mia figlia mi faccio giustizia da sola». E in strada molti si dicono pronti a vendicare presunti torti. «Li cacceremo tutti da qui, gli immigrati», dicono alcuni. Tra loro Ambra una ragazza che ha denunciato di essere sfuggita a un tentativo di stupro di tre stranieri pochi giorni prima della proteste, l’ultima scintilla. La paura accompagna ora gli ospiti del centro di prima accoglienza di viale Morandi. «Non riusciamo a capire perché la gente ce l’abbia con noi - dice un etiope di 20 anni -. Siamo rifugiati, non rubiamo, siamo venuti in Italia solo per cercare la pace». E anche gli operatori della cooperativa che gestisce la struttura denunciano: «I ragazzi sono spaventatissimi, vogliono andare via, non possono uscire da tre giorni». La situazione a Tor Sapienza suscita anche commenti politici. «Roma rifiuta l’ignobile caccia all’immigrato - dice il sindaco - che si è perfino tradotta nel tentativo di violenza su ragazzini inermi». Marino ha incontrato in Campidoglio dei rappresentati dei comitati di cittadini: «Chiederemo se vi sono le condizioni per una diversa e più equa distribuzione cittadina degli ospiti dei centri di accoglienza», dice in serata il sindaco promettendo di essersi già mosso per risolvere il degrado che soffoca Tor Sapienza, un tempo quasi un paese popolare e solidale ora una fila di palazzoni e rabbia. Gli abitanti a Marino chiedono esplicitamente meno presenza di immigrati, «perché abbiamo già un campo nomadi qui». E più luce, meno spazzatura, più verde, meno delinquenza. Parlavano così anche a Corcolle e Torpignattara, teatro di altri episodi dal sapore razzista.
Tor Sapienza non è razzista. Ma esasperata e strumentalizzata, scrive di Sergio Scalia su "Abitare Roma". Dopo le manifestazioni contro i fumi tossici dei rom di via Salviati e dopo la guerriglia di viale Morandi, su alcuni giornali è apparso un quadro distorto del quartiere, descritto come una zona pervasa da mentalità razzista, ma sicuramente questo non è stato vero in passato e non lo è neanche oggi. Semmai si tratta di un quartiere esasperato da promesse non mantenute e da un’insicurezza sociale che qualcuno cerca oggi di strumentalizzare. Negli anni 90 con la giunta Rutelli si cercò di creare alcuni piccoli campi in diverse zone della città e furono consultati anche i comitati di cittadini. Dopo un'assemblea pubblica il comitato di quartiere diede la disponibilità a ricevere su via Salviati (nel lato Est di Tor Sapienza) circa 20 famiglie, con l'impegno del comune ad assicurare un controllo e la gestione del campo. Purtroppo questo controllo non venne assicurato e negli anni successivi venne allestito un nuovo campo (Salviati 2), che è diventato poi quello più ingovernabile e che si è progressivamente ingrossato, raggiungendo il massimo di presenza durante il periodo di Alemanno a causa degli sgomberi effettuati nelle zone limitrofe e nonostante i 42 milioni di euro spesi negli ultimi 3 anni della sua Giunta, cifra mai avuta in passato da altre amministrazioni. La difficoltà di regolamentare questi campi è stata accentuata dal fatto che l'area in cui sono ubicati è nell’ex V municipio, mentre tutti i servizi e le loro attività insistono sull’ex VII municipio ed in ogni incontro le priorità di intervento dei due municipi erano sempre diverse. Inoltre si è lasciata consolidare una situazione di illegalità, che ha trasformato il campo di Salviati 2 in una fabbrica a cielo aperto di fumi cancerogeni ed inquinanti, che non sarebbe consentita a nessuna attività produttiva. Nel campo era stato costruito un forno per la rifilatura del rame, in cui si bruciavano i cavi rubati alle ferrovie, alle cabine e ai pozzetti dell’illuminazione pubblica provocando fumi neri di gomma e plastica bruciata che ogni giorno si riversavano sugli abitanti del quartiere. Da almeno 3 anni i comitati di zona hanno denunciato questo fenomeno e un documentario "Anello di fumo" ha anche vinto un premio di giornalismo ed è stato proiettato all'iniziativa "Contromafia" dell'Associazione Libera. Ma la cosa più eclatante agli occhi dei cittadini era che tutta questa illegalità avveniva a 50 metri da un presidio della Questura di Roma come è l'Ufficio Immigrazione di via Salviati. Solo dopo la manifestazione pacifica dell’11 ottobre organizzata dal comitato di quartiere, si è avviato un percorso iniziato con lo smantellamento dei forni abusivi e l'alleggerimento della presenza nel campo e con l'impegno dell'assessore Masini ad effettuare alcuni interventi di riqualificazione nel quartiere. Dopo questi sgomberi si è verificato purtroppo un atto che il quartiere ha ritenuto di ritorsione, come l'incendio del deposito AMA di via Salviati con mezzi e spazzatrici bruciati e, grazie all'intervento dei Vigili del fuoco si è evitata l'esplosione di mezzi funzionanti con bombole di metano. Davanti a questi episodi appare ancora più evidente come la solidarietà può crescere solo insieme alla legalità, altrimenti si innesca un meccanismo di reazione che cancella ogni sforzo di integrazione e di convivenza. Ma su Tor Sapienza ormai da anni insistono anche dal lato Sud un edifico occupato dai rifugiati somali sulla Collatina altezza Bricofer e sul lato Ovest un edificio in via Staderini altezza Bar Jolly per richiedenti asilo. Le scuole del quartiere hanno sempre accolto in questi anni i bambini rom e somali che volevano inserirsi nel percorso educativo ed insieme agli organismi scolastici ed alla comunità sono stati risolti anche alcuni problemi sul piano sanitario e dell’integrazione. Sul lato nord del quartiere, nella zona di viale Morandi, è stato insediato alcuni anni fa un centro per richiedenti asilo, con una forte prevalenza di minori non accompagnati, che non aveva trovato all'inizio l'opposizione del quartiere. In questi anni non ci sono stati momenti di tensione con il quartiere e solo recentemente era stato denunciato un atteggiamento di disprezzo dell’aiuto loro offerto vedendoli gettare nei cassonetti il pasto che gli veniva consegnato dalla Caritas. E’ bene ricordare che il complesso di viale Morandi nacque negli anni ’70 per dare un alloggio vivibile agli abitanti degli scantinati e delle case minime di Quarticciolo, ai nuclei che vivevano nelle baracche sotto l'acquedotto e a molti cittadini che attendevano da tempo una casa. Per viale Morandi i progettisti pensarono ad un modello simile a Corviale, cioè ad un palazzo-quartiere in cui le abitazioni erano costruite intorno ad una stecca centrale di negozi e servizi che avrebbero reso quasi autonomo il complesso residenziale. Purtroppo la burocrazia ATER e i fitti fuori mercato impedirono l'apertura dei negozi commerciali e per un certo periodo restarono in piedi solo i servizi del municipio, della ASL e una biblioteca comunale che pian piano si trasferirono in altra sede, lasciando solo spazi liberi poi occupati da famiglie dell’Est e da una comunità ortodossa. Resistono ancora, cercando coraggiosamente di svolgere un lavoro sociale, l’Associazione Antropos e il Centro culturale di viale Morandi. Dopo 40 anni le strutture dei palazzi e gli spazi esterni hanno un forte bisogno di ristrutturazione e gli abitanti avevano sperato in una svolta nel 2007, quando l'allora presidente ATER venne ad illustrare un project financing, che avrebbe consentito di ristrutturare tutti gli alloggi grazie alle entrate derivanti da un sistema di pannelli fotovoltaici che avrebbe avvolto i palazzi. Ma ben presto subentrò la delusione quando i tecnici si accorsero che il progetto non si reggeva economicamente e non se ne fece più nulla. Restano quindi crepe ed infiltrazioni, spazi esterni degradati e illuminazione carente o totalmente assente. In questo contesto di esasperazione e di insicurezza è bastato un tentativo di stupro di una ragazza per scatenare una reazione di protesta sfociata in episodi di violenza. In realtà nella protesta del pomeriggio era presente molta gente del quartiere, mentre negli scontri scoppiati alle 22 determinante è stata la presenza di forze esterne al quartiere, anche perché difficilmente i residenti avrebbero potuto costruire o procurarsi le 16 bombe carta lanciate in quelle ore. E' noto che il quartiere di Tor Sapienza ha sempre avuto una forte presenza democratica, ma anche un nucleo consolidato di destra, che ha cercato in più occasioni di prendere la testa delle proteste. Il sindaco Marino e il presidente Palmieri hanno incontrato i comitati di cittadini ed hanno preso degli impegni per un alleggerimento dei centri esistenti nel quartiere, per interventi di riqualificazione e per un rafforzamento della sicurezza e dopo le delusioni degli ultimi anni è fondamentale che questi impegni vengano mantenuti. Infatti nelle prossime settimane si farà sempre più pressante il confronto tra quelle forze democratiche del quartiere che chiedono misure più concrete contro il degrado e per una maggiore sicurezza e quei gruppi della destra romana che vogliono strumentalizzare i disagi della periferia per rafforzare i legami con la Lega di Salvini, sperando di fargli guadagnare qualche decimo di punto nei sondaggi.
LETTERA APERTA AI CITTADINI DI TOR SAPIENZA, scrive Giampaolo Rossi su "Il Giornale". “Si, io lo so che non siete razzisti; che quei bastoni e quei sassi non li avete presi in mano per odio ma per la disperazione di dover vivere dove non si può più vivere. Io lo so che non siete razzisti, anche se ora vi dipingono così per nascondere la loro ipocrisia e il loro fallimentare umanitarismo senza umanità. Si, io lo so che non siete razzisti ma che la gabbia dove rinchiudervi è pronta e i preparativi per trasformarvi in bestie feroci sono quasi ultimati; che ora sono arrivati con i loro taccuini e le loro telecamere, ma poi scateneranno i loro parolai d’accatto a dipingere quello che tanto non hanno interesse a capire. Intellettuali polverosi chiusi nella soffitta delle proprie idee; politici ignavi e criminali che hanno consentito le peggiori politiche buoniste nel nostro paese, arrivando persino a cancellare il reato d'immigrazione clandestina nel pieno delirio d'irresponsabilità di chi non si rende conto del mondo in cui stiamo vivendo. Io lo so che non c'è razzismo in quello che avete fatto; ma solo dolore e rabbia nel vedere il vostro quartiere ridotto ad una giungla piena di pericoli, trasformato in un campo di battaglia. State difendendo voi stessi ed io so che si difende solo ciò che si ama: la propria terra, la propria città, la propria casa, i propri cari, una sicurezza, un diritto, una libertà. Io lo so che non siete razzisti, né "giustizieri della notte"; ma siete operai, impiegati, commercianti, disoccupati, studenti, pensionati, professionisti, padri, madri, mariti, mogli, insomma l'Italia vera che affronta con dignità questa crisi che non fa prigionieri, le difficoltà economiche e spesso la mancanza di futuro e di certezze. Io lo so che il vero razzista è questo sindaco che definisce "inaccettabili gli attacchi agli stranieri" senza spendere una parola per l'italiano in fin di vita massacrato davanti al figlio, da un branco di belve senza onore. Io lo so che vi sentite abbandonati e soli, presi in giro da uno Stato tanto oppressivo e invadente nei confronti delle persone oneste, quanto indulgente verso coloro che si approfittano della nostra ospitalità, che violentano ciò che noi offriamo loro e che paghiamo con i nostri sacrifici. Perché la convivenza non è una teoria né retorica politica da distribuire davanti alle telecamere: la convivenza si basa sulla reciprocità e può esserci solo con chi rispetta le nostre leggi e il Paese che noi amiamo. Io lo so che anche di fronte all’esasperazione voi sapete distinguere l'immigrato onesto dal delinquente; perché uomini e donne che sono arrivati nel nostro Paese per lavorare o per salvarsi dall’orrore di una guerra, voi li avete accolti e accettati in nome di quella solidarietà concreta che gli altruisti di professione non conoscono. Io lo so che quei bastoni sono lontani da voi e da quello che vorreste essere; e che ora li lascerete cadere in terra per tornare a ciò che è per voi più importante: la vostra vita. Perché, comunque, avete vinto: quella rabbia scesa in strada ha raccontato un'Italia diversa, stanca ma capace ancora di trovare una sua dignità; un’Italia che non ce la fa più ma che vuole difendere con i denti ciò che è suo. Non ve lo diranno mai, ma gli italiani che non sono razzisti stanno con voi: quelli del nord e quelli del sud, quelli di destra e quelli di sinistra, quelli bianchi e quelli neri, gli immigrati onesti e la gente perbene. Cari cittadini di Tor Sapienza, io lo so che non siete razzisti e che avete solo difeso per tutti noi una cosa importante, la più elementare: il nostro inalienabile e sovrano diritto di essere padroni a casa nostra.”
Non regaliamo la protesta agli estremisti, scrive Cesare Martinetti su "La Stampa". Ha fatto bene il sindaco di Roma Ignazio Marino ad andare a prendersi gli insulti a Tor Sapienza. Ma doveva andarci prima. Questi due giorni passati dai cittadini del quartiere di Roma senza che nessuno della città, del governo, dello Stato, di quella cosa che si chiama Italia si sia presentato con la sua faccia sul fronte di questo pezzo di mondo dove si fanno le prove per la società che verrà, pesano quanto un anno e più. È una società dove si moltiplicano barriere e separazioni, dove lo scontro fisico è ormai pratica quotidiana, una guerra a bassa intensità è dichiarata, che siano le periferie o le manifestazioni operaie. Inutile nasconderlo, sbagliato applicare i vecchi schemi, stop ai pregiudizi e alle semplificazioni o alla retorica dell’integrazione buonista e alla condanna preventiva di un razzismo astratto che non vuole dire niente. In quelle periferie, ma anche in molti quartieri della città i cittadini vivono un senso di insicurezza diffuso e giustificato. E questo non è tollerabile perché lo Stato deve trasmettere innanzitutto sicurezza, di ordine pubblico e di vivibilità. Se la gente protesta ne ha ben ragione: la legalità è diventata una questione prioritaria. Ascoltate le voci che escono da quei quartieri, sono spesso pacate, ragionevoli, per questo disilluse, talora disperate. La lettera a un giornale milanese: «Vivo in Bovisa, pago le stesse tasse che pagano quelli che vivono in centro, ma io devo sopportare degrado ovunque... l'immigrazione, per quanto io non sia minimamente razzista, ha dato il colpo di grazia alla zona: bivacchi, nomadi, rifiuti aperti e sparsi in strada. Per di più l'amministrazione ha dato via libera a un mercatino delle pulci la domenica... trovo ingiusto che la Bovisa venga abbandonata a se stessa a favore di un centro Milano splendente...». Quanti sono gli italiani che si riconoscono in una testimonianza come questa? Quanti avvertono lo stesso senso di abbandono da parte della autorità, di una qualunque forma di Stato? Quei mercatini sono diffusi e spesso abbondano di merce rubata generando così un’economia miserabile ma non trascurabile che a sua volta produce illegalità, perpetua disuguaglianze e moltiplica la percezione dell’assenza delle istituzioni. Uno stato delle cose che dà la sensazione di vivere in una terra di nessuno dove, come ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, si raggruppano «scarti umani», uomini e donne che per una ragione o per l'altra vengono rimossi dalla società. Un'operazione che non è però consentita a chi è costretto a vivere vicino, come il milanese della Bovisa o i romani di Tor Sapienza. Il confronto con l'immigrazione, con gli «altri», è la grande questione europea, in Italia persino ridotta per quantità di stranieri rispetto a Germania o Inghilterra. Lunedì scorso abbiamo pubblicato su La Stampa un reportage da Calais, la cittadina francese dove si ammassano i migranti del mondo nella speranza di infilarsi su treni, tir, traghetti per la Gran Bretagna. Migliaia di esseri umani allo sbando nella campagna del Nord francese, dopo che Sarkozy ha chiuso d’autorità il centro di raccolta di Sangatte dove si erano create situazioni di racket, commerci clandestini, mafie. Il problema si è così sparso nel territorio, se possibile meno controllabile. D’altra parte in Francia la rivolta delle banlieues di quasi dieci anni fa non ha trovato nessuna soluzione. Quella cinquantina di zone ad alto rischio delle periferie che vennero definite in un pamphlet «les territoires perdus de la République» restano tali, semmai in situazione ancora aggravate dalla crisi economica. In quelle «cité» non ci va nemmeno madame Le Pen a caccia di voti, sono mondi altri, pezzi di Africa, traditi prima di tutti dalla sinistra. E invece bisogna andare in tutte le Tor Sapienze d’Italia altrimenti ci va chi gioca ad alzare la temperatura, i Salvini e Borghezio della Lega, che non hanno paura di prendere le botte. Per questo ha sbagliato mille volte il sindaco di Roma Marino ad esitare tanto nascondendosi dietro i «comitati». Non c’è da farsi spaventare dalla caricatura in cui poi spesso si rigirano queste situazioni, come testimoniano i video pubblicati sui siti Internet. «Sono razzista perché con questi della pelle nera non riesco a pigliamme», dice quasi ridendo una ragazza. «Mi sento straniera, siamo arrivati al punto che le leggi ce le dobbiamo fare da soli... Qui ci vorrebbe Mussolini», aggiunge una signora. E un altro: «Che la politica stia fuori dalle palle, noi siamo la legge, noi siamo il popolo». È difficile dialogare con queste persone? Sì, viviamo in un mondo assai complicato. Ma se non si fa, anche questi diventeranno presto «territori perduti» per la Repubblica.
Corriamo ai ripari! Scrive Flavia Favilla su "La Gazzetta di Lucca". Corriamo ai ripari dal troppo buonismo, dall’indifferenza, dalla superficialità e dalla cialtroneria con cui viene amministrato questo disgraziato Paese! Corriamo ai ripari da coloro che, per nostro conto, hanno deciso di capovolgere il concetto di legalità, giustificando ogni atto criminale, delittuoso e disonesto a dispetto di chi le regole le rispetta e vorrebbe che gli altri facessero altrettanto! Corriamo ai ripari da questa massa di incompetenti e di incoscienti, che non si rende conto di quanto la gente sia stufa di vivere continuamente sotto assedio. Cittadini oramai non più liberi di camminare per le strade nemmeno di giorno per il timore di subire furti o violenze da loschi individui verso i quali, paradossalmente, un'altrettanta cospicua fetta di popolazione nutre una particolare simpatia e senso di salvaguardia e protezione. E' inutile stare a ripetere la condizione di costante e crescente pericolo che tutti noi stiamo vivendo. E a chi ha il coraggio di obiettare, suggerisco di leggersi un po' di pagine di cronaca dei giornali per sincerarsene, .. basta mezza pagina … neanche tanto .. Gli amanti dei social network li invito invece a scorrere qualche breve post per rendersi conto di quel che sta accadendo nelle nostre città ogni giorno, anche nelle più piccole …Come è altrettanto inutile porre all'attenzione altrui lo stato di degrado e di inciviltà che, oramai, fanno da padroni praticamente ovunque. Il dilemma è: come uscirne? Come uscirne, se nonostante gli umori siano comuni a tante persone, chi dovrebbe intervenire continua a fare orecchie da mercante condannando invece chi inneggia alla legalità e pretende uno Stato efficiente, presente, a fianco dei cittadini e non dei disonesti! Non ho risposta a questa domanda. Me la pongo e me la ripeto ogni giorno, ma dalla mia testa non ne esce niente di efficacie, di possibile, di attuabile, perché ogni mio pensiero, come quello di molti altri che ragionano come me, viene condannato, tacciato per razzismo, per apologia al fascismo se non addirittura al nazismo! E allora non resta che sperare, in maniera un po' vigliacca e passiva, che ci vada sempre bene.., di rimanere il più a lungo possibile immuni da questa marea di illegalità e di decadenza che sempre più ci sta divorando portandoci via dignità e aspettative. Vi pare giusto, però?
"Cosa vuol dire sinistra? Niente, meno di niente". Una lettera di Louis-Ferdinand Céline del 1933 contro ogni illusione del socialismo: "Diventeremo fascisti perché il popolo ama il manganello", pubblicata su "Il Giornale".
"Amico mio carissimo, credo in effetti non valga molto la pena insistere con i giornali intellettuali. Il vostro nome sembra fargli paura. Teniamo questo articolo per l' Hippocrate e sarà meglio per noi. Il mio sul Candide mi è valso delle serie minacce di morte, cosa che non mi sarebbe successa se avessi scelto un giornale di sinistra. La mia sola e unica preoccupazione è solo di raggiungere il maggior numero di lettori e tutto considerato preferisco quelli di destra. I lettori di sinistra sono così convinti delle loro verità marxiste che non gli si può comunicare nulla. Sono molto più chiusi che a destra. Nessun giornalaccio mi ha danneggiato più che Le Populaire in nome del «valore e della dignità umana»!!!! Le Canard Enchainé non può dopotutto esimersi dallo spargere un po' di terrore, e aspettiamocene ancora... «amici di tutti, amici di nessuno». Tutta questa gente mi disgusta, tutti quanti, sono avidi di potere e non di verità - Ipocritamente fanno passare l'uno per l'altra. Abominevole ribaltamento! Che cosa vuol dire sinistra di questi tempi? Niente - meno di niente. Andiamo verso il Fascismo, ci voliamo. Chi ci frena? Qualche dozzina di agenti provocatori ripartiti in quelle cinque o sei cricche urlanti e autofagiche? Questa sarebbe una coscienza sociale? Ma scherzate, amico mio! Non vedo (e li conosco bene) in questa sinistra mascherata che dei ridicoli o infidi velleitari snaturati di ogni ideale, per i quali il tradimento stesso non significa più nulla. Non bisogna più commettere gli errori del 71 (Riferimento alla Comune di Parigi del 1871 e al suo tentativo votato al fallimento di autogoverno operaio e popolare, ndt). Crepare per il popolo sì - quando si vorrà - dove si vorrà, ma non per questa turba odiosa, meschina, pluridivisa, incosciente, vana, alcolicamente patriottarda e mentalmente fannullona fino al delirio... Il muro dei federati non deve essere un esempio di ciò che bisogna fare, ma di quello che non bisogna più fare. Basta con i sacrifici vani, i secoli di prigione, i martiri gratuiti. Non si è più nel sublime, ma nel masochistico. Guardate cosa succede in Germania: una deliquescenza generale della sinistra. Non c'è nessuno a sinistra ecco la verità. Il pensiero socialista, il piacere socialista non è nato. Se ne parla, ecco tutto. Se ci fosse un piacere di sinistra ci sarebbe un corpo. Se diventiamo fascisti, tanto peggio. Questo popolo lo avrà voluto. Lo vuole. Ama il manganello. Non sono astioso. Sono lucido. Tutti questi esagitati socializzanti si dimenano nel vuoto, meno che i furbetti (la maggioranza) che cercano in voi nuove idee per rifarsi la facciata. Li conosco, amico mio, li conosco bene e più li conosco più li disprezzo. Appoggerebbero qualunque massacro per avere qualche consenso in più. Ah! I putridi istrioni! Può essere che giochino un ruolo ma deve essere quello del verme sul cadavere del capitale. Utile certo, indispensabile, ma nella parte più orrida del cadavere. In effetti noi siamo tutti completamente dipendenti dalla nostra Società. È essa che decide del nostro destino. Marcia, agonizzante, è la nostra. Amo più il mio stesso marcio, i miei stessi germi che quelli di quel o di quell'altro comunista. Mi trovo orgogliosamente più sottile, più corrosivo. Accelerare questa decomposizione ecco l'opera. E che non se ne parli più! Parata di morti. Che importa dopo tutto la chitarra o il timpano. Gli individui straccioni, suppuranti, che pretenderebbero di rinnovare con la loro pozione magica la nostra epoca irrimediabilmente finita, mi disgustano e mi esauriscono. Il pus gli esce da tutti gli orifizi ed eccoli che mi parlano della primavera che verrà! Noi non siamo fatti per ascoltare queste cose! A noi la morte «camerata»! Individuale! (lettera a Élie Faure, 30 maggio 1933)(traduzione di Andrea Lombardi)
LA FAVELA IN RIVA AL TEVERE.
Grand hotel della vergogna: una favela in riva al Tevere. Accampamenti fra la sporcizia a due passi dal centro. Le autorità fanno finta di non vedere e nessuno interviene, scrive Emanuela Fontana su “Il Giornale”. L'odore impregna i vestiti, la pelle, il respiro. Sono miasmi che salgono dalle radure nei canneti quasi invisibili agli occhi, dai sacchetti sudici appesi sugli alberi. Ogni sacchetto segna una latrina. La spazzatura è sgranata sui gradini che affiancano gli argini, infilata nella vegetazione fittissima, esplosa sulla pista ciclabile con disordinati resti di un'umanità disperata: reggiseni, lattine di birra, cartoni del latte. Come se una discarica avesse vomitato tutto il suo orrore fino al bordo dell'acqua. C'è una città dieci metri sotto la città, che straripa in superficie con tracce di vita da naufraghi, o da uomini topi emersi dalle viscere della terra. È il mondo nascosto e putrido che vive lungo il fiume. Nel pieno centro di Roma, un chilometro in linea d'aria dalla Cassazione, meno di tre da piazza Navona e proprio all'altezza dello stadio Olimpico, dove spumeggia il più grande divertimento della Capitale. C'è una foresta che cresce al livello del corso d'acqua. Ed è sempre più abitata. Favela Tevere. Tra il quartiere Prati e Ponte Milvio, una zona dimenticata eppure così centrale, dove un intrico di vegetazione mai domata sta divorando gli argini. Calvino avrebbe potuto ambientare qui un Barone Rampante non figlio di nobili, ma arrivato dalle fogne, che vive come uno zombie muovendosi senza vedere mai il cielo, coperto al mondo da un tetto di foglie di canne. Qui si vede Roma dal basso. Sono due i livelli degli argini sotto la strada. Il primo, la pista ciclabile. I cumuli d'immondizia raccontano della vita che si svolge poco più sotto. Le pile di rifiuti crescono ogni giorno. Passano anche le automobili, nonostante il divieto. Non c'è nessun controllo, sebbene questa sia la zona più pattugliata di Roma, durante la partite. Per scendere, bisogna affrontare la sporcizia di maleodoranti gradini, o di rampe infestate di rovi e rifiuti, che conducono sul bordo fangoso del Tevere. Il fiume che gli antichi romani consideravano un Dio ora è la pattumiera della città. Qui sotto non arriva quasi mai nessuno. Troppa sporcizia, un fetore che morde la gola, orde di insetti che sembrano portare i vapori del fango. Questo è l'inferno malsano degli uomini topi. Alle sette di sera sono tutti in giro dieci metri più sopra, sparsi nel quartiere, a caccia di elemosina e di espedienti. Stranieri di varia nazionalità, ma irreperibili per qualsiasi anagrafe, non censibili, inesistenti. I fantasmi del fiume entrano ed escono dal loro labirinto attraverso impercettibili passaggi tra i rami. Le prime tane sono due barconi in secca. Erano i battelli destinati ai viaggi sul fiume, quando il Comune pensava di trasformare Roma in Parigi. Inclinati su un lato, l'interno invaso di arbusti. Una bottiglia è appoggiata a un oblò. Le tracce sulla sabbia dell'ingresso testimoniano di un luogo abitato. La terza e la quarta sono poco distanti, due tende e un'amaca intuibili solo se si infila lo sguardo nella recinzione che chiude due ex campetti da calcio. Li aveva voluti Rutelli. Ora è impossibile entrare per chi non conosce le brecce tra i rovi. La quinta capanna è un ex bunker della Marina, che conduce a un tunnel lungo l'argine. All'imbocco della caverna di cemento sono accatastati un cuscino ormai nero, una coperta infangata, il pezzo di un cestino bianco. Un piccolo sentiero tra le piante trafitto di rifiuti è occupato da un materasso. A sinistra compare un ex casa cantoniera. Sui gradini e alle finestre, vestiti appesi, bottiglie d'olio. Si scorge un altro materasso tra i rami. Qui c'è un uomo. Sta dormendo, il grande corpo avvolto da un lenzuolo strappato. Inizia il tratto dei canneti. L'occhio si abitua agli spiragli. Scova piccole capanne erette con stracci e bambù. Tre, quattro, cinque. All'interno di un'apertura c'è un salotto: mobili da cucina, un tavolo coperto da una tovaglia a fiori. Dall'orizzonte dell'argine avanzano due uomini. Per allontanarsi bisogna correre, veloci e senza paura, circondati da buste, bottiglie, pannolini, vetri. Perché qui se si urla non sente nessuno. Qui non viene mai nessuno. È l'abisso di un'oscena favela. La Roma infernale nascosta sotto la storia.
Il Tevere è una vergogna. Relitti, baracche e sporcizia. Viaggio in barca di 8 km: il fiume è diventato il simbolo del degrado. C’è di tutto: dagli accampamenti rom ai barconi incagliati, scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. Roma ha un cuore liquido. Lo si scopre soltanto navigando sulle sue acque, su quel fiume che ne ha permesso la nascita, mitica come le leggende sgorgate dal Nilo, dal Tigri e dall’Eufrate. Ma il presente del Tevere, come di molte altri tesori della Capitale, è solo una copia sbiadita delle glorie del passato. Accampamenti con letti, divani e cucine sotto i ponti storici, relitti dimenticati sulle banchine, alberi caduti sugli argini, barconi e galleggianti sprofondati e mai rimossi, vegetazione fuori controllo che cela alla vista casette con tanto di tetto e portone, ripari di tossici e discariche a cielo aperto. Questo è il risultato del viaggio fotografico che abbiamo fatto noi de Il Tempo nei quasi 8 chilometri che separano ponte Milvio e l’Isola Tiberina con il supporto e la guida dell’associazione Acquavventura e del Circolo Canottieri Tirrenia Todaro. Su una loro imbarcazione abbiamo attraversato il cuore del Tevere e la sua eterogenea popolazione fatta di atleti, canottieri e canoisti, ma anche e soprattutto di disperati, barboni, girovaghi, venditori abusivi e punkabbestia. Il nostro viaggio comincia sulla terraferma, tra le canne che crescono incontrastate sulla riva sinistra, sotto ponte Milvio. Per entrare nell’accampamento nascosto dalla vegetazione bisogna infilarsi nel canneto che si vede dal lungotevere. Arriva una ragazza, avrà 20 anni. Ci vede, nota le macchine fotografiche, gira i tacchi e se ne va. Trascina un grosso trolley. A pochi metri di distanza il «monolocale» con giardino a due passi dalla movida: mobili in plastica, coperte, materassi, cuscini. Ci imbarchiamo. Tra ponte Milvio e ponte della Musica l’argine messo peggio è quello destro. Poco più in là uno dei simboli del degrado in cui è sprofondato il fiume di Roma. È un grosso battello danneggiato e inutilizzabile da anni, rimasto ancorato a riva fino allo scorso anno quando dopo l’alluvione di gennaio - e dopo che si è rischiata rottura degli ormeggi - è stato parcheggiato sulla banchina. Ora si erge surreale come una scenografia di Cinecittà tra la vegetazione spontanea e le reti divelte dai nuovi «ospiti», sbandati che passano la notte in questo involontario monumento all’immobilismo. Sull’altra sponda le «case» hanno pure il tetto di legno e si intravedono dei portoncini. Tre locali nascosti dalla vegetazione e accessibili solo dall’acqua. Ci avviciniamo, fotografiamo ma il canneto garantisce riservatezza. Fa capolino una testa imbiancata, ci guarda e sparisce. Tra Ponte Duca d’Aosta e Ponte Risorgimento fino a Ponte Umberto I il problema è anche quello dei detriti. Alberi caduti e mai rimossi, rami carichi di rifiuti, antiestetica e maleodorante testimonianza delle piene del fiume, piattaforme di legno e galleggianti mangiati dalle acque. C’è addirittura lo scafo rovesciato di una barca che emerge al centro del Tevere, sosta per gabbiani e monumento all’incuria. In questo tratto sorgono i circoli più prestigiosi della Capitale. Oasi felici e curate sulle sponde del fiume con piscine, solarium e piattaforme galleggianti. La concessione della Società Romana Nuoto risale al 1889, quando il Tevere ospitava gare internazionali, si praticava la pesca e l’acqua era potabile. Non solo, gli «acquaioli» la imbottigliavano e la esportavano in tutta Europa. Oggi, a pochi metri, i ripari dei disperati. Sotto i ponti più famosi di Roma, con cucine da campo e poltrone. Si contano non meno di sei accampamenti «stabili». A prima vista stranieri, dell’Est o nordafricani, ma non solo. Barboni e punkabbestia ci salutano divertiti. A pochi metri di distanza i galleggianti della polizia fluviale e dei vigili del fuoco, che hanno il dovere di tutelare il fiume dal degrado, anche ambientale (i «coloni» del Tevere non fanno la differenziata…). I «fiumaroli» più intransigenti scherzano sul galleggiante dei vigili del fuoco spazzato via dall’ultima alluvione, dopo la quale è stato necessario un ormeggio extra large: «Chi doveva andare a soccorrere quelli in difficoltà stava più inguaiato degli altri…». I detriti di tutti i barconi, ristoranti, moli e piattaforme galleggianti affondati da almeno 40 anni a questa parte sono ancora nel letto del fiume. Tutto rimane sotto, mentre il fiume scorre. Tra ponte Risorgimento e ponte Matteotti il Wwf aveva messo gli occhi sulla riva sinistra, dove andavano a nidificare numerose specie di uccelli. Dopo qualche intervento di pulizia la «riserva» è tornata a essere una piazzetta spaccio e un riparo per i tossici. In realtà la selva di competenze delle autorità chiamate a vigilare e intervenire sul Tevere non facilita i compiti. Si aggiunge il fatto che non sono previsti fondi speciali per la pulizia e la bonifica, nemmeno nel tratto più centrale. La qualità dell’acqua è migliorata negli ultimi anni grazie ai tre depuratori e alla forte riduzione degli sversamenti inquinanti. I ragazzi dei circoli canottieri ci fanno il bagno. Sembra un azzardo, forse è solo un modo per dimostrate riconoscenza al fiume. Percorrere il Tevere in canoa o su una piccola imbarcazione è come passeggiare sul corso di una città di provincia fuori dall’ora di punta. Sui ponti e sul lungotevere le auto in coda, i clacson, i torpedoni fermi al lato della strada. In acqua invece i rumori arrivano ovattati. Canoisti e appassionati di kaiak o di «rafting urbano» si incrociano, si salutano, ricevono le scuse di chi come noi de Il Tempo , passando con una barca a motore, «fa onda». Intanto, sul greto sotto Castel Sant’Angelo i venditori abusivi trovano riparo dai vigili. Qualche mese fa uno, durante il blitz del comandante Clemente, si era tuffato nel Tevere per fuggire. Lo ripescarono subito. Il sindaco Ignazio Marino proprio l’altro giorno ha detto di voler rendere navigabile il Tevere. Bene, ma prima degli annunci si faccia un giro per vedere in che stato è ridotto. Se preferisce, anche in pedalò.
Ecco le foto della vergogna che il Comune ha ignorato, scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Aveva promesso una città a misura di bambino, in campagna elettorale, il sindaco Marino. Fatevi un giro per San Lorenzo, quartiere storico di Roma, nel cui cuore vive la Sapienza, la prima università d'Italia. Quartiere abitato dagli studenti che vengono da ogni parte d'Italia per studiare nella Capitale e ricco di trattorie tipiche frequentate da turisti. Avessero saputo! La Capitale della monnezza... Un immondo immondezzaio a cielo aperto. Cominciai a segnalare la cosa al neo sindaco nel luglio dell'anno scorso. Gli inviai le foto che scattavo tutte le volte che mi capitava di recarmi a Roma, per lavoro o per piacere, alcune delle quali potete ammirare voi stessi (sono di domenica). Mai una risposta. Né da lui né da alcuno degli assessori cui quelle foto avevo inviato. Evidentemente è questa la città ove secondo Marino e secondo la sua giunta Pd al completo, devono vivere i bambini. Cassonetti immondi, maleodoranti, stracolmi. Chi li svuota quando li svuota - lascia tutt'intorno un'area che quella di un porcile è più decente. Sui cieli di Roma - amena località notoriamente balneare - volano i gabbiani: hanno trovato dove ingrassare. Sulla terra, invece, corrono i ratti. Le condizioni igienico-sanitarie sono tali che il quartiere andrebbe evacuato. Altro che Chernobyl e Fukushima. L'azienda della raccolta dei rifiuti si chiama Ama, ma il comune cittadino la odia a morte. E non dico per dire: a ristoratori e negozianti della zona cui ho chiesto come facessero a sopportare lo schifo, m'hanno risposto: «Annassero a morì ammazzati, 'sti zozzoni der Comune». Io non auguro cose così colorite, ma mi chiedo com'è che la solerte magistratura - quella che ha addebitato il reato di strage ambientale all'innocua Ilva - non ha ancora provveduto ad ammanettare nessuno né all'Ama né al Campidoglio. Le motivazioni non dovrebbero mancare, a cominciare dalla truffa, visto che i romani sborsano fior di quattrini per il servizio, e finire, appunto, con la strage ambientale.
Se Roma è invasa dai rifiuti è colpa di verdi e magistrati. Il radicalismo ambientalista fa aumentare i costi di smaltimento e l'inquinamento Intanto la Procura lascia impuniti gli amministratori responsabili dello scempio, scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Consentitemi di dire chi sono - a mio modesto parere - i principali responsabili dello scandalo-rifiuti a Roma. Il sindaco, l'assessore all'ambiente e l'azienda che si occupa della raccolta! direte voi. Mi spiace, ma non avete indovinato. Sono i Verdi e le associazioni ambientaliste, da un lato e, dall'altro la magistratura. E ora mi spiego. Quanto ai primi. Costoro per anni hanno diffuso e radicato nella mente del comune cittadino che il mondo così com'è non va e che deve essere diverso. Ogni azione che noi facciamo, dalla produzione e consumo di energia e, attraverso un lungo elenco che vi risparmio, fino, appunto, alla gestione dei rifiuti, deve avvenire in un modo che autoreferenzialmente hanno chiamato «virtuoso», ma che di fatto è il più inefficiente, costoso, deleterio per salute e ambiente, che ci sia. Per esempio, aver detto no alla produzione elettrica da nucleare e da carbone, ha avuto come conseguenza l'aumento vertiginoso delle tariffe di energia, la conseguente stretta di cinghia sugli usi di questo bene- fondamentale per la produzione di beni e servizi - che ha comportato la chiusura di aziende e il loro trasloco verso Paesi non dissanguati dal racket verde, con aumenti di disoccupazione e crisi generalizzata. E veniamo ai rifiuti. Sono rifiuti e basta, ma ce li hanno venduti per anni come risorsa, che va differenziata e riciclata. Addirittura, quel fesso di Grillo va urlando nei suoi comizi che i rifiuti vanno venduti. A chi e a che prezzo, non è dato sapere. Il risultato è che le nostre città sono sommerse da cassonetti il cui numero è decuplicato. Fateci caso: nella vostra città, qualunque essa sia, ci sono più cassonetti che panchine. Il loro svuotamento comporta il passaggio multiplo di mezzi, con aumento vertiginoso dei costi e dell'inquinamento. Chi prende il differenziato gode delle sovvenzioni pubbliche, senza le quali - contrariamente a quel che favoleggia Grillo - quell'attività neanche esisterebbe. Altro che vendere rifiuti: chi se li accolla vuole (giustamente) essere pagato. I rifiuti solidi urbani vanno inceneriti, come si fa ovunque nel mondo. E la Germania? Il Paese che sarebbe il «modello» del presidente di Legambiente? Il Paese ove i Verdi vanno forte? Andranno pure forte, ma oltre a servirsi del nucleare e a produrre la metà della loro energia elettrica dal carbone, inceneriscono alla grande i rifiuti. Quelli propri (i condomìni, in Germania, hanno, a gruppi, il proprio inceneritore) e anche quelli nostri, di noi italiani che, fessi (ma fessi col botto), ci siamo lasciati incantare dalle sirene ambientaliste, e non abbiamo capito che è, quello ambientalista, un vero e proprio racket, in tutto e per tutto uguale a quello della camorra. E veniamo alla magistratura. Che c'entra direte voi. Orbene, a proposito dello sconcio immondo di Roma, la notizia è questa: in seguito alla denuncia del Codacons, la magistratura ha aperto un'inchiesta. Ma, leggo dalla stampa, «senza ipotesi di reato né indagati». Dunque, fatemi capire signori delle Procure. Roma è sommersa dai rifiuti (basta farsi un giro o, se si vuole stare col sedere incollato alla poltrona, basta guardare le foto), per il cui ritiro i cittadini pagano la profumata tariffa che Comune e Ama pretendono. Come minimo vi sarebbe il reato di appropriazione indebita. E poi quelli di interruzione di pubblico servizio, attentato alla salute pubblica, strage ambientale. E poi, scusate ancora, com'è che «non vi sono indagati»? L'assessorato romano competente si chiama «all'Ambiente e ai rifiuti». E il presidente dell'azienda preposta alla raccolta, come giustifica il suo ricco stipendio? A me, umile cittadino, sembra che, infatti, più che indagarli si sarebbe dovuto passare alle misure previste per la flagranza di reato. Peraltro reiterato, visto che, com'è stato scritto da più parti, le denunce per la vergognosa situazione procedono da almeno un anno (posso testimoniare, in proposito). Il vostro comportamento, signori della Procura, fa emergere spontaneo, inevitabile, il sospetto di una qualche connivenza: troppe volte avete arrestato gente poi rivelatasi innocente, come mai lasciate che siano «intoccabili» palesi colpevoli? Ecco questo è quel che sovviene nella mente di un comune cittadino.
GLI ZINGARI SONO I VERI PADRONI DI ROMA.
Salvini vs Papa Francesco: "Sui bus di Roma si dice Occhio agli zingari? Chissà perché". E sul web è bufera, scrive “Libero Quotidiano”. "Papa Francesco si lamenta perché, quando lui prendeva l'autobus a Roma e salivano degli zingari, gli autisti dicevano ai passeggeri "Attenti al portafoglio". Chissà come mai...". Il numero uno della Lega Matteo Salvini replica così a Papa Francesco che giovedì 5 giugno, parlando ai cappellani dei rom nel corso di un incontro nella Sala Clementina organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, aveva parlato di "disprezzo" nei confronti dei rom. "Forse è vero, ma è disprezzo" aveva aggiunto il Pontefice. Salvini ha quindi aggiunto sempre nello stesso post: "Caro Pontefice, con tutto il rispetto che ti è dovuto, io comunque dico... buon lavoro agli autisti!". Bufera su facebook - Subito dopo la pubblicazione del post il web si è scatenato e i commenti sulla pagina facebook di Salvini si sono sprecati: "Se li tenga nel Vaticano se li vuole", è la sintesi delle reazioni al leader della Lega. "Se gli zingari vengono disprezzati è evidente che se lo meritano. Io li insulto sempre quando li trovo ai semafori (cioè sempre)". "Rispetto il Pontefice, ma faccio presente che molti rom oltre che rubare minacciano e se je rode te la menano pure. E non venitemi a dire che sono pecorelle smarrite", scrive un altro utente. "Se gli zingari sono ladri mica è colpa dell'autista che avvisa la gente", aggiunge di risposta un altro. E infine: "Iniziasse a occuparsi dei preti pedofili anziché interessarsi di tutte le cose che non lo riguardano"; "Gli zingari sono persone inutili"; "Papa Francesco si è scordato il settimo comandamento, non rubare. Con tutto il rispetto che gli è dovuto io dico che mi ha rotto i cog...ni". E infine:"Gli zingari sono una vera piaga dell'umanità, rifiutano persino l'idea del lavoro in quanto fatica e il loro unico scopo di vita è parassitare non disdegnando il furto". E infine: "Ormai questo papa non è il vescovo di Roma ma dei rom".
MOLESTIE E BORSEGGI. UNA GUIDA SPIEGA ROMA. Mentre sono noti, e raccontati anche con la giusta enfasi, i pregi della capitale, sulla guida "Lonely Planet", una delle più famose al mondo, vengono anche elencate quelle che sono le criticità della capitale, scrive “Il Tempo”. Con un linguaggio semplice e diretto, tipico di questa guida (che, per la città di Roma è stata stampata nell'aprile 2006), vengono riportati i consigli per chi nella Città Eterna non c'è mai stato. A cominciare da quelli relativi ai borseggiatori. «Roma non è una città pericolosa - sottolinea la guida - ma ci sono i borseggiatori. Indossate la vostra cintura porta-soldi sotto i vestiti. State attenti a gruppi di donne e bambini che hanno un cartone: lo usano per distrarvi mentre vi rubano il portafogli, con una velocità impressionante. Se venite presi di mira da un gruppo attraversate la strada oppure urlate "Va via", con un tono di voce alto e arrabbiato. Fate attenzione agli autobus affollati (il 64 è famoso), alla metro (scegliete gli ultimi vagoni, che sono meno affollati) e i mercati affollati». E ancora: «State attenti se qualcuno danneggia lo specchietto dell'auto: vi potrebbero rubare l'orologio mentre sporgete in fuori il braccio. Le auto parcheggiate, soprattutto quelle con targhe straniere, sono tra i primi obiettivi dei ladri. Cercate di lasciare sul sedile un giornale italiano e scegliete parcheggi custoditi». Indicazioni particolari vengono riservate alle donne: «Roma non è una città_ pericolosa per le donne - si puntualizza - ma le ragazze sole potrebbero trovarsi a fare i conti con le attenzioni non desiderati degli uomini, soprattutto nei pub e nelle discote. Evitate di camminare da sole la notte e per strade di poco frequentate. Fate anche attenzione, sugli autobus affollati (in particolare il 64), alle mani vaganti degli uomini. In questi casi conviene urlare "che schifo". La «Lonely Planet» non promuove i taxi: «State attenti: sono costosi, e se ne chiamate uno, il tassametro inizia a scattare dal momento in cui effettuate la chiamata, e non quando vi salite». Problemi anche per chi viaggia in auto, secondo la guida turistica. «Guidare a Roma - spiega - è quasi come suicidarsi, e parcheggiare è un incubo. Guidate solo se non avete altra scelta». F. M.
I rom “padroni” di Roma. Alla Stazione Termini: «Tu chiami i carabinieri? Io vengo a casa tua…», scrive Desiree Ragazzi su “Il Secolo d’Italia”. Cronaca quotidiana di zingari in azione. Rubano, scippano e minacciano. A Roma, grazie alle coccole di Ignazio Marino, fanno il bello e il cattivo tempo. Non si limitano a sfilare il portafoglio al distratto turista che transita alla stazione Termini (e già su questo punto ci sarebbe molto da dire) ma braccano le persone, le seguono e le intimidiscono se queste si rifiutano di soddisfare le loro richieste. E tutto ciò accade sotto gli occhi di impotenti controllori Atac e poliziotti. E che non si tratti di una leggenda metropolitana lo testimonia il racconto di una lettrice di un blog. Laura, così si firma, ha descritto con dovizia di particolari un’esperienza per nulla rassicurante che ha vissuto qualche giorno fa, appunto alla stazione Termini. «Accompagnata un’amica in partenza – scrive – scendiamo giù per prendere la metro per tornare a casa. Imbocchiamo le scale mobili dal lato di via Marsala e scendendo il mio compagno dice di aver dimenticato la tessera a casa facendo cambio portafoglio prima di uscire. Poco male, ci avviciniamo alla macchinetta e lì veniamo letteralmente accerchiati da tre ragazzini e due adulti, ovviamente rom. Una delle ragazzine insiste: “Dammi moneta di resto, dammi moneta di resto”. Il mio compagno, alquanto urtato dice: “Dammi lo dici a casa tua, io non ti devo dare niente. Ora lasciami in pace e vai via”. Bè, che dire, nel giro di sue secondi siamo stati accerchiati dai due adulti che con aria stizzita ci dicono: ” Perché tu trattare male bambina, tu bambina non parli così… Dai i soldi a bambina”». Ma la storia non finisce qui. Perché di fronte al rifiuto di sottostare alla richiesta e alla minaccia di rivolgersi ai carabinieri, la reazione dei rom esplode in tutta la sua virulenza. «La tizia – scrive ancora Laura – si avvicina e tra i denti sibila: “Tu chiami carabinieri? io seguire ora te, io vedere dove stai! Io venire a casa tua!”. E nel sottofondo si sente la bambina che dice “tanto non mi potete fare niente, tanto non mi potete fare niente!”». E la storia non è finita qui, perché da quello che narra la ragazza emergono altri fatti alquanto inquietanti. Il controllore dell’Atac di fronte alle rimostranze dei due allarga le braccia in segno di impotenza e lo stesso fanno alla Polfer. «La guardia – scrive ancora Laura – si limita a fare un cenno di assenso e dire “noi non possiamo fare nulla, potete provare con la polizia al piano di sopra”. Mentre ci giriamo per tornare su, una delle tizie ci fa il classico gesto mimando un coltello che taglia la gola. A quel punto a me tremano le gambe e non riesco più a parlare, cercavo di convincere il mio compagno ad andare via e lui invece continua a salire. Alla Polfer, raccontiamo tutto e si limitano a fare spallucce dicendo che hanno le mani legate e non possono fare nulla. Ci dicono che ne hanno arrestati una decina quel pomeriggio e che più di un collega è stato denunciato perché li ha mandati via in malo modo. Dicono che molti poliziotti hanno richiesto il trasferimento perché a quanto pare, la tecnica della minaccia è diventata abbastanza comune, con risultati ottimi. Hanno perfino paura di andare lì e cacciarli fuori dalla stazione perché dicono che vengono minacciati. Io, cittadina romana, non mi sento più a casa mia. Siamo avviliti e delusi». Ecco gli effetti della “cura” Marino.
Sempre più cattivi (e strafottenti). Autista e controllori Atac aggrediti da immigrati senza biglietto a Termini Le zingarelle alla vigilessa picchiata: morta di fame, noi sì che facciamo i soldi, scrive Maria Grazia Coletti su “Il Tempo”. Autisti e controllori Atac aggrediti. Forze dell’ordine prese a calci e pugni e minacciate di morte come la pluripicchiata, plurinsultata e plurisputata Claudia Macri, maresciallo 46enne della polizia locale di Roma Capitale del I Gruppo, diventata il simbolo della lotta (vana!) alle borseggiatrici rom minorenni in azione alla fermata metro Piazza di Spagna . Tutti si arrogano il diritto di prenderci a sberle. E a casa nostra. Che siano nomadi, zingarelle 13enni, o immigrati, la musica non cambia, lo racconta la cronaca. Ieri in pieno giorno, a mezzogiorno, sono stati tre nigeriani, un uomo e due donne (che una volta messe alle strette, per impietosire il personale Atac, si sono spacciate per incinte) ad aggredire un controllore Atac, usandogli contro i carrelli. E per tutto il tragitto da piazza della Repubblica a Termini sul bus di linea 170. E questo solo perché aveva osato chiedergli il biglietto (e loro non ce l’avevano). Alla stazione poi è stato picchiato anche un ispettore capo intervenuto. Solo i carabinieri in moto, del Nucleo Radiomobile, hanno riportato la calma, fermando gli stranieri. Il giorno prima, l’altro ieri, venerdì pomeriggio, erano state tre zingare, invece, ad entrare in azione contro un autista Atac della linea 105 alla fermata di Porta Maggiore. L’oltraggio da fargli pagare? Aver loro chiesto di lasciare i passeggini carichi di ferraglia alla fermata di Porta Maggiore. L’arsenale poteva essere un pericolo per i passeggeri, tra frenate e sobbalzi nel traffico di Roma. Loro non hanno sentito ragioni. Hanno carta bianca. «Tanto non ci potete fare niente» è stata questa la sintesi, nella risposta beffarda del gruppo di sei zingarelle fermate due sabato fa, dall’implacabile vigilessa, il maresciallo Macri. Così hanno detto a lei che il 6 agosto era stata quasi massacrata davanti ai binari, da un gruppetto di ragazzine, sempre alla fermata metro Piazza di Spagna. Otto giorni fa, invece, le aveva fermate dopo il furto di 500 euro sottratti a due sposini ventenni coreani «lei era pure incinta» racconta. Poi aveva trovato le ragazzine. Le aveva perquisite. E aveva ritrovato la refurtiva. «460 euro e soldi russi, arrotolati tra le "chiappe", proprio lì - spiega Macri - ecco perché non voleva togliersi le mutande». Poi, dopo le minacce di morte («mi ricordo la tua faccia, quando sei senza divisa ti ammazziamo» aveva già raccontato Macri), le ragazzine sono passate allo sfottò. «"Sei una poveraccia" mi hanno detto mentre aspettavamo i rinforzi in superfice, in vicolo del Bottino, "tu fai questo per 50 euro, noi ne abbiamo fatti 20 volte di più da stamattina rubando" si vantavano». Non si sono fermate nemmeno davanti alle dottoresse del San Giovanni, sbeffeggiate e additate come «lesbiche». «Non si volevano spogliare - racconta ancora Macri - e alle dottoresse che dovevano visitarle per capire che età avessero davvero, perché loro hanno dichiarato falsamente di essere 13enni, hanno detto: "ma che siete lesbiche ?", "noi non siamo lesbiche!"». A queste ragazzine hanno rubato l’infanzia e l’adolescenza, addestrandole come macchine. «Però fanno paura - dice la vigilessa -, perché sono consapevoli che al massimo si faranno qualche giorno in un centro di accoglienza per minori da cui fuggiranno». E di nuovo sulla strada. Come il maresciallo Macri dopo le botte. Ormai la riconoscono da lontano. «Vedono la divisa che indosso anche quando rincaso, perché mi piace e ne vado orgogliosa» spiega. E giù nuovi insulti. Anche tre giorni fa. «Le ho riviste in metropolitana e mi hanno gridato "stronza", "puttana"». Ma i romani sono solidali con lei. «"Signora" mi hanno detto: "non so come fa a stare così calma..."» continua a raccontare, sottolineando il cambiamento: «una volta - dice - ci avrebbero goduto a sentire insultare un vigile urbano, oggi non è più così». È una sfida anche per il sindaco Ignazio Marino. Ha espresso «solidarietà» ai controllori dell’Atac aggrediti da persone, ha detto «che non credono nel rispetto della legalità». «Questa è una cittá ospitale, che accoglie, che vuole funzionare meglio e dare opportunità di vita a tutti - è stata la premessa, seguita dall’altolà: «ma sarà durissima e severissima con chiunque si permette di infrangere la legge, di aggredire qualcuno che sta svolgendo il proprio lavoro per migliorare la cittá». «Questi comportamenti - ha detto ancora Marino - non saranno tollerati e chiederó alle forze dell’ordine di intensificare presenza e severità, che vanno insieme all’accoglienza che può avvenire solo all'interno della legalitá», ha concluso.
«E la polizia mi disse: cara cronista può perquisire lei la zingara ladra? «Lei sarebbe disposta a perquisire queste ragazzine?». Esordisce così, il carabiniere in servizio, rivolgendosi a chi scrive, dopo il fermo di due minorenni di etnia rom, scrive “Loredana Di Cesare” su “Il Tempo”. «Lei sarebbe disposta a perquisire queste ragazzine?». Esordisce così, il carabiniere in servizio, rivolgendosi a chi scrive, dopo il fermo di due minorenni di etnia rom. «Non abbiamo donne in questo turno che possano effettuare una perquisizione». Siamo alla stazione della metro Lepanto di Roma. Sono le 19,30 ed è un venerdì. Il quartiere Prati è semi deserto: la città si sta velocemente spopolando per il fine settimana. Il tempo di una sigaretta, una confidenza con un’amica prima di separarci in direzioni opposte della metro A, e assistiamo al fermo di due ragazzine, subito dopo un borseggio. Dalle scale della fermata della metropolitana sale un signore sulla quarantina, tiene strette per i polsi due ragazzine. Nessuno di loro è italiano. Lui - scopriamo dopo qualche minuto - viene dal Belgio. Loro, intuiamo subito, sono rom. Il turista, che parla inglese, si rivolge a un signore non molto distante da noi, che sta smanettando con il suo Ipad: gli dice che le due bambine gli hanno rubato il portafogli, chiede di chiamare la polizia. La vittima è paonazza e in preda alla rabbia. Le baby borseggiatrici tranquille: sembrano sicure di uscirne impunite. Sono davvero molto piccole. Non hanno più di 12 anni. Ci guardano, stiamo riprendendo la scena con il telefonino e una delle due, la bimba bruna con la coda di cavallo, ci urla: «Perché mi stai riprendendo?». Nel frattempo l’altra, con la pelle più chiara e un turbante colorato, che le raccoglie i capelli castani, cerca di divincolarsi dalla presa del turista belga. Si avvicina altra gente. Tutti aspettano l’arrivo delle forze dell’ordine. Nell’attesa, decidiamo di scendere nella stazione di Lepanto, in cerca del personale preposto alla vigilanza. Deserto. Non c’è più un’anima che controlli ciò che accade nella metropolitana. Passano i minuti, risaliamo, ma la scena è sempre quella: il turista belga muto e deciso, che tiene per i polsi le due rom, che a loro volta sono ormai esauste. Poi il suono delle sirene. Arrivano due volanti: una della polizia e l’altra dei carabinieri. Un poliziotto ancor prima di scendere dalla volante dice: «Sono minorenni, vero?», con un’espressione tutt’altro che stupita. Il turista belga le consegna nelle mani di un’agente. Interviene anche il signore con l’ipad: consiglia alle ragazzine di restituire i soldi rubati per chiudere la vicenda bonariamente. Le bimbe insistono: «Non abbiamo rubato niente». Una chiede: «Quanto dice che abbiamo rubato?». «Dice 50 euro» risponde il signore con l’Ipad. «Tutta questa storia per 50 euro», ribatte sicura la bimba con il turbante colorato. Il turista belga precisa in inglese: «Non sono 50 euro. Mi hanno rubato 250 euro». E a questo punto cala il silenzio. Che spezziamo con una domanda: «Visto che sono minorenni, come si procede in questi casi?». Uno dei carabinieri risponde: «In questi casi c’è l’identificazione. Se hanno commesso altri furti le tratteniamo, altrimenti le riportiamo dalle famiglie, o da chi esercita la patria potestà. Abbiamo le mani legate e il borseggio non è un reato grave». Ma il punto è un altro: c'è anche bisogno di perquisirle. E la situazione precipita nello stallo totale: è necessario che a farlo sia una donna. A bordo della volante della Polizia, che sta effettuando il fermo, donne non ce ne sono. Nella volante dei carabinieri, invece, una donna c’è: il collega poliziotto le chiede se può perquisire le due ragazzine. Può sembrare una decisione da poco. Ma non è così. La donna chiama la caserma, chiede l'autorizzazione, ma le rispondono che no, non può perquisirle, perché il suo turno non lo prevede. Inizia una discussione tra le pattuglie: bisogna trovare una donna. Il carabiniere ci guarda e, con assoluta naturalezza, dice: «Che problema c’è? Può farlo lei». Trasecoliamo. Nessuno ci ha mai proposto di perquisire una bambina. Spiegano che è una prassi, prevista dal codice di procedura penale, ma ci pare violento doverle frugare, perché se anche avessero rubato, restano comunque due bambine. Se bisogna perquisirle, con tutte le cautele necessarie, lo faccia chi ne ha il dovere. «Può perquisirle lei», dice il poliziotto. Voi cosa avreste fatto? Chi vi scrive s’è allontanata: «No», abbiamo risposto, «non possiamo».
Borseggiatori in azione durante il cambio di passeggeri nei vagoni, scrive “Il Tempo”. Sono le ore 9,00 del mattino di un lunedì qualunque. Alla fermata Lucio Sestio mancano cinque minuti all'arrivo del treno. La banchina è strapiena e a ogni minuto la folla raddoppia. A causa della presenza di borseggiatori, l'altoparlante invita i passeggeri a prestare attenzione. «Ma come facciamo a stare attenti se i vagoni sono talmente pieni che nemmeno riusciamo a muoverci», commenta una signora a cui il problema dei furti non suona affatto nuovo. «Per ben due volte mi hanno derubata mentre andavo al lavoro - prosegue la donna - e anche a mia figlia una volta le hanno sottratto il telefonino dalla borsa mentre andava a scuola. Viaggiare in metro è diventato davvero un rischio». Si aggiunge alla conversazione anche un anziano signore che racconta di quando a un amico di suo nipote gli hanno rubato il portaspicci: «Con un taglierino gli hanno aperto la tasca dello zaino che portava sulle spalle e gli hanno preso il portamonete. Per fortuna aveva solo pochi euro», dice con aria irritata. Alle ore 9,05 arriva la metro. I vagoni sono strapieni. Qualcuno inizia a spingere puntando la spalla sulla schiena di qualche malcapitato che è riuscito a guadagnarsi un posto sull'orlo della porta. Qualcun'altro rinuncia a salire e aspetta il prossimo treno. E qualcun'altro ancora borbotta agli altri passeggeri di farsi più avanti. Quasi nessuno scende. Alle ore 9,30 siamo a Termini. Qui il caos raggiunge il suo apice: la metro viene attraversata da due flussi contrari, uno che entra e uno che esce. Questa è la situazione ideale in cui i manolesta entrano in azione: «È quando la gente si accalca per salire o scendere dai treni che avvengono la maggior parte dei furti - spiega un controllore della stazione Termini - a oggi la situazione ha raggiunto livelli davvero allarmanti: ci vengono segnalati una cinquantina di borseggi al giorno». Nel mirino dei ladruncoli ci sono soprattutto portafogli, fotocamere e telefonini. «Qualunque oggetto di valore può essere una possibile preda dei manolesta, ma sicuramente il primo bersaglio sono i portafogli - afferma il controllore - gli autori dei furti sono soprattutto stranieri; in particolare romeni, polacchi e albanesi. E poi ci sono gli zingari, che reclutano addirittura i loro bambini, consapevoli del fatto che non possono essere arrestati. I ragazzini sotto i quattordici anni non sono imputabili, quindi, se colti in fragrante, al massimo vengono portati nelle comunità per minori dalle quali facilmente scappano». Le principali vittime dei manolesta sono i turisti e gli anziani. La disattenzione, nel primo caso, e la fragilità fisica, nel secondo, fanno di queste due categorie le più soggette in assoluto ai furti. «Gli anziani non riescono a bloccare chi scappa correndo con i loro portafogli e i turisti sono spesso troppo distratti per accorgersi che qualcuno gli sta infilando le mani in borsa - dicono al gabbiotto dei controllori a Termini - i ladri di solito operano in coppia: uno controlla la situazione e l'altro agisce. Quindi, sui vagoni o nelle banchine, i passeggeri devono assolutamente diffidare da chi, in qualsiasi modo, cerca di distrarli, o da chi, con la scusa della ressa, gli sta troppo addosso. Inoltre, consigliamo alla clientela maschile di non tenere portafogli od oggetti di valore nelle tasche posteriori o laterali dei pantaloni e a quella femminile di fare bene attenzione alle borse, soprattutto di stoffa: anche se sono ben chiuse, possono essere aperte da sotto con i taglierini».
Nomadi, sono 20 anni che ci fregano i portafogli. Ogni giorno una trentina di zingare colpiscono sui treni della metropolitana. Il loro bottino è di migliaia di euro. Vigilantes impotenti, cittadini inferociti, scrive Vincenzo Bisbiglia su “Il Tempo”. Una vera e propria banda del borseggio, formata da ragazzine rom tutte minorenni (o presunte tali), che da almeno 12 anni terrorizza i passeggeri della Metro A fra borseggi e furti. E che si organizza addirittura in turni, per poi ingrossare le file durante il fine settimana e nei giorni di festa. Con un giro di soldi spaventoso. A rivelarlo sono state due guardie giurate della Italpol, che abbiamo incontrato durante il nostro giro mattutino lungo le fermate «calde» della metropolitana, alla ricerca della girl-gang in salsa romanì. Secondo quanto raccontato dagli agenti che prestano servizio sulle banchine della linea A alla stazione Termini, nei giorni feriali la banda conterebbe sulla presenza di ben 32 ragazzine, che diventerebbero addirittura 48 nel weekend, quando c’è più «lavoro». Il che significa presenza di turisti (americani e giapponesi su tutti) e portafogli pieni di contante per lo shopping. «Non possiamo fare nulla – racconta una delle guardie – Soltanto se le cogliamo in flagrante possiamo denunciarle, poi però dopo qualche giorno ce le ritroviamo di nuovo tutte qui a fare su e giù dai treni». Il «lavoro» delle giovani nomadi inizia da vent’anni sempre alle 9. Anche se la squadra da noi pedinata s’è data ada fare dalle 8.20. L’appuntamento per quasi tutte è alla fermata di Termini, ma alcune si incontrano anche a Manzoni e a San Giovanni. Si dividono in gruppetti di 5-6, vestite non come una volta (ampie gonne, abiti lisi) ma come normalissime teen-ager. Poi partono all’attacco, prediligendo i convogli semiaffollati, poco dispersivi ma con qualche libertà di movimento. I loro gesti sono sempre gli stessi: entrano tutte insieme sul treno spingendo anche un po’, poi una fa finta di prendere qualcosa nella sua borsa per nascondere la mano, ma in realtà prova a rovistare velocemente in quella dell’ignaro passeggero, sperando di acchiappare direttamente il «pesce grosso». Se il colpo non riesce, le ragazze restano sul treno e scendono alla fermata successiva; al contrario, o comunque se notano presenze «sospette» intorno a loro, bloccano la porta e riscendono velocemente, attraversando il corridoio di uscita e riversandosi sulla banchina in direzione opposta. Si tratta di un sistema ben collaudato, con le «pickpocket» che fanno la spola fra le diverse stazioni intorno a Termini: San Giovanni-Termini-SanGiovanni, Manzoni-Repubblica-Vittorio Emanuele-Manzoni, Termini-Spagna-Termini. Alla stazione Vittorio Emanuele riusciamo a parlare con una delle ragazze, la più «esperta» del gruppo. «Allora, quanti portafogli avete fatto oggi?». Lo sguardo si fa sospetto: «Oggi ancora niente – balbetta lei – siamo arrivate da poco e non è semplice. Però a Capodanno abbiamo lavorato tanto, è andata molto bene». È evidente che l’aria di impunità e il fatto di essere stati scoperti come giornalisti, o per lo meno come non poliziotti, abbatte i falsi pudori. «I portafogli? Li buttiamo via, mica siamo sceme». E poi racconta: «Noi veniamo da Pomezia. Siamo pendolari pure noi», afferma sorridendo. Arriva la polizia, se ne infischiano e continuano a puntare i polli da spennare. A volte, però, anche queste «ragazzine terribili» sbagliano. A metà mattinata in troppe si ritrovano a Termini, ne contiamo circa 15. Un passeggero, evidentemente un habitué della linea, grida: «Attenti ai portafogli! Ammazza quante so’ oggi, stanno tutte qua, ve siete scatenate». Alcune riescono a salire sul treno in arrivo, altre vengono riprese da un signore che in napoletano le minaccia: «Venite qui se avete coraggio». È un poliziotto in borghese, che riesce a radunarne un gruppetto per provare a identificarle. Così scopriamo che si tratta di un business su cui le giovani rom investono anche dei soldi: «Fanno il biglietto giornaliero – confida il poliziotto – spendono 4 euro e stanno qui tutto il giorno. Se non troviamo portafogli o documenti di qualcun altro, ci sarà poco da fare». Proprio qui torna quanto mai interessante il racconto del vigilante , che tra lo sfogo e l’indignazione,conferma quanto ci hanno detto le giovani ladre: «Stanno qui da 12 anni – afferma – le ho viste crescere. La madre insegna alla figlia. Le ho identificate una per una, so quante sono e come si muovono». Non solo «non le fanno niente», ma c’è addirittura chi le difende: «Ci è anche capitato che le becchiamo mentre salgono sulla metropolitana: magari per fermarle siamo costrette a strattonarle per un braccio, e puntuale arriva il buonista di turno, una pecora nera rispetto al resto dei passeggeri inferociti». Il giro d’affari è alto. Ogni sera,a fine turno, riveniamo decine di portafogli, ovviamente vuoti, buttati tra i binari dalle ragazzine in fuga. E il rischio è che la situazione peggiori visto che la vigilanza sotto le stazioni della metropolitana sta per diminuire. Di guardie giurate sulle banchine ne abbiamo viste in realtà soltanto alla stazione Termini, mentre il resto dell’area «calda» è risultata essere del tutto scoperta. Così come i treni. «E fra poco non ci saremo nemmeno più noi – avverte l’agente – Entro il mese di gennaio dovrebbero toglierci da qui. Dicono che il servizio costa troppo. Forse resta soltanto qualcuno su a controllare che nessuno entri senza biglietto, anche se in realtà non controlla nessuno». Appena due giorni fa le forze dell’ordine esultavano per l’arresto della «regina dei borseggi» sulla Metro A». Una rom di 37 anni che derubava almeno 15 passeggeri al giorno e che ha «collezionato» 7 anni e 9 mesi di reclusione ancora da scontare. Ma oggi la stessa linea è assediata da chi quel «business» lo porta avanti con numeri vergognosi. Le istituzioni e il nuovo questore sono avvertiti. I passeggeri lo sanno già.
LA ROMA BENE VA A BABY SQUILLO.
Vip e 4 nuove baby squillo. Ecco la nuova inchiesta. A breve la chiusura delle indagine del filone di viale Parioli. La procura indaga su un altro giro di piccole lucciole, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. Stanno arrivando i primi patteggiamenti. Sta arrivando la conclusione delle indagini. Decine di clienti si stanno preparando ad ascoltare una sentenza di condanna o assoluzione. Gran parte delle persone coinvolte nell’inchiesta sulle baby squillo dei Parioli sono in «attesa», aspettano il «verdetto finale». Ma c’è invece chi non si è affatto fermato, che non sta aspettando nulla. Anzi. Sta lavorando giorno e notte dopo aver sollevato un coperchio sulla prostituzione minorile lo scorso ottobre, quando sono finite in cella spacciatori, presunti sfruttatori e genitori delle ragazzine di 14 e 15 anni che venivano pagate anche 300 euro per ogni prestazione sessuale con adulti. Ma chi sta continuando a tenere la lente d’ingrandimento puntata su questo fenomeno? Sempre la procura di Roma e i carabinieri che da mesi stanno interrogando testimoni, indagati, stanno effettuando pedinamenti, intercettazioni e analisi dei tabulati telefonici. Sì, perché proprio da questo lavoro cominciato dopo la denuncia di una mamma disperata, gli inquirenti si sono trovati a dover aprire un ulteriore filone d’indagine parallelo a quello già avviato dopo la scorsa estate. E che ha portato a sollevare un altro coperchio sul mondo delle baby squillo nella Capitale. Cioè su altre quattro minorenni che si prostituirebbero a Roma, sempre con professionisti, con clienti in grado di pagare centinaia di euro per avere un rapporto sessuale con ragazzine che non hanno 18 anni. Ecco su cosa sta lavorando, dunque, la procura di Roma, che da una parte sta quasi chiudendo il filone d’inchiesta principale, scaturito dalle indagini su ciò che accadeva nell’abitazione di viale Parioli, dall’altra, invece, su altre baby prostitute e clienti vip. E proprio tra i «vecchi» frequentatori delle minorenni dei Parioli, è spuntato il nome del marito del parlamentare Alessandra Mussolini, Mauro Floriani. Insieme a lui sul registro degli indagati, un’altra ventina di clienti, che, secondo la magistratura, hanno pagato per rapporti sessuali con le due studentesse. E comunque, per quanto riguarda il primo filone d’indagine, nella «lista nera» ci sono altri clienti di viale Parioli, che per ora non sono indagati, ma sui quali gli investigatori stanno continuando a svolgere indagini su tabulati telefonici, sms e intercettazioni per capire se sapevano o meno che le ragazzine erano minorenni. Proprio il marito della Mussolini, che si è presentato dagli investigatori spontaneamente per poter essere ascoltato, ha affermato di non aver mai avuto rapporti sessuali con le minorenni e avrebbe anche spiegato perché sui cellulari delle studentesse ci fosse il suo numero di telefonino. Floriani, dunque, avrebbe già chiarito la sua posizione. La sua versione, però, non avrebbe convinto gli inquirenti, tanto che anche lui è finito sul registro degli indagati. Comunque, per gli inquirenti, ci sono «elementi probatori incontrovertibili» a carico degli clienti delle due baby squillo dei Parioli, accusati di prostituzione minoreli. Reato che prevede una pena da uno a sei anni. La stessa che è prevista, infatti, per i possibili clienti delle baby prostitute che si sarebbero fatte pagare come quelle di viale Parioli e sulle quali adesso c’è la lente d’ingrandimento della magistratura romana. Un altro possibile scandalo che potrebbe a breve investire la Capitale e far finire nel mirino della procura altre ragazzine disposte a tutto per avere il denaro per comprare abiti e cellulari di ultima generazione.
Baby squillo ai Parioli, le tappe della vicenda. Il Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma arresta 5 italiani con l’accusa di aver avviato alla prostituzione due ragazzine (15 e 14 anni). Finisce in manette anche la mamma di una delle due ragazze, accusata di essere a conoscenza dell’attività della figlia.
31 ottobre 2013. Interrogatori di garanzia per gli arrestati. La madre di una delle due ragazzine nega: «Non ho mai venduto la mia bambina. Io lavoro sodo come barista». Identificati 5 clienti che rischiano il carcere.
10 febbraio 2014. La madre di una delle due vittime e uno degli altri indagati (Marco Galluzzo, accusato dalla procura di aver ceduto droga durante gli incontri con le minori) vengono scarcerati. La donna ha il divieto di incontrare la figlia.
28 febbraio 2014. La storia delle baby squillo dei Parioli, purtroppo, fa proseliti. A Ventimiglia due minorenni vengono salvate da un cliente. Interrogate hanno dichiarato di essersi ispirate alle due coetanee di Roma.
Baby squillo, trema la Roma bene. Nell'indagine sul giro di squillo minorenni a Roma sono stati individuati 40 'clienti', 20 sono indagati, 10 hanno chiesto il patteggiamento. Rischiamo una condanna da 6 mesi a un anno. Indagato anche il marito della Mussolini: su di lui secondo la procura ci sono "elementi incontrovertibili", scrive “Rai News”. Non è ancora conclusa l'inchiesta sulle ragazzine che si prostituivano a Roma in un appartamento ai Parioli e spuntano nuove prove e nomi celebri tra gli indagati. Sono infatti 40 i clienti identificati, tra vip e volti noti. Di questi venti sono indagati e dieci hanno chiesto di patteggiare la pena e rischiano da sei mesi a un anno di reclusione. Tra gli indagati c'è anche il marito della deputata Alessandra Mussolini, Mauro Floriani. Secondo la Procura di Roma sono "incontrovertibili" gli elementi che dimostrerebbero gli incontri a pagamento con le baby squillo dell'ex ufficiale della Guardia di Finanza e attuale dirigente di Trenitalia. Le intercettazioni telefoniche, le ricognizioni fotografiche e i tabulati hanno portato il nome di Floriani nel registro degli indagati nell'inchiesta scoppiata nell'autunno scorso. È stato lo stesso Floriani, sapendo che il suo numero poteva essere finito nelle intercettazioni, a presentarsi spontaneamente dai carabinieri nelle settimane scorse affermando di non aver mai avuto rapporti con le adolescenti. I magistrati di piazzale Clodio hanno proceduto lo stesso alla sua iscrizione nel registro degli indagati. In totale sarebbero stati individuate circa 40 persone che hanno avuto incontri sessuali a pagamento con le due ragazzine nell'appartamento dei Parioli. Di questi, però, solo per una ventina si è proceduto all'iscrizione in base agli elementi che in queste settimane di indagine sono stati raccolti. Molti dei clienti coinvolti si sono recati spontaneamente dagli inquirenti per tentare di chiarire la loro posizione. "Non sapevamo che fossero minorenni", la spiegazione fornita al procuratore aggiunto Maria Monteleone e al sostituto Cristiana Macchiusi. Una decina di frequentatori dell'appartamento del quartiere a nord della Capitale hanno intenzione di patteggiare la pena: rischierebbero una pena dai sei mesi ad un anno. Con l'identificazione dei clienti la Procura di Roma si avvia a chiudere la prima tranche dell'inchiesta che ha portato all'arresto di sei persone tra cui anche la madre di una delle due ragazzine.
Un giorno sono andata su Google e ho scritto 'fare soldi facili' e poi ho risposto a un annuncio", scrive “Rai News”. Così è cominciata la storia di una delle due studentesse romane che, dalla scorsa primavera, si prostituivano in un appartamento ai Parioli messo a disposizione da Mirko Ieni. "Credo che lui sapesse che ero minorenne e si serviva di questo per aumentare il numero dei clienti potenzialmente interessati a fare sesso. Guadagnavo molti soldi, anche 5-600 euro al giorno, di cui una piccola parte la giravo a lui per l'affitto della stanza". La ragazzina, che compirà 17 anni il prossimo ottobre, collegata in videoconferenza con l'assistenza di un avvocato e di uno psicologo, ha negato il coinvolgimento di altre minori, oltre alla sua amica, 15 anni, che verrà sentita mercoledì dal giudice. "Ho iniziato perché avevo voglia di fare molti soldi, fino a 600 euro al giorno. Non mi sono fatta mancare nulla, quello che guadagnavo lo spendevo per acquistare vestiti di marca e telefonini". Nella storia anche il caporalmaggiore dell'esercito. Nunzio Pizzacalla, secondo l'accusa, avrebbe indotto lei e l'altra sua amica minorenne a prostituirsi nell'appartamento ai Parioli "procacciando clienti, mantenendo la contabilità e impartendo disposizioni sulle tariffe". Per l'accusa, però, il militare avrebbe anche sfruttato la prostituzione di ragazze maggiorenni e indotto una delle baby-squillo a produrre foto e video in pose sexy per procacciare clienti. "Pizzacalla non credo di averlo mai visto - ha detto la minore al gip -. So che è venuto a Roma due volte per incontrarmi ma mi sono rifiutata. Del resto, alla fine mi ero creata un mio giro di conoscenze e quindi anche a Ieni giravo qualche soldo ma non gli dicevo tutto quello che facevo". Quest'ultimo, secondo il capo di imputazione, deve rispondere anche della cessione di stupefacenti e della commercializzazione del 'servizio' sul sito web 'bakecaincontri'". I clienti. Sono cinque i clienti delle baby prostitute indagati e comparsi in aula nell'ambito dell'incidente probatorio durante il quale è stata sentita una delle due minorenni coinvolte. Si tratta di un primo gruppo identificato di persone che si recavano nell'appartamento dei Parioli per gli incontri con le baby squillo. La Procura è ancora al lavoro per identificare altri clienti. La ragazza sentita ha parlato di altri soggetti, pur non essendo in grado di indicarne i nomi e i luoghi di residenza. Al commercialista Riccardo Sbarra è contestato non solo di aver avuto rapporti con le due minorenni, ma anche di aver detenuto e ceduto materiale pedopornografico. C'è poi il cliente Mario Michael De Quattro che risponde anche di un episodio di tentata estorsione (definito inesistente per la difesa), per aver cercato di farsi dare 1.500 euro dalla più grande delle due minorenni, dopo aver videoregistrato un incontro a loro insaputa e dietro la minaccia di diffondere il filmato. La madre dell'altra minorenne. C'è poi al vaglio del Gip la posizione della madre dell'altra minorenne, arrestata a fine ottobre insieme agli altri per induzione alla prostituzione, e quella dell'imprenditore Marco Galluzzo che avrebbe ceduto cocaina in cambio di prestazioni sessuali. A completare la lista ci sono tre clienti indagati a piede libero per aver avuto rapporti sessuali con le ragazzine. "Non potevano sapere che quelle due erano minorenni", è la versione dei loro difensori.
Baby squillo, Floriani si difende: "Ho incontrato la ragazza, non sapevo fosse minorenne". Il manager ai pm di Roma: "Sono arrivato alla ragazza attraverso l’annuncio che aveva messo sul sito Bakecaincontri. Lì specificava di avere 19 anni e io credevo fosse la verità", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Il suo numero è quello che compare più spesso nei contatti telefonici degli indagati con le prostitute minorenni dei Parioli, secondo quanto emerge dalle indagini della procura di Roma. Si conferma difficile la posizione di Mauro Floriani, dirigente di Trenitalia ed ex ufficiale della Guardia di Finanza, uno dei venti presunti clienti delle due ragazzine coinvolti nell’inchiesta. Tra gli altri ci sarebbero personaggi facoltosi, diversi professionisti, forse alcuni nomi noti che finora non sono emersi. E gli accertamenti sulla vicenda non sono ancora conclusi. Floriani è stato sentito nei giorni scorsi dai pm. Accusato di prostituzione minorile, è andato di propria iniziativa dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, coadiuvata dal sostituto Cristiana Macchiusi. Avrebbe cercato di chiarire la propria posizione di fronte ai magistrati di Roma: "È vero, sono stato con lei un paio di volte, ma certamente non immaginavo che avesse 15 anni". E ancora: "Sono arrivato alla ragazza attraverso l’annuncio che aveva messo sul sito Bakecaincontri. Lì specificava di avere 19 anni e io credevo fosse la verità". Ma non li ha convinti. La contestazione è stata formalizzata e le indagini sono ormai alle battute finali. Nei giorni scorsi dalla procura si era parlato di "dati incontrovertibili": il manager avrebbe avuto diversi incontri nella casa del quartiere "bene" dei Parioli con la più grande delle due minorenni, 15enne all’epoca dei fatti, lo scorso anno. "A che ora ci vediamo domani?", aveva detto al telefono alla ragazzina secondo un’intercettazione inserita nell’ordinanza d’arresto di Mirko Ieni, l’organizzatore del giro di prostituzione minorile. L’utenza telefonica di Floriani sarebbe quella che compare più frequentemente nei contatti con le due adolescenti. L’indagine ieri ha portato a un nuovo provvedimento d’arresto nei confronti di Ieni, già ai domiciliari. Si è scoperto che in un altro appartamento in zona Vescovio l’uomo sfruttava anche due ragazze maggiorenni, di 19 anni. E filmava alcuni rapporti sessuali con clienti a loro insaputa, forse con l’intenzione di ricattarli. Potrebbe essere un nuovo filone d’inchiesta.
"Diversi uomini sono andati via dopo aver visto le ragazzine e compreso che si trattava di giovanissime - spiegano i pm capitolini - difficile credere che invece lui (Mauro Floriani, ndr) non se ne fosse accorto". Nella lunghissima lista delle baby squillo dei Parioli ci sarebbero anche altri volti noti. Tra questi anche il figlio di un parlamentare del centrodestra che potrebbe essere interrogato già nei prossimi giorni. "Anche lui è stato intercettato mentre prendeva appuntamento con le giovani - spiega Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera - agli atti c’è la prova degli incontri avvenuti, anche dei soldi versati per le prestazioni sessuali". E ancora: il vicecapo del Dipartimento Informatica di Bankitalia Andrea Cividini, alcuni funzionari della Fao e almeno un manager della Ernst & Young.
Baby squillo dei Parioli, non solo il marito della Mussolini: intercettate anche utenze dell'Onu, scrive “Libero Quotidiano”. "Elementi probatori incontrovertibili" gravano sulla posizione di Mauro Floriani, marito della parlamentare Alessandra Mussolini, indagato per prostituzione minorile nell’ambito dell’inchiesta della procura di Roma sulle due studentesse che si prostituivano in un appartamento ai Parioli. Già ufficiale della Guardia di Finanza, Floriani fa parte di una lista di venti clienti (su 40 complessivamente identificati dai carabinieri) iscritti nel registro degli indagati sulla base di una serie di accertamenti investigativi (intercettazioni telefoniche, esame dei tabulati dei cellulari e riconoscimenti fotografici). Floriani ha già chiarito la sua posizione, presentandosi spontaneamente ai carabinieri nei giorni scorsi e spiegando perchè il suo numero di telefono sia tra quelli finiti nelle intercettazioni. La sua versione, però, non pare aver convinto più di tanto gli inquirenti. Ma non c'è solo Mauro Floriani tra i clienti 'vip', iscritti nel registro degli indagati della procura nell’ambito dell’inchiesta sulle baby squillo dei Parioli. Alcune utenze intercettate, ma non ancora indagate, rivela il Corsera, risultano in uso a multinazionali come Ernst&Young e Kpmg o agenzie dell'Onu come il il Fondo internazionale per lo sviluppo dell'agricoltura. E poi ci sono altri nomi di soggetti di una certa notorietà che sono finiti all’attenzione dei carabinieri e dei magistrati che procedono per il reato di prostituzione minorile. La loro posizione sta per essere definita dalla procura ma, intanto, alcuni dei clienti hanno già avanzato una richiesta di patteggiamento della pena, sperando di poter chiudere la questione in camera di consiglio davanti al gip, senza troppa pubblicità negativa. Quando il caso delle due studentesse che si prostituivano in un appartamento ai Parioli divenne di pubblico dominio, diversi clienti, a partire dallo scorso autunno, decisero di presentarsi spontaneamente ai carabinieri o in procura per spiegare di avere avuto rapporti a pagamento con le ragazze senza però immaginare che avessero meno di 18 anni. Il reato di prostituzione minorile è punito con la reclusione da uno a sei anni, ma chi patteggia, tenuto conto dello sconto di pena per la scelta del rito e dello stato di incensuratezza, potrebbe cavarsela anche con una condanna a pochi mesi. In attesa di completare i riscontri su questa lista di clienti, il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il pm Cristiana Macchiusi a breve concluderanno il filone principale dell’indagine, quello che lo scorso ottobre portò in carcere cinque persone, tra cui la mamma di una delle baby squillo.
«Io, giornalista sospettato non c’entro con questa storia». Il cliente vip sospettato di far parte dell’inchiesta sulle ragazzine dei Parioli spiega che del giro di prostituzione minorile non ne sa niente, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. «Non so nulla di baby squillo». Poche parole, pronunciate con una voce serena. Il giornalista che sarebbe sospettato di far parte dell’inchiesta sulle baby squillo dei Parioli spiega che del giro di prostituzione minorile non ne sa niente. «La vicenda la conosco perché l’ho letta sui giornali e l’ho ascoltata dai telegiornali - ha detto - ma più di questo non so che dire. Io non sono coinvolto in nulla di nulla - continua il giornalista nato nel nord Italia e trasferito a Roma - neanche lontanamente». In base alle indagini della procura di Roma, nella lista di clienti delle due ragazzine di 14 e 15 anni che per alcuni mesi si sono prostituite in un appartamento di viale Parioli, ci sarebbero, oltre al marito della Mussolini Mauro Floriani, anche altri uomini «vip», tra i quali avvocati, manager e dirigenti d’azienda. Alcuni sono già finiti sul registro degli indagati, altri invece sono ancora sotto la lente d’ingrandimento dei carabinieri che stanno esaminando tabulati telefonici, intercettazioni, sms e interrogatori di indagati e persone informate sui fatti. Per adesso, infatti, i clienti iscritti sul «modello 21» sono una ventina, mentre la posizione di altrettanti sono ancora in corso di accertamenti degli investigatori. Ma chi sono i clienti che sono finiti, in un modo o nell’altro, nel fascicolo della procura di Roma? Persone che hanno un’età compresa tra i 19 e i 60 anni, tutti benestanti, considerando anche le cifre che sborsavano per avere un rapporto sessuale con le ragazzine minorenni: dai 100 euro per pochi minuti ai 1000 euro per una giornata intera. Cifre che soltanto professionisti possono permettersi, tanto che a dimostrazione della disponibilità economica dei clienti, ci sono anche pedinamenti e appostamenti da parte dei militari, che hanno ripreso e fotografato anche le vetture che usavano per raggiungere la casa dei Paioli: nella maggior parte dei casi auto di lusso e di grossa cilindrata. Ecco l’identikit dei clienti: romani, calabresi, napoletani, siciliani, africani e sardi. È lunga la lista di clienti delle due baby squillo dei Parioli che hanno fatto scoppiare la maxi inchiesta romana che ha portato all’arresto dei «protettori». Agli atti degli inquirenti, infatti, ci sono tutti i nomi di chi ha avuto rapporti sessuali a pagamento con le due ragazzine. Gli investigatori, infatti, li hanno pedinati, fotografati, hanno segnato orari di ingresso e uscita dall’appartamento di viale Parioli. Conoscono in alcuni casi anche quanto hanno pagato il rapporto sessuale grazie alle intercettazioni telefoniche. In base a quanto è stato messo nero su bianco dagli investigatori che dallo scorso luglio indagano sul giro di baby escort della Roma bene, in quella stanza, dove sarebbero avvenute anche orgie, ci sono entrati uomini di tutte le età e nazionalità. Bastava che rispettavano il «tariffario» dettato dai protettori, e che partiva minino da 100 euro per pochi minuti. Agli atti dell’inchiesta ci sono anche i nomi di alcune prostitute adulte che avrebbero avuto come protettori gli stessi uomini che gestivano gli incontri delle minorenni. I clienti pagavano centinaia e centinaia di euro per avere rapporti con le ragazze, a volte erano disposti a sborsare anche migliaia di euro: il prezzo variava in base alle prestazioni e al tempo da trascorrere insieme alle baby squillo. Dalle carte in mano agli inquirenti, ci sono persone anche di 19 anni, fino a uomini di quasi 60 anni. Alcuni sarebbero partiti da Napoli e Caserta, altri da Catania, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Cagliari, Frascati, Marino, Fiano Romano e Anguillara. E a gestire gli incontri sempre le stesse persone. Nelle numerose carte ci sono anche i nomi delle prostitute maggiorenni che avevano deciso di far gestire gli incontri ai protettori. Gli inquirenti sono arrivati a identificare chi incontrava le ragazzine anche attraverso le sim card dei cellulari delle minori. All’interno del telefono, infatti, le liceali in alcuni casi avevano memorizzato il numero sotto un nome inventato o con un diminutivo. A volte addirittura con il quartiere dal quale proveniva il cliente: Trastevere, Parioli, Salario. Oppure nella rubrica i clienti erano segnati con un numero o un aggettivo: cliente 5, 6 e 10, oppure «amore». Alcuni clienti avrebbero anche chiesto l’età alle baby squillo, che avrebbero risposto di avere 18 anni. Altri, invece, una volta entrati nella casa a luci rosse, avrebbero deciso di andare via senza avere rapporti sessuali forse spaventati dalle facce da ragazzine delle prostitute. Intanto va avanti anche la seconda inchiesta che è partita indagando sulle baby squillo dei Parioli. In questa sarebbero coinvolte altre ragazze e altri clienti. E ad arrivare a queste altre prostitute, anche alcuni video che sarebbero stati acquisiti agli atti dai carabinieri, nei quali ci sarebbero, appunto, altre ragazze pronte a tutto piuttosto di avere soldi facili.
Contro il marito della Mussolini foto, video e intercettazioni. Roma, accusato di prostituzione minorile con le 14enni dei Parioli. Lui nega i rapporti, ma i pm: “Elementi probatori incontrovertibili”, scrivono M. Corbi e A. Pitoni su “La Stampa”. Quando ha capito che non c’era altra scelta, che i nomi dei clienti delle baby squillo dei Parioli erano sul tavolo della Procura di Roma, ha deciso di parlare. E non è stato facile per Mauro Floriani, ex finanziere, dirigente di Trenitalia, affrontare la moglie Alessandra Mussolini, prima di presentarsi spontaneamente dai carabinieri per ammettere i contatti telefonici con le due adolescenti negando, però, di avere avuto qualsiasi genere di rapporto intimo con loro. Giorni di tempesta e dolore a casa della Mussolini, con la senatrice Pdl che fino a ieri ha creduto al fatto che il contatto con le minorenni fosse solo un incidente isolato e senza altre, più gravi, implicazioni. Lei a spingerlo a raccontare agli inquirenti la sua versione. Sperando che la cosa potesse bastare. Si è sfogata in famiglia, con le amiche più care, la Mussolini, ricordando la propensione del marito a crearle imbarazzo. Come quando, dopo aver collaborato con Antonio Di Pietro all’epoca dell’inchiesta Enimont, lasciò la divisa da finanziere per assumere l’incarico di responsabile amministrativo di Metropolis, la società che gestiva il patrimonio immobiliare delle Ferrovie di Stato guidata da Lorenzo Necci, presidente Enimont proprio all’epoca in cui Floriani indagava sulla maxitangente. La Mussolini, sempre al suo fianco, a difenderne le scelte, anche quando le si obiettava che il curriculum non era all’altezza della super carriera che ha percorso fino ad oggi. Ma adesso le cose sembrano cambiate. Lei, sempre pronta a metterci la faccia, ieri si è chiusa in un addolorato e ostinato silenzio. Forse pensando alle sue due figlie, la più grande non ancora 19anne, che come tutte le ragazzine vedono il padre come un eroe. Ieri la Mussolini ha dovuto fare i conti con le parole del procuratore aggiunto Maria Monteleone e del pm Cristiana Macchiusi che hanno iscritto il marito, nonostante i chiarimenti, nel registro degli indagati, spiegando che a suo carico ci sarebbero «elementi probatori incontrovertibili». Intercettazioni telefoniche, ricognizioni fotografiche e analisi dei tabulati inchioderebbero Floriani alle sue responsabilità. Per Floriani come per gli altri venti indagati l’accusa è di prostituzione minorile. In tutto i clienti identificati grazie alle utenze rintracciate sui tabulati dei telefonini delle due ragazze sono quaranta. Molti di loro hanno raccontato di essersi tirati indietro una volta scoperta l’età delle baby prostitute. Solo in venti però sono sembrati credibili anche in base ai riscontri effettuati sui telefoni e attraverso le riprese video-fotografiche. Per gli altri, tra cui Floriani, si va avanti con le indagini. In dieci avrebbero già chiesto il patteggiamento e, se fosse accolto, rischierebbero una condanna da sei mesi ad un anno. Sicuramente il modo più indolore per uscire dall’inchiesta e da un possibile processo che li esporrebbe a pene più severe e all’inevitabile clamore. Un lavoro enorme quello svolto dai carabinieri del nucleo investigativo che hanno esaminato la provenienza di migliaia di chiamate arrivate sui cellulari delle baby squillo. Molte partite da utenze intestate a società sparse in tutta Italia, altre dal telefono di donne all’oscuro di tutto, mogli, amiche, sorelle. E adesso la caccia è ai nomi dei vip presenti in questa lista di 20 uomini indagati dalla Procura per prostituzione minorile. Il nuovo filone d’inchiesta che si intreccia a quello principale che, lo scorso ottobre, ha portato all’arresto di cinque persone, tra cui la madre della più piccola delle baby squillo. A inchiodare i clienti alle loro responsabilità non solo i tabulati telefonici, ma soprattutto i racconti agghiaccianti delle due ragazzine. Le due amiche hanno parlato a lungo dei loro clienti, riconoscendone molti, anche se non in grado di indicarne i nomi reali. I fatti contestati, secondo l’accusa, sarebbero avvenuti tra il luglio e l’ottobre 2013. Una delle adolescenti, ribadendo le accuse al suo sfruttatore, Mirko Ieni, ha detto davanti al gip: «Sapeva che ero minorenne e lo usava per avere clienti». Quindi la giovane età era non solo nota ma una qualità di attrazione della clientela, un moltiplicatore di business. Come dimostrerebbero anche gli sms transitati sulla linea di Riccardo Sbarra, il commercialista arrestato: «Tu mi piaci e poi mmm hai amichette giovani io adoro le lolitine...».
Filmati i rapporti con le minorenni. L’ipotesi del ricatto a luci rosse. Roma, un messaggio inguaia il marito della Mussolini:”Ci vediamo domani”, scrivono M. Corbi e A. Pitoni su “La Stampa”. Una donna distrutta, Alessandra Mussolini, chiusa nel suo dolore, con il conforto di mamma Maria Scicolone e dei figli. Travolta dalla storiaccia delle baby squillo in cui sarebbe coinvolto suo marito, che da ieri si è arricchita di un nuovo capitolo. I carabinieri del Nucleo investigativo di Roma, guidato dal colonnello Lorenzo Sabatino, hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare (ai domiciliari) a Mirko Ieni, il 39enne considerato dagli investigatori tra gli organizzatori del giro dei Parioli, per sfruttamento della prostituzione di altre due 19enni, cessione di stupefacenti (anche alla sorella 16enne di una delle due) e interferenza illecita nella vita privata per i rapporti sessuali filmati all’insaputa delle ragazze e dei clienti. Per farne cosa? Armi per possibili ricatti? Domande cui gli inquirenti dovranno dare una risposta. Un nuovo torbido fronte. Sullo sfondo la vita insieme di Alessandra Mussolini e Mauro Floriani - un amore iniziato da quindicenni – spazzato via dalla più terribile delle accuse. «Non ci posso credere, sono distrutta», avrebbe ripetuto agli affetti più cari. Giorno dopo giorno si rende conto di avere a che fare con una vicenda ben diversa da quella confessata a lei, e poi ai carabinieri, dal marito quando ha capito che non poteva rimanerne fuori. «Ti giuro non ho mai avuto rapporti con le minorenni», avrebbe assicurato lui, che da qualche giorno sarebbe uscito da casa. I particolari dell’inchiesta che riguardano il marito della senatrice Pdl escono con la cadenza e la ferocia di una goccia in una tortura cinese. Ieri quel brandello di conversazione che l’ex finanziere, oggi manager di Trenitalia, avrebbe avuto con una delle due minorenni: «A che ora ci vediamo domani?». Ma non è il solo elemento che lo lega alle baby squillo nei faldoni che hanno portato la procura ad indagarlo (con altri 20 clienti). La frase, estrapolata da una conversazione più lunga al cellulare, costituirebbe una delle prove che Floriani fosse un cliente abituale di almeno una delle due minorenni che, tra l’altro, lo avrebbe riconosciuto in foto. In altre conversazioni intercettate, Floriani parlerebbe anche con gli sfruttatori delle ragazzine. Tra cui lo stesso Ieni. A Piazzale Clodio, nell’ufficio del procuratore aggiunto Maria Monteleone, titolare dell’inchiesta sulle baby squillo con il sostituto Cristiana Macchiusi, regna il più stretto riserbo. A parte Floriani, dei circa 40 sospetti clienti, solo in pochi (4 o 5 al massimo) sarebbero al momento a conoscenza del procedimento (per prostituzione minorile) a loro carico. Per essersi, come il marito della Mussolini, presentati spontaneamente in Procura, consapevoli che anche i loro numeri di cellulare sono finiti al vaglio degli inquirenti. Solo uno degli indagati ha avanzato richiesta di patteggiamento, altri 3 o 4 avrebbero manifestato analoga intenzione. Nella speranza, riduzione della pena a parte (da 6 mesi ad 1 anno anziché da 1 a 6 anni), di limitare il clamore mediatico. Tutti gli altri, invece, non sanno ancora di essere indagati. Dei circa 40 clienti, inoltre, circa venti non sarebbero stati ancora identificati. Gli accertamenti proseguono proprio per fare luce sull’identità di chi parlava o messaggiava con le due baby prostitute dei Parioli da quel lungo elenco di utenze, intestate a società o a persone all’oscuro della vicenda, non riconducibili direttamente ai clienti. Accertamenti che richiederanno ancora tempo, mentre a stretto giro inizieranno le convocazioni degli indagati per la notifica degli avvisi di garanzia e gli interrogatori. Come pure è atteso a breve l’avviso di chiusura delle indagini per il filone principale dell’inchiesta che, ad ottobre scorso, ha portato all’arresto di cinque persone. Tra loro, anche la madre di una delle due baby squillo.
Sesso con la 15enne, Floriani ammette. Il marito della Mussolini: “Ma ignoravo la sua età”. Tra i clienti anche il figlio di un parlamentare, scrivono M. Corbi e A. Pitoni su “La Stampa”. Tra i clienti «eccellenti» delle baby squillo ci sarebbe anche il figlio di un parlamentare. Il suo nome, come quello degli altri circa 40 uomini coinvolti, è ancora tenuto top secret. Anche se presto potrebbe aggiungersi, insieme agli altri, a quello già noto di Mauro Floriani, l’ex capitano della Guardia di Finanza, manager Trenitalia, e marito di Alessandra Mussolini, per la quale ieri molti colleghi parlamentari hanno invocato il diritto a essere tenuta fuori da questa vicenda. Ma le notizie che escono non fanno sperare, per adesso, nel ritorno della tranquillità per la coppia. Sembrerebbe infatti che nell’interrogatorio, spontaneamente richiesto, Floriani abbia ammesso davanti al procuratore aggiunto Maria Monteleone e al sostituto Cristiana Macchiusi, di avere avuto due rapporti con una delle due ragazzine, sostenendo però di non essere a conoscenza della sua minore età. Dichiarazioni che non hanno convinto gli inquirenti che hanno continuato a cercare tra i tabulati, nelle intercettazioni, nelle dichiarazioni delle due adolescenti la prova che i clienti, e tra questi Floriani, fossero, invece, consapevoli di avere di fronte solo delle ragazzine. E comunque spetta agli indagati e ai loro legali dimostrare che erano all’oscuro di essere di fronte a minorenni. «A che ora ci vediamo domani?», disse al telefono Floriani alla ragazzina più grande (15 anni all’epoca dei fatti). Una lista di nomi che scotta e a cui si sta lavorando incessantemente perché i riscontri da fare sono molti e complessi. Specialmente sulle utenze intestate a società o, comunque, non direttamente riconducibili ai clienti. Ancora una ventina le persone da identificare. Nei tabulati telefonici elaborati dai carabinieri del nucleo investigativo spuntano utenze riconducibili ad aziende importanti come la Kpmg, società di consulenza, che ha sede ai Parioli, la Ernst&Young, l’International Fund for Agricoltural Development, agenzia dell’Onu, e persino il comune di Casale Monferrato. Intanto continuano le indagini anche per quanto riguarda l’ipotesi dei ricatti, sia ai clienti che alle prostitute. Un video è stato trovato nei file cancellati del computer di Mirko Ieni, uno degli sfruttatori, destinatario due giorni fa di una nuova ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari. Un filmato che sarebbe stato girato con un telefonino all’insaputa delle persone riprese e per il quale Ieni è accusato anche del reato di interferenza illecita nella vita privata. Tra i messaggi intercettati ce ne sarebbe uno che racconta della richiesta di 1500 euro avanzata, da una terza persona, a una delle due ragazzine dietro la minaccia di mandare ai suoi genitori un video compromettente. Mentre nei prossimi giorni dalla Procura partiranno gli avvisi di garanzia e gli inviti a comparire nei confronti dei clienti già identificati, a breve dovrebbe arrivare l’avviso di chiusura delle indagini per il filone principale dell’inchiesta che lo scorso ottobre ha portato all’arresto di 5 persone tra le quali lo stesso Ieni e la madre di una delle due baby squillo. Molti i messaggi di solidarietà ad Alessandra Mussolini. Da Fabrizio Cicchitto a Renato Schifani e Maurizio Sacconi, dalla senatrice Simona Vicari, sottosegretario allo Sviluppo economico al segretario del Psi, Riccardo Nencini, al leader dei Moderati Giacomo Portas, eletto alla Camera nelle liste del Pd. «È davvero indecente il trattamento che riceve Alessandra Mussolini per quello che è attribuito al marito», scrive il leader della Destra Francesco Storace. «I giornali la lascino in pace». È intervenuto anche il Garante della Privacy che ha invitato, sia pur nel legittimo esercizio del diritto-dovere di cronaca, a non di «ledere la riservatezza e la dignità dei familiari dell’indagato, specie se minori».
Il marito di Mussolini e la minorenne «Credevo avesse 19 anni». Ma i giudici non credono alla versione di Floriani: «Impossibile non accorgersi dell’età delle ragazze». Identificati il funzionario di Bankitalia e il figlio di un parlamentare, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. «È vero, sono stato con lei un paio di volte, ma certamente non immaginavo che avesse 15 anni». Così, di fronte ai magistrati di Roma, Mauro Floriani ha cercato di scrollare da sé l’accusa grave di aver sfruttato una minorenne. Non è bastato. La contestazione è stata formalizzata, le indagini sul suo conto sono ormai alle battute finali. Il marito dell’onorevole Alessandra Mussolini è inserito in una lista di clienti delle ragazzine dei Parioli - Aurora e Azzurra si facevano chiamare - nei confronti dei quali sono già stati effettuati numerosi riscontri. Tra loro c’è anche il figlio di un parlamentare del centrodestra che dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni. E poi il vicecapo del Dipartimento Informatica di Bankitalia Andrea Cividini, alcuni funzionari della Fao, almeno un manager della società di revisione Ernst & Young. I carabinieri del nucleo operativo della capitale coordinati dal colonnello Lorenzo Sabatino hanno raccolto le informazioni sul loro conto incrociando i tabulati telefonici delle due giovani prostitute, intercettando le conversazioni, effettuando pedinamenti. Poi hanno trasmesso tutti i dati al procuratore aggiunto Maria Monteleone e al sostituto Cristina Macchiusi. Floriani si è presentato in Procura per essere interrogato sperando probabilmente di evitare che il suo nome potesse trapelare. Già dallo scorso ottobre, dopo aver messo sotto i controlli i telefoni delle ragazzine, i carabinieri avevano captato la sua voce e annotato gli appuntamenti presi con la quindicenne. Tutti gli incontri sono avvenuti nell’appartamento di viale Parioli. «Arrivo a quest’ora, va bene?», chiedeva prima di presentarsi. Il suo contatto era diretto, cioè non mediato dagli sfruttatori. Lo ha confermato lui stesso ai magistrati: «Sono arrivato alla ragazza attraverso l’annuncio che aveva messo sul sito “Bakecaincontri”. Lì specificava di avere 19 anni e io credevo fosse la verità». Era accompagnato da un legale e ha mostrato un atteggiamento collaborativo, sia pur negando la propria consapevolezza riguardo all’età e in particolare al «giro» che si celava dietro quel «post» inserito su Internet già dalla primavera scorsa. La sua versione non ha però convinto i magistrati, anche perché i tabulati telefonici dimostrano che i contatti sono stati diversi. La frequentazione della casa da parte di Floriani era cominciata alcuni mesi prima, almeno da luglio. E soprattutto, evidenziano gli inquirenti «diversi uomini sono andati via dopo aver visto le ragazzine e compreso che si trattava di giovanissime. Difficile credere che invece lui non se ne fosse accorto». È questa circostanza ad aver fatto scattare la contestazione. E tra qualche settimana potrebbe già arrivare il provvedimento di chiusura delle indagini che precede la richiesta di rinvio a giudizio. I clienti della baby squillo sono decine e decine, soltanto ventidue quelli già indagati. Tra loro c’è anche il figlio di un parlamentare che nelle prossime ore riceverà un avviso a comparire. Anche lui è stato intercettato mentre prendeva appuntamento con le giovani e agli atti c’è la prova degli incontri avvenuti, anche dei soldi versati per le prestazioni sessuali. Elementi «certi» secondo gli inquirenti sono stati raccolti pure nei confronti di imprenditori, professionisti, gli impiegati che più volte incontravano le ragazze, talvolta organizzando gli appuntamenti nelle proprie abitazioni oppure in alcuni hotel. A far scattare i controlli è stata la denuncia presentata dalla madre della quindicenne lo scorso agosto. Subito dopo i pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto l’intercettazione dei cellulari delle due ragazze e grazie a questo tipo di verifiche sono riusciti a «incastrare» svariati clienti. Altri sono stati rintracciati attraverso l’analisi dei semplici tabulati e in questi casi si sono resi necessari maggiori controlli, anche perché non sempre l’intestatario dell’utenza era il reale utilizzatore: alcuni numeri sono intestati a donne risultate totalmente estranee all’inchiesta, probabilmente parenti di chi invece era un cliente più o meno abituale. Nel fascicolo processuale ci sono numerosi video girati dai carabinieri. Documentano il pedinamento delle ragazze e dei loro sfruttatori mentre si incontrano in viale Parioli e poi si muovono per andare dai clienti. Ma mostrano anche numerosi uomini mentre varcano il portone dopo aver ottenuto l’appuntamento. E sono proprio questi filmati una delle prove «incontrovertibili» delle quali ha parlato il procuratore Monteleone. Ben diversi sono invece i video girati con il telefonino da uno degli sfruttatori che, questo è il sospetto degli inquirenti, potrebbero essere stati utilizzati per ricattare i clienti. Riprese effettuate di nascosto, talvolta con la complicità delle ragazze che però hanno poi negato di essere consapevoli. Anzi. «Lo abbiamo saputo soltanto dopo», hanno raccontato ai magistrati. Senza però essere credute.
Baby squillo, Mussolini in lacrime: «Cosa posso dire? Sono distrutta». Suo marito rischia quattro anni di carcere, scrive Cristiana Mangani su “Il Messaggero”. Un filo di voce. «Cosa posso dire? Sono distrutta». Alessandra Mussolini risponde al telefono per un secondo, e si sente chiaramente che piange. Lei, la pasionaria della politica, sempre in prima fila a battagliare, è ora la vittima inconsapevole dell’uomo con il quale ha praticamente passato tutta la vita: l’ex capitano della Finanza, Mauro Floriani, suo fidanzato dai tempi della scuola e poi marito. Dal giorno in cui Floriani è finito nell'inchiesta sulle baby squillo, il matrimonio è andato in frantumi. Da più di una settimana lui ha dovuto fare i bagagli, e ha preso un appartamento non molto lontano da quello della famiglia. Alessandra, invece, ha trovato protezione dalla mamma, Maria Scicolone, dove si è trasferita non appena la notizia è diventata pubblica. Con lei ha portato anche i tre figli, Caterina, Clarissa e Romano, suo principale pensiero in questi giorni di sofferenza. «Devo pensare a loro, devo proteggerli», ha detto alle poche persone che sono riuscite a parlarle. Di grande conforto sembrano essere state le parole di zia Sofia Loren dall'America, che la chiama tutti i giorni. Da sempre Alessandra è la nipote preferita, quella che le somiglia tanto e ha il suo stesso carattere. In questi giorni, il cellulare è squillato sempre a vuoto. Poi un attimo la voce risponde. Ne è passato di tempo da quando ha deciso di sposare quel fascinoso ufficiale delle Fiamme gialle. Era il 28 ottobre del 1989 a Predappio. Sette anni dopo le nozze, Floriani ha cambiato lavoro. Una scelta che, all'epoca, ha scatenato mille polemiche per alcuni conflitti di interesse. Alessandra lo aveva difeso: «Ora teniamo famiglia, abbiamo una figlia. Avremmo dovuto lasciarla crescere con una madre che sta sempre in giro a far politica e un padre sballottato continuamente da una caserma all'altra dell'Italia? Eh no, signori miei: abbiamo avuto l'occasione di mettere a posto le cose e non ce la siamo fatta sfuggire». La procura di Roma ha iscritto Floriani per prostituzione minorile, e potrebbe rischiare - qualora le contestazioni nei suoi confronti venissero definitivamente accertate dai magistrati - fino a 4 anni di carcere. Decisiva la Convenzione di Lanzarote, ratificata in Italia nel 2012, sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale. Una ratifica voluta fortemente dalla moglie in Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Perché meravigliarsi, quindi, se ora non è scesa in campo, lancia in resta, per difendere il marito? «Duellammo in modo duro ma con reciproco rispetto, 20 anni fa. Ad Alessandra Mussolini esprimo la mia vicinanza umana», ha scritto su Twitter Antonio Bassolino. Nel 1994 fu eletto sindaco di Napoli battendola nella gara elettorale.
Mussolini butta fuori di
casa il marito: "La mia vita è distrutta", scrive “Libero
Quotidiano”.
E' una donna forte, battagliera, determinata. Ma questa volta l'umiliazione è
troppo grande. Alessandra Mussolini da
quando il marito è finito nell'inchiesta sulle
baby squillo dei Parioli è una donna distrutta. Piange. Piange anche al
telefono quando la giornalista del Messaggero riesce a farsi rispondere
dopo giorni di chiamate a vuoto. "Cosa posso dire? Sono distrutta", dice ad
Cristiana Mangani da casa della madre dove si è trasferita con i tre figli
Caterina, Clarissa e Romano. "Devo pensare a loro, devo proteggerli", ha detto
alle poche persone che sono riuscite a parlarle. Di grande conforto sembrano
essere state le parole di zia Sofia Loren dall'America, che la chiama tutti i
giorni.
Il suo matrimonio, si era sposata il 28 ottobre del 1989 a Predappio, è andato
in frantumi. Da parte sua Mauro Floriani
non ha potuto far altro che prendere le sue cose e andarsene, secondo il
Messaggero avrebbe preso un appartamento non molto lontano da quello della
famiglia. Resterà lì a proclamarsi innocente nonostante gli inquirenti abbiano
in mano prove schiaccianti. Come le telefonate intercettate partite dal suo
cellulare. "A che ora ci viediamo domani?", chiedeva Floriani alla più grande
delle ragazzine in una delle cinque conversazioni registrate. A quel punto il
marito della senatrice e la baby squillo si accordavano su orario e luogo dove
consumare il rapporto. Per il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il Pm
Cristina Macchiusi basta per ritenerlo un cliente abituale. Non ci sarebbero
invece, rivela Valentina Errante, i contatti con gli sfruttatori. Nel senso che
Floriani chiamava direttamente la quattordicenne che aveva conosciuto attraverso
il sito "Bakekaincontri.it". Ora il marito di Alessandra Mussolini, qualora le
contestazioni nei suoi confronti venissero definitivamente accertate dai
magistrati, fino a 4 anni di carcere. Decisiva la Convenzione di Lanzarote,
ratificata in Italia nel 2012, sulla protezione dei minori contro lo
sfruttamento e l'abuso sessuale. Una ratifica voluta fortemente dalla moglie in
Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza.
Scandalo “baby squillo”, Mussolini e Floriani separati da una settimana, scrive Sonia Oranges su “Il Secolo XIX”. «Bisogna sempre evitare campagne basate sulla morale. Prima o poi, nostro malgrado, potrebbero ritorcercisi contro»: sembrava quasi leggere nei fondi del caffè, la fonte parlamentare che ieri commentava la vicenda che ha sbattuto in prima pagina Mauro Floriani e la di lui più nota moglie Alessandra Mussolini, diventata incolpevole protagonista della vicenda giudiziaria che riguarda il suo coniuge. Doveva capitare proprio a lei, paladina del principio famiglia tradizionale e soprattutto naturale, «radicalmente contraria all’adozione di un figlio da parte di una coppia di uomini omosessuali perché potrebbe vederli rotolarsi in un letto», di ritrovarsi con un marito sospettato di essere abituale frequentatore di prostitute. E questo sarebbe un dettaglio, rispetto al fatto che le donne a pagamento erano minorenni. Com’è nel suo carattere, ha cacciato Floriani di casa e se ne è andata da mammà per proteggere i tre figli avuti dall’ex finanziere. La zia, Sophia Loren, l’ha chiamata più volte, in questi giorni, per chiederle come sta, se riesce a reagire. Le fa forza come già ci ha provato pubblicamente l’antico nemico della politica, Antonio Bassolino. La separazione tra Mussolini e Floriani si è consumata già da una settimana, da quando ossia sono circolate le prime voci sullo scandalo romano a luci rosse. Da allora non risponde al telefono. Ma a un amico ha sussurrato: «Sono distrutta, ora devo pensare ai miei figli». E c’è da crederle. Ha i figli da tutelare, a cominciare dalle ragazze, una più grande delle ragazzine che il padre potrebbe aver frequentato intimamente. Anche la credibilità della senatrice che è stata sì promotrice di manifestazione fuori dalle righe dell’ortodossia parlamentare, ma sempre coerente con la difesa dei suoi valori. E che adesso certo non ne esce bene, per usare un eufemismo. Proprio lei che ha combattuto per la ratifica della Convenzione di Lanzarote (grazie alla quale il marito ora rischia quattro anni di galera) . La vita è beffarda. E a poco servono adesso la valanga di messaggini che continuano ad arrivare al cellulare della parlamentare. Lei non risponde e i pochi che l’hanno sentita confermano che alterna momenti di disperazione ad attimi di rabbia. Come darle torto? Floriani è il compagno di una vita, sin dai tempi della scuola fino al matrimonio nel 1989. Lei giovane giovane, in bianco accecante, lui bello e signorile. Una coppia a prova di bomba, sembravano. Con lei sempre a difenderlo a spada tratta, pure davanti all’indifendibile, come ogni brava moglie deve fare. Pure quando le creava qualche problema, come quando si dovette schierare dalla sua parte di fronte a un evidente passo falso nel cambio di lavoro di Floriani che, da ufficiale della Guardia di Finanza che collaborava con Antonio Di Pietro nell’inchiesta Enimont, diventò responsabile amministrativo di Metropolis, la società che gestiva il patrimonio immobiliare delle Ferrovie di Stato. Un matrimonio a prova di scandalo, si disse, quando a finire nel tritacarne mediatico, nel 2009, fu invece Alessandra. Per una storia altrettanto pruriginosa, basate su un suo presunto video hard che la immortalava con il leader di Forza Nuova Roberto Fiore. Lei rispose ostentando la solidità della coppia: «Mio marito come ha reagito? Ho chiesto a Mauro di andarmi a comprare Il Giornale in edicola. Poi lo abbiamo letto insieme. Non sapevo se ridere o arrabbiarmi. I miei figli? Sanno che faccio politica, che è un lavoro pericoloso. Siamo come negli anni Settanta. Prima gambizzavano. Ora fanno così: non lanciano pallottole, ma video hard». Stavolta la storia è diversa. Perché Mussolini non scherzava quando parlava di difesa dei minorenni. Senza se e senza ma.
La vera storia delle baby-squillo. Il caso delle due ragazzine dei Parioli è solo la punta di un fenomeno molto più vasto e radicato a Roma. Lo raccontano due loro amiche che hanno accettato di incontrarci: un mondo fatto di sogni e di amare delusioni, ma anche di sfrenato desiderio di fare soldi per comprarsi di tutto. Senza porsi alcuna remora morale. Adescavano i clienti con messaggi che denunciavano chiaramente la loro età: "Oggi mamma non è a casa", "Cerco papi", "Lolita". Una realtà che emerge dal processo con rito abbreviato appena iniziato. Altre 60-70 persone sono indagate per gli stessi fatti, scrive Daniele Autieri su “La Repubblica”. Oltre il seminterrato dei Parioli, c'è una storia mai raccontata. Una storia di idoli pericolosi e inconfessabili debolezze che inizia nelle scuole più prestigiose della Capitale e finisce sui tavoli di Assunta Madre, il costoso ristorante di via Giulia gestito dal pluri-indagato Johnny Micalusi, dove malavita e potere stanno gomito a gomito. In mezzo a tutto le ragazze. Le due baby squillo dei Parioli, ieri, e tutte le altre mai raccontate, oggi. Un esercito misterioso sul quale Repubblica ha cercato di fare luce partendo da un messaggio raccolto il 28 marzo del 2013 su un profilo anonimo di Facebook: "Non si capisce perché Jenny e Lalla (i nomi sono di fantasia) non vogliono accettarmi. Forse perché sono già abbastanza chiacchierate". Comincia così, ancor prima di iniziare (la prima ragazza comincerà a prostituirsi solo dal mese di maggio), la storia delle due baby squillo dei Parioli. Una premonizione, forse, oppure la denuncia di una voce del branco, qualcuno che le conosceva da vicino e poteva anche solo immaginare cosa di lì a poco sarebbe accaduto. A parte amici e compagni di scuola che molto sapevano o avevano intuito, i primi a guardare dentro quella storia sono stati il Nucleo operativo dei Carabinieri di via in Selci e la Procura di Roma. E lunedì si è tenuta la prima udienza con rito abbreviato nell'ambito del processo che coinvolge i cosiddetti "sfruttatori" delle ragazze. Di fronte al gup Costantino De Robbio, il procuratore aggiunto di Roma, Maria Monteleone, e il pubblico ministero Cristiana Macchiusi, hanno chiesto condanne eccellenti per gli 8 imputati: 16 anni e 8 mesi per Mirko Ieni (l'uomo che gestiva il traffico di clienti), 6 anni per Nunzio Pizzacalla, 5 anni per Riccardo Sbarra, 4 anni per Marco Galluzzo, un anno per Michael De Quattro, 8 mesi per Francesco Ferrao, 8 mesi per Gianluca Sammarone e infine 6 anni per la madre della più giovane delle due, per la quale è prevista anche la perdita della patria potestà. Lalla, sua figlia, ha inoltre chiesto per il tramite del suo avvocato un risarcimento economico proprio nei confronti della madre, mentre un altro risarcimento pecuniario è stato chiesto anche dall'avvocato della ragazza più grande, il quale ha tuttavia dichiarato che devolverà l'intera somma alle associazioni di volontariato che tutelano i minori. Il processo con rito abbreviato aperto ieri è, in ogni caso, solo un primo passo rispetto alla enorme partita giudiziaria che riguarderà i clienti. Attualmente sono circa 60-70 i procedimenti aperti, molti dei quali finiranno nell'oblio di un patteggiamento inseguito a tutti i costi pur di assicurarsi l'anonimato. Il punto chiave, per gli inquirenti, è dimostrare che i clienti fossero a conoscenza della minore età delle due ragazze. Un elemento su cui il Nucleo dei Carabinieri si è soffermato a lungo arrivando a scoprire particolari determinanti. Uno su tutti riguarda un famoso sito di annunci attraverso il quale le due minorenni si erano "messe sul mercato". E proprio il testo degli annunci sembra inchiodare gli imputati. "Lolita", "Cerco papi", "oggi mamma non è a casa". Messaggi chiari, diretti, inequivocabili, che rimandano alla minore età delle due e richiamano un interesse esplicito verso un'adolescente. Tra l'altro, a differenza della prassi, il loro annuncio non era corredato di immagini. Un altro indizio, al quale se ne aggiunge un terzo - forse ancora più schiacciante dei precedenti - raccolto direttamente nel corso degli interrogatori alle due ragazze. In molti casi sono state proprio loro a confermare i nomi dei clienti che, sulla base dei dialoghi, dei messaggi o delle telefonate, erano consapevoli di trovarsi di fronte una minorenne. Mentre la giustizia corre, rimane in piedi un cortocircuito informativo sui tempi e le modalità che hanno trasformato due adolescenti in un caso nazionale. Il cortocircuito si gioca sulla cronologia dei fatti. Per diverse settimane (da giugno a settembre) l'attività delle due ragazze è pressoché sporadica. Incontri in auto, oppure in qualche caso nelle abitazioni dei clienti. Il sistema diventa professionale con l'arrivo di Mirko Ieni, che trasforma un'attività saltuaria in un vero e proprio business. E questo avviene tra l'agosto e il settembre del 2013, proprio quando la madre della più grande presenta la prima denuncia alla caserma dei Carabinieri di zona. In questo periodo sono oltre 1.000 i contatti telefonici annotati dagli inquirenti. Tra questi c'è la famosa lista di insospettabili, quindi sportivi, avvocati, commercialisti, politici, ma anche qualche ragazzotto meno abbiente che, come commenta oggi una fonte, "ha rotto il salvadanaio per permettersi un'avventura con una ragazza più giovane". Un altro elemento di novità, nell'ambito delle indagini, riguarda l'appartamento dei Parioli, su cui molto è stato scritto. L'affitto della casa da parte di Ieni arriva quasi al termine della storia, all'inizio di ottobre, pochi giorni prima, quindi, di quel famoso 28 ottobre, giorno di retate. Tutto questo per Lalla e Jenny. Non ragazze estreme, non figlie della periferia che avevano trovato nei quartieri bene un mercato fertile per i loro fini. Tutt'altro. Un'adolescente molto vicina ad entrambe ha scelto di parlare con Repubblica e di portarci dentro le pieghe della verità, fino al cuore di una vicenda che ha ancora molto da raccontare. "Lalla e Jenny - rivela - avevano frequentato due tra le scuole più note e prestigiose di Roma. Di conseguenza i locali, gli amici, le abitudini, gravitavano tutti intorno a quel mondo, da corso Trieste a viale Parioli". L'obiettivo, per loro, era semplice e drammatico: fare soldi, e farne tanti. A qualunque costo. Il denaro non serviva ad altro se non a comprare droga, vestiti, serate nei locali, e vacanze. Proprio come quei giorni trascorsi a Ponza nel mese di luglio, quando - secondo un testimone diretto - tutti i ragazzi del gruppo hanno capito che qualcosa nella vita di Jenny e Lalla era cambiato. "Sono entrato nella loro camera - racconta il testimone - e ho visto una montagna di cocaina. Ce ne era dappertutto, sui mobili, sulla tv, per terra. Era ovunque". Polvere bianca, un'abitudine pericolosa per tantissimi ragazzi, soprattutto per quelli cresciuti con una buona riserva di contanti in tasca. Roma Nord, quindi. Licei bene e famiglie bene. Un concentrato di borghesia i cui figli, però, hanno preso strade pericolose. Quella neofascista, prima di tutto. La presenza nelle scuole di quartiere del Blocco Studentesco, la rappresentanza politica di CasaPound, e di Lotta Studentesca, legata a Forza Nuova, è fortissima. Il 28 aprile scorso, al liceo Giulio Cesare di corso Trieste, giovani di estrema destra hanno manifestato contro una professoressa che aveva fatto leggere in classe il libro di Melania Mazzucco "Sei come sei", la storia di una bambina figlia di due padri. I giovani si sono presentati a scuola "armati" di croci celtiche e di striscioni con scritto: "maschi selvatici, non checche isteriche". Questo il mondo di Jenny e Lalla, un mondo di cui erano profondamente parte. Un mondo di "Dux imperat" e di "heil Hitler", un mondo di stadio, risse e tatuaggi. Tatuaggi, proprio come quelli che mostrava Jenny (la più grande): "Si vis pacem para bellum" (se vuoi la pace, preparati alla guerra), o ancora inneggianti alle canzoni degli ZetaZeroAlfa, la band ufficiale di CasaPound. In tutta questa storia c'è ancora spazio per una buona dose di mistero. Nella calura dell'estate romana, Assunta Madre diventa un'oasi di riservatezza per chiunque: idoli del calcio, giudici, imprenditori, latitanti come Marcello Dell'Utri e boss della criminalità organizzata del calibro di Michele Senese. I crudi che arrivano ogni giorno da Terracina mettono d'accordo tutti, uomini per bene e malavitosi, mentre un gruppetto di ragazzotti fa la guardia alle Lamborghini e alle Ferrari parcheggiate su via Giulia. In mezzo a questa variegata fauna che di ittico ha ben poco, cresce il numero di ragazzine che siedono ai tavoli di Johnny. Alcune di loro sono minorenni, altre al limite della maggiore età, ma tutte rivendicano l'amore per il pesce fresco e i vini costosi. Il locale è stato più volte al centro di indagini dell'antimafia e della Squadra Mobile di Roma, ma nessuno finora ha raccontato che qualche cascame è finito sui giri di ragazze che hanno gravitato o gravitano tuttora intorno ad alcuni clienti. Una pista investigativa che è stata confermata a Repubblica dai ragazzi appartenenti al giro delle baby squillo dei Parioli. Per loro non ci sono dubbi: Jenny e Lalla non erano sole. Ci sono tante ragazze ancora "in sonno" che fanno markette per pagarsi la borsa di Hermes o anche solo per sorseggiare una bottiglia di Dom Pérignon. Nella loro identità è celato l'ennesimo punto interrogativo di questa storia. Perché nel giorno di apertura del processo scorre soltanto il primo dei numerosissimi titoli di coda che anticipano la fine di una vicenda ancora piena di angoli bui.
Amici, passioni, abitudini, vizi. Una compagna di scuola di una delle due ragazze rivela particolari di vita rimasti finora sconosciuti. Dettagli e riferimenti determinanti per chiarire cosa ha alimentato la sfrenata voglia di denaro che ha portato due minorenni alla decisione estrema di prostituirsi.
Quando è iniziata la vicenda delle due ragazze dei Parioli?
"Jenny, la più grande, ha iniziato a maggio dell'anno scorso. Lalla, un paio di mesi dopo, verso luglio".
Come avvenivano questi incontri?
"All'inizio erano saltuari, una volta ogni tanto. In macchina o a casa dei clienti?".
E la casa dei Parioli?
"Quella è arrivata quasi alla fine della storia, tra settembre e ottobre. Quando hanno cominciato a fare i soldi veri".
Voi compagni e amici avevate capito qualcosa?
"Diciamo che quando è uscita la notizia tutti sapevano che erano loro due".
Qual era il loro giro?
"Lalla aveva fatto la ragazza immagine per alcune serate, poi aveva smesso. Jenny era un po' una testa calda, litigava spesso con la madre. Era anche vicina agli ambienti della destra estrema. Aveva frequentato un ragazzo del Blocco Studentesco. E aveva tutti tatuaggi con le frasi del fascismo".
I soldi voi li avete percepiti?
"Tutti vedevano che erano piene di soldi. Andavano ogni giorno a comprarsi un vestito nuovo. Poi serate nei locali e tanta cocaina".
Quando è stato il punto di svolta...
"A luglio. Sono andate a Ponza con gli altri. Un mio amico è entrato in camera loro e mi ha raccontato che c'era lo schifo".
La madre della più piccola sapeva e la spingeva...
"Preferisco non parlare di lei. Dico solo che era una donna molto chiacchierata. Già da prima".
Perché lo hanno fatto?
"Soldi. La voglia di essere indipendenti. È tutto sballato. Ci sono ragazze che accettano di avere rapporti sessuali per avere più mi piace su Facebook. Siamo a questo punto".
Che vuol dire? Che non sono sole?
"Sicuramente no. Ci sono altre ragazze. Gente di buona famiglia, ragazze che non hanno bisogno di nulla. Magari un giorno si parlerà pure di loro".
SIAMO TUTTI PUTTANE. Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base dellla lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.
“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.
Di chi è la colpa?
«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».
Le responsabilità sono tutte a sinistra?
«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».
Il suo è un saggio rigorosamente politico.
«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».
Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?
«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».
In quale si riconosce di più?
«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».
Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…
«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».
Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…
«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».
Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?
«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».
Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…
«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».
“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo. ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.
MORTI A....MAZZETTE.
Caro estinto & mazzette: ecco i 29 indagati. Sotto accusa politici e manager Asl. Da Gramazio padre e figlio e Tredicine ai dg Macchitella e Paccapelo. L'inchiesta sul business che coinvolge anche impresari di pompe funebri, dirigenti e ospedali, scrive Rory Cappelli su “La Repubblica”. L'hanno chiamata Caronte. È l'inchiesta sul business del caro estinto che vede 29 persone indagate tra impresari di pompe funebri, politici e dirigenti generali e sanitari di Asl e ospedali per ipotesi di reato che vanno dalla corruzione al 416 al 416 bis fino al 416 ter. Vale a dire: associazione per delinquere, associazione di tipo mafioso, e scambio elettorale politicomafioso.
Mazzette per il business del caro estinto, spuntano le cene elettorali con i capi clan. L’inchiesta della procura di Tivoli sulle coperture della Regione, scrive Rory Cappelli su “La Repubblica”. Non solo tangenti per la gestione delle camere mortuarie dei nosocomi del Lazio, gare e deroghe vinte grazie a connivenze e mazzette, appalti assegnati grazie a connivenze. Adesso in un nuovo filone dell'indagine della procura di Roma sul marcio che sta divorando le imprese funebri del Lazio spuntano anche cene elettorali con esponenti della criminalità organizzata, confermando quanto questa sia ormai intrecciata agli interessi politici locali. La Regione è intervenuta ieri sulla questione precisando che le "nuove linee guida per la gestione delle camere mortuarie è tema all'ordine del giorno" e che "a breve sarà emanato un decreto del Commissario ad acta che disciplinerà la materia". Eppure proprio alla regione gli operatori del settore hanno chiesto ripetutamente un intervento, presentando, fin dallo scorso anno, documentazione del malaffare imperante nel settore e anche le normative delle altre regioni: alla promessa di intervento avuta nel giugno 2013 non è però seguito niente. Addirittura nel luglio 2013 gli impresari funebri erano andati a protestare sotto la sede di via Colombo senza essere ricevuti. Il sistema per far soldi sui funerali ha un collegamento anche con l'inchiesta portata avanti dal pm Giuseppe Mimmo della procura di Tivoli, che già nel 2011 richiese l'arresto dell'ex consigliere regionale Tommaso Luzzi, attuale sindaco di Sacrofano, intercettato e beccato con le mani nel sacco dopo la denuncia di un impresario funebre. Luzzi non venne arrestato perché, scrive il gip Alfredo M. Bonagura, vi è "la mancanza del requisito dell'attualità" poiché "non riveste più la qualifica di consigliere regionale", anche se "sussiste un grave quadro indiziario", quadro "desolante relativo alle somme di denaro", cioè le mazzette per un totale quasi 200 mila euro, prese tra "2005 e 2009, in cambio di presentazioni che il Luzzi (quale consigliere regionale e membro della commissione Sanità) faceva al titolare della impresa di pompe funebri San Leone, Fabio Quaresima affinché allo stesso venisse affidato, in via esclusiva, il servizio di gestione delle sale mortuarie presso la casa di cura Hospice My Life in Nepi (di proprietà degli Angelucci) e presso la clinica Villa Betania in Roma". Quando Quaresima rischia di perdere l'appalto di Nepi, chiama anche Luca Gramazio e gli dice: "Te lo anticipo: mi vogliono cacciare pure via da Nepi". E Gramazio: "Va bene, va benissimo, ok, ho compreso, mi muovo, mi muovo subito. Mi chiami di nuovo stasera e ci mettiamo d'accordo, ok?".
I POLITICI. I politici indagati sono l'ex senatore Domenico Gramazio, suo figlio Luca Gramazio, consigliere alla regione Lazio di Fi, Giordano Tredicine, ex vicecapogruppo del Pdl in Consiglio Comunale, Marco Visconti, ex consigliere del comune di Roma, Maurizio Brugiatelli, coordinatore de La Destra di Anzio, il sindaco di Anzio Luciano Bruschini, Patrizio Placidi, ex vice sindaco di Anzio con deleghe all'assessorato all'ambiente e sanità e attuale consigliere.
I DIRIGENTI SANITARI. I dirigenti sanitari hanno in testa Vittorio Bonavita, commercialista settantenne nominato nel 2010 da Renata Polverini, ex dirigente della Asl RmB, già direttore amministrativo (cioè tesoriere) della Udc del Lazio (e per questo incarico, per 25 finanziamenti di altrettante imprese erogati all'Udc laziale e non documentati, è finito nel mirino della Corte dei Conti). Tutto l'ex gotha del San Camillo: Giovanni Bertoldi, ex dirigente Ufficio Approvvigionamenti; Antonino Gilberto, ex direttore amministrativo; Luigi Macchitella, ex direttore generale, nominato da Zingaretti direttore della Asl di Viterbo; Roberto Noto, ex direttore amministrativo; Diamante Pacchiarini, ex Direttore sanitario. E poi Elisabetta Paccapelo, ex direttore generale della RmC.
I VOTI PORTATI DAI CLAN. I protagonisti di questa vicenda, oltre a politici e dirigenti sanitari, sono gli impresari di pompe funebri che nel Lazio hanno finito per creare "un sodalizio criminale di tipo mafioso" con "ruoli, compiti e mansioni ben precisi in relazione a una molteplicità di soggetti alcuni dei quali già coinvolti in pregresse attività investigative". Questo "sodalizio criminale" si è sostanzialmente spartito il mercato, fiorente, della morte della città di Roma, ma anche del resto del Lazio come hanno dimostrato diverse inchieste, come quella che vede attualmente sotto processo a Tivoli il sindaco di Sacrofano Tommaso Luzzi. Ci sono però anche interessanti risvolti sul fronte dello scambio elettorale politicomafioso, con cene elettorali con capi clan.
IL BUSINESS. I decessi ormai, per almeno l'80 per cento, avvengono all'interno delle strutture ospedaliere. Se un'impresa funebre, dunque, ha la gestione della camera mortuaria di un ospedale - quel luogo in cui il cadavere viene conservato per l'osservazione di legge, e poi preparato per la sepoltura - questa avrà, naturalmente, un vantaggio notevole rispetto alle altre imprese. Soprattutto se può dire ai "clienti" di avere "una convenzione con l'ospedale". Ancora di più se pratica tariffe bassissime, grazie a forniture che arrivano dalla Romania, dall'Africa, dalla Cina a prezzi stracciati. Il giro d'affari è di tutto rispetto. Al Sandro Pertini, per esempio, nel 2011 ci sono stati 993 decessi, per un totale di quasi due milioni di euro di business. Secondo le linee guida emanate nel 2010 "nel caso in cui si registri la mancanza di una struttura" interna all'azienda ospedaliera, è possibile indire una gara per la gestione delle camere mortuarie. "Le aziende sanitarie tuttavia dovranno avvalersi del divieto di partecipazione alla gara per le imprese di onoranze funebri e/o società "compartecipate" dalle stesse".
La procura indaga su gare e appalti. Al setaccio la gestione delle camere mortuarie di sette ospedali romani, scrive Daniele Di Mario su “Il Tempo”. Non c’è solo il caso della camera mortuaria del Santo Spirito sequestrata nel mirino della Procura di Roma. I magistrati, infatti, stanno indagando anche sulla presenza di imprese di onoranze funebri presso le camere mortuarie di altre Asl e aziende ospedaliere di Roma e Provincia. Sotto la lente della Procura sono finiti gli obitori di San Camillo Forlanini, Sant’Eugenio, Cto, San Filippo Neri, Sant’Andrea, Sandro Pertini e ospedale di Bracciano presidiati «da anni h 24 da un’unica agenzia funebre», la Cattolica 2000. A provocare l’apertura dell’inchiesta è stata una denuncia presentata a Piazzale Clodio dal Codiof, il Comitato diritti operatori funerari, presieduto dal Cavaliere Mario Menicucci, che è anche consigliere nazionale referente per Roma e Provincia della Feniof, la Federazione Nazionale Imprese Onoranze Funebri. L’esposto è stato depositato il 21 marzo 2012 - numero di protocollo 040681 - in seguito all’aggiudicazione dell’appalto per la gestione della camera mortuaria del San Camillo Forlanini all’agenzia finebre Service One. Il bando di gara prevedeva tra i requisiti per partecipare il non essere agenzia funebre o di non avere collegamenti con agenzie funebri. Ma dalla visura della Camera di Commercio risulta che la Service One è «essa stessa agenzia funebre» e ha come attività primaria «pompe funebri e attività connesse». Secondo i denuncianti - una cinquantina di operatori funerari del Comune di Roma e Provincia - la Service One «facilita la presenza di altri due operatori (Taffo e Giovannoni) presso i locali della camera mortuaria, avendo allestito un vero e proprio ufficio, giorno e notte quando avviene un decesso si recano presso i reparti, avvicinano i familiari per concludere i contratti per l’organizzazione dei servizi funebri». I denuncianti allegano tutta una serie di documenti all’esposto e sostengono che «la presenza di un’agenzia funebre presso la camera mortuaria di una Asl determina una posizione privilegiata» che «aggrava la possibilità degli altri operatori del settore non presenti e stazionanti nelle 24 ore giornaliere nello svolgimento dei propri servizi in favore dei parenti dei deceduti perché in molte occasioni l’agenzia presente presso gli ospedali tenta di sviare verso i loro servizi i parenti deceduti, presentando anche situazioni di preoccupazione per l’ordine pubblico». Un dato è esemplificativo: il 90% dei servizi funebri per i decessi avvenuti al San Camillo sono stati svolti da Service One, Taffo e Giovannoni. In parole povere, viene denunciato un vero e proprio cartello. Non solo. Le cinquanta imprese funerarie denunciano che «la situazione di incompatibilità (contestuale svolgimento di servizi ieginico-sanitari in favore dell’azienda ospedaliera e svolgimento dei servizi funebri in favore di soggetti privati) è assolutamente illegittima». Le Asl, infatti, continuano a bandire appalti per la gestione delle camere mortuarie prevedendo che il servizio venga svolto gratuitamente e l’affidatario debba pagare un corrispettivo alla stazione appaltante; l’affidatario è un’impresa di pompe e onoranze funebri; l’affidatario (profittando della propria situazione privilegiata in cui si trova in seguito all’aggiudicazione dell’appalto) svolge in regime di privatista i servizi funebri per i decessi che avvengono negli ospedali gestiti in appalto. Una prassi continuata nonostante numerose censure da parte della giustizia amministrativa. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato già il 23 maggio 2007 ha emesso un provvedimento inviato a Parlamento, governo e autonomie locali rilevando che «la distinzione fra i diversi servizi, pubblici da un lato e commerciali dall’altro, viene frequentemente violata, determinando da un lato gravi distorsioni sul mercato delle onoranze funebri e, dall’altro, arrecando un pregiudizio economico ai consumatori». L’Authority auspicava quindi «interventi legislativi a livello nazionale e regionale che affrontino» il problema «attraverso la chiara separazione e incompatibilità tra i servizi di onoranze funebri e i diversi servizi pubblici a prevalente carattere igienico-sanitario». Nonostante ciò, le Asl hanno continuato a effettuare i bandi nella medesima maniera. È il caso, ad esempio, della RmB e della RmD. Bandi censurati per i medesimi motivi anche dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture con il parere 147 del 13 dicembre 2007 che parla di «rendita di posizione consistente nella possibilità esclusiva di trovarsi all’interno dei luoghi dove avvengono i decessi e di poter fruire di tale vantaggio nei confronti degli altri operatori del settore». Tali servizi «non attengono a quelli igienico-sanitari oggetto della gara, in relazione ai quali però viene richiesta ai partecipanti un’offerta economica». Un bel paradosso, in effetti. Nonostante tutto, le Asl hanno continuato ancora a bandire gare con le stesse modalità. È il caso della RmB. Il 17 dicembre 2010 la Regione Lazio ha adottato con decreto le Linee Guida per la gestione dei decessi in ambito ospedaliero e delle camere mortuarie, impedendo alle agenzie funebri di potervi partecipare e disciplinando la separazione tra servizi pubblici e commerciali. Ad oggi, le Linee Guida sono inapplicate. E la Procura, dopo la denuncia della Codiof, ha aperto un’inchiesta sui bandi di gara e sulla permanenza delle agenzie funebri negli ospedali.
SPRECHI A SBAFO DEI ROMANI. CENTRI SOCIALI ED OCCUPAZIONI.
Centri sociali e occupazioni: pacchia finita. I «movimenti» annunciano subito guerriglia, scrive Grazia Maria Coletti su “Il Tempo”. Hanno avuto la «residenza» giocando sporco, e goduto di acqua, luce e gas a sbafo, le utenze domestiche allacciate negli stabili occupati, 106 a Roma, tra scuole, caserme, circoli, palazzine, complessi del ministero della Difesa, commissariati, l’ex sede dell’Ente cellulosa e carta, strutture della Asl e locali delle ferrovie. Centinaia di mila euro persi, milioni se moltiplicati per anni di impunità. E poi ci sono più di 60 centri sociali occupati o autogestiti, che poi fa lo stesso, perché si passa dall’occupazione all’autogestione, lo storico Brancaleone docet. Una lista che ha continuato ad allungarsi con lo «tzunami tour» di occupazioni dall’inizio del 2013 e, con la ripresa di ottobre scorso, ha continuato ad allungare la graduatoria di chi aspettava una casa popolare da una vita. E non l’ha ancora avuta. Perché il tetto in un’occupazione finora è stata una garanzia. Che si ritorce contro gli onesti che non hanno fatto il salto della quaglia, anche se le nuove povertà - perdita di lavoro, separazione o una malattia - spingono a farlo. Ma la pacchia sta per finire. Con Renzi, presagio di funesti auspici pure per chi era abituato a cantarsela e suonarsela. Le avvisaglie per Action, Movimenti per la casa, diritto all’abitare, antagonisti&C. ieri in Consiglio dei ministri, palcoscenico del Piano casa. Lo spiegano loro. «L’art. 5 dispone», anche in forma «retroattiva» l’assoluto «divieto» a concedere le «residenze» e gli «allacci» delle utenze negli spazi abitativi occupati «abusivamente». Una catastrofe per sigle e siglette del variegato mondo delle occupazioni, che hanno gonfiati i muscoli arruolando disperati, cui hanno garantito un tetto in cambio di sudditanza politica, e manovalanza da portare in piazza, numeri, da far pesare al mercato del baratto a tempo debito. È «un provvedimento pesante che interpretiamo come una diretta minaccia di sgomberi generalizzati in tutta la penisola che si allinea con le decine di misure cautelari che nei giorni scorsi hanno colpito gli attivisti e le attiviste» hanno spiegato in una nota i Movimenti per il diritto dell’abitare romani. Infuriati. «Ora abbiamo un motivo in più per esprimere la nostra collera» suona come la dichiarazione di guerra. «Anticiperemo la mobilitazione nazionale dei Movimenti per la Casa, prevista da lunedì, sul decreto del ministro Lupi, con un corteo sabato pomeriggio a Roma. Si partirà alle 15 da Piramide per arrivare al ministero della Giustizia a largo Arenula. Nel percorso toccheremo anche il carcere di Regina Coeli» ha annunciato il leader dei Blocchi Precari Metropolitani Paolo Di Vetta, fresco di libertà, durante il presidio dei Movimenti per la Casa davanti a Montecitorio, in contemporanea con il Consiglio dei ministri in corso a Palazzo Chigi. Per Di Vetta «un piano edilizio, non un piano casa» perché «di poche briciole sulla morosità incolpevole e sul bonus affitti - nota Di Vetta - si punta sull’idea sbagliata della costruzione forsennata di nuove case. Si dovrebbe ragionare su riuso e riutilizzo, invece si privilegiano i costruttori». A Roma 106 immobili occupati, abbiamo detto. E oltre 60 centri sociali rossi, alcuni fungono da strutture di prima accoglienza. Occupati come il gigantesco Forte Prenestino, a via Delfino a Centocelle; l’ex Snia Viscosa in via Prenestina al Pigneto; e dell’occupazione ci si vanta già nel nome: Alexis occupato a via Ostiense in zona Piramide Garbatella; Ateneo occupato in via Fattiboni a Dragoncello; Biblioteca abusiva metropolitana in via dei Castani a Centocelle; Bencivenga occupato (Nomentana/Pietralata); Casale Alba occupato al parco di Aguzzano; Teatro Valle occupato, e ancora Torre Maura Occupata a Torre Maura e Volturno occupato a Termini. Ma il confine tra occupazione e autogestione è sfumato. E non solo perché dall’occupazione poi si passa alla "sanatoria", come ha insegnato il centro sociale Brancaleone, a Montesacro, il più conosciuto a Roma, nato nel febbraio del ’90 il primo a porsi la meta di una stabilizzazione e legalizzazione aprendo una vertenza con il Comune che ha fatto scuola. Gira che ti rigira, il «tacito accordo» con le istituzioni denunciato dall’ex presidente della commissione sicurezza capitolina Fabrizio Santori, oggi consigliere regionale. Quello che permette gli allacci abusivi alle utenze (che poi magari, pagano, quando gli conviene). Un po’ perché nelle case popolari degli enti pubblici, la richiesta di distacco deve farla l’ente «e non lo fa» spiega una gola profonda di una società partecipata. Se poi «inviamo» i tecnici dai privati «prendono le botte». Servirebbe la «forza pubblica» continuano, «ma nemmeno la prefettura» pare abbia «la forza» per imporre il «distacco». Anche perché ci sono «i casi umani» e su questo fanno forza i movimenti quando si autoproclamano «ammortizzatori sociali». E poi si gioca a pinpong, «distacco» e «riallaccio», come nel caso degli «accampamenti abusivi». In soldoni «svariate centinaia di mila euro», «milioni» moltiplicati negli anni. Persi. Su chi ci si è rifatti? Chi paga sa la risposta.
GIUSTIZIA A NUMERO CHIUSO.
Processi a numero chiuso a Roma. Non più di 12 mila casi all’anno. Scelta della Procura per mancanza di personale. Nella Capitale ogni 12 mesi vengono accantonati e messi in attesa tra i 6 e gli 8 mila procedimenti: decise le priorità, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Processi a numero chiuso per mancanza di personale. È ciò che avviene nel palazzo di giustizia della capitale, dove la cronica carenza di assistenti, segretari e altre categorie di ausiliari ha prodotto una grande quantità di procedimenti penali per i quali non si riesce a fissare nemmeno la data d’inizio. Numeri destinati ad aumentare, perché le richieste di giudizio da parte della Procura superano di gran lunga la capacità di smaltimento del tribunale. Se infatti i pubblici ministeri definiscono tra i 18.000 e i 20.000 processi l’anno, i giudici sono in grado di celebrarne non più di 12.000. Dunque ogni dodici mesi ne restano fuori almeno 6.000 per i quali non si sa se e quando si potrà convocare la prima udienza, che andranno ad aggiungersi ai 34.400 accumulati fino al dicembre 2013. E l’Inps ha già preannunciato l’arrivo di circa 36.000 notizie di reato, per il solo 2014, riguardanti omessi pagamenti di contributi. Da queste cifre è scaturita la decisione del presidente del Tribunale di Roma, approvata dal Consiglio superiore della magistratura, di stabilire criteri di priorità per la trattazione dei processi davanti al giudice monocratico (che tratta reati con pena massima fino a dieci anni di carcere, salvo numerose eccezioni previste dalla legge). La maggior parte delle risorse sono state dedicate a garantire il regolare svolgimento dei processi davanti ai collegi di tre magistrati, che si occupano dei delitti più gravi e preoccupanti, e dunque a soffrire le carenze di organico sono soprattutto le sezioni monocratiche. Alle quali saranno assegnati per il 2014 e ogni anno a seguire, finché la situazione non cambierà, non più di 10.500 procedimenti a citazione diretta. Avendo cura di scegliere, tra questi, quelli per fatti di maggiore allarme sociale. Destinati a rimanere sospesi in attesa di tempi migliori - salvo casi particolari - sono i processi per frodi in commercio, minacce, invasione di terreni o edifici, commercio di prodotti con marchi falsi, danneggiamenti, deturpamenti o imbrattamenti di cose altrui e altri delitti puniti con pene lievi. A fronte di questa situazione, la Procura guidata da Giuseppe Pignatone ha deciso di adeguarsi, per impedire che tra i 6.000-8.000 procedimenti destinati ogni anno al «limbo giudiziario» (che rischiano di aumentare fino a 10.000-15.000 con la quota dei fascicoli in arrivo dall’Inps e destinati a questa categoria) ce ne siano di rilevanti. Di qui la scelta di inoltrare al giudice non più di 12.000 richieste di fissazione delle udienze, secondo le indicazioni di una circolare firmata dal procuratore che indica i «criteri di priorità» per la loro selezione. Il resto verrà accantonato presso un apposito ufficio chiamato Sdas, Sezione definizione affari seriali, senza procedere alla scansione degli atti a conclusione delle indagini, né alle notifiche degli avvisi alle parti; in attesa che dal tribunale giungano notizie su quando sarà possibile fissare la data dell’udienza. Nel frattempo si cercherà di incrementare il ricorso ai decreti penali (di fatto una multa irrogata dal magistrato, che se accettata dall’imputato chiude il procedimento) con i quali si potrebbe smaltire almeno la metà dei processi lasciati in sospeso e, conseguentemente, a forte rischio prescrizione. Stiamo parlando di reati «a bassa offensività concreta», come le resistenze e gli oltraggi a pubblici ufficiali, guida senza patente o in stato di ebbrezza, i mancati adempimenti degli obblighi derivanti da misure di prevenzione, fino ai furti sul banco del supermercato o la contraffazione di prodotti venduti al dettaglio. Trasgressioni «minori» che si tramutano in fascicoli che per la statistica equivalgono a procedimenti per rapine o omicidi, ma che nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno bisogno di indagini per essere definiti. Il fatto di bloccarli alla Sdas eviterà che vadano ad ingombrare i tavoli dei pubblici ministeri e dei loro ausiliari, garantendo loro più tempo per la trattazione degli affari di maggior peso ed importanza. La selezione allo Sdas per bloccarli anziché mandarli al giudice intasando i calendari delle udienze fino alla saturazione, dovrebbe inoltre impedire che il destino dei fascicoli sia casuale: per esempio che si fissi l’udienza per una banale contravvenzione lasciando fuori un omicidio colposo, una truffa grave o qualche reato ambientale. La carenza di mezzi determina oggi «l’assoluta casualità nei tempi di concreto esercizio dell’azione penale», spiega il procuratore Pignatone, che s’è richiamato a un provvedimento adottato a Torino nel 2007 ispirato a un «oculato, efficace e realistico esercizio dell’azione penale», avallato dal Csm. Per il capo dei pm romani «l’assenza di un meccanismo regolatore che prenda in considerazione l’effettivo grado di disvalore sociale dei fatti oggetto di procedimento produce effetti non voluti e inaccettabili». Dunque l’introduzione del numero chiuso - fermo restando che le indagini vengono completate in tutti i casi, «anche per valutare eventuali ragioni di urgenza al di là del titolo di reato» - non è una rinuncia ai compiti istituzionali della sua Procura, bensì« un tentativo di mitigare gli effetti patologici provocati dalle condizioni di lavoro, in modo da governare razionalmente la massa enorme degli affari che dobbiamo trattare con le scarse risorse disponibili. Tenendo fermo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale cerchiamo di razionalizzarne i tempi di esercizio, attraverso scelte chiare e rispondenti ai limiti oggettivi fissati dal tribunale».
TUTTI I MALI DI ROMA. ROMA, LA GRANDE BELLEZZA? NO. LA GRANDE BRUTTEZZA!!!
La Grande Bruttezza secondo Filippo Facci su “Libero Quotidiano" e su “Il Post”. Ho conosciuto Paolo Sorrentino in una dimensione che ha contribuito all’equivoco: una serata a casa di Roberto D’Agostino e della moglie Anna Federici, ovviamente a Roma, sulla loro terrazza che si affaccia sulle anse del Tevere e si offre pienamente alla Grande Bellezza. Parlammo dei suoi film e di cose varie. Sorrentino era lì dichiaratamente per cercare e studiare atmosfere che potessero essere utili al suo film, e che, come ora è evidente, non trovò o forse non volle utilizzare. Era nel posto migliore per coglierle, per carpirne dialoghi e spirito: ma non lo fece. L’unica spiegazione del resto è questa: che Paolo Sorrentino non abbia minimamente tentato di fare il film che tutti pensano abbia tentato di fare, o pensano che volesse fare. Niente «Dolce vita» in versione aggiornata, per capirci. Ci sarebbe il solito colossale equivoco, insomma: perché il suo non è un film prettamente su Roma e cioè sull’eterna Roma da basso impero che molti aspettavano, la stessa che in qualche modo imparentava al Cafonal carnevalesco che Umberto Pizzi e Roberto D’Agostino fotografano da 13 anni, la stessa che altri cronisti di passaggio – i soliti Fellini e Arbasino tra questi – hanno affrescato in epoche diverse e al tempo stesso identiche. Quella del film non è Roma, o non particolarmente: non lo è e basta, neppure in caricatura, quei chirurghi plastici non esistono, quelle feste discotecare non esistono o sono più milanesi che romane, così come inesistenti o meneghine sono le caricature delle performance d’arte moderna alla Marina Abramovic, vacuamente ridicolizzate in uno dei tanti e rinunciabili coitus interruptus di cui è disseminato il film. Non esiste un settimanale come quello diretto dalla direttrice nana, non esiste quell’ufficio col peluche gigante e il minestrone riscaldato, non esiste uno scrittore-grande-firma stile Jep Gambardella che oltretutto non è chiaro neppure come potrebbe campare, oggi: soprattutto in una casa con terrazza sul Colosseo che, tanto per cambiare, credo non esista. Così come non esistono i nobili in affitto (cioè: esistono, ma sono nobilastri, e non sono affatto tristi) e non esistono certe altre caricature bozzettistiche che imbottiscono il film come certi panini di McDonald’s, che non sai da che parte morderli. Esistono, quelle sì, le personalissime proiezioni di Paolo Sorrentino della grande bruttezza: il dominio della coca, le stronze, i parassiti, le attricette, gli scrittorucoli, «le ricche», gli industrialotti, i cardinali da talkshow, il perverso paese dei balocchi coi suoi maghi e le giraffe e i lanciatori di coltelli; ma sono visioni personali, appunto, e forse basterebbe ripeterlo. Del resto non è neppure chiaro perché dovessimo aspettarci qualcosa di diverso: di verista, nei film di Sorrentino, non c’è mai stato nulla. Non esiste il mondo del calcio e della canzone descritti ne L’uomo in più, non esiste la Svizzera de Le conseguenze dell’amore, non esiste la Sabaudia de L’amico di famiglia (il suo film più bello, ritenuto il più brutto) e tantomeno sono esistiti il Paese e la Roma politica descritti ne Il divo, il film che grazie alle surreali e suggestive descrizioni di alcune stanze del potere, forse, ha contribuito a qualche aspettativa fuori luogo. Insomma i film sono plagio più fantasia, e grazie tante, lo sapevamo, infatti il problema pare un altro: capire perché Sorrentino abbia voluto ricorrere alla fantasia quando la realtà – se avesse voluto coglierla – la supera di gran lunga. Le critiche più feroci al film, stringi stringi, sono tutte qui: non perché un regista non abbia diritto alle sue visioni, ma perché le sue visioni questa volta non sono parse gran cosa proprio in termini di scrittura e sceneggiatura. Ora, di rito, andrebbe fatta la contabilità delle cose che mancavano nel film. Mancava la contaminazione politico-editoriale-letteraria classica romana, impastata di cinismo millenario e imbucata da personaggi spesso impagabili. C’erano i nani, c’erano le ballerine, ma neppure un acrobata, un domatore da circo, solo Jep Gambardella che poi alla fine non era Gambardella, era Servillo come al solito. Era più squallida che grande, la bruttezza: impersonale, da esportazione, senza la grandiosità dei veri mostri che avviluppano la Capitale e che forse erano più presenti in quella serata a casa di Roberto D’Agostino che in tutti i dialoghi da terrazza del film. Forse mancava semplicemente la Rai. La macchietta della miliardaria comunista cornuta e con piscina, coi suoi cliché, non l’avrebbero scritta così neppure i più vetusti lettori di Libero o del Giornale: se il senso era rendere il sinistrismo in cachemire, allora, tanto valeva piazzarci Concita De Gregorio nella terrazza mediatica di Ballarò. Jep Gambardella, come molti di noi, e come Sorrentino, «non può più perdere tempo a fare cose che non ha voglia di fare»: ma Roma ridonda di gente che ha tutto il tempo per fare tutto, e però non sa neppure che cosa abbia realmente voglia di fare, non l’ha mai saputo. La vacuità di Isabella Ferrari in tal senso era perfetta, del resto è la sua parte da tutta la vita. Lo era anche Serena Grandi deformata e cocainomane. E anche Sabrina Ferilli: perché non recitava. Mancava però sua maestà l’indifferenza, il forzato disincanto dei romani anche di fronte ai pochi incanti che restano e che non sanno riconoscere, mancava l’ipocrisia esibita, la grande commedia della piaggeria. E poi, lentamente, scivoliamo verso la Grande Bellezza, quella che la critica ha snobbato – proprio perché non la merita, non la riconosce – e che io giudico la parte più riuscita del film. È vero che c’era il trucco: la musica. Del mio breve scambio con Sorrentino ricordo che scherzammo e che definimmo i film come una scusa per piazzarci musica a piacimento: gli avevo detto che avrei salvato Il Divo anche soltanto per la scena della passeggiata notturna di Andreotti con la Pavane di Fauré. Ma ora si fa più complicata. Sorrentino ha ripescato il terzo movimento della Terza di Gorecki (che fa molto sinistra cachemire, e che io, giuro, stavo ascoltando due ore prima di vedere il film) più una serie di delizie sceltissime e validi interludi di Lele Marchitelli. Con certi sottofondi (soprafondi, dovrebbero chiamarli) personalmente troverei la Grande Bellezza anche di fronte a immagini di Bombolo e Tomas Milian, ma io non faccio testo, io non sono un critico istituzionale, non sono un romano brutto di quelli che la musica è musica, vabbeh, e il film, vabbeh, forse era un po’ lungo. La Grande Bellezza, nel film, c’era perlomeno per chi era interessato a vederla: ai più, invece, è parso interessare solo il tasso di riconoscibilità della bruttezza, come se relegassero a scontato fondale – e siamo al problema – le silenziose albe romane con la loro luce radente e fotografica, i dipinti e le statue della Roma segreta, gli scorci mozzafiato, i giardini degli aranci, il banalissimo contrasto – nessun timore ad ammetterlo – tra la grande bellezza dell’arte classica e l’apatia dei romani che non conoscono Roma ma s’accalcano dietro a ogni manzoniana merda d’artista. A Roma non c’è da accumulare modernità in case labirintiche: c’è da aprire bene le finestre. In sintesi la Grande Bellezza c’era, e il titolo del film dopotutto era questo: mancava la vera bruttezza, ma è meglio del contrario. Poi sì, lungo la pellicola corre parallela anche la bellezza dell’inespresso, dell’ambizione non realizzata da Jep Gambardella e da intere generazioni. Anche qui niente di nuovo: ma perché, dovrebbe esserci? Quel flusso audiovisivo forse non abbisognava neppure di frasi sospese e analgesiche in stile Terrence Malick: la frase «la povertà non si racconta, si vive» a quanto pare è piaciuta, «mangio le radici perché le radici sono importanti», invece, è parsa una stronzata. Il duplice riferimento al Flaubert che voleva scrivere un romanzo sul niente (in realtà «su niente», che è diverso) non tiene conto di una ricchezza che Flaubert non aveva: il cinema. Forse ci avrebbe provato, come ci ha provato Sorrentino col suo niente «incompleto» per definizione. Che poi capita spesso, di dire che un film è incompleto, che è un’occasione mancata, che mancava questo e quello: ma è perché in realtà ci è piaciuto, e vorremmo che proseguisse.
LA GRANDE BRUTTEZZA. IL CORRIERE SBATTE IN PRIMA PAGINA TUTTI I MALI DI ROMA, TANTO PER CAMBIARE.
Da un articolo di Conti Paolo – Rizzo Sergio – Corriere della Sera.
Il crepitio delle fiamme che divorano rabbiose una Smart squarcia il silenzio della notte. L’aria è irrespirabile, il calore tremendo. Il vetro blindato della posta che sta dirimpetto, sul marciapiede, cede di schianto. Le finestre degli uffici del Senato, a venti passi di distanza. Siamo dietro Palazzo Madama, nella zona più controllata della capitale d’Italia, con una garitta dei carabinieri ogni dieci metri. In 2.767 annidi storia a Roma si è visto certamente di peggio. Soprattutto di notte. «Un incosciente sei, uno che non considera l’imprevedibilità degli eventi se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni finestra aperta, dove di notte si spiano i tuoi passi, sta in agguato la morte», ammoniva nelle sue Satire diciannove secoli orsono il poeta Giovenale. Anche a piazza dei Caprettari, il posto dove alle tre del mattino di venerdì 17 gennaio i coatti hanno dato fuoco a quella Smart, sono accaduti fatti ben più gravi. E non serve andare tanto indietro nel tempo. Basterebbe ricordare la rapina che nel febbraio 19?5, in quello stesso ufficio postale davanti al quale è bruciata la piccola utilitaria, si concluse con l’assassinio del poliziotto Giuseppe Marchisella: prima tragica impresa romana del Clan dei marsigliesi, antesignani della Banda della Magliana. Ma quel gesto sfrontato nel cuore del potere, in faccia a telecamere disseminate ovunque, dice tutto del degrado anche sociale nel quale è ripiombata Roma. Specchio di un Paese mai come oggi identificabile con quel lapidario aforisma regalatoci un secolo e mezzo fa da Mark Twain: «Così come noi americani non abbiamo passato, l’Italia sembra non avere futuro». Tanto da far tornare alla mente l’equazione della prima squassante inchiesta sulla speculazione edilizia e i rapporti fra affari e politica condotta dall’Espresso cinquantotto anni fa «Capitale corrotta Nazione infetta». Nel 2008 il futuro sindaco Gianni Alemanno aveva promesso in campagna elettorale tolleranza zero verso la criminalità, dopo l’omicidio a Tor di Quinto di una signora, Giovanna Reggiani, per mano del rumeno Nicolae Mailat.Cinque anni e mezzo dopo il suo successore Ignazio Marino si ritrova a guidare una città che la classifica della sicurezza stilata proprio dall’università romana La Sapienza per ItaliaOggi Sette colloca al posto numero 101 sui 110 capoluoghi. Due posizioni dietro Napoli, che occupa la casella 99. E non può consolare il fatto che Milano sia ritenuta ancora meno sicura, la peggiore d’Italia. Perché la graduatoria della qualità complessiva della vita piazza il capoluogo lombardo ben 27 posti sopra Roma, precipitata negli ultimi due anni dalla cinquantunesima alla sessantaquattresima posizione. E gli incidenti? Anche attraversare la strada può essere statisticamente un bel rischio. Nel 2012 sono stati travolti e uccisi dalle auto 56 pedoni, contro 24 a Milano, 9 a Napoli, 8 a Torino, Firenze e Palermo. Perché mai proprio a Roma il 37,8 per cento dei 148 investimenti mortali registrati in tutta Italia? Forse perché c’è l’abitudine di attraversare fuori dalle strisce o con il semaforo rosso. Ma pure chi al Comune ha il compito di studiare come far passare i pedoni da un lato all’altro della strada deve avere le sue responsabilità. Secondo i test degli attraversamenti pedonali realizzati dall’Epca, l’European pedestrian crossing assessment, Roma è al trentesimo posto su 31 città europee esaminate. Poi c’è il traffico: un girone dantesco. Se si eccettua Catania, nel Paese (l’Italia) che ha il record mondiale di veicoli a motore in rapporto agli abitanti, Roma è la città in assoluto con più automobili: 67 ogni cento residenti. Contro 53 di Milano, 5o di Madrid, 45 di Parigi, 43 di Bruxelles, 41 di Barcellona, 4o di Vienna, 32 di Londra e Berlino. Senza considerare il numero enorme di moto, motorini, furgoni e pullman turistici che stringono il fragile centro storico della capitale in una morsa d’acciaio. E stato calcolato che il 20 per cento della superficie urbana della città sia coperta da veicoli. Ogni cittadino romano trascorre mediamente in auto 227 ore l’anno. Conseguenza di uno sviluppo urbano folle e insensato, con quartieri periferici cresciuti senza alcun criterio intorno a strade del tutto insufficienti e un trasporto pubblico inesistente o allo sbando. Anche se i dipendenti dell’azienda di trasporto comunale sono quasi 12 mila, uno ogni 229 abitanti. II risultato di decenni di gestione sconsiderata della città, in assenza di qualunque visione strategica, si può condensare nei 37 chilometri di linee metropolitane di cui è dotato il Comune territorialmente più vasto d’Europa, con quasi tre milioni di residenti e un’area urbana di cinque milioni: due chilometri in meno dei 39 della città spagnola di Bilbao, un sesto di Parigi, meno di un decimo di Londra. Commenta la scrittrice Dacia Maraini, che vive nella capitale da sessant’anni: «A Roma tutto ciò che appartiene alla mano pubblica è difficile, quasi nemico. Penso al sistema viario. Al traffico privato infernale. Ai tram e agli autobus strapieni, alle file alle fermate…». Il tutto in un clima di arbitrio assoluto, nel quale nessuno sente il dovere di far rispettare le più elementari regole di convivenza civile. La prova è in piccoli episodi, come quello avvenuto in una sera di novembre davanti a una famosa pasticceria in via Albalonga, nel quartiere Appio. Da mesi gli abitanti protestavano inutilmente per le auto in sosta selvaggia in seconda e terza fila, con esposti al sindaco, ai vigili, al questore e al prefetto. Quella sera c’erano tante macchine a ostruire il traffico che il bus 87 non riusciva a passare. E finita che anziché rimuovere le auto hanno deviato il bus, dopo aver chiamato senza successo la polizia municipale. Tante automobili, in una struttura urbana in larghissima misura inadatta al traffico veicolare, per di più nel caos assoluto, significa tanti incidenti. Nel 2012, ben 43 al giorno per un totale di 15.782. E tanti morti. Secondo l’Istat le vittime nella sola Roma sono state 154, contro 61 a Milano, 26 a Torino, 34 a Napoli e 932 nell’intero Paese. Con meno del 5 per cento della popolazione, la capitale è responsabile del 16,5 per cento degli incidenti mortali. La manutenzione delle strade è ai minimi termini. Al punto che una importante casa motociclistica ha deciso di collaudare la resistenza delle carrozzerie dei suoi scooter facendogli percorrere piazza Venezia. Negli ultimi due anni il numero delle voragini è quasi raddoppiato, da 44 nel 2011 a 84 nel 2013. Smottamenti del terreno, pessima qualità dei lavori stradali, scavi per condutture chiusi maldestramente, perdite idriche: le cause sono tante. Può perfino succedere, com’è accaduto il 16 luglio scorso, che un camion dei Vigili del fuoco, chiamato per l’apertura di una voragine sprofondi a sua volta in un’altra voragine. Come può anche accadere che nel pieno centro della città, fra piazza Venezia e il Pantheon, i telefoni restino isolati quattro giorni perché un cavo dell’alta tensione dell’Atea è andato a fuoco, bruciando tutte le linee. O che, tre mesi più tardi, l’illuminazione pubblica intorno al Senato rimanga misteriosamente spenta per giorni. Questo per dire come il livello dei servizi pubblici in una grande città sia essenziale per determinare la qualità della vita. I rifiuti, per esempio. Roma da anni è pericolosamente sull’orlo di una colossale emergenza ambientale, con la discarica più grande d’Europa che periodicamente viene considerata esaurita per essere di nuovo prorogata. La produzione di spazzatura è mastodontica: 66o chili l’anno ad abitante. Per capirci, 113 chili più di Napoli, 127 più di Milano, 155 più di Messina, Zoo più di Trieste. Ufficialmente, la raccolta differenziata è al 25,1 per cento, percentuale fra le grandi città superiore solo a Bari, Napoli, Catania e Palermo. Ufficialmente… Per quanto riguarda poi l’igiene urbana, basta guardare in quali condizioni indecenti è tenuto uno dei monumenti più importanti dell’Italia intera: la Breccia di Porta Pia, attraverso cui i bersaglieri guidati da Giacomo Pagliari entrarono nella Roma papalina il 20 settembre del 1870. Assediata dalla spazzatura, senza nemmeno un cartello che spieghi dove ci si trova: le aiuole circostanti infestate dalle erbacce, sono un ricovero di senzatetto. A 30o metri da una sede dell’Ama, l’azienda municipale ambiente che conta poco meno di 8 mila dipendenti. Compreso un discreto numero di spalatori di foglie: 164 assunti in un colpo solo dalla giunta di Gianni Alemanno nel 2011. Eppure molte strade alberate, da mesi, sono in condizioni pietose. Non sono cose di oggi, intendiamoci. Nel centro si incontrano praticamente a ogni angolo le targhe di marmo che nel Settecento ammonivano gli abitanti a non gettare l’immondizia per strada, al prezzo di severe pene corporali. Minacce che però non dovevano incutere tanto timore, se all’inizio dell’Ottocento Stendhal raccontava: «Regna nelle strade di Roma un odore di cavoli marci». Il problema è non avvertire che siano passati due secoli. L’incuria è totale, in linea con la reputazione dei servizi pubblici. C’è un sito internet con centinaia di fotografie, scattate in ogni via e strada, dal centro alla periferie, che testimoniano lo stato pietoso del capitolo rifiuti. Tra queste, lo scatto formidabile che ha immortalato alcuni maiali grufolare tra i sacchetti di immondizia in via Boccea, appena dopo le feste natalizie. Grazie a quella foto si è scoperto che a fine anno l’Ama aveva il personale a ranghi ridottissimi: erano tutti in ferie. Per non parlare del campo profughi abusivo che da anni resiste indisturbato sul Colle Oppio, a due passi dalla Domus Aurea neroniana, con inferriate del parco ridotte a stendini perla biancheria e i vestiti lavati nelle fontane a cento metri dal Colosseo. L’indirizzo di quel sito è tutto un programma www.romafaschifo.com. In questo scenario non poteva mancare una piaga che sta affliggendo tante città, soprattutto al Sud: il furto dei cavi di rame. Ma non solo. Nel Cimitero monumentale del Verano, progettato da Giuseppe Valadier tra il 1807 e il 1812, continuano a sparire croci di bronzo e suppellettili delle tombe che alimentano il traffico clandestino dei metalli, in mano a molte famiglie di nomadi. Intorno ai sepolcri, e in alcune cappelle, la notte dormono disperati senza casa. Ha scritto un giorno al Corriere il lettore Gordon Tanzarella: «Ho visto un cartello che diceva: 1n questa tomba ci sono i nostri cari, vi preghiamo di averne rispetto e di non usarla come dormitorio”». La conclusione non può che essere una La città che è la più grande azienda italiana per stipendi pagati, con un numero di dipendenti comunali pari a oltre il doppio degli occupati negli stabilimenti italiani della Fiat, non è governata Certo, governarla non è semplice. Pensando soltanto al delirio delle 600 manifestazioni che l’attraversano ogni anno, con un impatto terrificante sui servizi. E a chi, come il Financial times gli ha messo il dito in un occhio, parlando di una città «depressa», Marino replica serafico: «Roma non fu fatta in un giorno. Stiamo facendo progressi». Auguri. Dice lo storico Vittorio Vidotto, autore del saggio Roma contemporanea: «ll problema principale di Roma è la sua incapacità di diventare una moderna capitale. Non si è modellato lo sviluppo della città sulla base dei trasporti. L’antica struttura radiale di Roma sarebbe potuta essere la base per linee logiche di espansione ma così non è stato. Poi c’è la sua triplice identità: grande città storica, capitale della Repubblica e centro del cristianesimo. E troppo spesso l’amministrazione comunale si è trovata in aperto conflitto col governo nazionale e con le altre città italiane, assai poco disposte ad assicurare finanziamenti a Roma per la sua condizione di capitale. E poi c’è la pochezza degli ultimi sindaci. Infine un male diffuso: l’assenza di qualsiasi cultura legata alle regole condivise e rispettate da tutti». Colpa dei cittadini, dunque. Ma anche di una classe dirigente che ha privilegiato gli interessi privati a quelli collettivi. Non c’è altra capitale occidentale la cui crescita urbana sia stata così disordinata e di scarsa qualità. Fra il 1951 e il 2013 i residenti nella città sono aumentati da un milione 651 mila a 2 milioni? 53 mila Il consumo del suolo è risultato vertiginoso, con il 20 per cento del territorio ormai non più naturale. Frutto di una espansione assurda, che non si è mai arrestata, anche dopo l’edificazione degli immensi quartieri dormitorio degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta Ha solo cambiato pelle. Fra il 1993 e il 2008 altri 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e coperti di cemento ben oltre la domanda di case. Con il risultato che oggi abbiamo nel solo Comune di Roma 245 mila abitazioni vuote, spesso in zone senza servizi, prive di collegamenti e di strutture decenti. E se adesso nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d’oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore aggiunto totale, contro l’86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi. D mattone ha lasciato segni profondissimi nella geografia del potere. Non per nulla il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone controlla un rilevante pacchetto azionario dell’Acea, la più grande municipalizzata italiana tuttora guidata da uomini a lui non sgraditi, e possiede il Messaggero, maggiore quotidiano della capitale. Mentre il secondo giornale, il Tempo, è nelle mani di un altro costruttore: Domenico Bonifaci, il quale tanti anni fa l’ha comprato dallo stesso Caltagirone. E segni fisici profondissimi ha lasciato l’abusivismo edilizio, abbattutosi sulla città come una piaga biblica. Lo dimostrano le 597.000 (cinquecentonovantasettemila) domande di condono presentate dal 1985. Per dare un’idea del tasso di illegalità, è come se un cittadino su quattro o poco più avesse commesso un abuso, senza considerare quanti non hanno compilato il modulo. La piaga ha attraversato tutte le amministrazioni: emblematica la storia delle Terrazze del Presidente nella zona di Acilia, oltre 1.300 appartamenti sanati in un colpo solo durante la giunta di sinistra al termine di un’offensiva speculativa nata vent’anni prima su terreni un tempo agricoli grazie a un accordo fra i costruttori Antonio Pulcini e Salvatore Ligresti. Il bello è che di quelle domande di condono, con l’ultima sanatoria chiusa ormai dieci anni fa, ne devono essere ancora esaminate almeno 150 mila Non sarà perché, come dice Toni Servillo, alias Jep Gambardella in quel meraviglioso e sconcertante affresco del potere che è La grande bellezza, «a Roma si perde un sacco di tempo»?
Consulenti, trasporti, rifiuti. La Capitale delle spese folli. Uno studio di Ernst & Young syima nella cifra monstre di 1,2 miliardi di euro il disavanzo strutturale del Campidoglio. Che vanta uno stuolo di avvocato: sono 23 le toghe a libro paga per 6,5 milioni di euro, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. D'accordo: quella macchina da debiti che si chiama Campidoglio Ignazio Marino da Genova la guida da meno di un anno. E le responsabilità di un buco che si fatica perfino a mappare (uno studio di Ernst & Young parla di un disavanzo strutturale di circa 1,2 miliardi l'anno) è sua quanto dei suoi predecessori, quasi tutti di centrosinistra. E Roma ha un numero di dipendenti pari agli abitanti di Benevento (62mila). Epperò spulciando tra i conti dell'amministrazione Marino si trovano voci a dir poco discutibili. Che certo non sono la causa del debito a nove zeri. Ma uno schiaffo alla coerenza sì. Prendete i consulenti. Marino ha inzeppato il suo staff con 75 esterni nel suo staff. In mezzo vecchi politicanti come Enzo Foschi (capo della segreteria a 114.282 euro l'anno), giornalisti come Chiara Romanello (ufficio stampa, 109mila) e l'evidentemente taumaturgico Francesco Piazza, che per lavorare al cerimoniale si becca 154mila euro l'anno. In totale fanno 4.624.614 euro all'anno. Sindaco e assessori costano poi, secondo un rapporto Uil-Eures, 100mila euro ciascuno, contro i 93mila di Milano, i 92mila di Torino e i 72mila di Napoli. C'è poi l'Ipa, l'istituto di previdenza e assistenza per i dipendenti, un altro carrozzone che eroga stipendi lauti e consulenze molto ambite. Presidente e direttore, di nomina diretta del sindaco, starebbero pensando a informatizzare l'ente con un investimento di 5 milioni ignorando la possibilità di risparmiare utilizzando le non trascurabili strutture informatiche nonché il personale di Roma Capitale. Altro esercito di paperoni al soldo del Campidoglio è quello degli avvocati: 23 toghe con stipendi tutti tra i 260mila e i 320mila euro, per un totale di 6 milioni e mezzo. Ed è vero che una voce importante in busta paga ce l'hanno le percentuali sulle cause vinte, ma andatelo a spiegare al cittadino alle prese ogni giorno con il bus che tarda o la spazzatura non raccolta. Demagogia? Sì, ma sacrosanta. C'è poi la malagestione: ogni anno Roma Capitale incassa 27 milioni dagli affitti dei suoi 43mila immobili, peraltro con un tasso di morosità piuttosto alto, e ne spende circa 21 per affittare dai privati 4.801 appartamenti per l'emergenza abitativa. I conti non tornano. Non va meglio con le municipalizzate. L'Atac, la società di trasporto pubblico, solo nei confronti dei fornitori vanta (si fa per dire) un debito di 519 milioni. Malgrado ciò centinaia di bus giacciono guasti nei depositi e qualunque passeggero ha la sua aneddotica di odissee urbane. E l'Ama? Dal 2009 è alle prese con gli interessi sul suo debito che ammonta a 600 milioni di euro. Non c'è da sorprendersi quindi se i cassonetti traboccano di spazzatura e i maiali grufolano tra la «monnezza». Anche la tanto reclamizzata pedonalizzazione del Fori Imperiali, un flop inviso un po' a tutti, è costata ben 1,4 milioni. «La corsia preferenziale più costosa d'Italia», la definì un consigliere dell'opposizione. Ci sono poi spese minori ma che infastidiscono. Suona ideologico, infatti, scegliere di non spendere 400 euro per i fiori destinati al monumento ai caduti di Nassiryia e poi destinarne 10mila per il funzionamento del Museo storico della Liberazione di via Tasso, come da delibera 413 del 4 dicembre scorso. Non solo: Roma Capitale spende 658mila euro per aderire ad «associazioni di rilievo nazionale comunitario e internazionale». Certo, c'è l'Anci, la cui quota associativa è di 404mila euro (però!), ma c'è anche l'istituto Alcide Cervi di Reggio Emilia (12mila euro) e il criptico Cicu: comitato italiano delle città unite (14.283 euro). Boh.
Dai graffitari alla monnezza: il magnifico fallimento di una Capitale in svendita, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Carlo Verdone mi dice che dal suo balcone al Gianicolo vede già «il buio del magnifico fallimento della mia città, una nuvola di depressione». È la stessa che io respiro a Termini già alle 6 del mattino con il puzzo d’orina che si sprigiona dall’ultima uscita della metropolitana e si diffonde, unica fragranza in mancanza di ponentino, sul piazzale dove si staglia l’orrenda statua di Papa Wojtyla che è romanissima arte per amicizia e non per valore estetico. Verdone nota con dolore che «mentre a Los Angeles si celebra la Roma metafisica di Sorrentino, qui fallisce quella fisica ». E prevede che, alla fine, «quando saranno finiti anche i 750 milioni che sono stati stanziati adesso, venderanno Roma ai cinesi come hanno fatto in Kenya». «Venderanno Roma agli asiatici e Pompei ai tedeschi. Quelli sanno come intervenire. Noi facciamo solo eventi e niente interventi». Dunque leggiamo, io e Verdone, il tempo dello stesso fallimento di Roma ognuno nel suo spazio. Girando a piedi tutte le mattine io ho imparato a riconoscere i borseggiatori fissi di Termini, che si nascondono tra le auto posteggiate, «finti poveri che ogni tanto picchiano i veri poveri» mi spiegano i carabinieri e io penso che somigliano ai furfanti organizzati che ho visto a Calcutta. Verdone invece, che ha lavorato in periferia, è come entrato dentro la canzone di Renato Zero («C’è chi fin là non giunge mai / è lì che muore il mondo») e perciò dice che lì Roma è strafallita molto tempo fa». Io invece a Termini ho visto all’opera la banda delle baby scippatrici: una decina di bambine che “lavorano” sotto, sulle banchine in direzione Laurentina, e sopra, nei treni dei pendolari. Tra i portoghesi che regolarmente non pagano il biglietto, ne riconosco sempre uno che salta i tornelli come un atleta. E ho pure notato che i vigili urbani si voltano dall’altra parte. Li ho invece visti multare un giovane dall’aria per bene che diceva di avere smarrito il biglietto. Ha versato 50 euro ripetendo con l’aria umiliata: «Ma ho la faccia di uno che non paga il biglietto, io?». Racconto a Verdone che oggi, a Termini, sulla parete di un’edicola ho annotato un nuovo orribile scarabocchio decifrabile come “Marino sei un fallito”, firmato dal graffitaro Lash Dirty Ink, che ha persino un sito Internet dove esibisce i tatuaggi. Commenta Verdone: «Ne prendessero uno, almeno una volta. Certo, questi sono dei gran maleducati, ma gli educatori, a Roma, dove stanno?». Ne parlo con Massimiliano Tonelli che dirige il giornale online Romafaschifo.it ed è un grido d’amore così esasperato da capovolgersi in dannazione. Il sito è la modernizzazione della statua di Pasquino dove venivano postati, come i file di oggi, i pizzini di denunzia che allora si chiamavano cartigli. E le divinazioni di un tempo oggi sono i video. Ebbene, Tonelli riceve minacce di morte – «ti faremo fuori» – perché riesce ogni tanto a beccare in azione i graffitari che dice «sono peggio della mafia dei cartellonisti, dei caldarrostai che dominano il mercato dei camion-ristoro e dei bulli travestiti da antichi romani. Il graffitaro più distruttivo è quello che si firma Reps perché non usa il solito spray ma l’acido con cui ha sfasciato, per esempio, tutte le nuove pensiline». Non so quante siano, ma di sicuro sono molte centinaia queste pensiline dell’Atac in cristallo chiaro e in metallo. Ne racconto una per tutte, quella di via Manzoni: ilsedile è stato asportato (vengono riciclati nei mercatini selvaggi) e le scritte sono indelebili e trasversali: «merda a Berlusconi» e «comunisti di merda». Quelli dell’impresa Clear Channel, che forniscono gratis le pensiline sperando di recuperare e guadagnare con la pubblicità, sono disperati e progettano la fuga. Dice Verdone: «In tutta Europa hanno eliminato i graffiti tranne a Roma dove sono tutti artisti imbrattatori, tanto restano impunti». Dunque Verdone la guarda dal Gianicolo e la vede «spenta nonostante il tramonto meraviglioso» ma la malinconia estetica non è nulla in confronto al dolore fisico: «La deformano sino alla bruttezza e la sformano sino al pericolo ». E racconta Verdone: «Per ben due volte ho rischiato di morire cadendo, anzi precipitando con la moto in una buca». Ed è un’immagine da fallimento di guerra questa città sventrata, con la terra che si sbriciola, «e ogni tanto ci buttano una balla di catrame ma, dopo una settimana, la buca è di nuovo là, più profonda di prima». E mi dice che per andare a casa «percorro ogni giorno una bella strada larga, ma a sinistra, come in Inghilterra, perché è meglio rischiare di sbattere con le auto che ti vengono incontro piuttosto che finire dentro le buche». Chiedo a Tonelli se il suo sito ha mai tentato una mappa, una carta geografica di queste famose buche, un indirizzario, una topografia sovversiva del fallimento, da mostrare magari al sindaco che, tarantolato come il vecchio Ciccio Franco di Reggio Calabria, crede che il default dipenda davvero dalla contabilità, dai soldi che, mannaggia, lo stato non gli voleva dare. E invece la diagnosi del tempo è già nella descrizione dello spazio: «Il fallimento – dice Verdone – comincia dalla mancanza di manutenzione ». Tonelli sostiene che è impossibile disegnare la topografia del terrore «ma stiamo lavorando al contrario, faremo la mappa della Roma senza buche, e sarebbe bello presentarla al sindaco, come il curriculum vitae – ah, la lingua batte dove il dente duole – del fallimento». Anche Verdone, per esempio, potrebbe disegnare il suo curriculum, ma nel senso in cui lo sognava Walter Benjamin, il diagramma di una vita perennemente con l’acqua alla gola: «Dal balcone del Gianicolo sino all’ultima buca evitata». Quali sono i suoi palcoscenici del fallimento di Roma, caro Verdone? «Beh, cominciamo con corso Vittorio Emanuele, il rione Monti, e poi via Cavour, in mezzo a gelati che sanno di sapone, panini precotti, pizze a taglio e gente che ti vuol far mangiare a tutti i costi porcherie. E dove c’era una libreria ora ci sta una saracinesca chiusa con la scritta “vendesi”. E in via Giulia, che era la più bella strada del mondo, non ci si può andare né in macchina né a piedi. E dappertutto vendono la stessa fregnaccia, la solita statuetta di Giulio Cesare fabbricata in Cina. E i Fori imperiali, che sono una pedonalizzazione sbagliata e pure finta… e la nuova Metropolitana che sono sicuro che io muoio e manco la vedo, capolavoro di un nuovo stile architettonico: l’incompiuto romano. E ancora quel raccordo anulare da terzo mondo. È come nel film di Fellini. Quello era cosi visionario che aveva già filmato anche il fallimento della città di Marino». Dico: c’è anche la pista ciclabile del Tevere che umiliando l’idea stessa di passeggiata, con i tronchi d’albero, la spazzatura, il fango e i pavimenti divelti, sbugiarda persino la bici del sindaco. «Io – dice Verdone – so che questa città, negli anni scorsi, ha sopportato menzogne di ogni genere, e subìto tanti e tali scandali che capisco bene quelli che non volevano dare soldi a Roma. Pensano: tanto se li rubano». L’idea di fallimento è quindi la traccia di un’epoca, e ogni mattina, in piazza Santa Maria maggiore, dove la Basilica è sempre transennata per impedire ai clochard di sistemarsi sui gradini di Dio, c’è una signora che esce dalla sua stabile tana di stracci , plastica e cartoni, dove vive rasoterra. Ingenuamente mi stupisco che si svesta e si rivesta senza neppure guardarsi intorno. Ci sono giacigli dappertutto sui marciapiedi, e rimasugli di cibo sui cartoni. È questo che chiamano «desocializzazione estrema» ed è difficile immaginare come Roma, ora che ha avuto i sui 750 milioni, possa assicurare a questa umanità dannata non dico la fraternité del 14 luglio ma almeno un po’ di decenza. E vedo il fallimento anche nel palazzo dell’Opera dove il sindaco Marino si è esibito in una delle sue peggiori performance minacciando la chiusura e – rieccolo – il default, ma anche domandando preoccupato: «Quanto dura questa Manon Lescaut?». Sulla via Nazionale passo davanti al piccolo Eliseo e all’Eliseo. I teatri a Roma sono luoghi di ricreazione per la terza età, quando va bene. E il teatro Valle è diventato il “centro sociale” degli artisti che lo hanno requisito. In alto c’è il Viminale, so che lì c’è Angelino Alfano e che la nostra sicurezza è nelle mani del ministro del Kazakistan. Verdone, affacciato dal suo balcone come da un palco di anfiteatro, ha una vista che toglie il fiato sul magnifico fallimento. Al punto che legge anche i segni che non vede: «Lo so che sembra un’ingenuità ma non c’è nessuno che dia il buon esempio, forse a Roma tutti meriterebbero di fallire». Vado avanti e c’è il Palazzo delle esposizioni, un’istituzione antica e ancora efficiente che parla di un’altra Roma. Poi una curva a gomito prepara la sorpresa dei fori imperiale e di Palazzo Venezia con l’altare della patria, e nessuno ormai sa di quel foro dove poggiando l’occhio vedi in linea retta l’obelisco di piazza del Popolo, una prova della potenza della geometria e dell’ordine massonico. Infine c’è la Roma cartolina dei provinciali, con la casa di Berlusconi che è diventata folklore, come le orribili bancarelle del centro storico che è «il vero fallimento di Roma» secondo Verdone. Nella bellissima piazza Lovatelli, dove ha sede la Sovrintendenza, si può scoprire persino che è vero quel che mi dice Tonelli e cioè che «è stato divelto il palo che segnalava l’isola pedonale, è stata rotta la catena e ora beatamente parcheggiano le auto tutti quelli della Sovrintendenza». E per me è questo il segno più romano del fallimento di Roma. Conclude Verdone: «È una città tutta sbagliata, biglietto da visita di un Paese tutto sbagliato. Sorrentino è stato bravo perché ha rimosso tutti i segni del fallimento mostrando che sotto c’è sepolta la grande bellezza».
I sindaci e la Grande Bruttezza di Roma. Senza gli infiniti errori nella gestione potremmo goderci una corsa agli Oscar nel nome di Roma, scrive Luca Telese su “L’Inkiesta”. Se il Comune di Roma non avesse un dissesto di 1.200 milioni l’anno, con oltre centomila euro di perdite al mese. Se la Capitale non possedesse ben 21 partecipazioni dirette e 140 pacchetti azionari, ovvero un castello di debiti e perdite vertiginose, incastonati l’uno nell’altro come una matrioska. Se le municipalizzate non occupassero oltre 25.000 dipendenti, un esercito a bassa redditività; se l’Atac non avesse da pagare più stipendi dell’Alitalia. Se più di un passeggero su due, sui mezzi pubblici capitolini, non evitasse simpaticamente di pagare il biglietto. Se tra il 2008 e il 2010 il sindaco Alemanno non avesse disposto nelle municipalizzate quasi 4.000 nuove assunzioni, un piccolo esercito tra cui si contano parentele, amicizie, e persino qualche cubista. Se il nuovo comandante dei Vigili non fosse indagato per corruzione. Se il sindaco Marino non avesse minacciato di “bloccare la città” a meno che non fosse subito approvato il decreto Salva-Roma. Se il M5s non avesse fatto strenua opposizione a quel decreto e l’ex assessore al Bilancio Linda Lanzillotta, oggi senatrice di Scelta Civica, non fosse anche lei convinta che il salva-Roma sia un grande errore, che non sana il problema del disavanzo strutturale. Se le commissioni parlamentari non avessero bloccato il decreto per ben 42 giorni. Se Renzi non avesse bacchettato quello che un tempo era il suo principale alleato, Ignazio Marino, per la sua clamorosa protesta. Se non fossimo a pochi giorni dalla festa dei due Papi. Se la città non si trovasse in stato comatoso. Se non incombesse la minaccia della svendita per tutti i beni della città, le municipalizzate che fanno gola ai grandi signori della Capitale. Se tutte questi errori non si fossero sommati uno sull’altro, forse oggi potremmo celebrare la festa degli Oscar in cui Paolo Sorrentino concorre nel nome di Roma, come un grande evento di immagine dove la città parla al mondo e lancia un enorme messaggio positivo, un racconto di sè, una incredibile opportunità promozionale. Ma siccome tutto questo accade Roma resta la capitale della “Grande Bruttezza”, la capitale offesa cantata splendidamente da Pierpaolo Pasolini, la “splendida e misera città” de pianto della Scavatrice, quella che non riesce a sottrarsi al proprio destino di nobile ma irrevocabile decadenza. In questa catastrofe, come in quella meno recente di Genova, tramonta il mito del sindaco di prossimità, il sindaco che risolve, mentre la politica e il parlamento chiacchierano a vuoto. Oggi semmai la parabola di Roma ci racconta il contrario: la storia dei sindaci impotenti, a volte spendaccioni o irresponsabili (i predecessori di Marino) che possono risolvere poco o nulla, che sono prigionieri di enormi debiti stratificati nel tempo, e che hanno bisogno del salvagente della politica per salvarsi dal naufragio.
Roma, così si è scelto di uccidere la città. La capitale è fatta di ghetti e di enclave di lusso. Colpa dei politici ma anche degli intellettuali, scrive Christian Raimo su “L’Inkiesta”. Vivo a Roma da quando sono nato, non ho mai vissuto in un’altra città che non fosse Roma, anzi, a dirla tutta, non ho mai stazionato più di due o tre settimane di seguito in un altro posto che non fosse Roma, per cui – come dire – le elezioni del sindaco mi riguardano. In tutti questi anni ho votato una volta sola con un senso di sfrontata convinzione: il mio primo voto, a diciott’anni da poco compiuti, per Renato Nicolini. Il resto delle volte: Rutelli (ballottaggio), Rutelli, Veltroni, Veltroni, Rutelli mi sono sempre turato un po’ il naso (per tapparmelo quasi del tutto e farmi mancare l’ossigeno per Rutelli 2008): questa cautela era dovuta all’impressione che la proposta dei sindaci di sinistra e centrosinistra andasse in una direzione di troppo timida trasformazione della città. Roma dal 1993 è diventata una città indubbiamente più vivibile, ma sarebbe potuta diventare una città molto più vivibile, più giusta dal punto di vista sociale, meno ingovernabile; dall’altra parte avrebbe potuto essere – con i suoi quasi tre milioni di abitanti e i suoi 1300 km quadrati di estensione – ripensata completamente e trasformata in una metropoli. Non è accaduto, per motivazioni molteplici e complesse. Prima proverei a riassumerne alcune e poi ne vorrei sottolinearne una cruciale che voglio porre all’attenzione dei candidati sindaci – quelli presentabili. Parto dalla mia ultima esperienza di campagna elettorale: per le elezioni a presidente della Regione, mi sono speso insieme a molte altre persone per Nicola Zingaretti. Da parte sua, dei partiti che lo appoggiavano, mi colpiva una prospettiva marcatamente diversa e ribadita fino a diventare uno slogan in più occasioni: «La cultura al primo posto nel programma». Molte volte, nel corso di questi anni, Zingaretti si è mostrato sensibile alle questioni dell’universo culturale romano e laziale – nei limiti delle possibilità di un assessore attento e preparato come Cecilia D’Elia che scontava la debolezza di un ente-cenerentola come la Provincia – fino a voler incontrare, per fare un esempio, i lavoratori di Cinecittà in sciopero o i lavoratori dell’editoria in crisi negli ultimi atti della campagna elettorale. Per questo da quella che è stata praticamente l’unica vittoria del centrosinistra alle ultime elezioni mi sarei aspettato un coraggio molto diverso e sono rimasto interdetto – non sono stato il solo – dalla investitura di Lidia Ravera a assessore alla Cultura della Regione Lazio. Una persona onesta, beninteso, che sarà affiancata da uno staff competente, beninteso, che magari sta imparando in fretta come funziona la macchina faticosa della politica, beninteso, ma che per molti versi a sua stessa detta è arrivata lì totalmente inadeguata a quel ruolo (nel 2008 candidata con la Lista Bonino si autodefiniva «una signora sabauda» che si scocciava a dare i volantini per fare campagna elettorale; una settimana fa rilasciava un’intervista a Paese Sera in cui formulava una serie di ottimi propositi ma faceva un serio scivolone con una dichiarazione di questo tipo: «Ho rinunciato alla mia libertà e alla mia vita da privilegiata per impegnarmi alla Regione Lazio, perché per 5 anni voglio provarci. Bisogna invertire questa tendenza vergognosa. Il mio è un grande sacrificio: il primo maggio di ogni anno parto per Stromboli e ci rimango fino alla fine di ottobre, da dove produco reddito seduta sul mio terrazzo. Se ho rinunciato a tutto questo deve valerne la pena»). Vorrei partire da quest’errore di scelta non certo per fare una battaglia ad personam ma per provare a ragionare su un errore di metodo (e per tentare anche un’autocritica). Parto alla larga e pongo questa domanda: Quale è stata la grande mancanza nell’immaginare una Roma diversa negli ultimi anni? Un deficit mostruoso di esperienza della città. Quale è stata la seconda grande mancanza? La distanza polare tra gli intellettuali e i politici. Cosa voglio dire con esperienza della città? Per anni ho preso alle 6.50 il trenino metropolitano che viene da Borgata Ottavia a Trastevere, per altri anni alle 7.05 ho preso quello che da Nuovo Salario va a Trastevere. Chi non è mai salito a quell’ora su quel treno non credo possa capire che cos’è Roma nel 2013. Un’eccezione costante. Una città divisa in due. Non a caso Beppe Grillo nel venerdì precedente l’ultimo comizio elettorale del febbraio scorso fece la mossa di prenderlo quel trenino dei pendolari che è l’ipostasi di una situazione perennemente emergenziale e sperequativa. Cosa voglio dire con distanza polare tra intellettuali e politici? Da una parte gli scrittori, i registi, gli artisti se ne sono fregati di coltivare una conoscenza di tipo urbanistico, economico, amministrativo su Roma, si sono in modo estremamente colpevole deresponsabilizzati da un ruolo attivo, critico, personale dall’avere a che fare con quello che questa città diventava; dall’altra i politici hanno preferito affidarsi ai report degli staff e evitare di leggere un libro uno, di vedere un film uno che gli raccontasse una Roma diversa da quella che avevano in testa. Il rimpianto per quello che poteva diventare Roma in questo senso è stato doppio: mentre gli abitanti di Roma hanno cominciato a spostarsi fino a Orte per i prezzi proibitivi delle case, creando di fatto una non-metropoli su un’area vasta praticamente quanto il Lazio, oggi Roma è di fatto una non-città divisa in due – un centro e una periferia che non si parlano perché praticamente non usano la stessa lingua. Ci sono due interviste che metterei a confronto per spiegare quello che intendo. La prima è del 2009, la rilasciò l’allora sindaco Walter Veltroni all’indomani dell’uscita del suo romanzo, Noi. Non parlava ovviamente di politica, ma a latere diceva una cosa che mi aveva colpito quasi quanto la improvvida, ingenua dichiarazione di Lidia Ravera. Siccome Noi è ambientato a Roma Nord, Veltroni prendeva spunto per parlare anche di come era cambiata la sua città e diceva che il risultato di cui era più orgoglioso come sindaco era aver risistemato Villa Borghese cosicché anche lui, per esempio, ci poteva passeggiare in bicicletta con le sue figlie. La seconda intervista è del 2010 ed è stata fatta da Francesco Raparelli a Walter Tocci per una free-press legata al centro sociale Esc. Tocci è stato vicesindaco di Roma fino al 2001 e a rileggere quest’intervista in cui parla di quella primavera dei sindaci targata ’92-’93 viene alla mente tutta una teoria di occasioni sprecate in questi anni dal Pds-Ds-Ps (Perché per rinnovare l’Italia può essere fondamentale amministrare bene le città). Sembrava allora che fosse possibile immaginare un’altra città, e del fatto che non sia avvenuto non per colpa di un destino avverso – a mia chiara memoria – l’unico politico di sinistra che più volte si è preso le responsabilità è colui che, pur governando, ha cercato di evitare che accadesse: proprio Walter Tocci. Mi ha colpito qualche giorno fa ritrovare il suo nome in due documenti diversi e fondamentali e che i candidati di sinistra dovrebbero leggere assolutamente e di cui vorrei parlare per il resto di questo pezzo prima di arrivare a delle conclusioni minime. Il primo è una ricerca che ha redatto il Centro per la Riforma dello Stato. S’intitola Le forme della periferia: Rintraccerete almeno un paio di elementi preziosi: a) la ricostruzione ormai possiamo dire storica dell’amministrazione capitolina di sinistra (1993-2008) intrecciata al calendario legislativo da una parte e alla trasformazione dei partiti dall’altra, utile per cercare di indagare le ragioni di uno scollamento tragico nella rappresentanza; b) il racconto degli interventi dal basso della comunità periferiche che si sono inventate altri modi di fare politica. E veniamo al secondo documento, che è un libro. Bello, fondamentale, necessario, per una città che – nonostante venga ogni giorno iperraccontata dalla televisione, dalla cronaca, dalla sociologia d’accatto – è oggetto raramente di uno sguardo sintetico. L’ha scritto Francesco Erbani, l’ha pubblicato Laterza, e s’intitola Roma. Il tramonto della città pubblica (190 pagine, 12 euro). È un libro che chiunque vive a Roma è bene che legga, figuriamoci chi vuole fare il sindaco. Ma intanto l’ho radiografato per voi estraendone le principali informazioni da tenere presente in vista di queste elezioni. Allora iniziamo l’elenco:
1. Roma ha troppe auto. È la città con più motorini e più macchine d’Europa, in rapporto alla popolazione. Una proporzione di 978 veicoli a motore per 1.000 abitanti (compresi vecchi e neonati) contro i 398/1.000 di Londra, i 415/1.000 di Parigi e 621/1.000 di Barcellona.
2. Roma ha troppe case nonostante da un punto di vista demografico non cresca così tanto. Dal 2000 un incremento dello stock edilizio del 1,4% (per Milano è lo 0,7%).
3. Roma ha una grande tradizione di abusivismo edilizio. Negli anni Settanta, secondo Borgate di Roma di Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, circa 830.000 romani vivevano in case abusive.
4. Roma ha una grande tradizione di eccezioni alla regola. A pochi mesi dalla fine della sua legislatura il sindaco Alemanno stava per fare approvare, se non ci fosse stata una strenua opposizione anche con occupazioni dell’aula consiliare, 64 delibere in deroga al Piano regolatore del 2008 per consentire costruzioni per un totale di 25 milioni di metri cubi.
5. Roma ha un grande debito, circa 9 miliardi di euro; scarsissima liquidità, e in modo paradossale dichiara per acquisite anche le entrate delle multe che non sono state fatte, creando in questo modo – invece di infrastrutture risolutive – quasi un assurdo stato di ansia poliziesca nella creazione di illegalità stradale da monetizzare.
6. Il progetto veltroniano delle 18 centralità che avrebbero dovuto dar vita a una città decentrata si è rivelato a oggi un fallimento. I casi di Porta di Roma da una parte o dell’Università di Tor Vergata dall’altra mostrano delle colate di cemento isolate dal contesto urbano.
7. La ragione di dove costruire le centralità (16 milioni di metri cubi di costruzioni) non è stata determinata dalle esigenze della città, ma hanno coinciso alla perfezione o quasi con alcune grandi proprietà immobiliari i cui valori in questo modo schizzavano alle stelle: Bufalotta-Porta di Roma e Fiera di Roma erano dei fratelli Toti e di Parnasi, Anagnina-Romanina di Sergio Scarpellini, Ponte di Nona di Francesco Caltagirone, Acilia-Madonnetta di Pirelli Real Estate, etc…
8. Roma è una città in mano ai costruttori privati. Da sempre, pare. Nell’intervista che che viene citata anche da Le periferie di Roma, Ettore Scola ricorda come costruire il personaggio di Aldo Fabrizi di C’eravamo tanto amati, vecchissimo, ormai solo e disabile, che urlava roco a Vittorio Gassman: «Io non moro» mostrasse anche che l’unica continuità storica che Roma ha avuto è quella della speculazione edilizia.
9. In nome di una sudditanza nei confronti dei costruttori sono falliti anche quei compromessi che si chiamano Programmi di Recupero Urbano, secondo i quali dal 2006 in avanti si individuavano i quartieri di edilizia popolare che nonostante fossero stati creati pochi anni prima, erano privi di servizi e mostravano crepe, e per i quali il Comune concedeva ai privati nuovi permessi di costruire in aree definite non edificabili in cambio di soldi per fare strade, biblioteche, scuole, e altri servizi mancanti.
10. Porta di Roma doveva essere una specie di quartiere modello, una specie di Eur, con laghetti e piste ciclabili, uffici dirigenziali, infrastrutture all’avanguardia. (I video promozionali dicono robe avveniristiche, tipo «a pochi minuti dall’aeroporto di Fiumicino e Ciampino». Ad oggi è una selva di palazzine e nient’altro. Questo è dovuto anche a quello che accade il 10 ottobre del 2007 quando il Comune di Roma approva una delibera per far cambiare destinazione d’uso a circa metà dei due milioni di metri cubi destinati a Porta di Roma, per costruirci altre case. In cambio si fa dare 85 milioni di euro che dovrebbero servire a una metro B allungata per cui però ne servirebbero 600 e che quindi è ancora è un fantasma.
11. Un altro compromesso al ribasso con cui si è fatta speculazione edilizia a Roma è quello dell’housing sociale. I costruttori – per avere più facili permessi – destinano una parte dei metri cubi edificabili a case dai prezzi calmierati. Se in altri Paesi questa è una formula moderna di edilizia popolare, perché le proporzioni di questo uso è consistente, a Roma è ridicolo: l’8%.
12. Roma è, nonostante il recente piano regolatore, una città senza urbanistica. In cui sono paradossalmente aumentate sia l’emergenza abitativa sia la quantità di città cementificata, che si è mangiata in modo feroce l’agro romano.
13. Il desiderio dei costruttori di continuare a edificare si spiega anche con il vantaggio che a questi prezzi per chi vende c’è guadagno anche se si vende un alloggio su tre.
14. Nel 2012 il sindaco Alemanno ha definito il suo approccio alla crisi economica e al tentativo di contrastarlo attraverso l’investimento nell’edilizia proprio “moneta urbanistica”: quale politica utilizzare per rimpinguare le casse del Comune? La sistematica concessione di nuovi permessi per costruire dati in contraccambio di microelargizioni.
15. Roma è una città pianificata, gestita in modo follemente emergenziale attraverso il grimaldello dei Grandi Eventi o della Protezione civile: i mondiali di nuoto sono stati l’occasione per esempio per progettare opere mai compiute che si sono rivelati buchi neri dell’amministrazione capitolina.
16. Il centro storico di Roma è un luogo che è stato progressivamente svuotato da chi ci abitava, reso un non-luogo turistico e una specie di residence diffuso per l’immenso esercito di lavoratori della politica, 20.000 persone circa. Chi ci guadagna? Sempre qualche costruttore: tipo Scarpellini che fa pagare caro al Comune l’affitto di palazzi che comprò a prezzi convenienti qualche anno fa.
17. La stragrande maggioranza dei soldi che i privati forniscono al Comune vanno in opere di cui il Comune non ha deciso e la cui utilità pubblica è misteriosa.
18. Un altro fallimento delle amministrazioni comunali suddite delle brame dei costruttori si chiama “compensazione”. Si compensa con nuove concessioni chi ha acquisito un diritto di edificare, senza contare i bisogni della città.
19. Roma ha 41
chilometri e mezzo di metropolitana, contro i 200 di Parigi, i 460 di Londra, ma
anche gli 84 di Milano. Perché è così difficile progettare e costruire metro a
Roma? Perché per come continua a essere costruita Roma, è una città slabbrata,
con aree molto dense e altre pochissimo dense, che si continua a spostare verso
la campagna. Ha senso inseguire con le costosissime metropolitane questi
insediamenti sempre più lontani e isolati?
20. A Roma il 52% delle persone usa la macchina, il 15% la moto, il 27%
il mezzo pubblico. Il traffico fa perdere di media un miliardo e mezzo annuo di
Pil, oltre tutte le ricadute negative su salute etc…
21. Roma è una città infinita. La mancanza di idea di cosa può essere e può diventare una città e la progressiva “polverizzazione” dell’abitatività romana fa crescere esponenzialmente il problema del traffico. La città cresce dove non ci sono servizi e non cresce dove ce ne sono: si è investito a Porta di Roma che non è servita da una metro invece che a Ponte Mammolo, per dire. Il perché si collega, si è capito, alla proprietà dei terreni edificabili. I terreni di Ponte Mammolo non sono dei Toti come quelli di Porta di Roma.
22. Roma è una città che va pianificata, ora. L’ultimo sindaco che l’aveva capito e che provò a contrastare in modo fermo il dominio dei palazzinari fu Luigi Petroselli. L’ultimo politico che si è reso conto in modo organico come soltanto attraverso un intervento sistematico si poteva cambiare qualcosa a Roma è stato Walter Tocci, che ha insistito fin dove possibile su una cura del ferro. Il rapporto tra quanti si spostano a piedi e con i mezzi pubblici e quanti si spostano in macchina: questo è il vero indice di discriminazione tra centro e periferia.
23. Roma è una città classista. Prendete due quartieri attaccati come la periferia brulla di Torre Angela con il comprensorio-prigione di Torre Gaia. Dice l’urbanista Caudo: «Roma per molti aspetti in molte sue parti non è più una città, bensì un territorio urbanizzato che in alcune direttrici è ormai senza soluzione di continuità con l’abitato dei comuni vicini. Un territorio formato da isole, frammenti, appendici, propaggini, sacche, strisce… che in mancanza di una vera struttura si organizzerà in ghetti (dove saranno confinati i meno abbienti) ed enclave (dove andranno a rinchiudersi i più abbienti). È un modello costoso e dispendioso da ogni punto di vista: ecologico, sociale e per il funzionamento dei servizi e delle infrastrutture. Si è scelto in sostanza di uccidere la città».
24. Occorrerebbe, è chiaro a molti e da molti anni, andare in una direzione simmetrica a quella adottata finora dalle politiche urbanistiche romane: varare un Piano di riuso e di rigenerazione del costruito, un Piano che venga incontro al bisogno di utilizzo e non alla rendita fondiaria.
Perché inanellare questi dati e queste considerazioni al limite del didascalico? Perché l’errore che la sinistra non deve fare a questa tornata elettorale è quello di consentirsi un deficit di conoscenza. È necessario che gli assessorati siano affidati a persone che hanno competenze multidisciplinari e che le integrino il più possibile. Non è pensabile che chi si occupa di welfare non sappia nulla di urbanistica, e chi ha la delega allo sport non abbia rudimenti dell’ecosistema floreale o faunistico di Roma. È necessario che i politici eletti abbiano un’idea di città, complessa, storicizzata, visionaria, immaginativa. Non è un caso che sia stato un architetto e urbanista come Renato Nicolini a inventare l’ultima idea di città che ancora oggi ricordiamo. È compito di questi politici di studiarsi ora saggi di storia dell’urbanistica imprescindibili, partire dai lavori storici come Roma moderna di Italo Insolera e arrivare a quelli di Paolo Berdini, e di vedersi film, di leggere romanzi, reportage che diano conto delle autonarrazioni di questa città. Che leggano Walter Siti, Eleonora Danco, Tommaso Giagni, Elena Stancanelli, Francesco Pacifico, Amara Lakhous, Tommaso Giartosio, Maurizio Cotrona… E la smettano di citare Pasolini come nume tutelare per comprendere cos’è Roma. Pasolini è morto 37 anni fa, e la sua città non esiste più: ce n’è un’altra che non si conosce e non si vuole conoscere. Questa proterva ignoranza, questa irresponsabilità fatta passare per nonchalance, la simboleggiava bene quel Nanni Moretti che in Caro diario va a vedere per la prima volta in vita sua Spinaceto, butta là un paio di frasi sarcastiche e dopo un secondo fa marcia indietro. Quell’inversione è la ritirata di tutti gli intellettuali che invece di fornire alla politica conoscenze, interpretazioni, modelli al passo con le trasformazioni, hanno preferito che il mondo rimanesse diviso così: un centro e una periferia, sperando che non gli toccasse la parte peggiore.
Salva-Roma? La Capitale non diventi la grande mantenuta. Marino non faccia il Masaniello e aiuti il governo a risolvere la voragine finanziaria di Roma, scrive Oscar Giannino su “L’Inkiesta”. E due. Riappare l’ombra del default sui colli fatali di Roma. Cadde a fine dicembre sotto il veto del Quirinale il Mille-proroghe, che conteneva anche le misure salva-Roma. È caduto mercoledì 26 anche il decreto enti locali, in cui le stesse misure erano riproposte. L’ostruzionismo di Lega e Cinque Stelle poneva al governo come unica via porre la fiducia, poiché il decreto scadeva il 28 febbraio. E giustamente Renzi non ha voluto iniziare la vita parlamentare del suo governo con un atto imperativo. Le misure verranno ripresentate venerdì, ferve con il Quirinale il confronto riservato se farlo con un nuovo decreto o no, e se con una sola misura o diverse, visto che anche questo decreto conteneva norme eterogenee, per esempio il rinvio a luglio della web tax. La polemica è subito diventata rovente. Il sindaco Marino è uscito mercoledì dall’incontro a Palazzo Chigi contrariato, annunciando che non intende fare il commissario fallimentare. Poi ha aggiunto parole inqualificabili: ha invocato i forconi, ha detto che sospenderà bus e raccolta rifiuti. Non so a voi, ma a me parole simili da parte di un sindaco della Capitale che bisogna salvare dal suo disastro finanziario per la seconda volta dal 2008, danno letteralmente il voltastomaco. Polemiche di questo tipo non servono a niente, sono solo il frutto di una politica che segue il modello-Masaniello. È invece il caso di riflettere seriamente, sulla voragine finanziaria di Roma. Anche per aiutare il governo a scegliere bene.
Primo. Ovviamente ai più può apparire comprensibile, che si debba fare il possibile per evitare il default della Capitale. Governo e parlamento si trovano oltretutto nella condizione di non poter pianamente applicare a Roma Capitale le norme sul default dei Comuni previste all’articolo 244 del Testo Unico Enti Locali, poiché nel 2008 già fu disposto un altro salvataggio, accollando debito pregresso per 12 miliardi a una gestione commissariale. Quel che al governo tocca evitare, però, è che si continui con interventi discrezionali che lanciano segnali sbagliati.
Secondo. Non è un caso, per esempio, che il sindaco di Napoli De Magistris, dopo il salva Roma congegnato nell’autunno scorso a fronte degli aggiuntivi 800 milioni di debiti emersi, chieda esattamente la stessa cosa per Napoli, e per oltre un miliardo. La Corte dei conti ha bocciato il suo piano di rientro, dunque anche Napoli è oggi in condizione di default. Ma come può, un governo nazionale, salvare Roma sì, Napoli no, mentre nel frattempo nel 2012 Alessandria andava dritta al default senza che si levasse una mosca? Che senso ha, discriminare il rispetto della legge a seconda che i sindaci locali siano più o meno dei Masanielli? A questo punto, a Renzi tocca nel salva-Roma – e nel salva-Napoli che si prevede lo accompagni – disporre comunque delle – speriamo – profonde modifiche, che condizionino gli interventi a energici impulsi ai sindaci affinché intraprendano una strada di risanamento del bilancio ordinario, che resta in entrambi i casi fortemente squilibrato a prescindere dal debito pregresso.
Terzo. Una disciplina uniforme, un sistema premiale e non paradossalmente punitivo per amministrazioni che perseguano l’efficienza economica e l’equilibrio finanziario, non è solo una questione di equità orizzontale, tra città e città. C’è anche un tema di equità verticale. Come il governo è chiamato dall’Europa a una severa disciplina dei suoi conti e ad abbattere il debito, lo stesso deve avvenire spalmando e radicando lo stesso dovere nelle Autonomie.
Quarto. Nel caso di Roma, va anche sottolineato che non ha pagato l’atteggiamento parlamentare del Pd. Aver fatto muro in parlamento contro emendamenti della stessa maggioranza di governo – venivano da Scelta Civica, dalla senatrice Lanzillotta – volti a subordinare gli aiuti a Roma a misure condizionali di razionalizzazione delle piante organiche e a cessione di società controllate e partecipate, ha ottenuto l’effetto “chi troppo vuole nulla stringe”. Stride con la realtà, l’aver voluto preservare a ogni costo l’attuale portafoglio di municipalizzate e il numero troppo elevato di dipendenti.
Quinto. Infatti il punto non è solo che oggi, senza un nuovo salva-Roma che abbuoni 600 milioni degli oltre 800 di debito aggiuntivo, salta il pilastro essenziale su cui il sindaco Marino ha fatto approvare il bilancio 2013, lo scorso 6 dicembre. Un bilancio che dava già per scontato il decreto che manca ancora 3 mesi dopo. In ogni caso, ammoniva la Ragioneria Centrale del Comune nelle previsioni per il 2014, senza una seria razionalizzazione della spesa Roma dovrebbe accrescere vertiginosamente molte delle sue entrate: quasi il doppio rispetto all’incasso 2013 da tassa di soggiorno, 15 volte il canone degli impianti pubblicitari, 3 volte quanto ricavato da accertamenti d’infrazioni. E non per ridurre il deficit che resterebbe per centinaia di milioni, ma solo per fronteggiare i minori trasferimenti ordinari al bilancio di Roma dallo Stato, in discesa dagli oltre 700 milioni del 2013 a circa 450 nel 2014.
Sesto. Roma e il sindaco Marino devono percorrere una via alternativa, a quella di diventare l’amministrazione più tassaiola della plurimillenaria storia di Roma. Al governo spetta tracciare una strada che non sia quella di amministrazioni commissariali parallele a cui addossare debiti miliardari di alcune grandi città sì e altre no, un metodo che ai privati è naturalmente negato dai codici. Ma a Marino e alla sua giunta spetta il dovere di comportarsi come una grande azienda in difficoltà. È ora di finirla con la finanza creativa, e di procedere a una revisione approfondita della spesa, e delle troppe partecipate e controllate pubbliche. Il sindaco si è lamentato dei disservizi dell’Acea, ma l’Atac, con quasi 12 mila dipendenti e un fatturato che sfiora 1,2 miliardi di euro, lo deriva per quasi il 70% dai contributi pubblici, cioè dai contribuenti. Una volta utilizzati tutti i ricavi da biglietti e abbonamenti, bisogna ancora coprire il 55% dei costi per il personale, carburante e tutti gli altri. In 4 anni l’Atac ha perso in termini operativi quasi 700 milioni, nonostante circa 3 miliardi di contributi pubblici. Dall’amministratore delegato dell’Ama, abbiamo appreso l’altro ieri che dei 7800 dipendenti anche mille in taluni giorni non si presentano al lavoro. Che incentivo al dovere può venire ai dipendenti, se dall’alto il criterio praticato è quello di salvare senza vincoli all’efficienza?
Settimo. Tutti i sindaci lamentano che criticare è facile. Lo sappiamo. Ma Roma Capitale, di colpo di spugna in colpo di spugna e di tassa in sovrattassa, perde attrattività d’impresa e turistica, scende nelle graduatorie internazionali di vivibilità. Con una pressione fiscale in ulteriore crescita, prima che votare con le mani ogni tot anni, impresa e lavoro votano con i piedi ogni giorno: se ne vanno. Ecco perché, approfittando della caduta bis del salva-Roma, sono da preferirsi due cose. La prima è che il governo magari riduca il salvataggio alla parte che consente di tenere in piedi il bilancio 2013, ma eviti di spalmarne sul 2014 gli effetti, per spingere Marino a cambiare marcia. La seconda è che, a quel punto e a maggior ragione, l’amministrazione Marino a propria volta imbocchi una discontinuità vera e profonda ispirata al rigore di spesa, non solo alle maggiorazioni fiscali. Eviti ai romani di pagare le tasse più alte d’Italia. E di farne pagare in più per Roma a tutti gli italiani. Non solo perché le decime ecclesiastiche e le tasse del Papa-Re appaiono ormai come un sogno da rimpiangere, ai cittadini di Roma. Ma perché gli aiuti a più di lista eternano in Italia l’idea di Roma come “Grande Mantenuta”, un archetipo che non ci piace ma che come si vede ha un fondamento, e che i romani non meritano.
Caro Marino non si preoccupi, Roma è già bloccata. Lettera aperta. “Caro sindaco, i romani non hanno già abbastanza problemi? Piuttosto si dimetta lei”, scrive Marco Sarti su “L’Inkiesta”. Quando stamattina ho letto il suo sfogo, quasi non ci volevo credere. Il governo ritira il decreto Salva Roma? «E io da domenica blocco la città». Ho fatto un respiro profondo e ho riletto la minaccia. Poi l’ho letta un’altra volta. Solo allora sono rimasto a bocca aperta per lo stupore. E mi sono permesso, caro Ignazio Marino, di scriverle una piccola lettera. Sindaco, non farà mica sul serio? Una provocazione sulle spalle dei romani? È troppo facile così. Se Palazzo Chigi ha ritirato il decreto, lei si dimetta. È un gesto forte, vedrà che avrà il giusto risalto. E per quello che può contare, anche tutta la mia stima personale. Invece per non correre il rischio di bloccare la città, blocca la città. Ma che è, una ripicca da terza elementare? Ha perso la pazienza, questo è evidente. «Le persone dovranno attrezzarsi - dice - Fortunati i politici del Palazzo che hanno le autoblù, loro potranno continuare a girare, i romani invece no». Caro sindaco Marino, sempre parlando di pazienza, si è mai chiesto quanta ne hanno già persa i suoi concittadini? Lei minaccia di bloccare la città. Ma non si è accorto che la città è ferma già da un pezzo? Roma è immobile. Una statua. Non saprei descrivere diversamente le giornate passate a casa per il maltempo. Bloccato, io sì, sotto la pioggia. Già, perché chi scrive abita in uno dei quartieri recentemente colpiti dalla grave alluvione (ma forse sarebbe stato solo un acquazzone, se tombini e scarichi fognari avessero funzionato come dovevano). In alcune zone di Roma le persone sono state tratte in salvo con le barche, non le sembra una città abbastanza bloccata? Non è ferma una città dove non si è liberi di girare in sicurezza? Non parlo di scippi e violenza, che per quello servirebbe una lettera a parte. Le ha viste le nostre strade, sindaco? Roma sembra appena uscita da un bombardamento aereo. Sull’asfalto non ci sono buche, ma crateri. Ho letto da qualche parte che una nota casa automobilistica giapponese viene appositamente a Roma per testare le sospensioni dei suoi prototipi. Eravamo una Capitale, siamo diventati un crash test. Caro sindaco, lo so. Quando si scrivono queste lettere la deriva populista è sempre dietro l’angolo. Stavolta me ne frego, sempre parlando con rispetto. Perché lei eredita i problemi della gestione precedente, perché Roma è una città che ha difficoltà millenarie come la sua storia, perché in fin dei conti il sindaco non ha tutti questi poteri…. Niente di personale, Ignazio Marino. Ma almeno eviti di mettere ulteriormente in mezzo i romani. Da domenica vuole bloccare gli autobus? Guardi che i mezzi di trasporto sono praticamente già inutilizzabili. Abbiamo una linea metropolitana imbarazzante. La limitata estensione della rete fa il pari solo con la scarsa pulizia delle stazioni. Gli autobus anche peggio, mi limito ad ammirare il coraggio di chi per necessità è costretto a servirsene quotidianamente. Un paio di giorni fa, invitato da una nota trasmissione radiofonica a darsi un voto per i primi mesi in Campidoglio, si è assegnato un bel 7 +. «Ho chiuso la discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa». Tanto di cappello sindaco, davvero. Peccato che a Natale eravamo sommersi dai rifiuti. Per una giornata siamo tornati indietro al medioevo. Se le ricorda le fotografie dei maiali che grufolavano tra i cassonetti? Sembrava un paese del terzo mondo, era la Capitale d’Italia. Ma lei si è ridotto lo stipendio del 10 per cento. Lavora tra le 16 e le 17 ore al giorno dice, e io le credo. Ovviamente non è sua la responsabilità di tutto quello che non funziona a Roma. Ma forse se leggerà la lettera fino in fondo la prossima volta ci penserà due volte prima di minacciare il governo sulle spalle dei romani. Lei vuole bloccare la città e non si è accorto che la città è già ferma. Immobilizzata dai cartelloni abusivi che coprono i muri. Dal degrado e dalla sporcizia. Assediata dai camion bar che rovinano i monumenti più belli e dai tavolini selvaggi che occupano le piazze che il mondo ci invidia. Caro sindaco, mia moglie è straniera. Ogni volta che i genitori vengono a trovarci mi chiedono: «Perché è così sporco qui?». Che ci creda o no, ho finito le giustificazioni. In rete c’è un sito davvero interessante, si chiama romafaschifo.com. Il nome dice tutto: ci faccia un salto ogni tanto, le offrirà spunti quasi infiniti per i suoi prossimi interventi. Bella l’idea di pedonalizzare i Fori romani. Lo dico davvero. Ma a nove mesi dal suo ingresso in Campidoglio non è arrivato il momento di fare qualcos'altro per la viabilità cittadina? Sarò pedante sindaco, mi permetto di continuare un altro po’. Le ricordo la città bloccata da cantieri infiniti e da quartieri periferici lasciati al loro destino. Da case popolari che non possono essere assegnate a chi ne avrebbe il diritto e da onnipresenti bancarelle ambulanti che manco al mercato di Marrakech (con tutto il rispetto per la bella città marocchina). Adesso lei si arrabbia con Matteo Renzi. E magari ha pure ragione. Chiama Palazzo Chigi, chiede chiarimenti sul decreto ritirato che dovrà essere ripresentato per la terza volta. Fa sapere, e la ringrazio di questo, che «non abbiamo chiesto un solo euro allo Stato, il Salva Roma ci fa semplicemente recuperare risorse già versate come prestito alla gestione commissariale utilizzando le tasse dei romani». Benissimo, bravo. Ma allora perché quell’ultimatum? «Se Roma fallirà non ho intenzione di metterci la faccia» dice. E che ce la dobbiamo mettere noi, la faccia? Al termine della seconda guerra mondiale, su un muro di Trastevere qualcuno scrisse con la vernice: «Annatevene tutti, lassatece piagne da soli». Ecco sindaco, dia retta. Minacci le sue dimissioni, prenda a parolacce il presidente del Consiglio, organizzi una bella manifestazione di piazza. Ma i romani, li lasci perdere. Hanno già tanti problemi a cui pensare.
Dite ai romani quanto gli costano i derivati del Comune. Ecco i contratti di interest rate swap sottoscritti dal Campidoglio, di cui si sa ancora troppo poco, scrivono Marco Fattorini e Antonio Vanuzzo su “L’Inkiesta”. Oltre ai 200 milioni di deficit e al miliardo di debito calcolati dall’agenzia di rating Fitch, sulle spalle dei cittadini romani grava l’incognita derivati. Si tratta dei contratti sottoscritti dal Campidoglio, tra gli altri, con Morgan Stanley, JP Morgan, Banca Opi (ora Biis), Dexia, Deutsche Bank e Ubs. Una vexata quaestio che, come un fiume carsico, è riaffiorata con prepotenza in questi ultimi scampoli di campagna elettorale. Sull’affaire, a quanto risulta a Linkiesta, sta continuando a indagare anche il Pm Paolo Ielo, che ha di fatto riaperto il caso dopo una prima ipotesi di chiusura delle indagini nell’agosto 2012. A dare una sferzata, qualche giorno fa, ci ha pensato il candidato grillino Marcello De Vito, che non a caso ha improntato la campagna elettorale sulla poca trasparenza dell’amministrazione cittadina. Sottoponendo, questa la strategia, due istanze di accesso agli atti: una al sindaco e l’altra al commissario straordinario del debito, il manager tremontiano Massimo Varazzani. Entrambe mirate a far luce sui derivati stipulati dall’amministrazione Veltroni. Nel corso di una conferenza stampa, ieri l’altro, De Vito ha snocciolato alcune cifre: i derivati pesano per 6 miliardi di euro sul debito comunale accertato dal commissario al momento dell’addio di Veltroni. «Alemanno ha deciso di rispondere alla nostra richiesta a fine campagna elettorale, dopo che l'abbiamo incalzato nel confronto tv», ha detto De Vito. Manca l’ulteriore documentazione in possesso del team di Varazzani, «che ci ha negato l’accesso agli atti ritenendoci “non legittimati”, così i cittadini romani non hanno il diritto di sapere come vengono spesi i loro soldi». Da quanto si apprende, Varazzani ha chiuso sette dei nove contratti complessivi con una spesa di 150 milioni di euro a carico del Comune (come peraltro si evince dalla Relazione di fine mandato). I cittadini, tuttavia, continuano a pagare la tristemente famosa «Veltroni Tax», ovvero l’addizionale Irpef lievitata proprio a servizio della gestione commissariale. Lo studio dell’esposizione sui derivati è stato gestito dall’avvocato Alessandro Canali, attivista pentastellato e consulente legale per le battaglie del movimento capitolino. A Linkiesta spiega: «Quella di Veltroni è un’operazione da Guinness, la più grande in Italia». Per anni lo strumento dei derivati è stato un jolly nel taschino dei sindaci, che «ottenevano liquidità immediata da gestire senza i vincoli delle leggi di contabilità, magari per le spese correnti». L’iniziativa grillina ha costretto Alemanno a rispondere con un comunicato ufficiale, nel quale il sindaco uscente osserva: «Abbiamo denunciato la questione derivati sin da subito», dice, «mandando una lettera alla Procura e alla Corte dei Conti, siamo contenti che il M5s contribuisca a far emergere questa realtà». «Il Pd ha fatto un buco da 6 miliardi e il Pdl l’ha coperto», incalza De Vito, che in caso di vittoria ha promesso: «Andremo a verificare i contratti e le responsabilità degli amministratori, dopodiché valuteremo se agire tramite il contenzioso». Guardando al Comune di Milano, che a fine 2012 è riuscito a recuperare 455 milioni di euro attraverso un accordo extragiudiziale con Deutsche Bank, Ubs, JP Morgan e Depfa Bank. Più facile a dirsi che a farsi, in un contesto dove l’opacità è la regola. Lo scorso febbraio, Varazzani ha dichiarato a Sette: «Ho preferito chiudere sei contratti nel 2011, e l’ultimo pochi mesi fa, facendo risparmiare ai cittadini 200 milioni di euro di costi prospettici se calcolati in quel momento». “Se calcolati in quel momento” è un particolare non secondario: la scorsa estate, secondo quanto risulta a Linkiesta, il mark to market (il valore di mercato al momento della risoluzione anticipata del contratto, secondo l’interpretazione della Cassazione dopo il processo di Milano, ndr) di alcuni strumenti sottoscritti nel 2002 era ritornato in positivo. In altre parole, il Campidoglio ci stava guadagnando. Tant’è che l’indagine di Ielo andava verso l’archiviazione. Poi qualcosa è cambiato. Un passo indietro. Il 27 novembre 2003 il Campidoglio lancia un bond da 1,4 miliardi in tre tranche – una da 600 e due da 400 milioni – a un tasso del 5,37 per cento con scadenza al 2033. È un’emissione bullet, che significa rimborso del capitale soltanto alla scadenza. La finanziaria 2002 – con cui l’allora ministro Giulio Tremonti fissava un set di regole per l’accesso al mercato dei capitali da parte degli enti locali e per l’ammortamento del debito attraverso i derivati, e il successivo decreto ministeriale del 2003 – prevedeva che l’ammortamento del debito potesse avvenire in due modi: con la costituzione di un fondo (sinking fund), e mediante un “amortising swap”, strumento in base al quale l’intero capitale del prestito obbligazionario viene accumulato progressivamente, mediante accantonamento di quote. In che modo? Nel contratto in questione (vedi foto sopra), il Comune – su un nozionale decrescente – paga alla banca un tasso che va dal 5,1% del 2007 al 6,15% al 2045, ricevendo un tasso variabile pari all’Euribor a 6 mesi. Due metodi con il medesimo obiettivo: indebitarsi non avendo nemmeno i soldi per pagare gli interessi ai sottoscrittori del debito. Un’invenzione implementata dal genio contabile di Tremonti. Dunque, con l’amortising swap – che costa al Comune il 5,375% – il Campidoglio paga le cedole, mentre nel sinking fund della banca confluiscono le quote di capitale da rimborsare alla scadenza. Come si evince dalla foto sopra, a fine 2007 il Comune rinegozia l’amortising swap da un miliardo su un’emissione per complessivi 2,4 miliardi, allungandone le scadenze al 2048, a un tasso del 5,345 per cento. Per quanto riguarda il sinking fund, i tassi sono due: il primo, del 5,3%, è sul debito contratto, mentre il secondo – compreso tra il 5 e il 7,5% – serve a formare il capitale da rimborsare alla scadenza . È un po’ lo stesso meccanismo dei mutui concessi assieme alle polizze vita tramite piano di accumulo. Nella relazione alla Camera dello scorso dicembre Varazzani ha detto di aver chiuso 6 contratti nel 2011 (vedi foto sotto), e – nel luglio 2012 – l’ultimo contratto derivato sottostante il prestito bullet di 1,4 miliardi di euro, riuscendo a «limitare le passività del prestito ai soli interessi passivi (da corrispondere ai sottoscrittori fino alla scadenza del 2048) e alla restituzione della quota capitale (in un’unica soluzione finale al 2048)». I grillini sostengono che i contratti siano in perdita per 6 miliardi, mentre a febbraio la Corte dei Conti del Lazio ha acceso un faro su altri 400 milioni. A quanto ammontano gli interessi passivi del contratto da 1,4 miliardi? E l’esposizione totale del Comune a oggi? E il valore di mercato del sottostante? E gli oneri sui cittadini? Domande a cui il prossimo sindaco non potrà non rispondere.
Truffe e abusi, il far west delle case popolari a Roma. In 30.000 aspettano un alloggio. Emergenza abitativa tra burocrazia e illegalità, si muove il Comune, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. Non solo graduatorie e liste d’attesa. A Roma le case popolari si tramandano anche per dinastia: dal padre al figlio, dal nonno ai nipoti. Cognomi e tradizioni in cui, di tanto in tanto, svettano antieroi dell’illegalità. Quello dell’emergenza abitativa nella Capitale è dramma nazionale nonché mare magnum rimasto per anni senza governo tra degrado, sfratti e privilegi. Dalla disperazione di chi ha perso casa e lavoro, 30.000 famiglie attendono un alloggio, fino a chi lucra sul caos delle popolari. Con centinaia di inquilini che migliorano le proprie condizioni di vita, perdono i requisiti per gli alloggi ma restano «mantenuti a vita» dallo Stato. «Addirittura si scoprono situazioni di occupanti abusivi che resistono dagli anni Sessanta grazie a confusione e malgoverno», denuncia a Linkiesta Annamaria Addante, presidente dell’associazione inquilini Ater, che nel 2012 ha visto bruciare la propria auto per aver denunciato il far west di abusi nelle case popolari della città eterna. Poi le vicende di “affittopoli” e “svendopoli” (celebre la copertina de L’Espresso «Casa Nostra»), scandali che hanno solcato gli ultimi quindici anni tra canoni bassi e dimissioni di patrimoni facenti capo a enti e amministrazioni per immobili di pregio cui hanno beneficiato inquilini vip, politici e “amici di”. Ecco appunto, ma la politica? Tra lacune, speculazioni edilizie e giri di valzer nelle stanze dei bottoni, lo scontro all’ombra del Colosseo è uno scambio di frecce avvelenate che affogano nel fango: dall’amministrazione rimproverata per il «lassismo» nei confronti delle occupazioni abusive «de sinistra» ai giornali accusati di fare campagne stampa funzionali agli editori «palazzinari» (Il Messaggero-Caltagirone, Il Tempo-Bonifaci). Nel mezzo soffoca il grido di chi, dopo il lavoro, sta per perdere anche il tetto in quella che è diventata la Capitale degli ossimori, con numeri da record per sfratti e appartamenti sfitti. «L’emergenza abitativa si è trasformata con la crisi del 2008 inglobando il ceto medio e tanti insospettabili, oggi abbiamo 40.000 famiglie che rischiano di perdere l’alloggio», dichiara a Linkiesta Daniele Ozzimo, assessore alle politiche abitative del Comune di Roma i cui uffici sono quotidianamente assediati da storie di disperazione. «Stiamo cercando di mettere ordine a un settore che in ordine non è mai stato, ma la priorità è bloccare l’emorragia nella perdita della casa». Ater è l’azienda territoriale per l’edilizia residenziale che ha in pancia 50.000 alloggi (degli 80.000 popolari a Roma) e 480 dipendenti. Se il Comune dirige la graduatoria degli assegnatari, l’ente con sede a Lungotevere Tor di Nona è chiamato a gestire appartamenti, comprensori e relativa manutenzione da Quarticciolo a Torre Gaia, da Corviale a La Rustica, da San Basilio a Rebibbia, dal Tufello a Monte Sacro. Un patrimonio enorme e difficile da curare, infarcito dai conferimenti di altri enti dismessi, che oggi “rende” poco: i canoni mensili partono da 7,75 euro, il tasso di morosità sfiora il 30%. «L’emergenza abitativa è una condizione strutturale dal dopoguerra», spiega a Linkiesta il commissario straordinario dell’Ater Daniel Modigliani. «Ma sono contrario al suo uso strumentale, mantenere l’emergenza fa comodo a tutti, alla politica e agli utenti, oggi sono 5.000 i casi più urgenti che occupano un posto alto nella graduatoria del Comune». Dopodichè, incalza il commissario, non bisogna sottovalutare il fattore umano. «Manca e servirebbe una ricognizione reale dei numeri e dei bisogni di questa emergenza per poi programmare una politica di ampio respiro. Un esempio, la domanda di alloggi è cambiata: vengono richieste tipologie di immobili più piccoli rispetto ad anni fa, mutano pure i nuclei familiari, che sono di più e con meno componenti». Ospiti delle popolari sono oltre 150.000 inquilini di cui 12.000 disabili: «il Comune assegna ma poi chi pensa all’assegnatario?». Innumerevoli le situazioni di disagio socio-economico, cui si sommano altrettanti abusi come quelli di chi da tempo ha perso i requisiti reddituali o chi elegge la casa popolare a residenza immortale. Non ha dubbi Modigliani: «È un’anomalia italiana che cresce a Roma, dove una legislazione permissiva, soprattutto a livello regionale, ha fatto passare l’idea che la casa assegnata si avvicinasse al diritto di proprietà». Nel 2012 la Guardia di Finanza ha scoperchiato una truffa da parte di 12.000 soggetti che dichiaravano redditi falsi per pagare affitti irrisori. Incrociando i dati in possesso di Gdf e Ater sono emerse famiglie che pagavano meno di 80 euro di canone mensile a fronte di redditi reali che oscillavano tra i 40 e gli 80.000 euro. Una pratica tutt’altro che isolata quella dei «ladri di diritti», così li chiama il sindaco Marino, che a gennaio ha siglato un protocollo con la Gdf per rafforzare i controlli nella gestione e concessione degli alloggi popolari. Nel solo 2013 a Roma sono state denunciate e indagate 800 persone per il reato di occupazione abusiva di alloggio. Ogni anno almeno 1300 appartamenti comunali passano di mano illecitamente: vengono subaffittati o magari venduti. Prima c’era il passaparola, ora vince internet: trattano i diretti interessati oppure faccendieri e avvocati. Un racket con clan e informatori, sentinelle pronte a prendere gli alloggi non appena liberi e girarli agli interessati per una cifra che arriva anche a 20.000 euro. Spesso basta assentarsi qualche settimana, magari per un ricovero in ospedale, e si trova la serratura cambiata: storie che spaziano dallo stato di necessità degli occupanti al business della malavita, ma tra anarchia e sanatorie il fenomeno è decollato. A febbraio 2013 la signora Maria Lorenzi mancò tre giorni dalla sua casa in zona Ponte Mammolo per andare ad accudire la mamma malata: al ritorno l’appartamento era occupato e la sua roba stipata negli scatoloni. Oggi, assicurano dal Comune, anomalie come questa vengono stroncate sul nascere applicando l’art. 321 c.p.c. (sequestro preventivo) con l’intervento della polizia locale che evita lungaggini. I casi di vendita truffaldina di alloggi comunali da parte dei privati sono molti, alcuni dei quali sgominati dalla task force messa in campo dal Campidoglio: c’è l’appartamento di 57 metri quadri nel quartiere Garbatella messo in vendita sul web per la cifra di 130.000 euro «solo contanti». Ma anche un alloggio di 85 metri quadri a Castelverde offerto a 50.000 euro, o ancora un monolocale di 40 mq a Corviale venduto per 20.000 euro. Nella Capitale è celebre il caso di Cristiana Petriacci, nota come “la padrona di Testaccio” e finita in carcere con le accuse di truffa e estorsione per aver gestito una compravendita di immobili Ater con la complicità di alcuni funzionari. L’ironia della sorte vuole che la donna si sia accompagnata per anni a Massimo Lustri, detto “er Tapparella” per la sua vecchia abitudine di entrare in appartamenti sfitti e “donarli” a chi non poteva permetterseli. L’attualità è tutt’altro che romantica. Nello scorso agosto è stata diramata la lista nera degli abusivi: 5378 persone abitano in una casa popolare romana senza averne diritto. Nel gruppo, in virtù della contestata legge regionale 12/1999, risultano anche coloro che convivevano con il legittimo assegnatario o i figli che rientrano nella casa dei genitori. A fine estate l’Ater ha portato le carte in Procura e avviato una maxi operazione: Campidoglio ed ente provano a dialogare con protocolli d’intesa e task force, anche se non mancano le scintille tra uffici nella gimkana burocratica che sovrintende la gestione delle case popolari. «Abbiamo incontrato resistenze e attriti dentro l’Ater», sussurrano in Campidoglio. Da Lungotevere Tor di Nona rispondono: «Sono settimane che abbiamo fornito al Comune la lista con un centinaio di alloggi liberi. Ma il Campidoglio, che ha il compito di smaltire la graduatoria degli aventi diritto, non ci ha ancora dato notizie sulle assegnazioni di quegli appartamenti, adesso a rischio occupazioni abusive». Intanto sono partiti gli sgomberi ai furbetti e telefonando al centralino Ater il risponditore automatico fornisce un numero verde per la «denuncia anche in forma anonima di occupazione abusiva di appartamento». La strada maestra è quella di recuperare gli appartamenti da assegnare poi agli aventi diritto. Spiega Modigliani: «È necessario incrementare il ricambio fisiologico del patrimonio pubblico, oggi viene liberato un alloggio al giorno (350-400 annui), io vorrei raddoppiare o triplicare questo dato, che è l’unico strumento rapido per alleviare l’emergenza abitativa, d’altronde per costruire case occorrono due anni e nel frattempo i problemi della popolazione proseguono». L’assessore alle politiche abitative Daniele Ozzimo stende la road map: «Partiamo dal centro storico controllando i redditi alti di chi occupa immobili del Comune. Lo facciamo in un ottica di giustizia sociale, cioè la legalità vista attraverso le lenti della condizione della persona». La task force ha scovato truffe e vendite illegali: «L’effetto deterrente è talmente forte che molti appartamenti stanno rientrando spontaneamente nella disponibilità dell’amministrazione». Il nodo, insiste Ozzimo, «sta nel raffinare e velocizzare la procedura di assegnazione degli alloggi che altrimenti, una volta svuotati, vengono subito occupati abusivamente». Lo scorso settembre è stato sfrattato Massimo Cavicchioli, ex marito di Renata Polverini che da 24 anni viveva in un appartamento nel quartiere di San Saba (Aventino), dove ha trovato ospitalità anche l’ex governatrice della regione Lazio fino al 2004, anno della separazione. Nella stessa zona viveva un altro privilegiato, proprietario di una gioielleria del centro storico e sistemato in una casa popolare Ater in via Costantino al costo di pochi euro di affitto. Ma l’emergenza abitativa si declina in sofferenza, specialmente fuori dal salotto del centro storico. Una guerra tra poveri è andata in scena a Ponte di Nona, periferia Est della Capitale, dove ad aprile 2013 una cinquantina di famiglie del coordinamento Action occupava un palazzo sfitto di proprietà Caltagirone, sbarrando l’ingresso con pneumatici affiancati da una tanica di benzina in caso di arrivo delle forze dell’ordine. La circostanza ha fatto infuriare il comitato di quartiere: «Tanti abitanti e giovani coppie dopo aver comprato casa e sottoscritto mutui ventennali si ritrovano la loro casa invendibile o con una perdita di valore inestimabile». A dicembre l’intervento di polizia e carabinieri ha liberato lo stabile facendo insorgere Action, attiva nell’occupazione di immobili sfitti facenti capo ai grandi costruttori, che stima: «A Roma ci sono più di 100.000 alloggi liberi», addirittura 250.000 secondo un rapporto Legambiente del 2011. La strada da seguire, ribatte Annamaria Addante, non è quella dell’illegalità: «Le istituzioni s’impegnassero a trovare un accordo coi costruttori sugli appartamenti invenduti per ottenerli a prezzo di costo e destinarli all’emergenza abitativa». Oggi il termometro sociale segna un clima incandescente. «Stop agli sfratti, alloggio e reddito per tutti» chiedono sigle come Ram (Resistenza Abitativa Metropolitana) che organizzano manifestazioni e blocchi stradali ma anche occupazioni a scopo abitativo, molte delle quali inquadrate nel cosiddetto “Tsunami Tour”: blitz contemporanei innescati in edifici sfitti o abbandonati di diverse zone della città. Nel mezzo spunta un’inchiesta del quotidiano Il Tempo che scrive di «racket della casa» nella militanza politica per le occupazioni. Il leitmotiv è il seguente: «Fai la tessera e vai ai cortei, occupi il palazzo che dovrai rimettere a posto insieme a delle squadre di lavoro. Poi apriamo trattative con Comune e Regione, ma una volta che ottieni l’alloggio stai tranquillo». Tra i Robin Hood della casa c’è Andrea Alzetta detto “Tarzan”, già consigliere comunale con Sel, eletto alle ultime amministrative ma non proclamabile per l’applicazione della legge Severino. Oggi Alzetta resta fuori dal Campidoglio nonostante nei corridoi rimbombi ancora uno dei suoi slogan elettorali: «Occupare case è reato? Ma Tarzan lo fa!». A gennaio la giunta regionale di Nicola Zingaretti ha varato un piano straordinario da 257 milioni di euro per l’emergenza abitativa del Lazio e l’80% dei fondi sarà destinato a Roma. La manovra, nel solco di rigenerazione urbana e housing sociale, prevede il recupero del patrimonio immobiliare pubblico e l’acquisizione di immobili privati senza nuova cementificazione. Dal Campidoglio tirano un sospiro di sollievo e lavorano nella stessa direzione: la questione casa è nazionale e la giunta Marino ha fatto pressing sul Governo affinché doti le amministrazioni locali di un fondo per morosità incolpevole «degno di questo nome». Nel frattempo Palazzo Chigi ha fatto una prima mossa, peraltro già bocciata dai movimenti della casa, sospendendo gli sfratti fino al 30 giugno 2014 per i nuclei familiari con reddito fino a 21.000 euro. Nella stanze del Comune si lavora pure al superamento dei residence temporanei per gli sfrattati, strutture spesso degradate che costano all’amministrazione oltre 20 milioni di euro annui di affitto. Terreno fertile sul quale da anni fa affari anche Angiola Armellini, recentemente indagata per una maxievasione di 2 miliardi di euro su proprietà immobiliari non dichiarate al Fisco: a lei il Comune paga l’affitto di 1.000 appartamenti ad uso popolare. Per degrado e difetti nella costruzione (la leggenda parla dell’uso di sabbia) quegli alloggi, in località Nuova Ostia, vennero ribattezzati «case di ricotta» e oggi la figlia del costruttore romano ha un contenzioso con il Campidoglio, a cui chiede di raddoppiare la cifra annua dell’affitto attualmente intorno ai 4,2 milioni di euro. Nel tempo si è consolidato il «rischio ghettizzazione» dell’edilizia popolare. Corviale è frutto di un esperimento architettonico degli anni Settanta che partorì un Serpentone di cemento lungo un chilometro per 1200 appartamenti distribuiti su nove piani. L’architetto Mario Fiorentino puntò all’idea avveniristica di zona autosufficiente, un «edificio-quartiere» mai decollato. Pesò il caos delle assegnazioni, con il Comune che parcheggiò qui centinaia di famiglie sfrattate dalle baraccopoli senza alcun tipo di “paracadute”. Oggi Corviale assurge a emblema di degrado e occupazioni: il quarto piano dell’edificio doveva essere destinato a esercizi commerciali e spazi di aggregazione, ma è diventato rifugio per quasi 150 famiglie abusive che non pagano acqua, luce nè gas. Sempre qui fu girato un non memorabile film con Pippo Franco, «Sfrattato cerca casa equo canone», che tra gag e iperboli evidenziava il dramma dell’emergenza abitativa romana. «Noi non siamo periferia e il degrado qui lo hanno creato le istituzioni con la loro assenza». La chiosa è di Angelo Scamponi, vicepresidente del comitato inquilini di Corviale che a Linkiesta spiega: «La coperta è stata sempre corta e i soldi non c’erano mai, io abito qua da 29 anni e posso dire che il Serpentone è stato non-gestito dall’Ater con rattoppi che non risolvevano, anzi danneggiavano». Oggi l’ente ha fatto partire un piano di lavori che prevede il rifacimento delle superscale e la riqualificazione del famigerato quarto piano. Cautamente ottimista il commissario Ater Daniel Modigliani, che con l’edificio-quartiere ha un legame speciale: «Sto lottando da anni per Corviale, è nel mio cuore e rimane un patrimonio di architettura contemporanea, ci hanno assicurato che ci sono i soldi e speriamo di procedere con le operazioni». I residenti invocano pure una verticalizzazione che permetta di suddividere i comparti abitativi per garantire sicurezza e legalità. «Noi viviamo bene a Corviale e ci sentiamo centro, chi altro può vantare venti metri quadri di verde a persona?», incalza Scamponi, che insieme a decine di dirimpettai dà vita ad associazioni culturali e iniziative di solidarietà. Qui è mancato lo Stato ma i partiti hanno fatto passerella: nel 2008 fu Alemanno a scegliere il Serpentone per la chiusura della campagna elettorale con Berlusconi. Nello scorso aprile Bersani e lo stato maggiore del Pd presenziarono per una «manifestazione contro la povertà», mentre a novembre i parlamentari Cinque Stelle hanno svolto un’agorà coi cittadini. Tra promesse non mantenute e fondi bloccati, oggi il quartiere invoca attenzione: «Paghiamo servizi inesistenti come la pulizia e le luci negli spazi comuni, cifre che neanche fossimo ai Parioli». Poi ci sono quartieri come Tor Bella Monaca dove l’architettura ha messo in gabbia migliaia di persone senza servizi. Qui metà degli alloggi è di proprietà pubblica: 4.004 del Comune di Roma, 1.495 fanno riferimento all’Ater. La quota rimanente è di proprietà privata o di cooperative. Secondo uno studio della Cgil, nel quartiere delle torri «il 75% dei residenti abita la propria casa in affitto, il 25% in proprietà, invertendo le medie nazionali». Il degrado è all’ordine del giorno, le occupazioni abusive imperversano con l’aggravante della presenza di centinaia di persone sottoposte ai domiciliari e pregiudicati dediti allo spaccio. È capitato che inquilini tornati dalle vacanze estive abbiano trovato l’appartamento occupato da altri. Altro nodo è quello della manutenzione che «si perde in appalti e subappalti, per i guasti restano le briciole e i tempi d’intervento delle ditte sono lunghi». Molti inquilini si sono adoperati in prima persona mettendo mano al portafoglio per riparare i guasti. Eppure quello della manutenzione è un dramma che scavalca ”Tor Bella” e angoscia decine di comparti abitativi di edilizia popolare in giro per la città. All’Ater devono fare le nozze coi fichi secchi, mancando i fondi per gestire un patrimonio immenso ci si limita a pronto intervento e manutenzione straordinaria: «La Regione ci dice di usare i canoni che riscuotiamo dagli inquilini, che però vengono mangiati quasi tutti dalle tasse». La speranza? Ripartire dal basso. «Favoriremo l’autogestione e il protagonismo dei cittadini per responsabilizzarli ed evitare sacche di indifferenza», spiega a Linkiesta Luigi Nieri, vicesindaco di Roma con le deleghe al patrimonio. «Purtroppo per anni abbiamo fatto scivolare i quartieri popolari in un degrado inarrestabile che adesso bisogna riqualificare e manutenere». Il vero problema, incalza la presidente dell’associazione inquilini Ater Annamaria Addante, è che «dagli anni Sessanta non c’è più stato un piano casa degno di questo nome, l’ultimo fu quello di Fanfani. Siamo arrivati a oggi con interventi sporadici e creazione di ghetti senza vere politiche per la casa». Intanto il Comune di Roma avvia la vendita di una fetta del proprio patrimonio immobiliare il cui ricavato sarà devoluto all’emergenza abitativa. «Non svendiamo per fare cassa - sottolinea Nieri - ma siamo mossi dall’idea di rigenerare il patrimonio alienando quello di difficile gestione». Il piano comprende una mappatura degli immobili pubblicata online: «Vogliamo che il patrimonio comunale sia trasparente e conosciuto da tutti, parte dei fondi della vendita andrà anche alla manutenzione degli alloggi popolari. Chi ci vive non dev’essere più considerato un cittadino di serie B».
ROMA CAFONA. LA GRANDE SCHIFEZZA.
Vigili urbani, boom di assenze. Uno su quattro rimane a casa, scrive Luca Lippera su “Il Messaggero”. I numeri come sempre non hanno bisogno di grandi commenti: quasi un quarto dei vigili urbani di Roma - secondo dati del Comune - mediamente non sono al lavoro. Tra ferie, malattie, assistenza a familiari malati, corsi di studio e «altri motivi» il 23,86 per cento degli agenti è stato assente nell’ultimo trimestre del 2013. Alcune cifre - potete vederle tutti nel sito del Campidoglio - balzano agli occhi: i malati, in alcuni gruppi periferici, sono stati più del doppio rispetto a quelli degli uffici centrali. Può trattarsi di una coincidenza - un’epidemia di influenza incontenibile - ma di ipotesi se ne possono fare finché si vuole. Considerando, solo per fare un esempio, che i gruppi che hanno sede in Centro prendono gli straordinari con più facilità rispetto ai colleghi lontani e dimenticati negli “avamposti” di frontiera. La classifica della cosiddetta «morbilità» vede in testa il XIV Gruppo (Monte Mario) con un 7,40 per cento di malati tra ottobre e dicembre dell’anno scorso. Seguono il XII (Monteverde), attestato al 7,15, l’VIII (Tintoretto) con il 5,86 per cento e il VII (Tuscolano) fermo al 5,83. Essendo la statistica e la matematica un metro implacabile, è difficile non notare che nel centralissimo gruppo Trevi - sempre nello stesso periodo di riferimento - i vigili che hanno presentato un certificato medico sono stati solo il 3,51 per cento, a Prati addirittura il 3,32, al Comando uno striminzitissimo 3,24. I numeri, in tutti e tre i casi, sono più della metà che altrove, quasi che le epidemie si diffondano a volte con scientifica precisione, come i miasmi che sterminarono tutti i primogeniti dell’Egitto nella tragedia biblica delle “sette piaghe”. Resta il fatto che negli ultimi tre mesi del 2013 i vigili presenti al lavoro sono stati il 76,14 per cento del totale. Questo significa che ogni giorno, in media, sono disponibili solo 4.586 agenti sugli oltre 6 mila in forza alla Polizia Municipale: ben 1.500, una falange, non sono presenti, aprendo una voragine nel lavoro quotidiano. Va detto, per trasparenza, che circa il 14 per cento ha beneficiato di periodi di ferie (c’era il ponte del 1° Novembre e poi è arrivato Natale). Ma nei numeri, già di per sé impressionanti, potrebbero nascondersi verità ancora più scomode, verificabili solo dal Comando Generale del corpo. Chi sono ad esempio gli uomini (e le donne) che al Tuscolano, all’Eur, a Monte Mario e Monteverde si ammalano con più frequenza rispetto ad altre zone? Sono agenti destinati dai rispettivi comandanti a stare in ufficio o “pizzardoni” spediti senza sosta per strada a occuparsi di viabilità? Il gruppo con più presenze medie è stato Prati (78,6 per cento), seguito da Trevi (77,8), Marconi, Aurelio e Parioli. Il Tuscolano - maglia nera, in un certo senso - ha avuto a disposizione solo il 66 per cento dei 267 vigili in forza nella pianta organica. Idem , più o meno, al Tiburtino, dove gli agenti sono invece 216. Ma le statistiche dicono che certi numeri sono solo teorici: tra turni, assenti, malati e ferie gli uomini sulla strada restano una rarità.
Atac, il record dell'assenteismo: ogni giorno a casa 1.400 persone, scrive Riccardo Tagliapietra su “Il Messaggero”. Dipendenti Atac troppo cagionevoli di salute. Mediamente ogni giorno 1.400 persone, tra impiegati, autisti, operai e macchinisti, legittimamente presentano certificati medici e di altro tipo, come quelli per l’assistenza al familiare disabile, permessi vari, restando a casa. Assenti giustificati. Un turnover che decurta la forza lavoro di una percentuale che va da una media giornaliera del 15 per cento, con un picco del 22 per cento registrato lo scorso agosto, mese in cui c’è stata una vera e propria epidemia. Ma non è tutto perché a questi numeri si aggiungono gli autisti che chiedono l’inabilità alla guida, schizzati verso l’alto negli ultimi tre anni e i cosiddetti «liberi con paga», ovvero gli autisti che sono di turno, ma per i quali non c’è un mezzo da guidare. E così, meglio lasciarli a casa, liberi dal servizio. Un paradosso previsto dal contratto, innescato, per esempio, dall’eccesso di mezzi che sono in manutenzione nelle officine. Il risultato finale è che l’Atac, pur disponendo di una forza lavoro eccezionale, non riesce a programmare a dovere attività come il potenziamento delle corse, o l’aumento dei controllori sui mezzi, o l’impiego di personale alle stazioni. Dei 6.500 autisti assunti dall’azienda, quindi circa 970 restano a casa ogni giorno. A questi si aggiungono gli amministrativi poco più di un centinaio giornalieri (su 1300), i circa 300 operai (su 3.000) e i macchinisti, qualche unità su 450 dipendenti. Di questa ultima categoria pochi restano a casa, probabilmente in virtù del fatto che il loro contratto è legato in qualche modo anche alle presenze. Sempre all’Atac, uno dei dati più eclatanti degli ultimi anni riguarda il numero di autisti che chiede l’inidoneità alla guida, ovvero il diritto a non guidare più un bus per problemi fisici, come per esempio, la sciatica, il mal di schiena, o altro. Esistono due tipi di inidoneità, quella temporanea e quella definitiva. L’autista in entrambi i casi deve seguire l’iter presentando un primo certificato medico, seguito da altri esami e visite. Una delle curiosità puramente numeriche riguarda le visite mediche per l’abilitazione alla guida. Fino al 2010 venivano eseguite dall’Asl attraverso l’ospedale San Giovanni (struttura pubblica): mediamente c’erano una cinquantina di autisti l’anno con inidoneità alla guida (ci fu solamente un picco di richieste nel 2005). Poi la gestione è passata al centro diagnostico Pigafetta (struttura privata, partecipata da Ferrovie dello Stato). Negli ultimi tre anni il numero di inidonei è salito da 50 a 607, di cui 387 temporanei e 220 definitivi, circa il 10 per cento complessivo di tutti gli autisti, che passano quindi ad altri incarichi compatibili con la malattia. Anche il sistema delle visite d’idoneità obbligatorie per gli autisti è cambiato. Prima la visita era semestrale. Oggi la visita è quadrimestrale. E a pagare, ovviamente, è Atac. Intanto l’azienda ha raggiunto recentemente un accordo con le organizzazioni sindacali confederali per dare attuazione al sacrosanto patto rilancio Atac, «un’intesa finalizzata al riassetto organizzativo e finanziario dell’azienda che coniuga economicità, efficienza, tutela dei diritti dei lavoratori e dei clienti», dicono dalla dirigenza. Tra gli interventi previsti è stato programmato l’avvio di una selezione per «350 nuove assunzioni di autisti per la copertura, con eventuali contratti a tempo determinato, di altrettanti posti di lavoro». Per contro, una sigla sindacale autonoma, non compresa in questo patto di sindacato, avrebbe girato all’azienda altre 200 richieste di inidoneità alla guida. Ma proprio qui sta un altro nodo da sciogliere. Perché, a parte gli inidonei, i malati e quelli in permesso, ogni weekend il 6-7 per cento degli autisti assunti in Atac usufruisce del cosiddetto istituto del «libero con paga», autisti che vengono impiegati ma senza lavorare. Sarebbe a dire che la domenica, o nei giorni infrasettimanali, l’autista (per vari motivi di organizzazione del lavoro) viene «liberato», ma risulta come se fosse al lavoro. Si tratta di un istituto contrattuale previsto in molte aziende, che in Atac raggiunge percentuali altissime. «Frutto dell’inefficienza organizzativa - dicono i sindacati - non certo colpa dei lavoratori». Un cuscinetto che dovrebbe garantire un numero sufficiente di lavoratori all’azienda per gestire gli imprevisti e per garantire l’attività nei picchi, che, invece, spreca risorse preziose visti i conti di Atac. A rosicchiare una percentuale di questi «lavoratori liberi», infatti, non sono le esigenze di servizio, ma i mezzi in manutenzione per i quali mancano i pezzi di ricambio, che restano settimane in officina lasciando appiedati gli autisti, e presumibilmente pure i clienti. Una percentuale che si è accentuata nelle ultime settimane, con i conti in rosso dell’azienda: 519 milioni di euro da pagare ai fornitori (qualcuno ha sospeso il servizio e ricambi). Il futuro: il 31 marzo c’è la scadenza del contratto di servizio firmato dal Campidoglio. La bozza del nuovo contratto che gira per i corridoi di Atac, parla di un rinnovo fino al 2017, con qualche «penale» per gli stipendi. Non solo per i dirigenti.
Roma nord, arsenico dai rubinetti. Acqua vietata per 10 mesi, scrive Laura Bogliolo su “Il Messaggero”. Divieto di bere acqua fino a dicembre 2014. Dieci mesi all’asciutto per alcuni abitanti di Roma Nord, perché l’acqua che esce dai rubinetti non è sicura, contiene agenti chimici pericolosi. «Il divieto di utilizzo di acqua - specifica l'Assessorato allo Sviluppo delle Periferie, Infrastrutture e Manutenzione Urbana di Roma Capitale - emesso tramite ordinanza n.36 del 21 febbraio 2014 riguarda un numero molto limitato di utenti dei municipi XIV e XV. Si tratta di circa 500 utenti con allaccio agli acquedotti rurali dell'agenzia regionale Arsial». Le zone interessate sono: Malborghetto, Brandosa, Casaccia, Casal di Galeria, Monte Oliviero, Piansaccoccia, Camuccini». «L'ordinanza con l'elenco completo delle utenze -aggiunge la nota- è disponibile sul sito del Comune. Le zone interessate sono esclusivamente: Malborghetto e aree ex ente Maremma di Osteria Nuova nel XV, e Santa Maria di Galeria, Tragliatella, Piansaccoccia e una porzione del consorzio di Cerquette Grandi nel XIV. In particolare si fa presente che le zone di Labaro, Primavalle, Giustiniana non sono interessate dal provvedimento. Sotto accusa il Comune per il ritardo con cui sono state date le informazioni. Gli acquedotti interessati dall’ordinanza sono gestiti dall’Arsial, l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l'Innovazione dell'Agricoltura. Lo specifica l’ordinanza del 21 febbraio, dove si legge che gli acquedotti coinvolti saranno oggetto di trasferimento a Roma Capitale e poi ad Acea. La quale, per statuto, può acquisire solo reti idriche perfettamente a norma; dunque non quella dell’Arsial, almeno per il momento: «Siamo aperti a qualsiasi acquisizione - dicono fonti di Acea - per il momento Ato 2 sta procedendo alla sistemazione della rete Arsial con fondi della Regione, ma dobbiamo ancora fare una valutazione dell’impatto finanziario che questa operazione avrà sulle nostre casse». Ad effettuare le analisi sull’acqua è stata l’Asl Roma C. I risultati hanno evidenziato «acqua con caratteristiche chimiche e batteriologiche ovvero solo batteriologiche non adatte al consumo umano a causa del superamento dei valori di parametro prescritti». È quindi scattato il divieto di utilizzo dell’acqua fino al 31 dicembre 2014 per le utenze Arsial servite dagli acquedotti Malborghetto, Brandosa, Camuccini (che parte da Sacrofano), Piansaccoccia, Monte Oliviero, Casal di Galeria, Casaccia-S.Brigida. In concreto è prevista una valanga di disagi per i residenti colpiti dal provvedimento e non ancora avvertiti dal Comune. Mentre l’Acea procede al risanamento degli acquedotti, l’Arsial dovrà assicurare la fornitura di acqua mediante punti di rifornimento dislocati sul territorio. Ma come funzionerà l'approvvigionamento? In quali orari verrà distribuita l’acqua ai residenti? E in quali vie? Sono sette le pagine dell’ordinanza per indicare le quasi 300 vie oggetto del provvedimento. Tra le vie segnalate ci sono tra l’altro via Flaminia (civici 1901, 1756, 1850, 2006), via Arcore, via Barlassina, via Cornalba, Via Malborghetto, via Vignanello, via Angelo Signorelli, via Braccianese (km 6,500), via Nicola Zanichelli, via Carlo Voghera, via Crescentino, via Prato della Corte, via Giaveno, via Cherasco, via Valle Muricana. Il divieto dell’uso dell’acqua è totale e non solo per l’utilizzo alimentare, ma anche per l’igiene personale. Nessuno era stato informato dell’enorme disagio che in migliaia saranno costretti a subire: l’ordinanza è del 21 febbraio e ad allarmare i cittadini nord sono stati i rumors sul web. Nell’atto si prevede tra l’altro di comunicare ai residenti l’emergenza con manifesti da affiggere in strada che però nessuno ha ancora visto. L’ordinanza è solo sul sito del Comune di Roma, poco visibile in home page.
Acqua al veleno. «Ci hanno lasciati soli». Viaggio nei quartieri dove Marino ha vietato di bere e lavarsi dai rubinetti: «Le autobotti promesse non sono arrivate». Nei filtri resta una melma nera, scrive Giulia Bianconi su “Il Tempo”. Le autobotti promesse con l’acqua «pulita» non sono mai arrivate. Nessuno si è fatto vivo per aiutare e tranquillizzare i migliaia di romani che l’altro ieri hanno scoperto l’esistenza dell’ordinanza del sindaco Ignazio Marino che vieta l’uso dell’acqua fino al 2014. Un provvedimento firmato il 21 febbraio scorso, pubblicato sul sito del Campidoglio il 28 e per nulla pubblicizzato. Siamo andati a toccare con mano qual è la situazione tra i cittadini di Roma Nord che non possono più bere dai rubinetti, che non possono fare la doccia e nemmeno lavarsi i denti. Troppo pericoloso. Fino a l’altro ieri, prima che la stampa lo scoprisse, nessuno dei cittadini dei Municipi XIV e XV che si servono degli acquedotti rurali Arsial di Malborghetto, Brandosa, Casaccia, Casal di Galeria, Monte Oliviero, Piansaccoccia e Camuccini era a conoscenza del divieto. Ora molti romani (alcune migliaia per l’Arsial, appena 500 per l’amministrazione comunale), sono «terrorizzati». Ma anche chi non abita nelle vie elencate nell’ordinanza comunale ha paura di bere dal rubinetto, di lavare i panni con quell’acqua all’arsenico e con livelli batteriologici fuori controllo. L’ansia è arrivata fino a Primavalle, dove la gente ha fatto incetta di acqua nei supermercati. Ancora ieri molti cittadini non erano stati informati del pericolo. Come a via Cornalba, in Municipio XV, dove si servono dell’acquedotto Malborghetto. Ai residenti di via Paravia, in Municipio XIV, che utilizzano quello di Piansaccoccia, invece, ieri all’ora di pranzo è stato recapitato un foglio con l’intestazione di Roma Capitale: «Avviso ai cittadini. Con ordinanza sindacale n.36 del 21 febbraio 2014, è stato disposto il divieto di utilizzo dell’acqua per il consumo umano a causa dell’emergenza arsenico rilevata dalla Asl Rm/C. La presente strada è tra quelle sottoposte a divieto. Il divieto si protrarrà sino al 31 dicembre 2014. Acea Ato 2 Spa interverrà per il risanamento degli acquedotti». Un semplice avviso consegnato a mano da alcuni uomini della Protezione civile. Ma di autobotti, come previsto dall’ordinanza, nemmeno l’ombra. «Mi ha telefonato mia sorella preoccupata - racconta Alessandro Lelli, che vive in via Paravia 400, una delle abitazioni coinvolte - Fortunatamente abbiamo anche l’allaccio con l’Acea perché d’estate l’acqua dell’Arsial non arriva mai. Comunque nessuno si è presentato con le autobotti». La famiglia che risiede al civico 509, l’ultima della strada, racconta che «la scorsa estate sono venuti a prendere dei campioni della nostra acqua. Mia figlia su internet ha letto quello che stava succedendo e abbiamo fatto scorte al supermercato». Allora abbiamo provato a chiamare lo 060606, il contact center di Roma Capitale. Una voce registrata comunica: «Si avvisano i cittadini che fino al 31 dicembre 2014 è vietato l’utilizzo dell’acqua per il consumo alimentare, l’igiene personale e per altri usi nelle zone dei Municipi XIV (ex XIX) e XV (ex XX) serviti dagli acquedotti dell’Arsial. Da domenica 2 marzo si provvederà ad assicurare la fornitura idrica con punti di rifornimento sul territorio». Poi la voce aggiunge: «Si tratta di un provvedimento di tipo precauzionale e senza carattere di urgenza». Eppure l’ordinanza del sindaco Marino ordina con «urgenza (...) ai fini della tutela e della salvaguardia della salute pubblica agli utenti Arsial il divieto dell’acqua per il consumo umano». C’è molta preoccupazione anche tra i residenti del quartiere Piansaccoccia che non vivono su via Paravia. «La gente è terrorizzata - spiega il presidente del comitato di quartiere, Gianluca Riparbelli - Ma se gli accertamenti dell’Asl sono stati fatti già nel 2013, perché l’ordinanza è solo di pochi giorni fa?». «Le persone non sanno che un conto è il nome del quartiere, un altro quello dell’acquedotto - aggiunge il vicepresidente del comitato Antonio Meloni - Appena hanno sentito che era interessato anche Piansaccoccia hanno chiamato spinti dalla paura». Ai residenti che utilizzano l’acquedotto di Malborghetto, invece, non è arrivata alcuna comunicazione. Emilio Boccalini, responsabile Prociv (Protezione civile) XV Municipio, vive in via Cornalba. «A noi non ci hanno detto nulla, né come cittadini né come associazione. Ci sono arrivate tantissime telefonate di cittadini preoccupati». All’inizio dell’anno Emilio ha montato un filtro per l’acqua, dal quale ieri è uscita una poltiglia di colore nero. Sembra petrolio. Dalle tubature vicino a casa sua, dove passa l’acqua dell'Arsial, «uno dei tubi sembra di eternit». Patrizia e Carlo, vicini di casa di Emilio, quando si sono trasferiti in via Cornalba, più di dieci anni fa, hanno ricevuto una comunicazione dell’Arsial che diceva che «l’acqua non era potabile. Questa ordinanza però dice che non possiamo neppure lavarci con l’acqua che esce dal rubinetto. Di autobotti non se n’è vista una».
ROMA CAFONA. LA GRANDE SCHIFEZZA.
La mia Roma cafona senza più Dolce Vita, scrive Umberto Pizzi, fotografo su “Il Tempo”. Nessuno, più di me, può gioire alla vittoria del film di Sorrentino all’Oscar. Perché è un riconoscimento vero a tutti quelli che hanno raccontato quella Roma lì, che non c’è più. «La grande bellezza» è nata e cresciuta anche sulle pagine de Il Tempo, dove ho lavorato per molti anni. Sorrentino si è ispirato alle immagini che pubblicava questo giornale e Dagospia. Quando stava girando il film Paolo sfogliava spesso i libri che ho scritto con Roberto D’Agostino, «Cafonal» e «Ultracafonal», pieni di fotografie di feste e personaggi di questa capitale decadente. Proprio in quelle pagine abbiamo immortalato il cardinale, contornato dal «generone» romano, che si ritrova anche nella pellicola di Sorrentino. Nelle mie foto il porporato si buttava sul buffet con la porchetta, e questo è l’unico particolare che il film non ha ripreso. Del resto il regista ha costruito una narrazione per il grande pubblico, andando sullo stesso piano del grande Fellini. Credo che andrà ancora raccontato, forse per una platea più ristretta, il cambiamento antropologico di quel mondo. Io ho cercato di farlo con le mie fotografie. Per questo penso che la «grande bellezza» sia, in realtà, una «grande tristezza». Insomma, direi agli americani, e non solo a loro: «Non sognatevi che esista ancora la dolce vita»....Non ci sono più i grandi personaggi, i Mastroianni, le Loren, gli Onassis. Non c’è più quella via Veneto. Ormai sulla scena ci sono solo meteore. Frequento ancora le feste ma non vedo altro che mezze calzette. Una piccola, non so neanche quanto dolce, vita, in cui i protagonisti sono banchieri, manager e politici. Un ricordo sbiadito del passato. Vince la nostalgia: le donne invecchiano e provano a restare a galla andando a rifarsi la faccia. Facce che cadono e distruggono le signore. Nella mondanità romana non ci sono più i giovani ma solo i nostalgici. Mi diverto a raccontare questo mondo ma mi rattristo se penso a come sia diventato. Altro che «grande bellezza».
«Questa Roma metafisica si vede solo la domenica». Carlo Verdone, tra i protagonisti del film di Paolo Sorrentino, racconta la sua città, scrive Francesca Genovesi su “Il Tempo”. C’è fibrillazione tra i cinefili e gli addetti ai lavori, che attendono con ansia, il verdetto che verrà pronunciato stanotte dal Dolby Theatre di Los Angeles, su chi si porterà a casa l’ambita statuetta dorata. I bookmakers danno tra i favoriti una pellicola di casa nostra, La Grande Bellezza, di Sorrentino. Un film con un cast pazzesco e una protagonista d’eccezione: Roma. La città eterna, dove è stata ambientata la storia, la capitale della dolce vita, della mondanità. Una scenografia, come ci racconta il grande Carlo Verdone, resa surreale dal regista napoletano, che ha voluto mostrare una Roma sospesa nel tempo, quasi immota e immutabile nella sua intramontabile bellezza.
Carlo, che immagine emerge della nostra città ne La Grande Bellezza, il film che sta rappresentando proprio in queste ore Roma anche all’estero?
«Di sicuro la meraviglia e la maestosità di una città eterna, che si fregia del titolo "caput mundi", per la sua storia, la sua cultura e quell’atmosfera, che la rende unica al mondo. Sorrentino ha rappresentato nel suo film una Roma particolare alla quale noi romani non siamo abituati, quasi "metafisica", senza macchine, nè persone. Una scenografia che nella realtà si può godere solo la domenica mattina, uscendo di casa molto presto, quando la città ancora è addormentata e, senza traffico e rumore di clacson impazziti, mostra tutta la sua straordinaria poesia».
C’è un posto di Roma in particolare, che l’ha ispirata nel suo lavoro?
«Il Bar Mariani, in via dei Pettinari, l’ho sempre frequentato fin da quando ero piccolo, all’epoca mi ci portavano i miei. Mi ha suggerito tanti personaggi, macchiette e situazioni dai quali ho preso spunto per i miei film, che sono raccontati anche in Fatti coatti, un libro che ho scritto qualche anno fa».
Che ricordi ha della Roma di quando era bambino?
«Ho avuto la fortuna di nascere nel cuore della città, in quel palazzo con i portici, parallelo a Ponte Sisto. Il mio era un quartiere di artigiani, c’era il sarto, l’idraulico, l’elettrauto, il meccanico, la vinaia, un panificio che forniva pagnotte a mezzo centro. Ci si parlava da finestra a finestra, come si faceva e si fa ancora nei paesi e ci si conosceva un po’ tutti. Era la Roma "vera", in bianco e nero, dei film di Sordi, di De Sica, quella che tutti amiamo e della quale ho tanta nostalgia».
All’epoca al posto dei negozi c’erano le botteghe.
«Che meraviglia! La polleria Ferraresi in via dei Giubbonari, me la ricordo come se fosse ieri e il pizzicagnolo Ruggeri, con le sue prelibatezze. Poi c’era Chiatti, la gelateria più buona di Roma, noi ragazzini non vedevamo l’ora di andarci. E Carfagna in via dei Pettinari, la bottega di sartoria militare. Mi incollavo alle vetrine, guardavo tutte quelle divise e sognavo di indossarle un giorno. C’è rimasto solo un meccanico, Bruno, in via delle Zoccolette. L’unico superstite, testimone di questa Roma sparita».
Ci racconti della sora Lella e del suo ristorante all’Isola Tiberina.
«La ricordo con grande affetto, anche perché ha recitato in due miei film. Qualche volta capitavo nel suo ristorante a pranzo, era sempre pieno di monsignori, che è risaputo, vanno solo dove si mangia bene. Come mi vedeva si precipitava in cucina e cacciava via tutti dai fornelli, perché doveva preparare con le sue mani, i miei piatti preferiti. E durante il pranzo mostrava a tutti con orgoglio i poster di «Bianco, rosso e verdone», del quale è stata protagonista».
Il Gianicolo ce l’aveva proprio dietro casa, ci andava?
«Eccome no! Da bambino, sulla giostra con gli asinelli e a vedere il teatrino di Pulcinella, che mi piaceva tanto. Mi ricordo anche la prima volta che andai a sentire lo sparo del cannone, mi misi i tappi alle orecchie e avevo il cuore a mille per l’emozione. All’epoca era ancora un luogo incontaminato, oggi, passeggiare la mattina al Gianicolo e trovare una distesa di mozziconi di sigaretta e bottiglie di birra, abbandonate dai bagordi della notte precedente, mi fa sempre dispiacere».
Il suo ultimo film, «Sotto una buona stella», è ambientato all’Eur, un quartiere nuovo per lei che ama così tanto il centro di Roma.
«Roma l’ho girata come un pedalino, per una volta volevo ambientare la mia commedia in una zona moderna che non fosse già esplorata e che corrispondesse al ceto sociale benestante del personaggio».
Ogni tanto la si vede sfrecciare per le vie della città sulle due ruote!
«Quando sto in centro prendo lo scooter che è molto più pratico, soprattutto per via del parcheggio. Per due volte, però, a causa delle buche, ho rischiato incidenti piuttosto seri, quindi a malincuore spesso prendo la macchina. E puntualmente me ne pento!»
LA GRANDE SCHIFEZZA
Mentre Roma viene «salvata» dal governo con 570 milioni ci sono opere pubbliche da sette miliardi incompiute e ferme, scrive Nat. Pog. Su “Il Tempo”. Il salva Roma ha portato nelle casse capitoline 570 milioni di euro. La storia insegna che fiumi di denaro pubblico sono stati convogliati nella realizzazione di opere ambiziose. I lavori sono partiti con rumor di grancassa, poi la macchina si è fermata di botto. Gli anni sono passati, sono cresciute le erbacce mentre i progetti si erano bloccati perché all’improvviso qualcuno s’era accorto che qualcosa non andava. Oppure sono finiti i soldi. E allora si aspetta ma intanto i costi lievitano. È di circa due miliardi il valore delle grandi opere mai finite nella Capitale. Se ci mettiamo pure l’impresa ciclopica della metro C (che doveva essere pronta per il Giubileo del 2000) la cifra sale a sette miliardi. Tra i monumenti incompiuti spicca l’allucinante Vela di Calatrava il simbolo della Cittadella dello Sport di Tor Vergata. L’opera fu commissionata nel 2005 da Veltroni in previsione dei Mondiali di Nuoto del 2009. Il Campidoglio ci «buttò» ben 200 milioni ma la Vela non fu mai terminata. Oggi ce ne vorrebbero circa 500 di milioni per completare l’opera. In realtà si sta pensando di cambiarle la destinazione d’uso. Ad esempio l’assessore all’Urbanistica Caudo ha proposto di metterla a disposizione dell’università di Tor Vergata per attività didatiche. Un altro simbolo delle opere incompiute è la Nuvola di Fuksas l’opera che sarebbe dovuta costare a Eur spa 250 milioni. Nel frattempo però il progetto è stato cambiato e i prezzi sono lievitati. Ora per far ripartire il cantiere ci sono voluti altri 187 milioni. Per un progetto, neanche a dirlo, completamente diverso dall’originale. Ed eccoci all’Ostiense dove il rifacimento degli ex Mercati Generali non è ancora terminato anche se sono già stati spesi 230 milioni. Non va meglio per le grandi arterie pensate per snellire il traffico in aree periferiche e mai terminate. Come il Corridoio della Mobilità della Laurentina da 163 milioni (già spesi) che è, per ora, una corsia preferenziale di 4 km. Sull’allargamento della Tiburtina sono stati investiti circa 100 milioni ma da Rebibbia a Tor Cervara ci sono solo i new jersey a restringere la strada. E che dire del Parco Talenti che doveva aprire nel 2005 a fronte di una spesa di 2 milioni? ? I residenti lo stanno ancora aspettando.
Capitale incompiuta. Opere ferme per 7 miliardi. Progetti bloccati e lavori lumaca. Ecco la Roma dei cantieri mai chiusi, scrive Vincenzo Bisbiglia su “Il Tempo”. Una città che va al rallentatore, immobile. È di circa 2 miliardi il valore delle grandi opere pubbliche iniziate a Roma ma mai terminate, i cui cantieri risultano fermi o al rallentatore. E con l’incredibile carrozzone della Metro C, il conto sale a 7 miliardi. Il simbolo della «Roma incompiuta» è la Cittadella dello Sport di Tor Vergata, progettata dell’archistar valenciano Santiago Calatrava. L’opera fu commissionata nel 2005 dal sindaco Walter Veltroni quale struttura di punta per i Mondiali di Nuoto del 2009, ma nonostante i circa 200 milioni di euro investiti dal Campidoglio, la «vela» non è stata terminata: per finirla servono altri 500 milioni di euro, dai quali ricavare i soldi anche per un ponte che da Tor Vergata raggiunga La Romanina scavalcando l’autostrada Roma-Napoli, anche quello iniziato e mai terminato. L’altra «vittima» illustre dei Mondiali di Nuoto 2009 è il Polo Natatorio di Valco San Paolo. La struttura, costata 16 milioni di euro, è abbandonata nell’incuria di tutti, tranne della Federnuoto che spende migliaia di euro per la sorveglianza H24. E infruttuosi, per ora, anche i 4,4 milioni investiti per la Piscina della Città Futura, sulla Cristoforo Colombo. Tempi duri per le archistar. Oltre a Calatrava, in netto ritardo la «Nuvola» di Massimiliano Fuksas: l’opera sarebbe dovuta costare a Eur Spa (società partecipata da enti pubblici) 250 milioni. I lavori si sono fermati più volte e il progetto è stato rivoluzionato. Ora i cantieri sono ripartiti, ma ci sono voluti altri 187 milioni di euro per un edificio del tutto diverso. E non è andata bene nemmeno all’olandese Rem Khoolaas, che aveva disegnato il restyling degli ex Mercati Generali di via Ostiense: qui i 230 milioni di euro sono privati, ma il cantiere è aperto dal 2006 e a dicembre sarà consegnato solo il perimetro. Oltretutto l’opera avrebbe dovuto vedere all’interno un teatro di 2700 posti che invece sarà sostituito da un outlet commerciale. Cantieri lumaca, invece, ai laghetti dell’Eur, dove sarebbe dovuto sorgere già da un pezzo l’Acquario di Roma: 80 milioni di euro fin qui spesi, e ne servono altri per completare i lavori. Molto male anche sul fronte trasporti e viabilità. La stazione Jonio della Metro B1 viaggia con un anno di ritardo, il cantiere sembra attivo ma l’opera è ancora uno scheletro e sul tabellone non c’è indicata una data di conclusione a giustificare i 174 milioni fin qui spesi. Un libro, invece, servirebbe per raccontare dei 163 milioni spesi per il Corridoio della Mobilità sulla Laurentina: fra presunte tangenti e mazzette, l’opera è diventata una corsia preferenziale di 4 km, fino a Tor Pagnotta, dove a settembre doveva esserci la linea aerea per i filobus, ma solo alcuni pali sono stati montati e altri depositati in cantiere. A confronto, sembra un’inezia il fatto che a Ponte di Nona siano stati spesi 1,5 milioni per un parcheggio in mezzo al nulla, mentre la relativa stazione ferroviaria è rimasta sulla carta. E le strade? Sull’allargamento della Tiburtina sono stati investiti quasi 100 milioni di euro, ma da Rebibbia a Tor Cervara ci sono solo i new jersey a restringere la strada, mentre qualcosa si muove in via Marco Simone. Sulla via Boccea i 6,5 milioni spesi sono già diventati 7,5 a causa di ritrovamenti archeologici, mentre la Prenestina Bis da Quarticciolo al Gra è rimasta solo una ferita nel parco Tor Tre Teste (14 milioni di euro) mentre la via Portuense (5 milioni spesi) sarebbe pronta, se non fosse per l’allargamento del sottopasso di via Majorana mai concluso. Per non parlare del Ponte Fidene: 4,1 milioni di euro per un’opera ancora ferma agli espropri. I cittadini aspettano anche il destino del Parco Talenti, opera compensativa partecipata con 2 milioni di euro, che doveva aprire nel 2005; della Piazza Coperta di Arco di Travertino: 34 milioni di euro, ma l’opera è solo un bel contenitore; della sede del IV Municipio di via Filippo Fiorentini, 10 anni di lavori e 1,5 milioni per un palazzo; dell’Auditorium di Pineta Sacchetti, opera da 1,6 milioni in cantiere dal 2003. Girando per i municipi, poi, sono tante le piccole opera dai tempi infiniti e dai costi esorbitanti. A Casal Bertone, per esempio, i campetti sportivi sono quasi pronti, ma sono stati abbandonati e occupati dai cenro sociali, mentre il Mercato va a rilento a causa di ritrovamenti archeologici. Mai terminato il mercato rionale dell’Alberone, così come il palasport di Massimina e il Parco Labaro Colli D’Oro. Tempi biblici per le scuole: gli alunni di via Leonardo Da Vinci, via Maroi, Via Penzuti e via Niobe aspettano ancora di entrare, mentre a Quarticciolo i 400mila euro per il Contratto di Quartiere hanno portato, invece del restyling, cantieri a cielo aperto desolatamente vuoti. Eppure i tempi non sembrano essere mai cambiati. A Vigna Clara sorge un monumento all’inefficienza del secolo scorso: una stazione e 6 km di binari in disuso, realizzata per Italia ’90, il tutto costato all’epoca 90 miliardi di lire. In completo abbandono.
Roma, stipendi d’oro e sprechi faraonici, scrive Dario Martini su “Il Tempo”. Ecco la bancarotta della Capitale: 1,6 miliardi per Atac, 650 milioni per Ama, dirigenti e avvocati costano 31 milioni. Il Comune di Roma ha 23 avvocati che costano ogni anno più di 6,3 milioni di euro. Esatto, 6,3 milioni. Il record man è Andrea Manganelli con 321mila euro. Come è possibile pagare cifre di questo tipo in un’amministrazione pubblica? Semplice, perché oltre allo stipendio gli avvocati ricevono percentuali sugli onorari delle cause vinte. Ma la lista degli sprechi è infinita. Basti ricordare la bellezza dei 216 dirigenti per cui il Campidoglio spende annualmente 25 milioni di euro. Di questi manager, 191 prendono più di centomila euro. Il più ricco, nel 2012, ha portato casa 181mila euro. E poi ci si sorprende se quest’anno Roma Capitale ha chiuso il bilancio con un buco di 863 milioni di euro. Ecco perché il sindaco Ignazio Marino l’altro ieri ha minacciato di bloccare la città se il decreto Salva Roma non fosse stato approvato. La verità è che non sarebbe stato lui a bloccare la città, sarebbe stata la Capitale stessa ad andare in bancarotta. Va messo in campo un vasto piano di risanamento per far sì che il prossimo anno Roma non si trovi nella stessa drammatica situazione. Anche perché in media il contribuente romano paga di tasse più di tutti gli altri italiani: 1.040 euro contro 440. Come se non bastasse, dal suo insediamento, l’amministrazione di centrosinistra ha licenziato oltre 100 i provvedimenti che riguardano nomine ed affidamento di incarichi (più dei due terzi del totale di provvedimenti adottati finora) per un totale di circa 4 milioni di euro. Su questo tema in Consiglio comunale si è battuto Fabrizio Ghera, di FdI, che chiede «di applicare forti riduzioni ai compensi dei dirigenti comunali e delle aziende capitoline e di stoppare definitivamente i maxi compensi agli staff di segreteria avviati da Marino». I dirigenti pagati a peso d’oro, così come l’esercito degli avvocati capitolini, sono solo la punta di un iceberg. Roma Capitale conta 62mila dipendenti tra diretti e indiretti, mentre sono 21 le partecipazioni dirette in aziende e altri organismi. Si calcola che il disavanzo strutturale sia di circa 100 milioni al mese. L’agenzia Ficht ha certificato che dal 2008 il Comune ha generato nuovi debiti per 137 milioni nel 2009, 122 nel 2010, 313 nel 2011, 255 nel 2012 e 250 nel 2013. La parte del leone nel buco nero dei debiti la fanno le municipalizzate. Atac e Ama in primis che, secondo le intenzioni del governo, dovrebbero essere privatizzate. Partiamo dall’Atac, l’azienda dei trasporti che ha più di 12mila dipendenti. Negli ultimi dieci anni ha fatto 1,6 miliardi di debito. Quello di quest’anno con i fornitori si aggira sui 500 milioni. Poi c’è l’Ama, che conta 11.805 dipendenti. Solo pochi giorni fa, il neo presidente Daniele Fortini ha tratteggiato uno scenario che mette i brividi: «Ama è un’azienda sofferente - ha detto - abbiamo un indebitamento di 650 milioni di euro e le esposizioni con i fornitori sono di una cifra superiore a 150 milioni». E il futuro non è rassicurante. «Lo stress è fortissimo con gli istituti di credito, un pool di 7 banche guidate da Bnp Paribas - ha aggiunto Fortini - Ogni anno destiniamo 30 milioni di oneri finanziari per restituire il credito. I fornitori li paghiamo dopo 250-260 giorni dalla scadenza della fattura, contro i 450 della Pubblica amministrazione». E pensare che basterebbe una piccola discarica e nuovi impianti di trattamento dei rifiuti per risparmiare ogni anno 25 milioni. Già, perché da quando è stata chiusa Malagrotta, non esistendo un piano B, l’amministrazione Marino ha deciso di spedire la monnezza nelle regioni del nord d’Italia. Morale: loro ci guadagnano, i romani ci rimettono. Infine, tra le aziende controllate (ma con anche capitale privato), c’è l’Acea, che comunque rispetto alle altre due municipalizzate un po’ di utili li porta a casa. Il Comune di Roma gestisce direttamente anche 44 farmacie comunali. Almeno una volta al mese c’è una protesta dei dipendenti che hanno paura di essere privatizzati. Eppure, anche in questo caso il servizio è perennemente in rosso. Hanno accumulato, infatti, più di 10 milioni di debiti. Poi c’è l’emergenza abitativa. Un altro bell’esempio di come per affrontare un problema spinoso si sceglie la via più tortuosa. Il Campidoglio incassa ogni anno 27 milioni dai canoni dei suoi 43mila alloggi e, allo stesso tempo, spende 21 milioni per affittare dai privati 4.800 appartamenti da destinare ai senza casa. Per dare ossigeno alle casse capitoline bisognerebbe portare a termine la vasta dismissione immobiliare. Pochi giorni fa la commissione Bilancio ha dato l’ok alla vendita di oltre 300 immobili (ricavo previsto circa 130 milioni) se non ci fosse il piccolo problema che la metà di questi alloggi è occupata abusivamente o c’è uno sfratto pendente. L’ente negli ultimi tre anni ha perso 25,7 milioni. Da mesi rischia la sopravvivenza. Anche la Manon Lescault ha rischiato di saltare per sciopero dei dipendenti.
Gli immobili dei clan «regalati» al degrado. La beffa dei beni confiscati alla criminalità. Valgono una finanziaria Nel Lazio su 645 locali meno della metà sono già stati assegnati, scrive Erica Dellapasqua su “Il Tempo”. Almeno la metà dei beni tolti alle mafie viene lasciata marcire. La torta c’è e si potrebbe anche spartire, invece Roma, terza città d’Italia per numero delle confische di beni e seconda con Milano per quelle di aziende, a 18 anni dall’entrata in vigore della legge 109/96 sul riutilizzo sociale di questi beni è ancora ferma alla fase di elaborazione di nuove regole per far fruttare il patrimonio. Un «tesoro» che, ha ricordato in scadenza di mandato il direttore dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata prefetto Giuseppe Caruso, «a livello nazionale può valere tranquillamente una manovra finanziaria». Il buon esempio non arriva da Roma e provincia, dove un terzo, se non la metà delle proprietà restano vuote, inutilizzate quindi sprecate come in via di Ripetta, occupate dagli stessi boss mai cacciati a Torre Gaia oppure imbrigliate da una burocrazia più insidiosa della mafia che imporrà investimenti stellari per ristrutturazioni tardive. Riparte dall’«anno zero» anche la Regione Lazio, dopo l’azzeramento dell’Abecol, agenzia laziale per i beni confiscati alle mafie recentemente reputata «inattiva» e quindi «non giustificabile» dalla Corte dei Conti. Gli ultimi dati dell’Agenzia nazionale, fermi al 7 gennaio 2013, raccontano che complessivamente nel Lazio si localizzano 645 beni confiscati tra immobili e aziende. Su un totale di 505 immobili, 174 sono rimasti in gestione all’Agenzia, 264 consegnati e riutilizzati dai vari enti o realtà istituzionali. Passando alle 140 aziende, 82 risultano ancora in capo all’Agenzia e 58 uscite dalla gestione, destinate a vendita, liquidazione, procedura di fallimento o, in pochissimi casi, affidate a cooperative costituite dai lavoratori. La metà degli immobili non sono stati riassegnati, poi, nel perimetro della provincia di Roma, che fa i conti con 107 proprietà rimaste «nella disponibilità» dell’Agenzia nazionale a fronte delle 197 destinate e consegnate. Anche per quanto riguarda il perimetro del Comune capitolino il bilancio non è soddisfacente: su un totale di 225 immobili, quelli destinati e consegnati si fermano a quota 130, nelle mani dell’Agenzia ce ne sono ancora 55, altri 17 sono stati iscritti alla voce «destinati non consegnati», vedi beni occupati o gravati da ipoteche, concludendo con le aziende (110 confische) per le 53 uscite dalla gestione dell’Agenzia ne restano 57 sotto la sua responsabilità. Che poi assegnazione non sempre è sinonimo di riutilizzo. Ora, è evidente, scorrendo i bilanci già vecchi – gennaio 2013 appunto - dell’Agenzia nazionale, la «doppia velocità» su cui marciano da un lato la Procura di Roma diretta da Pignatone (che ha messo il turbo più che raddoppiando il numero di operazioni e quindi di sequestri), dall’altro l’Agenzia e, a cascata, le amministrazioni locali, che in assenza di un sistema informatico operativo, criteri certi di assegnazione o controlli effettivi sul campo navigano a vista nonostante il patrimonio accumulato valga ormai miliardi. I problemi sono tanti e neanche nuovi. Solo per citarne alcuni, approfonditi anche nel recente rapporto della Commissione Garofoli, che si propone di riformare l’Agenzia, Caruso ha più volte lamentato la carenza di organico (84 persone per un totale di 12.946 beni su scala nazionale giunti a sequestro in via definitiva), la mancata attivazione del sistema di comunicazione telematica, il fatto che – per quanto riguarda gli immobili – si presentano criticità nell’85% dei casi (ipoteche accese con le banche, permanenza dello stesso mafioso nei casi in cui il giudice abbia ordinato i domiciliari in quella dimora), assenza di adeguate forme di pubblicità dell’elenco degli spazi disponibili e, non meno importante, i tempi biblici che trascorrono tra sequestro e confisca, in media 7 anni che determinano, troppo spesso, il deperimento del bene: indicativo a questo proposito è il caso degli stabilimenti cinematografici De Paolis sulla Tiburtina, sequestrati nel 1994 a Enrico Nicoletti (Banda della Magliana) e assegnati solo nel 2013. In questo quadro si inserisce il protocollo che Comune e Regione sottoscriveranno col Tribunale di Roma e che coinvolgerà altri soggetti a partire da Procura e Corte d’Appello, novità sostanziale il tentativo di «recuperare» il bene già in fase di sequestro, senza attendere la confisca. Il dipartimento Patrimonio attiverà poi controlli sulle proprietà già consegnate alle varie associazioni e bandi per l’assegnazione dei beni che saranno acquisiti.
Il tour dei «tesori» mafiosi congelati dalla burocrazia. In giro per Roma tra parchi, casali, palestre e negozi, scrive Eri. Del. Su “Il Tempo”. Anche i beni sottratti alla criminalità, e consegnati al Comune, diventano un «vuoto a perdere». L’impennata dei sequestri, e presumibilmente di confische, non si è tradotta negli anni in un significativo aumento delle proprietà assegnate a Roma Capitale, complessivamente 57. Uno stallo anche temporale, considerando che – sul totale dei decreti di destinazione – appena tre, tra il 2011 e il 2012, risultano firmati dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Tutti gli altri risalgono all’epoca dell’Agenzia del Demanio. Cinquantasette immobili, dicevamo, numero reputato «esiguo» dagli stessi uffici del dipartimento Patrimonio che punterebbe a incrementarne la consistenza per una riconversione a fini sociali e per rispondere, tra le altre problematiche, per esempio alla conclamata emergenza abitativa. La verità, però, è che già oggi, tra questi «pochi» beni in gestione, si registrano anomalie e defezioni mai risolte nel tempo. Caso emblematico, la Tenuta dell’Inviolatella Borghese (nel 2009 valore stimato 3 milioni di euro) tra corso Francia e via Flaminia Vecchia, riconducibile alla banda della Magliana: nel 2004 l’Agenzia del demanio firma il decreto di trasferimento a favore del Comune; dopo infinite vicissitudini, nel 2012, la Regione finanzia il progetto di riqualificazione del parco, 140mila euro. Ma, ultimati i lavori, restano i lucchetti: «È finito da un anno ma chiuso - aggiorna Mario Attorre del comitato per il XV municipio – Il Comune cercava fondi per il guardiaparco». Il casaletto che si fa riconoscere per la scritta «bene confiscato alle mafie», in ogni caso, non è stato incluso nel piano di rifacimento. La Guardia di finanza, lunedì, ha chiesto al Comune tutto l’incartamento dell’Inviolatella. Ancora proprietà della «banda» ma altro municipio, l’VIII, e altre inerzie: «Per il garage confiscato di via Barbana – spiega il minisindaco Andrea Catarci – abbiamo fatto di tutto, manifestazioni, richieste di tavoli istituzionali, l’assegnazione al Comune risale ormai al 2003 ma le cose non si sono sbloccate». Sorte più controversa per l’ex palestra «Il David 2», in via Magni, dietro piazza dei Navigatori. Formalmente assegnata all’associazione carabinieri in servizio Podgora, nei fatti è chiusa: «Quel posto è abbandonato da due anni», dicono i vicini. Si confermano, così, gli esiti di un precedente monitoraggio dell’associazione «Libera», che nel 2011 rilevò come il 33,3% dei beni risultassero vuoti o non occupati secondo i criteri di legge, vedi «una macelleria in via della Marranella o depositi in via delle Testuggini». Altra situazione «monitorata dagli uffici», chiariscono dal Comune, via Tuscolana 1100 (ancora banda della Magliana): locale riconvertito in ristorante, già nel 2008 i vigili contestarono all’associazione assegnataria (Goodwill) la non aderenza col progetto originario, cioè il reinserimento lavorativo di ragazzi svantaggiati. «Ma quali ragazzi svantaggiati, sparavano solo musica altissima, ci siamo andati in causa», raccontano gli inquilini. Infine Torre Gaia, il regno di Enrico Nicoletti, coinvolto negli affari della famigerata banda. Paradossale la storia di uno degli appartamenti confiscati in via Gravina di Puglia 48: «Il bene ci è stato assegnato nel 2007 – riepiloga il presidente dell’associazione "La Mia Famiglia" Donato Mazzeo – il progetto presentato in Comune prevedeva una casa famiglia per minori ma, quando è stato il momento di richiedere le autorizzazioni, il municipio non ci ha dato l’idoneità». Piano interrato troppo basso, questioni tecniche: «La ristrutturazione è stata finanziata dalla Regione con 37mila euro, ora abbiamo in mente un nuovo progetto ma serviranno altri lavori: più comunicazione tra le parti avrebbe potuto evitare tutto questo!». Pochi isolati più in là, in via di Valle Alessandra, un esperimento riuscito: la Fondazione Roma Solidale ospita tre mamme e i loro bimbi. «"Lei lo sa chi sono io?", ci ha detto Nicoletti mentre facevamo i lavori dio ristrutturazione – ricorda Maurizio Saggion – Gli ho risposto allo stesso modo: lui qui ha ancora il parcheggio assegnato per la sua Ferrari, il nome sul campanello, ma il messaggio che passa è importante: questo è un bene sottratto. E rinato».
Vigili, ecco la hit degli stipendi: i dodici comandanti super pagati, scrive Flaminia Savelli su “La Repubblica”. Le retribuzioni da 93mila ai 170mila euro per il capo Clemente. Indennità di servizio e bonus produzioni: i maxi stipendi per i comandanti della polizia Municipale viaggiano da 93 a 132mila euro fino ai 170mila del capo dei vigili, Raffaele Clemente. Cifre importanti, pubblicate per la legge sulla trasparenza anche sul sito del comune di Roma, e che l'amministrazione comunale versa ai capi dei XVII gruppi della capitale. In tutto sono 4 le voci per i compensi annui, 2 di queste però variabili. E dunque, se lo stipendio tabellario è per tutti fermo a 43. 310 euro e la quota di indennità varia a seconda dell'incarico da 45.600 ai 62.700, a fare la vera differenza sono le "retribuzioni di risultato" e la voce "altro". Le retribuzioni di risultato, in sostanza dei bonus produzione, variano dai 300 ai 20mila euro. Mentre, per l'indennità di vacanza continuata, la retribuzione di anzianità e i compensi per i corsi formativi la cifra è molto più contenuta e si aggira tra i 100 e i 370euro. Una spesa comunque già molto ridimensionata soprattutto se si pensa che nel 2012 aveva toccato quota 42mila euro per un comandante di gruppo. E dunque, subito sotto la casella dei 170mila del comandante Clemente (50mila euro in più dell'ex Carlo Buttarelli e circa 30mila euro in più a quanto era stato stabilito a richiesta di incarico lo scorso ottobre) spiccano i 132mila euro assegnati al comandante del XV gruppo - Cassia, Donatella Scafati che alla voce di retribuzione di risultato nel 2013 è stato corrisposto l'importo di 20 mila euro. Ancora: maxi stipendio anche al capo del II gruppo - Parioli, Maurizio Sozi che ha incassato un bonus di 19mila euro e che nel totale complessivo ha raggiunto quota 112mila. Seguito, con 100mila euro, dal comandante di Monte Mario, Antonio Bertola e Marco Giovagnorio al Tuscolano con 105mila euro. Per il capo del V e il VI gruppo, Maurizio Maggi, la spesa è di 106mila euro. Fermi invece, tra i 92 e i 93mila euro, i comandanti del I gruppo Prati, II, III, IV, XI e XIII gruppo: "Da una parte si elargiscono super stipendi come quello del comandante Clemente che è arrivato a 170mila euro l'anno" commenta Luigi Marucci, presidente dell'Ospol : "Dall'altra non solo non si tiene conto che lo stipendio per un vigile è di 1400 euro al mese, ma a rischio ora ci sono anche gli straordinari. I soldi in cassa infatti, sono pochi e non viene data la possibilità di effettuare lavoro extra che consente ai nostri uomini di incrementare lo stipendio anche di 200euro al mese. Non mi sembra conclude Marucci - che questo sia in linea con la politica del risparmio voluta e richiesta dal comune e che questi siano i presupposti per riuscire a far quadrare i conti nelle tasche del comune. Speriamo perciò che le spese vengano ridimensionate per il bene di tutto il corpo della polizia Municipale". E intanto, non solo i comandanti hanno retribuzioni elevate: anche i vice comandanti e dirigenti con incarichi specifici godono di un ottimo trattamento. In testa ai vice del capo Clemente, Diego Porta con 133mila euro seguito dai 129mila euro di Antonio Di Maggio e dai 111 di Raffaella Modafferi. Tra gli ex comandanti generali, super stipendi anche per Angelo Giuliani, dirigente e capo della scuola della polizia Municipale, che è arrivato a 146mila euro, di questi però 86mila corrispondo all'indennità di servizio. E infine, fermo a 120mila euro, Buttarelli oggi direttore Mercato dei fiori e la cui indennità è di 45mila euro.
Sono 33, vengono scelti senza concorso e il loro compito è quello di 'controllare' i dintorni di Montecitorio, Palazzo Madama e Quirinale. E oltre al normale stipendio da agenti di polizia locale, percepiscono un'indennità di circa 250 euro al mese, direttamente pagata dalle Istituzioni, scrive Loredana Di Cesare su “I Fatto quotidiano”. La piccola casta dei 33 vigili urbani. Prestano servizio nelle vie che costeggiano le sedi della Camera dei deputati, Senato e Quirinale. E, oltre al normale stipendio da agenti di polizia locale, ciascuno di loro percepisce un’indennità annua di 3 mila euro che, moltiplicata per i 33 uomini, sfiora un totale di 100 mila euro l’anno. Il loro merito: orbitare intorno ai palazzi della politica e vigilare per le strade percorse dai nostri politici. Infatti, quale sia il criterio di selezione del gruppo dei vigili rimborsati dalla politica e cosa li differenzi dai colleghi collocati un isolato più in là, resta un mistero. A ilfattoquotidiano.it, Donatella Scafati, comandante pro tempore del corpo di Polizia municipale di Roma Capitale, risponde con una mail, spiegando che “il personale destinato a tale attività è stato scelto, nel tempo, tra quello che ha dimostrato adeguata professionalità e formazione, analizzando le richieste presentate dagli interessati”. Nessun concorso interno quindi, e la selezione avviene in base alle domande presentate dai diretti interessati che, una volta assegnati nelle sedi istituzionali, vi rimarranno fino alla pensione, perché non è presente nessun principio di rotazione. Sull’indennità dei vigili, invece, il comandante risponde: “Il personale in questione percepisce un’indennità erogata direttamente in busta paga dai predetti Organi Istituzionali”. Nessun accordo esiste tra le amministrazioni di Montecitorio, Palazzo Madama e Colle e le categorie sindacali, riguardo la scelta e criteri di selezione degli uomini distaccati nelle sedi in questione. Il comando della polizia locale di Roma non smentisce né conferma la cifra che al fattoquotidiano.it risulta aggirarsi, per ciascuno di loro, intorno ai 250 euro mensili. Dunque, il perimetro della casta non si ferma a coloro che sono all’interno dei palazzi. Il perimetro è più ampio e i 33 uomini della polizia municipale – a Montecitorio sono in 13; a Palazzo Madama ce ne sono 12 e al Quirinale, invece, ne stazionano otto che ruotano su tre turni quotidiani – godono di un trattamento diverso rispetto ai colleghi che lavorano per strada. Precisano dal Comando dei vigili che non hanno un vero e proprio ufficio all’interno delle sedi istituzionali, ma per lo svolgimento del servizio “è a loro disposizione uno spazio condiviso per la redazione degli atti di e il passaggio delle consegne al cambio del turno”. Sui vigili, in questi giorni, si gioca l’importante partita per la scelta del nuovo comandante del corpo, dopo le dimissioni di Carlo Buttarelli. Inoltre, il neo sindaco di Roma Ignazio Marino dovrà occuparsi del piano di razionalizzazione che prevede di aumentare di mille unità gli uomini nelle strade. L’organico dei vigili conta 6300 effettivi e a svolgere un servizio effettivo per le strade sono soltanto poco più di 2 mila.
E poi la ciliegina sulla torta. L'arresto del Comandante dei Vigili Urbani.
Caso Giuliani, "Sponsor e vigili distaccati, così funziona il circolo". La moglie dell'ex comandante della municipale agli investigatori: "Il personale pagato dal corpo", scrivono Rory Cappelli e Giuseppe Scarpa su “La Repubblica”. C'è un sistema che viene usato per far funzionare la macchina sponsorizzazioni nel Circolo Sportivo. E c'è un sistema per distaccare i vigili e metterli lì dentro, in un centro ambitissimo perché "invece di lavorare si faceva sport" a spese del Comune, raccontano. A svelare ai carabinieri i segreti del centro sportivo del Lungotevere Dante è Angela Cantelli, la moglie di Angelo Giuliani, l'ex comandante dei pizzardoni, ora agli arresti domiciliari come tre dirigenti della Sea, la società che avrebbe pagato mazzette per ottenere un appalto milionario che non le spettava. È il 14 marzo 2012 quando i carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci, a seguito delle denunce dei fratelli Bernabei, si recano al circolo sportivo di lungotevere Dante 11, il feudo di Angelo Giuliani, l'ex comandante dei vigili urbani ora agli arresti domiciliari. Cercano documenti e riscontri per sustanziare le accuse dei "bibitari", come Angelo Giuliani chiama nelle intercettazioni i fratelli suoi grandi accusatori. Qui incontrano la moglie dell'ex capo, Angela Cantelli: "Sono segretaria generale da ottobre 2005", racconta la vigilessa. Esaminando i documenti, i militari scoprono che, oltre a Sicurezza e Ambiente e a Bernabei liquori, sponsor del circolo nel 2012 sono stati anche un'assicurazione, D'Ippolito Emanuela assicurazioni, e una società che si occupa di pubblicità, la Team 83. "Non esiste un documento in cui sono riepilogate le sponsorizzazioni", spiega però, candida, ai militari così come non ne esiste uno che riguardi "le donazioni o un documento nel quale siano riepilogati i lavori di manutenzione o di altro tipo effettuati da ditte private per il circolo". Gli inquirenti chiedono poi delucidazioni sul personale: chi è? Da chi viene retribuito? "Il personale del circolo è formato da otto appartenenti al corpo della polizia municipale in posizione di distacco e retribuiti dal corpo dei vigili urbani". Il perché li paghi la municipale, il loro compenso e le mansioni nel circolo, sono domande che, almeno in quell'occasione, rimangono senza risposta. Ci sono poi "istruttori sportivi che percepiscono dal circolo un rimborso". La Cantelli si sofferma infine sul rapporto del circolo con i Bernabei: "La ditta Bernabei sponsorizza il circolo da anni. Quando ho iniziato a lavorare qui, nel 2005, la sponsorizzazione credo fosse già in essere. Preciso che la ditta Bernabei ha voluto offrire tre rinfreschi in occasione delle cerimonie di premiazione delle tre edizioni dei tornei Bernabei". I rinfreschi, in effetti, furono offerti: ma poi, raccontano i fratelli, si trasformarono in una sorta di persecuzione, una pretesa sempre più esosa da parte dei pizzardoni. Come il buffet del settembre 2011 per festeggiare l'intitolazione di un campo di calcetto al padre dei Bernabei, cui partecipò come ospite anche l'allora sindaco Alemanno. L'ex comandante della municipale oggi verrà sentito dal gip. Ha fatto sapere che parlerà. E c'è già chi trema.
Dottor Jekyll e mister Hyde, scrive Riccardo Tagliapietra su “Il Messaggero”. Per Angelo Giuliani, 54 anni l’11 marzo, l’accostamento al celebre personaggio di Stevenson non è casuale. Il «comandante» come lo chiamano ancora i fedelissimi «è stato un uomo leale», giurano, con la porta sempre aperta. Istrione con sindacati e politici, amichevole e comprensivo con i compagni. È il ritratto dipinto dai magistrati a lasciare attoniti i «suoi» uomini. Il comandante è mister Hyde. Prende bustarelle per azzerare i debiti del centro sportivo dei vigili, fa affari poco puliti, c’è pure una compravendita immobiliare sospetta, un rudere acquistato con l’imprenditore, Paolo Gagliardi che ha una società di servizi e si occupa di concessioni per occupazione di suolo pubblico, una materia vicina al comandante. Ma la vera maledizione di Giuliani, divenuto capo dei vigili con la benedizione di Valter Veltroni sindaco e uno stipendio di 150 mila euro l’anno, è quel centro sportivo di Ponte Marconi ereditato dal suo predecessore Giovanni Catanzaro, uomo di ferro, incastrato dall’uso illegittimo del permesso per disabili della moglie e licenziato da Veltroni. Un circolo frequentato da vigili, parenti, conoscenti. Chi frequenta non paga e a far filare i conti sono sempre stati i comandanti. È il 2007 e il testimone (bollette e gestione del centro) passa di mano. Giuliani, laurea in giurisprudenza conquistata nel 1985, laurea in scienze dell’investigazione e master di informatica giuridica, non si tira indietro. Il circolo si mantiene soprattutto con gli sponsor. E così mentre Dottor Jekyll «Giuliani» si destreggia con i conti, mister Hyde viene tirato in ballo nel 2011 da un imprenditore di liquori di Trastevere, Paolo Bernabei, il cui papà - dicono dal centro - è sempre stato un benefattore, anzi uno sponsor. Bernabei junior però denuncia di essere stato taglieggiato dai vigili, mentre dal Comando spuntano centinaia di multe accumulate da mezzi in uso alla società di Bernabei cancellate, o non pagate. Una storia complicata, tutta da chiarire. Mister Hyde Giuliani è la mano che prende i soldi e paga le bollette del centro sportivo. La stessa che avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto alla Sea che si occupava della pulizia delle strade della città dopo ogni incidente, in cambio di una nuova sponsorizzazione di 3mila euro. Nel 2012 Dottor Jekyll si dimette. Ma la sua storia non finisce qui. Falso ideologico durante il concorso per la selezione di 300 nuovi agenti, Giuliani presiede la commissione: Mister Hyde torna in scena.
«Appena mi toccate il Gruppo Sportivo io mando cinque o sei siluri, non ci provate». A parlare è Angelo Giuliani, l'ex Comandante della Municipale finito ai domiciliari per corruzione e falso ideologico. Racconta ad un amico di aver tenuto testa a Gianni Alemanno, il giorno in cui il primo cittadino gli aveva comunicato che, di lì a breve, sarebbe stato destituito dal ruolo di capo dei vigili urbani e sostituito con Carlo Buttarelli. È il 27 luglio del 2012, scrivono Michela Allegri e Paola Vuolo su “Il Messaggero”. Giuliani usa toni accesi pure con Giorgio Ciardi, delegato del sindaco alla Sicurezza: «ogni cosa che voi mi fate ostile io la reputo un atto ostile nei miei confronti e agisco di conseguenza, fate voi... avevo fatto un patto col sindaco, mi aveva assicurato ’sta roba. Ora inizierà la guerra. Mando in fibrillazione tutto il Corpo, punto». E si vanta con Ciardi di avere detto ad Alemanno: «Metti Carlo Buttarelli, certo, vedrai la differenza, sono molto meglio di lui». A un passo dalla destituzione, il comandante è ossessionato dalla necessità di tutelare i propri interessi che, come scrive il gip, sembrano ruotare intorno al Gruppo Sportivo dei vigili urbani di cui Giuliani è presidente e che sarebbe stato utilizzato come copertura per incassare tangenti mascherate da contratti di sponsorizzazione. Come quella versata dai vertici di Sicurezza e ambiente, finiti ai domiciliari insieme a Giuliani. Una vigilessa si accorge del rapporto privilegiato e non trasparente che lega il comandante ai dirigenti di Sea, e inizia a fare domande. Quindi, Giuliani si accorda con la sua vice, Donatella Scafati, per far trasferire la vigilessa «infedele»: «E' proprio un'infamella da quattro soldi», dice Giuliani. E' il 28 gennaio, dall'altro capo del telefono c'è la Scafati, che gli comunica di aver chiesto più volte il trasferimento della collega. «Brava! Hai fatto bene! Toglietela di torno Donatella! Vedi il futuro!... ti togli un canchero eh Donatè», replica Giuliani. Il 22 agosto del 2012, invece, l'ex Comandante viene informato che il Segretario Generale ha disposto il rientro al reparto dei vigili distaccati presso il Gruppo Sportivo. Giuliani si stizzisce: «sta facendo lo s.... ma comunque mo’ sono c.... suoi». E parlando con Ciardi: «Avevo fatto un patto con il sindaco, mi aveva assicurato ’sta roba. Ora inizierà la guerra. Mi dispiace, non te la prende, eh?». Giuliani è talmente scosso che chiama addirittura Marco Visconti, all'epoca dei fatti assessore alle Politiche Ambientali. Anche a lui racconta del colloquio con Alemanno: «Gli ho detto: sindaco lasciateme perde almeno quello... niente, questo non conta un cazzo. Il sindaco non conta proprio un c...». Il comandante giura che la colpa di «tutto questo casino» è dei «bibitari», i fratelli Bernabei, gli enotecai di Trastevere che con la loro denuncia hanno scatenato un vero e proprio polverone. Il meglio di sé, però, Giuliani lo dà per assicurarsi il posto di presidente della Commissione esaminatrice del Concorso per Istruttore di Polizia Municipale. Sono gli ultimi giorni del luglio del 2012, e manca poco alla destituzione di Giuliani. Il comandante si è adoperato con ogni mezzo per realizzare in tempi brevissimi la costituzione e l'insediamento della commissione di Concorso, nel quale avrebbe rivestito la carica di Presidente. Si tratta di uno strumento di potere, per Giuliani, una carica di rilievo da sfruttare per salvaguardare il suo ruolo nel Circolo Sportivo e per alzare la voce addirittura con il Sindaco: «sono anche presidente di commissioni lì al concorso. Il Circolo non si tocca». Il gip descrive Giuliani come un uomo abituato a corrompere, ad alzare la voce, a minacciare. Il comandante, al telefono con un amico, fa riferimento anche a possibili rivalse nei confronti di una vigilessa, Nadia: se non si fosse attenuta alle sue direttive, si sarebbe vendicato, ostacolando le figlie della donna, che avrebbero partecipato al concorso: «È scema proprio, ma io la sfondo con la commissione ahò... c’ha du figlie». Poi racconta a un tale Enzo: «io le ho detto, Nadia stai attenta a come fai, perché dopo io non ti recupero, non ti recupera manco Cristo in croce, perché se tu pensi che a me il centro sinistra manco mi ascolta, hai capito proprio male! dopo di che le ho fatto: guarda, ricordate che io, insomma, c'ho sempre un incaricuccio e che tu c'hai un par de figlie, no? Si è ammutolita!». E a Maurizio Sozi, obbligato a rientrare in anticipo dalle ferie a Brunico per costituire la Commissione, dice: «Maurì se ci sto io presidente tu conti, se non ci sto io non conti, hai capito? Non ce la facciamo scippare da qualche altro cialtrone».
«Ti presento le persone giuste, e aiutiamo tuo figlio a prendere un paio di lauree». Suonava più o meno così, una delle tante offerte che Angelo Giuliani, l'ex capo dei vigili finito ai domiciliari per corruzione, avrebbe fatto a Silvio Bernabei, l'imprenditore di Trastevere che, insieme al fratello Paolo, nel 2011 denunciò taglieggiamenti da parte di un gruppo di caschi bianchi della Municipale, dando il via all'indagine che ha portato ora all'arresto di Giuliani, scrive Michela Allegri su “Il Messaggero”. Sembrava una “sparata” delle tante e invece potrebbe essere stata l'ennesima arma di ricatto con cui Giuliani tentava di tenere sotto scacco i commercianti. È tutto scritto in un esposto datato 10 maggio 2012, presentato da Silvio Bernabei e finito agli atti dell'inchiesta del pm Laura Condemi. È il 2007 e i rapporti tra Giuliani e Silvio Bernabei sono buoni. L'imprenditore ha da poco accettato di finanziare il Circolo Sportivo dei vigili urbani vicino a ponte Marconi di cui il comandante è presidente. Lo stesso Circolo che, secondo gli inquirenti, Giuliani avrebbe trasformato in una sorta di centro di riciclaggio di denaro, per incassare presunte mazzette fatte passare come contratti di sponsorizzazione. Giuliani presenta a Silvio il preside di un'università privata romana. «Facciamo prendere un paio di lauree a tuo figlio», gli propone. Bernabei rifiuta l'offerta, ma sua moglie, per non urtare la suscettibilità del comandante, accetta di iscrivere il ragazzo all'ateneo e paga un anno di retta. «A quel punto mio figlio - racconta ancora Silvio - mi acchiappa da una parte e mi dice: “Papà, il giorno in cui avrò voglia di studiare, la laurea me la vado a soffrire, mica sono un deficiente!”». Bernabei junior, quindi, non ha mai frequentato la facoltà e non si è mai presentato alle lezioni. In seguito alla denuncia del 2011, in cui i due imprenditori denunciano le presunte vessazioni che avrebbero dovuto sopportare da parte di Giuliani e dei suoi sottoposti, arriva un'altra brutta sorpresa: a distanza di cinque anni, l'ateneo gli chiede 16 mila euro come pagamento delle rate arretrate. La richiesta, protocollata, porta la firma del preside amico dell’ex comandante. Solo una coincidenza? Per gli imprenditori è l'ennesimo atto di ritorsione nei loro confronti. Dopo un'iniziale periodo di collaborazione, infatti, i Bernabei hanno denunciato di essere stati praticamente obbligati a versare cifre esorbitanti sul conto del gruppo sportivo: «All'inizio aderii, perché era un forma di pubblicità - ha raccontato Silvio al pm Condemi - ma le richieste erano diventate pressanti e onerose, negli ultimi anni arrivavano quasi a 100 mila euro». Ai due imprenditori veniva chiesto di finanziare di tutto: riparazioni, rinfreschi, organizzazione di eventi e, persino, un contributo mensile compreso tra i 4.000 e i 5.000 euro per il personale civile del circolo.
"L'appalto milionario di Giuliani assegnato grazie all'Avvocatura". Il gip sull'ex capo dei vigili agli arresti: quel "parere a voce", scrive Rory Cappelli su “La Repubblica”. C'è una domanda che si pongono gli inquirenti sulla società Sicurezza e ambiente (Sea) al centro dell'inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari non solo di tre dirigenti della stessa società ma anche dell'ex comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani: con quale iter si è arrivati all'affidamento da decine di milioni di euro senza che nessun organo di controllo si accorgesse di quello che stava accadendo? Le procedure, argomentano i carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci, sono "state viziate dall'inosservanza consapevole della normativa di legge in vigore". Fin dal primo passo di una vicenda che ha visto imbarazzanti inciampi e che - lasciano intendere gli investigatori - è solo la punta di un gigantesco iceberg. È il 17 febbraio 2009 quando la Sea fa istanza perché le venga assegnato in via sperimentale il servizio di ripristino delle strade post incidente. Il 10 marzo 2009 la responsabile del servizio amministrativo della polizia municipale, Daniela De Angelis, scrive un appunto in cui sostiene che per legge "non è possibile affidare direttamente il servizio". Il 19 marzo, allora, Giuliani chiede un parere all'Avvocatura del Comune. L'Avvocatura però non risponde. La dirigente, allora, nell'ultima decade di marzo sollecitata da Giuliani si reca "all'Avvocatura, forse in compagnia dello stesso Giuliani". Qui incontra l'avvocato Antonio Graziosi, responsabile del dipartimento Sviluppo infrastrutture e manutenzione urbana. "Questi dapprima confermò che per l'affidamento del servizio sarebbe stato necessario indire una gara pubblica e poi aggiunse che se proprio vi era la volontà di affidare il servizio in tempi più stretti sarebbe stato necessario farlo comunque in via sperimentale e non in modo esclusivo". A quel punto, a fine marzo, arriva una nuova proposta di Sea, informata probabilmente da Giuliani: in essa chiede "che le venga affidato il servizio di ripristino postincidente in via sperimentale e senza esclusiva" ricalcando perciò il parere dell'avvocato Graziosi. E poi il comandante dirama una "disposizione in base alla quale, in caso di incidente, i vigili operanti avrebbero dovuto immediatamente contattare la centrale della Sea". Di fatto assegnando "l'esclusiva del servizio". E Graziosi? Ascoltato dai carabinieri mostra "una forte reticenza nel parlare della questione". E quando gli chiedono se ha mai proposto la "percorribilità giuridica di affidare in via sperimentale e senza esclusiva", risponde "escludo tassativamente, perché non conforme ai principi giuridici in materia di appalti". Quando gli viene mostrato il testo della determinazione dirigenziale di Giuliani nel quale era "contenuto il riferimento al parere espresso nelle vie brevi (a voce) dall'Avvocatura", dice che "potrebbe averlo fornito lui, ma di non ricordare".
VIGILOPOLI.
Mazzette ai vigili, indagato ex comandante Buttarelli. E’ accusato di abuso d’ufficio per la vicenda di un ambulante tormentato dalle multe perché non pagava la tangente da 1000 euro al mese, scrivono Giulio De Santis ed Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. «La legge siamo noi e a noi delle sentenze e degli altri ca...i in tuo possesso non ce ne frega niente: ti sequestriamo tutto». In forza di questa premessa e (soprattutto) della divisa, alcuni vigili urbani avrebbero sottoposto l’ambulante Augusto Proietti, a raffiche di multe e sequestri per piegarlo a pagare la «tangente». Dalla vicenda, fatti avvenuti fra 2011 e 2012, erano scaturiti diversi ricorsi al Tar (vittoriosi per il commerciante) e un’inchiesta della magistratura che, a questo punto, registra un salto di qualità. Perché tra i dodici agenti della municipale indagati dal pm Erminio Amelio per abuso d’ufficio c’è anche il graduato Carlo Buttarelli, subentrato al posto di Angelo Giuliani alla guida della polizia municipale tra 2012 e 2013 (quando, per capire, esplose lo scandalo «Bernabei» che travolse i vertici della municipale). I fatti contestati sarebbero avvenuti un anno prima di quella promozione, quando cioè Buttarelli, già dirigente I gruppo, era andato a dirigere il presidio di Parioli-Salario. Ed è proprio in viale Parioli, fra «Celestina» e il «Caminetto», lungo una delle vie più sottomesse al commercio ambulante di Roma, che l’itinerante montava il suo banco di merci. Ed è sempre qui che avvenivano quelle che l’ambulante e suoi aiutanti o co-intestatari della licenza, hanno denunciato come vere e proprie vessazioni dei vigili urbani. «Con 1.000 euro al mese, questi problemi non li avresti» dice al commerciante, a un certo punto, uno dei vigili, l’agente Andrea Bianconi, che il pm ritiene capofila della strategia di pressione nei confronti di Proietti e che ora è indagato per concussione. Scrive il pm che Bianconi «nella sua veste di vigile urbano e nell’esercizio delle sue funzioni, in concorso con i colleghi Antonio Gianni, Pasquale Greco e Carlo Buttarelli, con apporti causali diversi ma convergenti verso il medesimo risultato, abusavano del proprio potere» e senza tener conto dell’autorizzazione al commercio itinerante rilasciata alla Bas sas dell’itinerante redigevano una lunga serie di verbali. A Buttarelli si contesta il concorso in abuso d’ufficio. Non manca, in questa storia di ordinaria corruzione, il colore. Le denunce della vittima, anzi, ce lo restituiscono per intero: «Adesso ti daremo il tormento dovunque vai, anche se ti fermi a pis...are» fa mettere a verbale Proietti. «Quello che dici tu - minacciano gli agenti - non conta niente, conta solo quello che ordina il nostro collega Bianconi e il comandante Buttarelli». Nel 2013 Proietti si presenta al Tar, rovesciando sulla scrivania del magistrato un’ottantina di multe, poi azzerate dal Tribunale regionale. Le decisioni dei giudici convincono il pm che Proietti, più che un ambulante indisciplinato, è la vittima di una serie di abusi. Pressioni per costringerlo a prendere in seria considerazione l’ipotesi dei famosi «1.000 euro al mese».
Non accettava un "no" neppure dagli avvocati del Comune, l'ex comandante dei vigili Angelo Giuliani, finito ai domiciliari per corruzione e falso ideologico, scrive Michela Allegri su “Il Messaggero”. E per ottenere che il servizio di ripristino delle strade dopo gli incidenti dovesse essere affidato alla società Sicurezza e Ambiente, aveva scavalcato tutti gli ostacoli. Persino quelli, di carattere strettamente giuridico, avanzati dai legali del Campidoglio. Pur di raggiungere il suo scopo, Giuliani aveva spinto sull’Avvocatura capitolina e, secondo gli inquirenti, era riuscito a “convincerla” che ci fosse una scappatoia sebbene non proprio a norma di legge. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio del 2010 Sicurezza e ambiente si aggiudica, in via definitiva, l'appalto per la pulizia delle strade. In precedenza, però, la società aveva svolto lo stesso servizio in via sperimentale, favorita da una serie di delibere firmate dall’ex comandante. Secondo l'accusa, per avere l'aiuto di Giuliani alcuni dirigenti della società, attualmente ai domiciliari per corruzione, avrebbero versato circa 30 mila euro al Gruppo sportivo dei vigili urbani, l’allora capo della Polizia municipale era presidente, facendo sembrare quella dazione di denaro una normale attività di sponsorizzazione. Dopo aver incassato i soldi, Giuliani avrebbe effettuato interventi determinanti per garantire alla Sea l'appalto milionario. È il 17 febbraio del 2009. Sicurezza e ambiente presenta una prima proposta al Comando per l'affidamento del servizio di ripristino post incidente. Il 10 marzo, la responsabile del Servizio amministrativo boccia quella richiesta: «Non è possibile affidare direttamente il servizio perché è necessaria una procedura ad evidenza pubblica», scrive in una nota. Giuliani, quindi, decide di sottoporre la questione all'Avvocatura per ottenere un parere sulla vicenda. Si rivolge a un legale che, inizialmente, conferma che per affidare il servizio è necessario indire una gara pubblica. Poi, però, probabilmente di fronte alla sua insistenza, gli suggerisce una scappatoia: assegnare l'incarico in via sperimentale e non esclusiva. Il 6 maggio, la Sea ottiene l'appalto. Lo stesso giorno, Giuliani emana una circolare in cui ordina a tutti i vigili di contattare solo Sicurezza e ambiente in caso di incidente: di fatto, il ripristino delle strade è affidato in esclusiva alla Sea. Secondo il gip «vi è fondato motivo di ritenere che l'avvocato, per venire incontro alla volontà espressa da Giuliani» abbia evitato «di redigere un parere formale» negativo. Tale atto avrebbe reso improcedibile la strada dell'affidamento auspicata dall’ex comandante, «perciò l'avvocato si è limitato a suggerire una soluzione intermedia, non conforme alla normativa e comunque, in concreto, non seguita». Per gli inquirenti, Giuliani sarebbe riuscito a intervenire «nel corso dell'istruttoria in modo tale da ottenere l'esito auspicato». Ai domiciliari per corruzione l'ex capo della municipale, insieme ad altre tre persone. Per la Procura avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto assegnato alla società "Sicurezza e Ambiente" (SeA) che si occupava della pulizia delle strade dopo gli incidente. Lui però aveva sempre parlato di "corvi" in Campidoglio. Coinvolto anche Alfredo Meocci, ex dirigente Rai, componente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Giuliani è accusato anche di falso ideologico per il concorso pubblico 2012 della municipale, scrivono Valeria Forgione e Giuseppe Scarpa su “La Repubblica”. L'ex capo dei vigili urbani di Roma Angelo Giuliani è stato arrestato, ai domiciliari, con l'accusa di corruzione e di falso ideologico in atto pubblico. Per la Procura di Roma avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto assegnato alla società "Sicurezza e Ambiente" (SeA) che si occupava della pulizia delle strade della città dopo ogni incidente. Gli arresti sono stati eseguiti dai carabinieri del Nucleo investigativo, diretti dal colonnello Lorenzo Sabatino, e hanno riguardato anche altre tre persone, tutte ai domiciliari, e tutti vertici di 'Sicurezza e Ambiente', come il direttore generale Angelo Cacciotti, il legale Giovanni Scognamiglio, e il dirigente Iano Santoro. Inoltre, Giuliani è accusato anche di falso ideologico per la sua candidatura a presidente della Commissione giudicante che vagliava la posizione di migliaia di aspiranti vigili urbani nel concorso pubblico del 2012. Secondo chi indaga, Giuliani, che aveva già lasciato l'incarico di comandante, non avrebbe potuto presiederla ma sarebbero stati falsificati dei documenti. Per lo stesso concorso è indagata anche Donatella Scafati, allora sua vice.
Raffaele Clemente: è l'attuale capo dei vigili urbani di Roma scelto dal sindaco Marino lo scorso 14 gennaio 2014. E' un esterno, è un poliziotto, è stato capo dell'Anticrimine e della sala operativa della Questura di Roma. Si è insediato dopo la rinuncia all'incarico da parte del colonnello dei carabinieri Oreste Liporace che non aveva i requisiti richiesti dal bando pubblico per il ruolo di capo dei pizzardoni di Roma la prima volta adottato dal sindaco Marino. I vigili urbani a lungo hanno protestato per la nomina di un non appartenente al Corpo.
Secondo l'accusa, era stato l'ex comandante Angelo Giuliani a spingere il sindaco Alemanno di utilizzare la SeA per un ruolo assai remunerativo negli appalti capitolini. Una collaborazione con il Campidoglio di cui però si era cominciata a occupare anche la Finanza dal momento perchè Sicurezza e Ambiente compariva come sponsor in molte attività legate alla polizia municipale. Stando agli accertamenti condotti dai pm Ilaria Calò e Laura Condemi, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Caporale, l'ex capo della polizia municipale sarebbe intervenuto illecitamente per far sì che l'appalto, del valore di milioni di euro, andasse alla società 'Sicurezza e Ambiente' senza alcun bando di gara. In cambio Giuliani avrebbe ottenuto somme di denaro, mazzette da circa 30mila euro (versate in più tranche), sotto forma di sponsorizzazioni, per il centro sportivo dei vigili, a lui riconducibile. Va detto però che dal 14 gennaio scorso, non è più la SeA a pulire le strade di Roma dopo gli incidenti stradali, il servizio è ritornato nelle mani dell'Ama. Il gip. Nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari, il gip Nicola Di Grazia scrive che l'episodio corruttivo contestato all'ex capo della municipale di Roma e l'assegnazione irregolare di un appalto per la società "Sicurezza e Ambiente", costituiscono "fatti obiettivamente gravi e di elevato allarme sociale che hanno determinato un fenomeno di serio inquinamento dell'attività amministrativa del Comune di Roma e dei compiti di importanti istituzioni di controllo quali l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici - sottolinea il gip - Giuliani ha operato nel costante abuso della posizione da lui ricoperta gestendo il proprio ufficio e il proprio ruolo con violazione delle regole e con chiara subordinazione delle scelte di carattere istituzionale agli interessi personali". Per il magistrato si tratta di "fatti non episodici ed estemporanei ma costruiti nel tempo ed inseriti in una trama unitaria dove il suo ruolo apicale viene utilizzato come strumento di intimidazione e di ricatto allo scopo di perseguire interessi personali". Sempre nell'ordinanza di custodia cautelare si legge ancora che "Angelo Giuliani, nei giorni precedenti il suo avvicendamento al vertice del Corpo dei vigili urbani di Roma (30 luglio 2012), avrebbe rivolto 'gravi minacce' all'allora sindaco Gianni Alemanno" nel tentativo di difendere ''ad oltranza lo status quo nel Centro Sportivo anche nei confronti dell'autorità politica come postazione dalla quale proseguire ed esercitare la propria influenza'' e senza esitare ''ad influire con arbitrio sull'attività di formazione della Commissione di concorso'' attribuendosi il ruolo di presidente ''come efficace strumento personale di esercizio di influenza e di pressione''. E' un passo dell'ordinanza con cui il gip Nicola Di Grazia ha disposto gli arresti domiciliari per Giuliani. 'Non può sottacersi come elemento di straordinario allarme circa la personalità di Giuliani - scrive il gip - l'aspetto concernente le gravi minacce che avrebbe rivolto all'allora sindaco di Roma, Gianni Alemanno, nei colloqui avuti appena prima la formalizzazione della sua sostituzione e il ''patto'' che, in forza di tale sua condotta intimidatoria, lo stesso Giuliani avrebbe così ottenuto di stipulare con l'allora sindaco''. Il patto di cui Giuliani avrebbe parlato nelle conversazioni telefoniche con diversi soggetti, tra cui Giorgio Ciardi (delegato dal sindaco per le Politiche della Sicurezza) avrebbe riguardato la salvaguardia del gruppo Sportivo dei vigili urbani, diretto da Giuliani anche alla luce dell'imminente sostituzione dal comando e del provvedimento di trasferimento di alcuni vigili che facevano parte del Gruppo. Per il gip, sarà la procura a verificare l'eventuale portata intimidatoria di queste minacce. A riprova della sua ''straordinaria spregiudicatezza'' c'è che Giuliani, ''nonostante il sostanziale demansionamento, conseguenza delle ripercussioni mediatiche dell'indagine (nata su denuncia di due importanti imprenditori di Trastevere invitati a pagare mazzette affinché i vigili del primo gruppo chiudessero un occhio su presunti abusi edilizi, ndr))'' è ancora il Capo della Scuola di formazione della Polizia Locale di Roma Capitale, e quindi in grado ''di gestire delicati rapporti all'interno del Corpo''. Non a caso, l'11 dicembre scorso Giuliani ''è stato visto trattenersi in orario anomalo presso la sede del Comando Generale presso il quale non aveva alcun motivo di servizio per accedervi, con uscita dall'edificio alle 7 di mattina''. In una intercettazione del 27 luglio 2012, l'ex comandante dei vigili, parlando con un tal Luca, racconta di un incontro con Alemanno: ''Gli dico... sindaco, io non voglio ostilità da parte vostra perché il minimo... appena mi toccate il Gruppo sportivo io mando cinque o sei siluri, non ci provate''. Conversando con Ciardi tre giorni dopo, Giuliani aggiunge di aver detto al sindaco: ''Sono anche presidente di Commissioni... Ogni cosa che voi mi fate la reputo un atto ostile nei miei confronti e agisco di conseguenza, fate voi. Il Gruppo Sportivo non lo dovete toccare''. Dello stesso tenore il colloquio con tale Ezio, del 31 luglio 2012: ''Ho detto al sindaco che sono Presidente del concorso, se mi fate 'na cosa, io vi rompo il culo''. E qualche giorno prima, ancora con Ciardi: ''Avevo fatto il patto con il sindaco. Il sindaco mi aveva assicurato sta roba. Sono pronto a fare la guerra che agiterà il Corpo... lo faccio crepare sto stronzo. Io avevo fatto il patto con il sindaco... gli ho detto sindaco lasciateme perde almeno quello... Niente... questo non conta un cazzo, il sindaco proprio non conta un c.'' La replica di Alemanno. Sulle intercettazioni l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha dichiarato: "Se non fosse una vicenda triste e drammatica ci sarebbe da sorridere leggendo le intercettazioni del ex comandante dei vigili urbani, Angelo Giuliani, riportate nell'ordinanza dei magistrati. In realtà Giuliani non si è mai permesso di minacciarmi personalmente nè, tanto meno, glielo avrei consentito". Alemanno ha poi aggiunto che "quelle telefonate sono solo le millanterie e gli sfoghi di collera di chi, dopo essere stato destituito, ha visto il nuovo comandante Carlo Buttarelli interrompere ogni tipo di collegamento tra il centro sportivo gestito da Giuliani e il corpo dei vigili. Spero che Giuliani- ha proseguito Alemanno- possa dimostrare la sua innocenza dalle accuse che gli sono rivolte perché, in ogni caso, ne va dell'immagine non solo sua ma di tutto il Corpo della polizia locale di Roma Capitale". La nomina e le dimissioni. Angelo Giuliani era stato nominato dall'ex sindaco Walter Veltroni il 31 gennaio 2008 al posto di Giovanni Catanzaro ed era a rimasto in carica a lungo anche col successore di centrodestra, Gianni Alemanno. Poi però era rimasto coinvolto in una prima inchiesta sul rilascio di licenze commerciali in Centro e si era dimesso dal ruolo. Aveva però parlato di "nemici potenti e corvi in Campidoglio che lo volevano fuori da lì". Al suo posto, nella primavera del 2012, era arrivato Carlo Buttarelli, in carica fino allo scorso 7 luglio sotto il sindaco Marino, ma con il quale ebbe forti attriti e suggellò l'addio con una polemica lettera di dimissioni e un teschio postato sulla sua pagina Fb. Gli indagati. Tra le persone accusate di corruzione c'è anche Alfredo Meocci, che tra il 2005 e il 2006 direttore generale della Rai, è stato coinvolto come componente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Secondo chi indaga, nel 2013 avrebbe espresso un parere favorevole in merito all'assegnazione dell'appalto alla società 'Sicurezza e Ambiente', senza che ci sia stata alcuna gara, quando nel 2012 il giudizio dell'Avcp, sempre su questo stesso appalto, era stato negativo. C'è uno scambio di favori al centro dell'accusa di corruzione, contestata dalla procura ad Alfredo Meocci. Secondo le indagini, ''Meocci, per compiere atti contrari ai doveri di ufficio, riceveva denaro e altre utilità dalla società 'Sicurezza e Ambiente' e per essa da Angelo Cacciotti, consigliere del cda e amministratore di fatto, Giovanni Scognamiglio, amministratore delegato, e il presidente Giovanni Bort''. Nel febbraio 2013 Meocci avrebbe dato un parere favorevole alla Sa ottenendo in cambio ''l'assunzione di una persona, espressamente segnalata da Meocci, per un rapporto di collaborazione lavorativa presso una societa''' che faceva capo alla stessa 'Sicurezza e Ambiente'. Reazioni. "L'arresto dell'ex comandante generale della polizia locale di Roma Capitale è una notizia triste, che ricorda a tutta la città quanto il tema della legalità sia vitale per la salute e la sopravvivenza delle istituzioni. Di tutte le istituzioni - ha commentato il comandante generale della municipale, Raffaele Clemente - Alla luce della doverosa presunzione d'innocenza, in attesa di conoscere gli sviluppi della vicenda, e serbando profonda fiducia nel lavoro dell'autorità giudiziaria, la polizia locale è pronta a garantire la massima collaborazione nell'accertamento della responsabilità - continua Clemente - Nessuna caccia alle streghe sarà consentita all'interno o all'esterno del corpo, ma nessun ritardo sarà frapposto all'applicazione delle leggi e dei regolamenti che presiedono all'etica dei comportamenti. Nello stesso solco, la municipale intende innalzare il livello di attenzione, rafforzando il proprio impegno per il controllo e la trasparenza nella gestione di tutte le attività. Sono infatti già stati avviati i passi necessari perché la normativa anticorruzione venga rapidamente applicata con rigore, al fine di regolamentare la rotazione degli incarichi di maggiore sensibilità. Sono sicuro di una risposta generosa e corale a presidio dell'idea di legalità", ha concluso Clemente.
Il comandante affamato di potere. Le pressioni sui dirigenti comunali dell’ex capo dei vigili oggi ai domiciliari. Voleva a tutti i costi diventare presidente di commissione del «concorsone», scrivono Augusto Parboni ed Ivan Cimmarusti su “Il Tempo”. Angelo Giuliani voleva il potere. L’ex comandante della Polizia Roma Capitale avrebbe fatto di tutto piuttosto di ottenere e mantenere la «supremazia» all’interno del Corpo. Ne è convinto il gip che ha firmato l’ordinanza degli arresti domiciliari nei suoi confronti, che non ha esitato a scrivere che avrebbe usato ogni mezzo per realizzare i suoi scopi. Quali? Diventare presidente della Commissione del concorso dei vigili urbani e quella di Comandante. E per raggiungere i suoi obiettivi avrebbe fatto pressioni su politici e colleghi, a volte arrivando anche alle minacce. «Giuliani, nei giorni immediatamente precedenti al suo avvicendamento al vertice della Polizia Municipale, avvenuto alla fine di luglio 2012, risulta essersi adoperato con ogni mezzo per realizzare la costituzione e l’insediamento della Commissione di concorso nella quale avrebbe rivestito la carica di presidente», si legge nel documento restrittivo. Giuliani, infatti, secondo quanto accertato dai carabinieri, avrebbe fatto anche documenti falsi per riuscire a diventare presidente della Commissione. Tanto da arrivare a finire sul registro degli indagati con l’accusa di falso. Ma a cosa si riferisce? A un verbale relativo alla seduta di insediamento dell’organo esaminatore, «attestante false circostanze di tempo, di luogo e di fatto». Ma la volontà di Giuliani, in base alle indagini della procura di Roma, erano anche altri. Ottenere la presidenza della Commissione del concorso dei vigili gli sarebbe infatti servito per «salvaguardare il proprio ruolo nel Circolo sportivo della Polizia Municipale che risulta costituire per lui un vero e proprio centro d’imputazione d’interessi». Quindi, per gli stessi investigatori, Giuliani avrebbe fatto carte false (è indagato anche per falso) piuttosto di perdere potere. Ha fretta, infatti, l’ex comandante dei vigili ai domiciliari, di diventare presidente della Commissione, proprio per poter usare la sua ulteriore posizione come «strumento di potere e di pressione personale». Tanto che il direttore del Dipartimento Risorse Umane di Roma Capitale, Damiano Colaiocomo, sentito dai carabinieri come persona informata sui fatti, ha «sostanzialmente ammesso di aver subito pressioni da Giuliani finalizzate alla consegna della delibera di nomina di Commissari del concorso, a sua volta funzionale alla immediata costituzione della Commissione». Uguale, ottenere ulteriore potere prima del suo avvicendamento a comandante del Corpo. Costituire, dunque, la commissione per il concorso per 300 agenti era essenziale per l’ex comandante dei vigili. Era uno strumento attraverso cui muovere «pressioni». Ed è per questo che i commissari dovevano essere tutti suoi uomini fidati. Al punto che il 27 luglio, giorno precedente all’insediamento della commissione, muove una minaccia velata a Maurizio Sozi, all’epoca dei fatti in ferie. «Ascoltami un attimo Maurì, poi ti passo pure una persona, tu devi piglià l’aereo domani e venì, poi ti pigli 10 giorni di ferie, ti copro io, tu domani devi stare a Roma». Sozzi, però, non ci pensa proprio. «No, non esiste proprio guarda, sto in ferie, tranquillo, sto sereno, devo finì le ferie mie me le piglio una volta l’anno io lavoro sempre, non ci sono problemi, non mi chiedere queste cose». Il diniego non va giù a Giuliani, il quale lo minaccia: «Non hai capito a Maurì...va bé, come ti pare, fai come credi Maurizio...Maurì se ci sto io presidente tu conti, se non ci sto io non conti, hai capito Maurì?». Sozi risponde in modo intimorito: «Angelo..io non devo fa..cioè a parte il fatto che non so manco di che mi stai a parlà». «Eh, va bé Maurì!». «Ok, ok, va bé - risponde immediato Sozi - ho capito, basta, ho capito, tutto a posto (…) ho capito, famo una cosa, come se io fossi presente e io cioè…». «Siamo d’accordo», conclude Giuliani. Nei fatti, la riunione per l’insediamento della commissione si svolge fra le 18 e le 19:30 di sabato 28 luglio, orari in cui Sozi risulta trovarsi in un’altra zona di Roma, come dimostrano i riscontri sulle celle telefoniche agganciate. «È chiaro - commenta il gip - che il verbale della seduta d’insediamento della commissione esaminatrice del concorso attesta il falso e che la riunione in realtà non si è mai tenuta con le specifiche indicate nel verbale». Il quadro investigativo esce rafforzate da una conversazione telefonica che, sempre il 28 luglio, hanno Sozi e Giuliani. «Alle nove di lunedì mattina assolutamente, mi raccomando, così chiudiamo..io, te e Doni (Donatella Scafati, ndr)».
Il "circolo" sfizioso dei vigili urbani. I misteri del centro sportivo sul Lungotevere Dante al centro dell’inchiesta. A sorpresa tolta la targa sul campo dedicato al padre del Grande Accusatore, scrive Erica Dellapasqua su “Il Tempo”. Prima c’era l’insegna dedicata al padre dei fratelli Silvio e Paolo Bernabei, Giulio, che si trovava proprio all’ingresso del campo sportivo. La targa era in ricordo del genitore. Dopo lo scandalo al circolo sportivo spariscono gli sponsor. Non tutti, "sgonfiare" il pallone col marchio Bernabei equivarrebbe a rendere inservibile il campo sottostante, è stato invece più facile rimuovere l’intitolazione di parte delle strutture a Giulio Bernabei, padre dei "grandi accusatori" dell’inchiesta vigilopoli, che avvenne non troppo tempo fa, l’8 settembre 2011, alla presenza dell’allora sindaco Alemanno e dell’ex delegato capitolino alla Sicurezza Giorgio Ciardi. Stesso destino, la cancellazione dalle pagine ufficiali del gruppo sportivo, per la Sicurezza e Ambiente, società cui nel 2010 il comandante della municipale Angelo Giuliani – nonostante i dubbi palesati dai suoi stessi funzionari - affidò il servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale dopo gli incidenti, fino a quel momento effettuato da Ama: stando all’ipotesi dei pm, che mercoledì ha condotto all’arresto di Giuliani e di tre dirigenti della Sa tra i quali il presidente Angelo Cacciotti e l’amministratore Giovanni Scognamiglio, più che di sponsorizzazioni sarebbe stato più corretto parlare di "mazzette", come argomentano i magistrati «in cambio di 30mila euro la società si aggiudicò un appalto milionario». Del resto, se da un lato risultava ingiustificato "l’interesse" di pubblicizzare incidenti sui tendoni verdi di un circolo sportivo, dall’altro l’accusa reputa evidente che per l’ex comandante il circolo rappresentasse un «centro di imputazione di interessi personali». Ieri, al gruppo sportivo di lungotevere Dante, non avevano voglia di parlare. Dopo il trasferimento "forzato" di Giuliani e compagna, Angela Cantelli, prima dello scandalo inviata dai Bernabei a formalizzare il contratto di sponsorizzazione, c’è una nuova dirigenza. Presidente è Massimo Fanelli, attualmente in forza al IX Gruppo, economo Sandro Bellatreccia: «Noi qui facciamo solo sport, di questo parlo volentieri, sul resto non diciamo nulla». Né lui, né Fanelli «che non è qui e non rientra». Al massimo, dice Sandro, ci offre un caffè, ma sul circolo non si sbilancia, neanche sulla targa in ricordo di Giulio Bernabei: «Davvero stava là? Non ricordo, non posso ricordarmi tutto». Altri fingono di non sapere, «ho ascoltato poco la radio in questi giorni», «non è per lei ma i giornali proprio non li leggo, mi fanno tutti schifo», i ragazzi giocano a pallone ma dentro, al bar, i quotidiani sono aperti sull’unica notizia che interessa, quella dell’arresto del comandante legata a doppio filo con gli affari del club. Come detto però, nei mesi, anche al circolo qualcosa è cambiato. Per esempio, il campetto da calcio e la piscina non sono più intitolati alla memoria Giulio Bernabei, papà degli imprenditori trasteverini che con le loro denunce hanno dato impulso alle indagini: era il 2011 e, sulle note dell’inno di Mameli, alla presenza dell’ex sindaco Alemanno e del delegato alla sicurezza Ciardi, dal circolo motivavano l’iniziativa come «giusto riconoscimento ad una persona che ha fatto tanto per lo sport facendo avvicinare tanti ragazzi della zona al calcio, inculcando loro i sani valori». Qualche traccia del passato resta, in ogni caso, laddove non sarebbe stato possibile il colpo di spugna: «Il pallone del campo a fianco, quello con la scritta Bernabei, non l’avete sgonfiato però», chiediamo al "solito" Sandro, che risponde con un sorriso. Restando sugli sponsor, o meglio sullo sponsor che è anche al centro degli approfondimenti degli inquirenti, almeno visivamente con la Sicurezza e Ambiente si sono tagliati i ponti. Fino al marzo 2012, elencate alla voce «sponsorizzazioni» c’erano appunto la Sa, Bernabei e la Macron, azienda di abbigliamento sportivo. Oggi, quest’ultima resta, si aggiungono Caldani nuove energie e due hotel, Patria e Augustea, più convenzioni con una miriade di realtà cittadine. Come accennato, proprio il caso della Sa risultava singolare: visto l’ambito di intervento, quale ritorno di immagine avrebbero potuto dare quei 30mila euro versati al centro sportivo? In questo quadro si inserisce l’intervento di Giuliani, che nonostante le perplessità sollevate dai suoi stessi dirigenti tramite determina dirigenziale ha affidato alla Sa il servizio precedentemente in capo ad Ama, un appalto potenzialmente milionario, anche se formalmente a costo zero per le casse dell’amministrazione capitolina, se si considera un rimborso di circa 800 euro per ogni intervento post incidente effettuato su strada. Già nel 2012, ricordiamo, l’Autorità di vigilanza sugli appalti segnalò l’anomalia, ed alla fine – scaduto il contratto nel 2013 – l’attuale comandante dei vigili Raffaele Clemente ha ritenuto di non rinnovare nulla. Marchio rimosso, così, anche dalle pagine web del sito del circolo della municipale. Probabilmente, si cercano "sostituti": «Pubblicizza la tua azienda all’interno del nostro gruppo sportivo – si legge oggi online – realizzazione e noleggio di striscioni o pannelli con allestimento grafico compreso». Dalle carte emerge chiara l’importanza anche economica che, per l’ex comandante, rappresenterebbe il circolo, «un vero e proprio centro d’imputazione d’interessi personali». Chiodo fisso che ricorre, del resto, nelle intercettazioni: Giuliani, al telefono con «tale Luca», riporta una conversazione con l’ex sindaco Alemanno successivo alla sua rimozione dalla guida del Corpo: «Sindaco... io non voglio ostilità da parte vostra perché... il minimo... appena mi toccate il Gruppo sportivo io mando cinque o sei siluri, non ci provate», faceva il suo personale resoconto all’interlocutore. Sempre restando sul circolo, due capitoli, infine, ancora tutti da chiarire. Il primo riguarda giri finanziari in cui sarebbe stato coinvolto anche Ciardi. Come scrive il gip «Giuliani riferisce a Massimo Fanelli, dirigente della polizia locale di Roma, che ad autorizzarlo a registrare non meglio precisati fondi nel bilancio del Gruppo sportivo è stato Ciardi. Giuliani precisa anche come si sarebbero svolte le cose e precisa che Carlo (verosimilmente Carlo Buttarelli, il nuovo comandante) è già a conoscenza della cosa tramite lo stesso Ciardi». Poi, quello "strano" furto, teatro sempre il circolo, nella notte tra il 24 e il 25 febbraio del 2012, cioè poche ore prima che filtrassero le prime indiscrezioni sull’iscrizione nel registro degli indagati di cinque vigili urbani nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte mazzette: spariti hard disk e due pc portatili contenenti la contabilità. Dopo l’inchiesta sui vigili urbani è invece scomparsa la scritta in onore di Giulio Bernabei ma è rimasto il simbolo perché non potevano smontare il tendone.
ROMA. LA GRANDE BELLEZZA? NO, LA GRANDE MONNEZZA.
Vigili urbani di Roma, arrestato l'ex comandante Angelo Giuliani. Ai domiciliari per corruzione l'ex capo della municipale, insieme ad altre tre persone. Per la Procura avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto assegnato alla società "Sicurezza e Ambiente" (SeA) che si occupava della pulizia delle strade della città dopo ogni incidente, scrive Giuseppe Scarpa su “La Repubblica”. L'ex capo dei vigili urbani di Roma Angelo Giuliani è stato arrestato, ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. Per la Procura di Roma avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto assegnato alla società "Sicurezza e Ambiente" (SeA) che si occupava della pulizia delle strade della città dopo ogni incidente. Gli arresti sono stati eseguiti dai carabinieri del Nucleo investigativo, diretti dal colonnello Lorenzo Sabatino, e hanno riguardato anche altre tre persone, tutte ai domiciliari, appartenenti alla SeA. Dal 14 gennaio scorso, però, non è più la SeA a pulire le strade di Roma dopo gli incidenti, il servizio è ritornato nelle mani dell'Ama. La decisione è stata comunicata in una missiva inviata lo scorso 13 gennaio dall'attuale vicecomandante dei vigili, Diego Porta, ai quindici gruppi di polizia municipale. Era stato proprio l'ex comandante Angelo Giuliani in qualità di dirigente della Scuola del corpo dei vigili urbani a proporre al precedente sindaco Alemanno la SeA. Una collaborazione con il Campidoglio targata centrodestra, di cui si era occupata anche la Finanza dal momento che Sicurezza e Ambiente compariva come sponsor in molte attività legate alla municipale.
Rimozioni auto: coop fantasma Appalti e legami sospetti, è giallo. Contratti passati da una società all’altra e la titolare non ha i carro attrezzi, scrive Vincenzo Bisbiglia su “Il tempo”. Una cooperativa che si ritira dall’appalto con la Polizia Locale, il titolare che si rende irrintracciabile, un legame con il fratello di un componente del gabinetto del sindaco Marino. E 13 lavoratori senza lavoro e senza stipendio, ma mai licenziati. È un vero e proprio giallo quello che si nasconde dietro le vicende del servizio rimozioni di Roma Capitale, da tempo concesso in appalto al Clt (Consorzio Laziale Traffico). Andiamo con ordine. La Global Service è una delle tre cooperative che in città si occupa delle rimozioni delle auto in sosta vietata. Ma il sistema è fatto a scatole cinesi. La Polizia Locale ha dato l'appalto al Clt, che a sua volta ha subappaltato il servizio alle coop, tra cui la Gs. Che, tuttavia, non possiede alcun carro attrezzi, e i mezzi li noleggia direttamente e in via esclusiva dalla «2P», società di proprietà di Luca Pucci, fratello di Maurizio Pucci, il quale a sua volta lavora nell’ufficio di gabinetto del primo cittadino. Ad agosto 2013, la Gs chiude da un giorno all'altro lo stabilimento di Tor Cervara e il presidente, Angelo Bonanni, sparisce, divenendo irrintracciabile. Ma da una veloce visura risulta che la Global Service formalmente non ha chiuso, né ha licenziato nessuno. In soldoni: la Gs non opera più ma ufficialmente fa ancora parte dell’appalto. Nonostante questo, il presidente del Clt, Ezio Di Salvo, pare essersene lavato le mani, rimandando le rimostranze dei lavoratori al Comune. Di anomalie in tutta questa storia ce ne sono tante. Se la cooperativa continua formalmente a far parte dell’appalto, pur restando chiusa, prende ancora soldi dal Clt e quindi dalla Polizia Locale? Perché per questo servizio fu scelta un’azienda che è costretta a noleggiare i mezzi altrove? Che legame c’è fra Bonanni e Pucci? Davanti a queste domande, è inutile dirlo, in Campidoglio troviamo un muro di cemento armato. L’assessore capitolino alla Mobilità, Guido Improta, a un’interrogazione ufficiale posta dal capogruppo di Centro Democratico, Massimo Caprari, ha risposto che «abbiamo trasmesso il testo dell’interrogazione al direttore del Dipartimento». Ma è passato più un mese. Con i dubbi che montano nella testa dei dipendenti, visto che il Clt, Luca Pucci e altri dirigenti comunali e pezzi grossi del Consorzio sono stati protagonisti nel 2008 di una vicenda giudiziaria che raccontava di rimozioni mirate e profitti gonfiati. Intanto, alcuni dei 13 dipendenti di Global Service, minacciano proteste eclatanti per i prossimi giorni. Uno di loro, qualche settimana fa, ha già tentato il suicidio.
Le strane visioni. Un velivolo ultraleggero a due posti, legato con una catena a un cartellone pubblicitario, privo di alcune parti, è apparso a Roma in via Ramazzini, accanto all’ospedale San Camillo, al Portuense. Se n’è accorto il consigliere del XII Municipio Marco Giudici, che commenta: «Da oggi via Ramazzini ha un altro primato: dopo le otto roulotte adibite a dimora dei clochard e parcheggiate sullo spartitraffico centrale, ora c’è anche un piccolo aereo».
Non solo maiali nei cassonetti. Differenziata e servizi speciali ignorati: in cassoni regolari e discariche abusive finiscono materassi, divani, frigoriferi. L’Ama: «Materiali già rimossi, via alle maximulte», scrive Ambra Murè su “Il Corriere della Sera”. Con i maiali immortalati tra i cassonetti di via Boccea qualcuno pensava di aver toccato il fondo. Quello, invece, era solo l’antipasto. Perché, certo, un materasso non avrà la potenza icastica di un suino che grufola tra la monnezza, però in compenso può creare molti più problemi. Specialmente se nessuno si preoccupa di ritirarlo per quasi un mese. Accade nella Capitale, dove non ci sono segnalazioni che tengano: in molte zone di Roma è ormai emergenza rifiuti ingombranti. Fatti salvi forse i quartieri centrali, le aree intorno ai cassonetti sono diventate «mini-discariche». Dove mani impietose scaricano di tutto: materassi, soprattutto. Ma anche divani, specchi, mobili, porte, frigoriferi, lavatrici. «Ho chiamato il Comune, l’Ama e persino i vigili», si sfoga una signora incrociata su via della Marranella. Quel giorno, il 14 febbraio, dietro un solo cassonetto di materassi se ne contavano addirittura quattro. Abbandonati alla pioggia e al sole «da oltre venti giorni». Un problema igienico, oltre che di decoro. Gli abitanti della zona raccontano inorriditi di topi acquattati tra gli arredi e siringhe conficcate nei materassi, a mo’ di monito. Normalmente ci si tiene a distanza, benché in molti casi i rifiuti ingombrino pure il marciapiede. Chi ha osato avvicinarsi però ha fatto scoperte interessanti. Un fortunato cittadino ha scovato delle piattole. Le ha fotografate e poi ha inviato tutta la documentazione alla Asl. «Che però – denuncia – non mi ha mai risposto». Stanchi di solitarie (e spesso inutili) segnalazioni telefoniche, i cittadini hanno cominciato a postare immagini e video sui social network. Le bacheche Facebook di molti comitati ne sono piene. Scorrerle è come assistere a una carrellata di innumerevoli orrori metropolitani, documentati non solo a Torpignattara, ma anche al Pigneto, a Centocelle, al Quadraro, a San Giovanni. E persino all’Eur, a Marconi, sulla via del Mare. Un po’ per sfida, un po’ per pignoleria, Donatella Collura e Alessio Marazzi dell’associazione «Amici del parco dell’Acquedotto Alessandrino» hanno deciso di provare a mettere ordine. Almeno nel loro territorio. Hanno dunque creato un indirizzo mail (torpignaflex@gmail.com) al quale inviare le segnalazioni di Torpignattara e Pigneto. In pochissimi giorni i due hanno documentato una cinquantina di mini-discariche, disseminate nel raggio di un paio di chilometri. La mappa , pubblicata online, viene costantemente aggiornata. «Il quadro – precisa infatti Alessio – è in continua evoluzione. Non facciamo nemmeno in tempo a cancellare un’area bonificata, che subito dobbiamo registrare una nuova criticità. A volte nelle vicinanze, a volte nello stesso luogo». Difficile capire che cosa stia succedendo. Interrogata a riguardo da Corriere.it l’Ama ricorda «tutti gli strumenti gratuiti e facilmente accessibili che l’azienda mette a disposizione per conferire correttamente i rifiuti ingombranti»: dai 13 centri di raccolta sparsi per la città al servizio di ritiro gratuito a domicilio, passando per le raccolte straordinarie della domenica alternativamente nei municipi pari e dispari della città. Di più. «Proprio per contrastare gli scarichi abusivi di materiali ingombranti su suolo pubblico e intercettare maggiori quantitativi di materiali da avviare poi a riciclo, Ama ha recentemente attivato un’unità operativa speciale composta da 32 uomini e 16 mezzi dedicati». Alla fine la municipalizzata quasi alza le braccia. La responsabilità del degrado capitale, secondo lei, è di «una minoranza di cittadini incivili di alcune e circoscritte aree della città». Magari fosse così semplice. «Se un materasso rimane accanto a un cassonetto per tre settimane – sbotta infatti Alessio Marazzi – evidentemente anche l’Ama non fa il suo lavoro nei tempi dovuti». Schiacciata tra inciviltà e inefficienza, resta l’immagine di una lupa capitolina ridotta a scheletro. L’ha ritratta così David Vecchiato, in arte Diavù, di professione street artist. Nel tempo libero gira per la città a caccia di rifiuti abbandonati da marchiare col brand di “Roma Pena Capitale”. I cittadini lo applaudono. Lui risponde sornione: «Speriamo che queste opere d’arte durino il meno possibile». Ma la situazione, fortunatamente, è in via di miglioramento. L’Ama ha precisato che «le strutture operative competenti hanno effettuato già da giorni gli interventi di rimozione dei rifiuti ingombranti abbandonati in modo scorretto sul suolo pubblico» e che nelle ultime ore l’azione di contrasto è stata rafforzata. Il nuovo presidente e Ad, Daniele Fortini, ha dato ai suoi collaboratori l’indicazione di procedere con severità: «L’azienda è impegnata tutti i giorni a contrastare il perseverare di questi comportamenti incivili - conclude la nota - e a tal proposito si sottolinea che l’abbandono dei rifiuti ingombranti costituisce una grave violazione del regolamento comunale, per la quale sono previste sanzioni fino a 619 euro».
La Grande Bellezza? No, la Grande Monnezza: ecco la Roma disastrata di Marino che Sorrentino non ha raccontato, scrive Monica Mondo su “Tempi”. Spazzatura, inondazioni e buchi di bilancio. Ecco la capitale che non conoscete, cuore e metafora di quest’Italia depressa e sgarrupata. Chiamatela La Grande Monnezza, Roma, caput mundi, città unica, così orgogliosa e cosciente di esserlo. Altro che le immagini rarefatte di Polo Sorrentino, le sue artificiose eleganze, pur nella decadenza. Quella Roma è finta, irreale, nella sua disincantata e perturbante bellezza, non meno degli acquerelli colorati da Alberto Sordi o Carlo Verdone. Quella delle fontanelle, delle madonnelle, dei grezzi di periferia in canotta o delle sore cecioni ai mercati, anime popolari da sonetti del Belli che non esistono più. Sorrentino racconta la Roma dei ricchi, le penombre dei palazzi, gli stornelli cantano grida e odori dei rioni. Ritratti perduti. Su una cosa ha ragione il pompatissimo film candidato all’oscar, la città non ha colpa. È la gente che vi scorrazza a renderla invivibile e volgare, a sgretolare mura antiche e dignità. Forse è sempre accaduto: imperturbabile, segnata da un non comune destino, rassegnata ai suoi oneri e pressata dai suoi fasti, Roma ha sopportato principi e barbari, corti esangui e lussuriose, rivoluzioni di piazza, mondanità curiali e bombardamenti. Oggi le calamità, il degrado sono i serpentoni di auto in coda, le esalazioni mortifere, la monnezza che straborda e insozza i suoi spettacolari fondali, l’arroganza di piccoli poteri che rubano, squallidamente, avidamente, senza attenuanti di gloria, la tronfiaggine dei politici che pretendono da lei onore e potere, come un privilegio, un diritto, da non meritare e restituire. Roma non ha colpa, se diventa cuore e metafora di quest’Italia depressa, sgarrupata, di questo paese preso a schiaffi e sputi dai notabili d’Europa. Prendetevela coi romani. Mai stanchi di sfruttare questa città, d’abusare dei suoi splendori: alla fine dell’Impero erano solo i patrizi a perdersi nel lusso e negli ozii, a lasciarsi uccidere nell’inerzia dalla volontà di conquista degli invasori. È di tutti la smagata fiacchezza, la pigrizia, il vizio fino alla corruzione. Questa è Roma, il cuore d’Italia. L’azienda di raccolta rifiuti capitolina – Ama – ha cambiato i vertici, che continuano a gestire 7.500 dipendenti e 700 milioni di euro di debiti con le banche. La raccolta differenziata sfiora solo il 35 per cento, peraltro inutile, visto che mancano impianti per il riciclaggio e tocca rivolgersi fuori regione, aggravando i bilanci. L’azienda municipale dei trasporti – Atac – croce dei cittadini, conta 12 mila dipendenti, 80 dirigenti, con perdite di 700 milioni di euro, nonostante i 3 miliardi di sussidi pubblici per coprire gli sprechi, l’inefficienza, lo stato inqualificabile delle vetture e il menefreghismo dei cittadini. Su 1,2 milioni di clienti l’anno, il ricavo è di 240 milioni dalla vendita dei biglietti: per fare un confronto, a Milano i passeggeri sono la metà – circa 600 mila – e il Comune dai ticket incassa 654 milioni di euro. D’altra parte, tra tanti lavoratori assunti, a Roma solo 70 fanno i controllori. La metropolitana? Solo due linee, la terza, la C, è in fieri dal 2007. Le stazioni, anche in centro, sono sporche e invase da topi, e vengono chiuse per allagamento a ogni temporale. Già, la pioggia. Chi di neve ferisce di pioggia perisce. Se l’ex sindaco Alemanno era stato crocefisso per l’abbondante e insolita nevicata che aveva bloccato la città per tre giorni, gli sfottò dei romani verso il neosindaco si sprecano dopo l’abbondante pioggia che proprio per l’incuria dell’amministrazione capitolina si è trasformata in alcune zone della capitale in alluvione. I romani per carattere ci ridono su, e così sono nati gli hashtag su Marino #sottomarino, #sturailtombino. Hanno riso meno, però, i motociclisti che si sono piantati nelle cento buche aperte nell’asfalto per il nubifragio e che il Comune non ha riparato per settimane. Il celebre chirurgo non ha brillato nel suo ruolo di primo cittadino, gli esempi si sprecano: le pretese del suo partito in giunta e la lotta tra cuperliani e renziani; la difficoltà nelle nomine. E pure due strafalcioni: il primo infortunio è sul nuovo comandante dei vigili urbani, bocciato dopo pochi giorni perché non aveva i requisiti. Il secondo: poiché Alemanno era caduto proprio sull’azienda dei rifiuti, piena di assunzioni clientelari, Marino ha battuto il pugno, «faccio pulizia!», richiamando il compito primario di quell’azienda. Dagli elenchi delle città rosse, ha pescato il supermanager a Reggio Emilia: Ivano Strozzi, nuovo presidente e amministratore delegato dell’Ama, si è insediato il 9 gennaio, esibendosi subito in un’intervista a Il Messaggero: «Roma? Ho fatto via Nazionale: mi sembra pulita. Certo non conosco le altre zone…». Roma è grande come un milione di vie Nazionali; Strozzi è durato una settimana: licenziato in quanto indagato per traffico illecito di rifiuti. Ennesima figuraccia per il sindaco. La settimana dopo arriva direttamente dalla terra dei Fuochi la nomina di Daniele Fortini, già a capo della raccolta rifiuti di Napoli: corrono voci su un suo coinvolgimento giudiziario, forse è indagato, forse no, anzi, archiviazione. Ma controllare prima e dire tutto, senza omissioni? Aggiungiamo il pasticcio, con relativi disordini, per i funerali di Priebke; le manifestazioni e i cortei per il diritto alla casa. Ma soprattutto, il bilancio: una falla da sistemare ancora una volta con un decreto governativo. Chi dice 12, chi dice 10, chi 8,6 miliardi di euro di buco, che comunque hanno spinto al famigerato decreto Salva-Roma. Per dribblare la marcia sulla capitale di centinaia di enti locali in crisi, Napolitano l’ha fatto ritirare, per trasmutare gli aiutini nelle “norme pro-capitale” inserite nel Milleproroghe, ennesimo travaso di risorse della gestione commissariale, che accolla i debiti sul groppone dello Stato. Stratagemmi per approvare di anno in anno il bilancio, non per sanare gli squilibri: si è proposto di aumentare l’addizionale Irpef all’1,2 per cento, di alzare ai massimi le aliquote nuove sulla casa, si è discusso di dismissioni immobiliari e vendita delle municipalizzate, liquidazioni di società inutili. Di fatto, approvato il bilancio, con l’ossigeno per vivacchiare un altro anno ancora, il sindaco ha lanciato la sua sfida dei 90 giorni. Lavori pubblici, decoro, viabilità urbana, edilizia scolastica… «La politica dell’austerità è sbagliata per la Capitale». E guai a dimenticare la cultura, vedi la Nuvola di Fuksas, un parallelepipedo di acciaio e vetro per un grande auditorium all’Eur, da terminare per l’Expo 2015. Cantiere aperto, e 100 milioni all’anno portati in dono dalla legge di stabilità. I teatri chiudono per mancanza di fondi, stessa sorte tocca ai piccoli musei, AltaRoma, la kermesse della moda, ha fatto sfilare l’ultima edizione. Quale cultura esprime Roma, sopra Viterbo e sotto Latina? Cultura non significa solo chiudere al traffico i Fori Imperiali. La “passeggiata dei romani”, secondo l’auspicio del sindaco, riguarda i pochi eletti che dai belvedere lussuosi gettano languidi sguardi sulle rovine, come Jep Gambardella, il dandy snob e annoiato protagonista de La grande Bellezza. Gli altri romani maledicono e sopravvivono, come sempre, imparando a dribblare segnaletica, regole, doveri. La Bellezza di Roma, per tutti loro, non c’è. C’è solo la tangenziale, il raccordo perennemente bloccato, con le campagne rinsecchite e lordate di accampamenti rom, con il biondo Tevere che a qualche curva fa capolino (non lo dragano da vent’anni), portando a galla materassi e lavatrici, carcasse d’auto e cadaveri.
ROMA: SPORCA, CAOTICA, INSICURA.
Carlo Verdone: "Povera Roma mia, sembri Kabul". Lo sfogo dell'attore: "Zozza, trascurata, piena di buche. Ma dove finiscono i soldi che paghiamo per la città?", scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. «Non ti chiedo oro, o marmo. Solo un po' di catrame!», sbotta Carlo Verdone, imbufalito per lo stato pietoso in cui versa Roma, sua amatissima città, da quando ha cominciato a piovere. Una cosa normale, d'inverno. Ma un evento catastrofico per la Capitale, da tempo abbandonata a se stessa e ora in ginocchio. Via del Corso allagata, buche e voragini ovunque, acqua a catinelle nei tunnel della metropolitana, gente impaurita e dispersa: un degrado impensabile per la Città Eterna. Che adesso sembra tornata alla barbarie pura. Quando Unni e Vandali scorazzavano sotto le Mura Leonine. In procinto di lanciare il suo ultimo film, «Sotto una buona stella», il "Carletto" nazionale sembra il Tevere in piena: gonfio e lì lì per tracimare. Quando è troppo, è troppo.
Visto che è successo, per qualche giorno di pioggia in più?
«É un vero disastro! Adesso, non ti chiedo il marmo, o l'oro. Ma un po' di catrame sì. Almeno per salvare quello che resta. Amo profondamente questa città magnifica. Che adesso, però, è zozza, trascurata, piena di buche. Dove si muore, o ci si fa molto male. Io ne so qualcosa».
Caduto nelle buche anche lei, come Fellini ai suoi tempi?
«Io sono finito dentro le buche due volte. Con tutta la moto. Per fortuna i miei polsi, tenendo saldamente il manubrio, hanno impedito il peggio. Più passa il tempo, più le voragini s'allargano. Qua pare Kabul... La prima volta, era il '95, mi sono rotto la schiena. Dolori enormi, pensavo fosse l'ernia. E invece, era la frattura che si risaldava. Mi sono dovuto operare. Un tipo, per passare con la sua Mercedes, aveva tolto le fiaccole che segnalavano il pericolo. Sapevo dei lavori in corso: al mattino, gli operai scavavano. Poi, rientro a notte fonda e non c'é più segnalato nulla. Anvedi che bravi!, penso, hanno già finito il lavoro. E mi ritrovo dentro il fosso, con la moto su di me e la colonna vertebrale fratturata».
Altro che «Grande Bellezza»...
«La domenica mattina, Roma è un cimitero di bottiglie e sporcizia. I giovani bevono e ne lasciano migliaia a terra. Se vai a Campo de' Fiori, al Pantheon, o a Piazza Navona, non c'è un residente che non si lamenti del rumore, delle risse, del caos. La gente scappa. E i turisti si adeguano: a Parigi, mai farebbero il bagno nelle fontane. A Roma, sì. E poi, il Tevere sembra il Mekong. Di notte, le sue rive si riempiono di gente vociante. Se passi a Via del Corso, pare la Praga del 1973: poco illuminata, serrande chiuse, luci basse».
Possiamo parlare di neo-barbarie?
«Se continua così, il problema non saranno più le buche, o le voragini gonfie d'acqua. Le consolari, per esempio, sono un inferno. Di recente, ho ripensato alla prima scena di Roma, il film di Fellini: gigantesco ingorgo sul Grande Raccordo Anulare, maxi-tamponamento e diluvio. Ho vissuto la stessa angoscia. Ma mentre la grandezza di Fellini rendeva la romanità poetica e simpatica, qua di simpatico è rimasto poco. Ma porca miseria! Con tutte le tasse che paghiamo, dove finiscono i soldi per la città? Ci sono troppi soldi buttati, o regalati agli amici degli amici. Meno eventi frivoli e più servizi essenziali per i cittadini. Più attenzione alla loro salute. Quando mio zio, negli Ottanta, fu ricoverato al San Giacomo, già c'era il piano dei motociclisti. L'80% dei motociclisti romani è caduto nelle buche. Siamo allo sfascio».
Uno sfascio anche culturale?
«Certamente. Ogni giorno, un cinema chiude. Abbiamo perso l'Etoile, il Corso, il Metropolitan, il Roma... Chiudono i teatri. Chiudono i templi della cultura. Il grande Tombolini, l'unico che vende libri rari, è in difficoltà. Vedo negozi rassegnati ai souvenirs, alle t-shirt, all'elmo dell'antico romano, alla maglietta di Totti».
Da amante di Roma, che cosa farebbe per risollevarne le sorti?
«Bisogna riempire le buche. Ma non con materiale di risulta, bensì con del vero catrame. Non oso pensare come stanno, adesso, le periferie. Ma certo, l'idea degli allagamenti a Via del Corso è insostenibile. E poi, occorre un'illuminazione migliore. Le strade sono buie. Roma è una città buia. Penso a Cesare Augusto, quando disse: "M'avete dato una città di pietre, io ve la restituisco in marmo". Io dico: dateci una manciata di catrame. Il catrame ci salverà».
Ogni 100 abitanti 67 auto, 56 pedoni uccisi l’anno. Un residente produce 660 kg di rifiuti, 113 più di Napoli. Uno su 4 ha commesso abusi edilizi. Dipendenti comunali: il doppio della Fiat, scrivono Paolo Conti e Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Il crepitio delle fiamme che divorano rabbiose una Smart squarcia il silenzio della notte. L’aria è irrespirabile, il calore tremendo. Il vetro blindato della posta che sta dirimpetto, sul marciapiede, cede di schianto. Le finestre degli uffici del Senato, a venti passi di distanza. Siamo dietro Palazzo Madama, nella zona più controllata della capitale d’Italia, con una garitta dei carabinieri ogni dieci metri. In 2.767 anni di storia a Roma si è visto certamente di peggio. Soprattutto di notte. «Un incosciente sei, uno che non considera l’imprevedibilità degli eventi se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni finestra aperta, dove di notte si spiano i tuoi passi, sta in agguato la morte», ammoniva nelle sue Satire diciannove secoli orsono il poeta Giovenale. Anche a piazza dei Caprettari, il posto dove alle tre del mattino di venerdì 17 gennaio i coatti hanno dato fuoco a quella Smart, sono accaduti fatti ben più gravi. E non serve andare tanto indietro nel tempo. Basterebbe ricordare la rapina che nel febbraio 1975, in quello stesso ufficio postale davanti al quale è bruciata la piccola utilitaria, si concluse con l’assassinio del poliziotto Giuseppe Marchisella: prima tragica impresa romana del Clan dei marsigliesi, antesignani della Banda della Magliana. Ma quel gesto sfrontato nel cuore del potere, in faccia a telecamere disseminate ovunque, dice tutto del degrado anche sociale nel quale è ripiombata Roma. Specchio di un Paese mai come oggi identificabile con quel lapidario aforisma regalatoci un secolo e mezzo fa da Mark Twain: «Così come noi americani non abbiamo passato, l’Italia sembra non avere futuro». Tanto da far tornare alla mente l’equazione della prima squassante inchiesta sulla speculazione edilizia e i rapporti fra affari e politica condotta dall’Espresso cinquantotto anni fa: «Capitale corrotta = Nazione infetta». La classifica dei capoluoghi. Nel 2008 il futuro sindaco Gianni Alemanno aveva promesso in campagna elettorale tolleranza zero verso la criminalità, dopo l’omicidio a Tor di Quinto di una signora, Giovanna Reggiani, per mano del rumeno Nicolae Mailat. Cinque anni e mezzo dopo il suo successore Ignazio Marino si ritrova a guidare una città che la classifica della sicurezza stilata proprio dall’università romana La Sapienza per Italia Oggi Sette colloca al posto numero 101 sui 110 capoluoghi. Due posizioni dietro Napoli, che occupa la casella 99. E non può consolare il fatto che Milano sia ritenuta ancora meno sicura, la peggiore d’Italia. Perché la graduatoria della qualità complessiva della vita piazza il capoluogo lombardo ben 27 posti sopra Roma, precipitata negli ultimi due anni dalla cinquantunesima alla sessantaquattresima posizione. E gli incidenti? Anche attraversare la strada può essere statisticamente un bel rischio. Nel 2012 sono stati travolti e uccisi dalle auto 56 pedoni, contro 24 a Milano, 9 a Napoli, 8 a Torino, Firenze e Palermo. Perché mai proprio a Roma il 37,8 per cento dei 148 investimenti mortali registrati in tutta Italia? Forse perché c’è l’abitudine di attraversare fuori dalle strisce o con il semaforo rosso. Ma pure chi al Comune ha il compito di studiare come far passare i pedoni da un lato all’altro della strada deve avere le sue responsabilità. Secondo i test degli attraversamenti pedonali realizzati dall’Epca, l’European pedestrian crossing assessment, Roma è al trentesimo posto su 31 città europee esaminate. Poi c’è il traffico: un girone dantesco. Se si eccettua Catania, nel Paese (l’Italia) che ha il record mondiale di veicoli a motore in rapporto agli abitanti, Roma è la città in assoluto con più automobili: 67 ogni cento residenti. Contro 53 di Milano, 50 di Madrid, 45 di Parigi, 43 di Bruxelles, 41 di Barcellona, 40 di Vienna, 32 di Londra e Berlino. Senza considerare il numero enorme di moto, motorini, furgoni e pullman turistici che stringono il fragile centro storico della capitale in una morsa d’acciaio. È stato calcolato che il 20 per cento della superficie urbana della città sia coperta da veicoli. Ogni cittadino romano trascorre mediamente in auto 227 ore l’anno. Conseguenza di uno sviluppo urbano folle e insensato, con quartieri periferici cresciuti senza alcun criterio intorno a strade del tutto insufficienti e un trasporto pubblico inesistente o allo sbando. Anche se i dipendenti dell’azienda di trasporto comunale sono quasi 12 mila, uno ogni 229 abitanti. Il risultato di decenni di gestione sconsiderata della città, in assenza di qualunque visione strategica, si può condensare nei 37 chilometri di linee metropolitane di cui è dotato il Comune territorialmente più vasto d’Europa, con quasi tre milioni di residenti e un’area urbana di cinque milioni: due chilometri in meno dei 39 della città spagnola di Bilbao, un sesto di Parigi, meno di un decimo di Londra. Commenta la scrittrice Dacia Maraini, che vive nella capitale da sessant’anni: «A Roma tutto ciò che appartiene alla mano pubblica è difficile, quasi nemico. Penso al sistema viario. Al traffico privato infernale. Ai tram e agli autobus strapieni, alle file alle fermate...». Il tutto in un clima di arbitrio assoluto, nel quale nessuno sente il dovere di far rispettare le più elementari regole di convivenza civile. La prova è in piccoli episodi, come quello avvenuto in una sera di novembre davanti a una famosa pasticceria in via Albalonga, nel quartiere Appio. Da mesi gli abitanti protestavano inutilmente per le auto in sosta selvaggia in seconda e terza fila, con esposti al sindaco, ai vigili, al questore e al prefetto. Quella sera c’erano tante macchine a ostruire il traffico che il bus 87 non riusciva a passare. È finita che anziché rimuovere le auto hanno deviato il bus, dopo aver chiamato senza successo la polizia municipale. Il traffico in tilt . Tante automobili, in una struttura urbana in larghissima misura inadatta al traffico veicolare, per di più nel caos assoluto, significa tanti incidenti. Nel 2012, ben 43 al giorno per un totale di 15.782. E tanti morti. Secondo l’Istat le vittime nella sola Roma sono state 154, contro 61 a Milano, 26 a Torino, 34 a Napoli e 932 nell’intero Paese. Con meno del 5 per cento della popolazione, la capitale è responsabile del 16,5 per cento degli incidenti mortali. La manutenzione delle strade è ai minimi termini. Al punto che una importante casa motociclistica ha deciso di collaudare la resistenza delle carrozzerie dei suoi scooter facendogli percorrere piazza Venezia. Negli ultimi due anni il numero delle voragini è quasi raddoppiato, da 44 nel 2011 a 84 nel 2013. Smottamenti del terreno, pessima qualità dei lavori stradali, scavi per condutture chiusi maldestramente, perdite idriche: le cause sono tante. Può perfino succedere, com’è accaduto il 16 luglio scorso, che un camion dei Vigili del fuoco, chiamato per l’apertura di una voragine sprofondi a sua volta in un’altra voragine. Come può anche accadere che nel pieno centro della città, fra piazza Venezia e il Pantheon, i telefoni restino isolati quattro giorni perché un cavo dell’alta tensione dell’Acea è andato a fuoco, bruciando tutte le linee. O che, tre mesi più tardi, l’illuminazione pubblica intorno al Senato rimanga misteriosamente spenta per giorni. Questo per dire come il livello dei servizi pubblici in una grande città sia essenziale per determinare la qualità della vita. I rifiuti, per esempio. Roma da anni è pericolosamente sull’orlo di una colossale emergenza ambientale, con la discarica più grande d’Europa che periodicamente viene considerata esaurita per essere di nuovo prorogata. La produzione di spazzatura è mastodontica: 660 chili l’anno ad abitante. Per capirci, 113 chili più di Napoli, 127 più di Milano, 155 più di Messina, 200 più di Trieste. Ufficialmente, la raccolta differenziata è al 25,1 per cento, percentuale fra le grandi città superiore solo a Bari, Napoli, Catania e Palermo. Ufficialmente... Per quanto riguarda poi l’igiene urbana, basta guardare in quali condizioni indecenti è tenuto uno dei monumenti più importanti dell’Italia intera: la Breccia di Porta Pia, attraverso cui i bersaglieri guidati da Giacomo Pagliari entrarono nella Roma papalina il 20 settembre del 1870. Assediata dalla spazzatura, senza nemmeno un cartello che spieghi dove ci si trova: le aiuole circostanti infestate dalle erbacce, sono un ricovero di senzatetto. A 300 metri da una sede dell’Ama, l’azienda municipale ambiente che conta poco meno di 8 mila dipendenti. Compreso un discreto numero di spalatori di foglie: 164 assunti in un colpo solo dalla giunta di Gianni Alemanno nel 2011. Eppure molte strade alberate, da mesi, sono in condizioni pietose. Non sono cose di oggi, intendiamoci. Nel centro si incontrano praticamente a ogni angolo le targhe di marmo che nel Settecento ammonivano gli abitanti a non gettare l’immondizia per strada, al prezzo di severe pene corporali. Minacce che però non dovevano incutere tanto timore, se all’inizio dell’Ottocento Stendhal raccontava: «Regna nelle strade di Roma un odore di cavoli marci». Il problema è non avvertire che siano passati due secoli. L’incuria è totale, in linea con la reputazione dei servizi pubblici. C’è un sito internet con centinaia di fotografie, scattate in ogni via e strada, dal centro alla periferie, che testimoniano lo stato pietoso del capitolo rifiuti. Tra queste, lo scatto formidabile che ha immortalato alcuni maiali grufolare tra i sacchetti di immondizia in via Boccea, appena dopo le feste natalizie. Grazie a quella foto si è scoperto che a fine anno l’Ama aveva il personale a ranghi ridottissimi: erano tutti in ferie. Per non parlare del campo profughi abusivo che da anni resiste indisturbato sul Colle Oppio, a due passi dalla Domus Aurea neroniana, con inferriate del parco ridotte a stendini per la biancheria e i vestiti lavati nelle fontane a cento metri dal Colosseo. L’indirizzo di quel sito è tutto un programma: www.romafaschifo.com. In questo scenario non poteva mancare una piaga che sta affliggendo tante città, soprattutto al Sud: il furto dei cavi di rame. Ma non solo. Nel Cimitero monumentale del Verano, progettato da Giuseppe Valadier tra il 1807 e il 1812, continuano a sparire croci di bronzo e suppellettili delle tombe che alimentano il traffico clandestino dei metalli, in mano a molte famiglie di nomadi. Intorno ai sepolcri, e in alcune cappelle, la notte dormono disperati senza casa. Ha scritto un giorno al Corriere il lettore Gordon Tanzarella: «Ho visto un cartello che diceva: “In questa tomba ci sono i nostri cari, vi preghiamo di averne rispetto e di non usarla come dormitorio”». La conclusione non può che essere una. La città che è la più grande azienda italiana per stipendi pagati, con un numero di dipendenti comunali pari a oltre il doppio degli occupati negli stabilimenti italiani della Fiat, non è governata. Certo, governarla non è semplice. Pensando soltanto al delirio delle 600 manifestazioni che l’attraversano ogni anno, con un impatto terrificante sui servizi. E a chi, come il Financial times gli ha messo il dito in un occhio, parlando di una città «depressa», Marino replica serafico: «Roma non fu fatta in un giorno. Stiamo facendo progressi». Auguri. Dice lo storico Vittorio Vidotto, autore del saggio Roma contemporanea : «Il problema principale di Roma è la sua incapacità di diventare una moderna capitale. Non si è modellato lo sviluppo della città sulla base dei trasporti. L’antica struttura radiale di Roma sarebbe potuta essere la base per linee logiche di espansione ma così non è stato. Poi c’è la sua triplice identità: grande città storica, capitale della Repubblica e centro del cristianesimo. E troppo spesso l’amministrazione comunale si è trovata in aperto conflitto col governo nazionale e con le altre città italiane, assai poco disposte ad assicurare finanziamenti a Roma per la sua condizione di capitale. E poi c’è la pochezza degli ultimi sindaci. Infine un male diffuso: l’assenza di qualsiasi cultura legata alle regole condivise e rispettate da tutti». Le domande di condono. Colpa dei cittadini, dunque. Ma anche di una classe dirigente che ha privilegiato gli interessi privati a quelli collettivi. Non c’è altra capitale occidentale la cui crescita urbana sia stata così disordinata e di scarsa qualità. Fra il 1951 e il 2013 i residenti nella città sono aumentati da un milione 651 mila a 2 milioni 753 mila. Il consumo del suolo è risultato vertiginoso, con il 20 per cento del territorio ormai non più naturale. Frutto di una espansione assurda, che non si è mai arrestata, anche dopo l’edificazione degli immensi quartieri dormitorio degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Ha solo cambiato pelle. Fra il 1993 e il 2008 altri 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e coperti di cemento ben oltre la domanda di case. Con il risultato che oggi abbiamo nel solo Comune di Roma 245 mila abitazioni vuote, spesso in zone senza servizi, prive di collegamenti e di strutture decenti. E se adesso nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d’oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore aggiunto totale, contro l’86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi. Il mattone ha lasciato segni profondissimi nella geografia del potere. Non per nulla il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone controlla un rilevante pacchetto azionario dell’Acea, la più grande municipalizzata italiana tuttora guidata da uomini a lui non sgraditi, e possiede il Messaggero , maggiore quotidiano della capitale. Mentre il secondo giornale, il Tempo , è nelle mani di un altro costruttore: Domenico Bonifaci, il quale tanti anni fa l’ha comprato dallo stesso Caltagirone. E segni fisici profondissimi ha lasciato l’abusivismo edilizio, abbattutosi sulla città come una piaga biblica. Lo dimostrano le 597.000 (cinquecentonovantasettemila) domande di condono presentate dal 1985. Per dare un’idea del tasso di illegalità, è come se un cittadino su quattro o poco più avesse commesso un abuso, senza considerare quanti non hanno compilato il modulo. La piaga ha attraversato tutte le amministrazioni: emblematica la storia delle Terrazze del Presidente nella zona di Acilia, oltre 1.300 appartamenti sanati in un colpo solo durante la giunta di sinistra al termine di un’offensiva speculativa nata vent’anni prima su terreni un tempo agricoli grazie a un accordo fra i costruttori Antonio Pulcini e Salvatore Ligresti. Il bello è che di quelle domande di condono, con l’ultima sanatoria chiusa ormai dieci anni fa, ne devono essere ancora esaminate almeno 150 mila. Non sarà perché, come dice Toni Servillo, alias Jep Gambardella in quel meraviglioso e sconcertante affresco del potere che è La grande bellezza , «a Roma si perde un sacco di tempo»?
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
POVERA ROMA! VORAGINI, CONCORSONI TRUCCATI, DIPENDENTI PUBBLICI STRAFOTTENTI, PIOVE CACCA, LO SCANDALO ATAC ED INFINE PAOLINI.
Voragini, boom in 2 anni Roma sta sprofondando. Con le piogge violente il sottosuolo cede La causa i numerosi cunicoli e gallerie, scrive Erica Dellapasqua su “Il Tempo”. Presenza di cavità sotterranee, disfunzioni alla rete dei sottoservizi e piogge intense: Roma e più in generale il Lazio, prima regione italiana per aree a rischio sprofondamento, concentrano nei loro confini molti dei fattori che continuano a causare «sinkhole», voragini e sprofondamenti di origine antropica appunto, fenomeni legati anche all’andamento delle condizioni climatiche. Fuori dai tecnicismi, più piove e più il sottosuolo, laddove non si presenta compatto bensì come un dedalo di cunicoli e gallerie, potrebbe cedere senza alcun preavviso evidente: si spiegano così, del resto, i numerosi casi di voragini aperte nella Capitale, ben 84 solo dall’inizio dell’anno, un quadro in netto peggioramento rispetto alle statistiche del 2011 e 2012. Complessivamente l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha censito 1.839 manifestazioni di dissesto, dal 1884 ad oggi, all’interno del Grande raccordo anulare. Il Comune di Roma è corso ai ripari ingaggiando nuovi geologi, che recentemente sono così saliti da uno a cinque, mentre la Regione Lazio ha adottato la prima carta di ubicazione di «sinkhole» imponendo norme più restrittive per le nuove edificazioni: primi passi, che rispondono solo in parte «all’emergenza sprofondamenti» che, come detto, è in atto anche a Roma. Come spiega Stefania Nisio, primo tecnologo Ispra che ha contribuito alla redazione della prima «Carta della suscettibilità agli sprofondamenti antropogenici» di Roma e del Lazio «la formazione di nuove voragini è fortemente connessa alle condizioni idrogeologiche del territorio». «Tra le cause delle voragini - continua la Nisio - vanno distinti fattori predisponenti e innescanti, nel primo caso includiamo presenza di cavità nel sottosuolo e perdite nella rete dei sottoservizi, nel secondo piogge come quelle intense di questi giorni ed eventi sismici: non essendo Roma considerata a rischio dal punto di vista sismico, è evidente che ogni volta che ci sono precipitazioni importanti si ha un riscontro sulle voragini che si formano». Infatti, come anticipato, i dati non sono rassicuranti. Mentre il Lazio si conferma al primo posto in Italia per «sinkhole» naturali, Roma ha battuto anche se stessa col record negativo di 84 voragini aperte in città nel 2013 e 10 altri dissesti segnalati. Erano «solo» 44 nel 2011, e 72 nel 2012. Le aree considerate potenzialmente a rischio restano invece le stesse, Prenestino-Acqua Bullicante, l’Appio latino, Quadraro e Tuscolano, il centro storico tra Termini e piazza Fiume, Ponte Galeria e Magliana. Si tratta di zone «fragili» per loro stessa conformazione, cunicoli o gallerie sotterranee come nel caso del Quadraro o della pancia dell’Aventino, oppure in seguito all’intervento dell’uomo, che tra scavi attività estrattiva e urbanizzazione ha contribuito a ìsvuotare» le fondamenta della città. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: quest’anno particolarmente colpiti sono stati Monte Mario (Municipio XIV) con una media di 16 voragini aperte, quasi due al mese, centro storico (9 voragini) e il quadrante Prenestino-Tiburtino-Tuscolano (Municipio V) con 8 voragini. Rispetto al passato, qualcosa - insieme al terreno - si è mosso. Appurato che «tappare» gli sprofondamenti col cemento non potesse essere risolutivo, in molte situazioni del resto i problemi si ripresentavano a distanza di pochi mesi, oggi ogni qualvolta si apre una nuova voragine si interpellano i geologi: «Di norma scendiamo giù - continua la Nisio - e ispezioniamo tutta l’area, ci sono casi in cui è sufficiente chiudere il sito con una miscela e ripristinare la strada, altri in cui non è possibile perché magari scopriamo che la voragine è molto estesa, quindi è necessario realizzare opere di sostegno, tiranti: buttare cemento senza indagare, come si faceva prima, non risolve il problema». Rispetto al futuro, in ogni caso, ci sono poche certezze: «Dal punto di vista della prevenzione, è necessario mappare le cavità sotterranee ed avere maggiore cura della rete di sottoservizi specie nelle aree considerate più fragili: una banale perdita d’acqua, magari in caso di pioggia copiosa e di un terreno con diverse cavità, può compromettere la stabilità». Sul piano pratico «le nuove direttive della Regione Lazio impongono, in seguito all’ultimo censimento di sinkhole, norme più restrittive per le edificazioni: a Roma, in passato, si è costruito sul vuoto, poi col tempo alcune aree sono state bonificate, altre no».
Concorsone, Marino nei guai. Il Pdl lo denuncia per procurato allarme, scrive “Affari Italiani”. L'azione legale è stata presentata dal capogruppo Sveva Belviso: "Esistono gli elementi di responsabilità penali nell'operato del Sindaco". Nel frattempo negli uffici del Tribunale di piazzale Clodio un pool di magistrati sta analizzando la relazione elaborata dall'avvocatura comunale sulle presunte irregolarità del maxi-concorso del Campidoglio. Abuso d'ufficio, corruzione, frode in pubbliche forniture, questi sono i reati al vaglio di chi indaga. Per il momento comunque il fascicolo resta senza indagati. L'unica vittima del caos scoppiato sul maxiconcorso rischia di essere lo stesso sindaco Ignazio Marino. "Esistono gli elementi di responsabilità penali nell'operato del sindaco Marino per procurato allarme ed eccesso di potere. Per questo presenteremo un esposto-denuncia in procura contro il sindaco e chiediamo alla Procura se ci siano altre responsabilità di altri profili e, nel caso, di individuarli e procedere nei loro confronti". Questo l'annuncio del capogruppo Pdl in Campidoglio, Sveva Belviso, che ha presentato l'esposto insieme ai consiglieri Marco Pomarici, Giordano Tredicine, Giovanni Quarzo e l'ex assessore al Personale giunta Alemanno, Enrico Cavallari. “Quando ci sono aspetti di irregolarità concorsuali è naturale e d'obbligo rivolgersi alla magistratura. Quindi, pur essendo condivisibile la scelta fatta - ha continuato Belviso - non possiamo non farci alcune domande importanti come: cosa è accaduto in Campidoglio nei giorni precedenti all'annuncio del sindaco; chi e perché ha dato mandato su accertamenti rispetto a una procedura su cui non erano stati sollevati ricorsi; perché non sono stati consultati né i presidenti né i commissari al fine di avere informazioni utili; con quali poteri istruttori sono stati toccati materiali d'esami; perché i commissari e i presidenti non sono stati chiamati durante le verifiche" e soprattutto per il gruppo capitolino "chi ha autorizzato ad aprire la cassaforte nella quale per legge erano conservati i documenti". "Abbiamo deciso di agire con questo atto di esposto e denuncia - ha precisato Belviso - perché sentiamo la responsabilità nei confronti della città e dei ragazzi che hanno risposto onestamente a un concorso. Il sindaco ha abusato di un potere che non ha rovinando la vita a questi ragazzi". Per il vicecapogruppo Pomarici "non si può aprire bocca e dare fiato ma questo ha fatto Marino. L'azione del sindaco é stata illegittima ma noi facciamo una promessa a questa amministrazione e al sindaco: i prossimi giorni saranno i giorni della verità". "C'é uno stato di allarme ma sono convinto che tutto questo allarme è stato messo in atto perché nel 2014 ci e' stato comunicato che non ci sono i soldi per il personale - ha detto Tredicine - Uno di questi concorsi, ad esempio, è terminato e 43 persone hanno il titolo per entrare. Perchè allora non sono previsti questi fondi? Crediamo che Marino non possa decidere per nome e conto di se stesso". Nel frattempo a piazzale Clodio un pool di magistrati sta analizzando la relazione elaborata dall'avvocatura comunale accompagnata da una lettera del sindaco Ignazio Marino: Abuso d'ufficio, corruzione, frode in pubbliche forniture, questi i reati al vaglio di chi indaga sulla vicenda del maxi-concorso del Campidoglio indetto per 22 procedure per 1.995 posti al Comune. L'incartamento è stato affidato dal procuratore Giuseppe Pignatone al procuratore aggiunto Francesco Caporale, che si occupa dei reati commessi in danno della pubblica amministrazione. I sostituti che dovranno valutare la sussistenza di irregolarità nelle procedure sono Francesco Dall'Olio e Letizia Golfieri. Per il momento comunque il fascicolo resta un “K”, ossia un “atti relativi” senza ipotesi di reato e senza indagati.
Concorsone, Roma Capitale teme i ricorsi: possibile ricorrezione delle prove scritte. Il Capo dell'Avvocatura Capitolina Murra è al lavoro per studiare gli strumenti legislativi in 'autotutela'. Nei prossimi giorni le irregolarità anche alla Corte dei Conti, scrive “Roma Today”. Come annunciato nei giorni scorsi, il concorsone di Roma Capitale è arrivato negli uffici giudiziari della Capitale. Ieri il Comune di Roma ha inviato tutti i documenti in suo possesso alla Procura di Roma che ha aperto un fascicolo processuale, al momento senza ipotesi di reato nè indagati. Quella della magistratura però non sarà l'unica inchiesta che verrà aperta a riguardo. Nei prossimi giorni infatti il Campidoglio manderà tutte le carte in suo possesso anche alla Corte dei Conti. Dopo la segnalazione, il concorso prosegue. “Non abbiamo la competenza per prendere una simile iniziativa” fanno sapere dall'amministrazione comunale. Segnalare le irregolarità però non è il solo nodo da risolvere per l'amministrazione. L'Avvocatura capitolina infatti sta studiando i possibili strumenti per 'autotutelarsi' da eventuali ricorsi che i concorsisiti non ammessi, viste le “pesanti irregolarità” ipotizzate, potrebbero avanzare. Alcune buste avevano l'interno bianco e non viola “come prescritto”. Così bastava mettere la busta in controluce per leggere le generalità del candidato. In altri casi nome, cognome e data di nascita del candidato erano scritti in grassetto tale da permettere la lettura “anche se l'interno della busta presenta il colore giusto”. L'incartamento con le presunte irregolarità riscontrate nel maxiconcorso per 1.995 posti del Campidoglio, al quale è stata allegata una lettera del sindaco di Roma Ignazio Marino, è ora all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, che dovrà assegnare l'attività di indagine ad uno dei suoi aggiunti ed, eventualmente, affidare una delega agli inquirenti per svolgere attività istruttoria. Il reato ipotizzabile potrebbe essere l'abuso d'ufficio o, in casi più gravi, la corruzione. Tra i compiti dei magistrati anche quello di verificare le procedure seguite dalla Praxi, la società che ha coordinato l'organizzazione del concorso già finita sotto la lente di ingrandimento per lo scandalo parentopoli ad Atac. Dietro l'ipotesi di danno erariale, l'incartamento verrà inviato anche alla Corte dei Conti. Il plico dovrebbe essere trasmesso nei prossimi giorni, "entro questa settimana". Per la questione del maxiconcorso capitolino quindi si prefigura una doppia indagine. Consegnato tutto alla magistratura, “era un atto dovuto” ha ribadito ieri il sindaco Ignazio Marino, il concorso va avanti. “Non abbiamo né la volontà né gli strumenti legislativi per prendere iniziative di questo tipo” comunicano dal Campidoglio. Solo la magistratura, verificati eventuali casi di corruzione, potrebbe decidere di annullare le prove. Intanto l'amministrazione sta studiando gli strumenti legislativi per tutelare i concorrenti ma anche per 'autotutelarsi' a sua volta da eventuali ricorsi che concorrenti non ammessi potrebbero avanzare. Il Capo dell'Avvocatura Capitolina Rodolfo Murra è al lavoro per individuare gli strumenti legislativi più adatti. Tra le ipotesi sul tavolo c'è quella di ricorreggere gli scritti. La strada è tracciata da una sentenza del Consiglio di Stato che lo scorso anno si è espresso su un caso simile in Lombardia, in relazione a un concorso per i presidi. “Questa è solo una delle ipotesi”. L'esito verrà comunicato nei prossimi giorni. Intanto si procederà alla sostituzione delle buste. Polemiche in Aula Giulio Cesare per l'assenza del sindaco Ignazio Marino. Nel corso della seduta di ieri infatti il vicesindaco con delega al Personale Luigi Nieri è intervenuto in aula per riferire sulla vicenda ma poco prima dell'inizio del suo intervento i consiglieri di Fdi, Pdl, M5S, Lista Marchini e Cittadini Xroma hanno lasciato l'aula. Il motivo proprio l'assenza del sindaco che secondo le opposizioni avrebbe dovuto riferire in prima persona sull'accaduto. “Marino è un irresponsabile: prima annuncia urbi et orbi che il concorso sarà annullato, poi fa marcia indietro lasciando nel dubbio migliaia di persone. Che cosa c'è dietro questa mossa? Perché prima di andare in tv il sindaco non è andato in Procura? Oggi continua a scappare dalla proprie responsabilità e rifiuta persino di riferire in Consiglio” dichiara Alessandro Onorato capogruppo della Lista Marchini in Assemblea capitolina. “Non è accettabile che Roma sia governata da chi prima lancia slogan e poi corre a nascondersi quando si tratta di dare risposte concrete ai cittadini”. I consiglieri del Movimento cinque stelle invece fanno sapere di “aver richiesto un'apposita seduta della Commissione Personale con l'assessore Nieri e chiesto formalmente al Sindaco copia della relazione dei direttori Murra e Caprioli sugli eventuali vizi dell'iter concorsuale”. Per il capogruppo del Pd capitolino Francesco D'Ausilio la reazione dell'opposizione è stata “eccessiva” ha commentato. Hanno “fatto una bandiera politica dell'assenza del sindaco. I fatti, se verranno confermati, sono gravissimi ed era compito dell'amministrazione usare tutte le cautele su un concorso comunque organizzato dalla passata gestione" ha concluso. Ieri mattina intanto si sono ritrovati in uno dei tanti Dipartimenti del Comune di Roma pronti a sostenere la prova orale. Tra loro c'era anche Ilenia, 31 anni, due lauree, un dottorato e un master, ma ancora precaria nella pubblica amministrazione. E' partita da Campobasso, subito dopo aver saputo della protesta organizzata in Campidoglio dagli altri candidati in 'bilico'. Stamattina si è presentato al Dipartimento comunicazione e diritti dei cittadini per un posto da dirigente. "L'atmosfera era serena - racconta - anche se nei corridoi non si parlava d'altro che del presunto scandalo delle buste. Nessuno della commissione ha fatto alcun accenno a quello che è successo in questi giorni e gli orali sono andati avanti senza problemi". A fine giornata, Ilenia è una delle tante candidate ad essere risultata idonea per un posto da funzionario.
S.P.Q.R. Sono Pigri Questi Romani. Vabbé… Alberto Fortis li avrebbe apostrofati diversamente. Comunque sia, va di culo se lavorano, scrive Tontolo su “L’Indipendenza”. Ma attenzione, non rompetegli troppo le balle, perché il solo fatto che siano obbligati a tenere aperti al pubblico gli sportelli per quattro ore alla settimana è un’impresa titanica. E “si prega di non essere insistenti – scrivono – altrimenti saremo costretti a prendervi a parolacce”. Bonjour finesse, li mortacci tua… e state bboni. Perchè vorrete mica disturbare l’impiegato, er capoccia, dell’ufficio Gestione Verde Urbano di “Roma Capitale” mentre riflette, in compagnia di altri colleghi, davanti alla macchinetta del caffè. Oppure proprio mentre va a fare la spesa o mentre timbra il cartellino per qualcun altro. Come scriveva quella buon’anima di Luigi Barzini Junior “a Roma tutto è pubblico, non esistono segreti, ognuno parla, le cose vengono talora ostentate in modo addirittura vistoso, eppure non si capisce niente”. Ma che ce volete fa’… “Roma è tutta un vespasiano”! E lo diceva il Marchese del Grillo… mica un grullo!
"Il pubblico si riceve nei giorni di martedì e venerdì - si legge sul cartello immortalato nella foto da un cittadino - dalle ore 10,00 alle ore 12,00 previo appuntamento telefonico. L'altri giorni (l'errore è nel testo originale) dobbiamo lavorare. Si prega di non essere insistenti altrimenti ci vedremo costretti, anche se contrario alla nostra educazione, a prendervi a parolacce ed insulti". "L'immagine del cartello shock affisso dall'ufficio Gestione Verde Urbano, rivolto ai cittadini - commenta su Facebook il consigliere comunale della lista civica 'Cittadini per Roma' Ignazio Cozzoli - è l'ennesimo scivolone che prende l'amministrazione. La pessima gestione e la mancanza assoluta di controllo sono le prerogative principali di una macchina amministrativa dissennata che sta indignando i cittadini".
"L'altri giorni non ci scocciate, altrimenti vi prendiamo a insulti" I dipendenti horror di Marino, scrive “Libero Quotidiano”. Matrimoni gay, buon pensiero, comprensione, biciclettica eco-friendly eccetera eccetera. Ma il sindaco di Roma, Ignazio Marino, permette che i suoi dipendenti minaccino i cittadini della capitale. Il caso è nato in rete, dopo che è stato fotografato un cartello con l'intestazione "Roma Capitale", che nel giro di poche ore ha fatto il giro del web. Il cartello è appeso all'Ufficio Gestione Verde Urbano. E recita: "Il pubblico si riceve nei giorni di martedì e venerdì dalle ore 10.00 alle ore 12.00 previo appuntamento telefonico. L'altri (testuale, sic, ndr) giorni dobbiamo lavorare. Si prega di non essere insistenti altrimenti ci vedremo costretti (ari-sic, ndr) anche se contrario alla nostra educazione, a prendervi a parolacce ed insulti (stra-sic, ndr). La bufera - Poche righe horror, sgrammaticate, quasi deliranti, in cui i cittadini, di fatto, vengono minacciati. I dipendenti pubblici del sindaco Marino mettono in chiaro che, a loro, lavorare scoccia eccome. A un uomo, come detto, il cartello non è sfuggito. Così lo ha fotografato e pubblicato su una pagina Facebook dal nome piuttosto eloquente: "romaschifo". La foto, così, nel classico tam-tam internettaro, è rimbalzata di pagina in pagina, diventando anche un caso politico. Una beffa, per il sindaco Marino, sempre più impopolare nella città che lo hanno votato soltanto pochi mesi fa. All'attacco contro il sindaco, tra gli altri, ci passa Ignazio Cozzoli, consigliere della lista Alemanno: "Il cartello choc è l'ennesimo scivolone dell'amministrazione. La pessima gestione e la mancanza assoluta di controllo sono le prerogative principali di una macchina amministrativa dissennata che sta indignando i cittadini".
La Roma di Marino sommersa dalla cacca degli uccelli. La denuncia del Guardian: "Nella Capitale dovete girare sempre con l'ombrello anche quando non piove", scrive “Libero Quotidiano”. Non c'era certo bisogno della segnalazione del Guardian per sapere che la Capitale è bombardata ogni giorno dalla cacca di storno. "I romani dovrebbero girare armati di ombrelli e non certo per la pioggia", sostiene il giornale inglese mettendo il dito nella piaga: chi vive a Roma ha ben presente gli escrementi che si accumulano sui tettini delle auto, sui marciapiedi, sulle banchine del Tevere, sui monumenti. Addirittura le carreggiate sono spesso ricoperte di una guaina scivolosa che mette in pericolo i mezzi di trasporto. Il Codacons attraverso una lettera ha chiesto l'intervento del Comune con "una apposita task force in città, che abbia il compito di intervenire con celerità nelle situazioni più critiche, ripulendo l’asfalto o chiudendo le strade nei casi di maggior pericolo, e rimuovendo le foglie che stazionano sui marciapiedi – afferma il presidente Carlo Rienzi. In tal modo è possibile da un lato tutelare l’incolumità di motociclisti e cittadini, dall’altro evitare all’amministrazione pesanti cause risarcitorie che non gioverebbero certo alle casse della capitale”. A quanto pare l'appello è servito perché l'assessore all'Ambiente, Estella Marino, ha comunicato che nei prossimi giorni partirà la Campagna di allontanamento storni 2013 – 2014. Intanto - si legge sul sito del Comune di Roma - è già stata data disposizione ad Ama di potenziare il servizio di spazzamento e lavaggio per la rimozione del guano prodotto dagli storni e si stanno effettuando interventi giornalieri sui tratti del Lungotevere interessati dal fenomeno". L'assessore ci tiene però a precisare, come riporta RomaToday, che "il Piano Storni dal 2005 al 2010 è stato affidato dall’Amministrazione Comunale alla Lipu. Il Piano comprendeva anche il sistema di allontanamento storni tramite dissuasori acustici, messo a punto dal Dipartimento Tutela Ambientale e affidato alla società Fauna Urbis. Dal 2011 al 2012 l’Amministrazione ha incaricato direttamente dell’intervento gli operatori specializzati della Fauna Urbis. Per l’anno 2013 non era stato rinnovato alcun affidamento. Nonostante la carenza di fondi in Bilancio, abbiamo reperito le risorse necessarie per far partire la Campagna predisposta dal Dipartimento Tutela Ambientale del Verde e affidata alla stessa società Fauna Urbis. Il sistema consiste nell’attivazione di dissuasori acustici che utilizzano il ‘distress call’, noto come grido d’angoscia dello storno, che entrerà in funzione al tramonto, quando gli uccelli tornano in città dalle campagne e trovano rifugio sui platani del Lungotevere, da dove – prosegue Estella Marino – inizieranno i primi interventi, con il supporto di Ama che provvederà alla pulizia dell’area interessata".
Atac: "Denunciate alla Procura", ma i manager insabbiarono la relazione. Le prove sui fondi neri in un report del 2011 mai consegnato ai pm. Una commissione interna rivela le anomalie invitando l'azienda a riferire ai magistrati, scrivono Daniele Autieri e Carlo Bonini su “La Repubblica”. Due documenti riservati di Atac ottenuti da Repubblica dimostrano che, almeno dal febbraio del 2011, il management di vertice dell'azienda aveva acquisito evidenze inoppugnabili sulle responsabilità interne nella truffa dei "falsi biglietti" capace di drenare 70 milioni di euro all'anno dal suo bilancio. E che tuttavia lo stesso management decise di nascondere quelle prove alla magistratura inquirente, di tacerle al consiglio di amministrazione dell'Azienda e al suo unico azionista, il Comune di Roma. Già, il Campidoglio, "vittima" di una stangata iniziata nella Roma di Walter Veltroni e proseguita in quella di Alemanno.
Perché tacere? Perché un'omissione così macroscopica da chi dovrebbe avere a cuore l'interesse dell'azienda? "La risposta è una sola - osserva una qualificata fonte interna all'Azienda - e suona così: quella verità avrebbe fatto crollare il Sistema dei finanziamenti assicurati da Atac alla Politica grazie alle provviste nere create con la falsa bigliettazione. Perché quella verità era semplicemente intollerabile". Febbraio 2011, dunque. Vediamo cosa accade. Oltre a un report commissionato a un team esterno le cui già allarmanti conclusioni verranno consegnate alla Procura di Roma, Atac insedia in quell'inverno di due anni fa una commissione di inchiesta interna perché vada fino in fondo alla faccenda. La presiede Giuseppe Renato Croce, un ex magistrato di 73 anni dal passato opaco (il suo nome è stato trovato negli elenchi della P2) che ha trovato in Atac la sua nuova casa. E con lui ne fanno parte sei manager: il responsabile sicurezza e prevenzione, Pierluigi Pelargonio, il responsabile degli affari legali, Gianfrancesco Regard, il responsabile commerciale Fabrizio Frustaci, il direttore organizzazione e relazioni industriali Gianluca Ponzio, il responsabile delle manutenzioni Raffaele Santulli, e il responsabile dell'area tutela del patrimonio Luca Nicotera. Sono dirigenti obbligati a rispondere alla politica e anche per questo, forse, la convinzione è che il loro lavoro sarà timido e non andrà da nessuna parte. Ma non è così. Il 6 maggio 2011, tre mesi dopo la chiusura dell'indagine interna, proprio Croce invia una lettera all'allora direttore generale di Atac, Antonio Cassano. Si legge: "Onde rappresentare al magistrato che l'alta dirigenza di Atac si è tempestivamente mossa affinché i reati in accertamento non si ripetessero, si prospetta alla S. V. l'opportunità che la relazione (della Commissione interna ndr) venga trasmessa alla Procura della Repubblica affinché sia allegata all'incarto penale". L'invito rivolto a Cassano è chiaro nella sostanza. Quanto scoperto dall'indagine interna mette i vertici di Atac in una posizione che non lascia molti margini di manovra a meno di non voler apparire complici. Tuttavia, l'allora direttore generale di Atac ripone sia la lettera di Croce che le quaranta pagine di rapporto che la accompagnano in una cassaforte, dove rimarranno fino all'inchiesta di Repubblica della scorsa settimana. Ci sono evidentemente "ottimi" motivi per occultare il lavoro della Commissione. E per capirlo è sufficiente leggere alcuni dei passaggi chiave della sua Relazione. Per la prima volta, viene descritto il "bunker" di via Sondrio, l'ufficio dove è raccolta l'intelligenza del sistema di bigliettazione informatica. La Commissione spiega infatti di aver realizzato che esiste "un problema interno" proprio quando chiede l'accesso a quell'ufficio. Intende osservare e verificare come lavorano i venti uomini che dalla società Erg sono stati assunti in Atac e hanno gestito per anni il segreto della bigliettazione elettronica. Soprattutto, vuole comprendere il meccanismo di rendicontazione elettronica che dovrebbe assicurare la corrispondenza tra i titoli di viaggio stampati e quelli effettivamente utilizzati. Ma, appunto, la Commissione viene bloccata. L'accesso al bunker è interdetto anche alle loro indagini, che pure non dovrebbero incontrare ostacoli. "A quel punto abbiamo capito che qualcosa non funzionava per davvero - racconta oggi uno dei sei manager - e con l'aiuto di alcuni esperti informatici siamo entrati a forza nel sistema. Solo allora ci siamo resi conto che non esistevano black list per la registrazione dei biglietti usati, e che un'eventuale clonazione sarebbe passata inosservata". "È stata una scoperta illuminante - aggiunge la fonte - purtroppo siamo stati rapidamente scoperti e ricacciati fuori dal sistema". Anche in quella "finestra" così stretta, la Commissione riesce nondimeno ad afferrare evidenze cruciali. Si legge ancora nella Relazione occultata: "Tutti i controlli dei biglietti "vidimato/ venduto" e i livelli di protezione del sistema sono in capo ai medesimi soggetti. Questa modalità di gestione della bigliettazione attraverso l'esistente sistema di black list non automatizzata che prevede l'inserimento manuale dei biglietti a cui deve essere negato l'accesso, non permette di evitare l'esistenza di una bigliettazione parallela almeno fino a quando questa non viene scoperta". Cosa che alla Commissione è riuscita. "Dalla verifica effettuata dalla direzione vendite sui titoli di viaggio in possesso al servizio ispettivo Atac - scrivono i sei manager - emerge che 3 biglietti acquistati il 16 settembre del 2009 sono risultati validamente emessi, regolarmente validati, ma non ne risulta la vendita sulla contabilità aziendale, mentre 4 biglietti acquistati in data 17 e 18 settembre del 2010 risultano validamente emessi, regolarmente validati, ma non come venduti - come emergeva dalla verifica della contabilità aziendale". "È evidente quindi - concludono i membri della commissione di inchiesta - come a fronte della vendita dei titoli di viaggio Atac non ha incassato il corrispettivo monetario che era stato invece fraudolentemente trattenuto". La Commissione comprende di essere di fronte a un Sistema. E dunque, per la prima volta, parla di un "Progetto Bigliettazione". Ne indica il perno operativo in un gruppo di dipendenti (gli ex-dipendenti della società australiana Erg) che da allora e fino ad oggi avrebbero gestito in solitudine, per giunta protetti dal segreto anche fisico del loro ufficio, tutti i processi operativi sui titoli di viaggio. All'origine della stangata sono i rapporti opachi allacciati con Rutelli sindaco tra l'Azienda e la società australiana Erg, fornitrice del sistema prima dell'internalizzazione del servizio in Atac. "Emerge tutta la stranezza del rapporto tra Atac, Erg Italia e Transel (la società mista attivata e mai decollata) e come questo rapporto sia stato gestito sempre dalle stesse persone ". Ovvia la conclusione: "Urgono iniziative veramente efficienti perché è intuibile che queste falle minano alla base la principale fonte di acquisizione di utili per l'Azienda". Tutt'altro che ovvia la conseguenza. La relazione, in quel 2011, viene fatta semplicemente sparire.
Gabriele Paolini e l'inchiesta con luci ed ombre, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Le sue incursioni folli nei tg degli ultimi vent’anni lo hanno proclamato, come re indiscusso dei disturbatori della tv. Si autobattezza “profeta del condom”, lanciando una campagna di prevenzione dell’Aids. Ama il cinema di Federico Fellini e di Vittorio De Sica, la comicità di Alberto Sordi e di Walter Chiari. Frequenta corsi di teatro, gira film hard, fa spettacoli porno dal vivo, crea un sito sulle sue perfomance erotiche e raccoglie firme sul web chiedendo la pena di morte per i pedofili e stupratori. Dal 10 novembre 2013 Gabriele Paolini, è in carcere a Regina Coeli a Roma. Bloccato dai carabinieri, sulla base di un provvedimento cautelare emesso dal giudice Alessandrina Tudino, su richiesta della procura di Roma, per le ipotesi di reato di induzione e sfruttamento della prostituzione minorile e produzione di materiale pedopornografico. A incastrarlo ci sarebbero alcuni video, che riprendono il Paolini, in scene di sesso con tre minorenni, tutti identificati, due 17enni italiani e un romeno di 16 anni, che si prostituivano in cambio di soldi per pagarsi la discoteca, la ricarica telefonica, un paio di jeans griffati. Con uno degli adolescenti, sembra ci sia stato solo un tentativo di approccio. Ogni incontro veniva pagato, secondo gli inquirenti, 40 euro. Un’accusa pesantissima. Un’onta indelebile, che se confermata nei vari processi diventano un marchio di infamia e vergogna. L’inchiesta parte da Riccione. Paolini porta in un laboratorio fotografico di Roma, un file con foto e video per farli stampare. Essendo una procedura automatica, i dati digitali confluiscono nella sede nazionale della ditta, la Photosì Spa di Riccione. L’operatrice controlla e vede per caso il contenuto di sesso. Avverte il proprietario emiliano. A quel punto il titolare chiama i carabinieri di Rimini, che sequestrano 94 fotografie e 16 video, e mandano tutto per competenza all’Arma della capitale, di via in Selci. I militari romani analizzano il contenuto e in una nota, informano i pm che quei video contengono «scene di sesso tra Paolini e vari adolescenti che venivano indotti al compimento degli atti sessuali, dietro promessa di pagamento di somme di denaro e che erano consapevoli di essere videoripresi». In quei files, Paolini si trova in una camera da letto con un adolescente. Ecco alcune frasi: «abbiamo fatto 30 euro, girati un attimo», «no…no!!», «fidati! Non faccio nulla, ma cosa pensi», «ma, non penso nulla», poi il minore alza la posta «a 45 euro allora!!!». Il luogo delle scene in uno scantinato di piazza Bologna a Roma. I carabinieri lo sigillano, come sequestrano il pc del Paolini. Ma chi è davvero Paolini? Nel suo sito ci sono decine e decine di foto, in cui viene ritratto con l’ex porno star Eva Henger, con Rocco Siffredi, con Sara Tommasi, ma anche con Beppe Grillo, Antonio Di Pietro, Marco Pannella, Gianni Alemanno, Gigi Proietti, Enrico Mentana, con il cardinale Ruini, con Madre Teresa di Calcutta, con Papa Wojtyla e con il regista americano Woody Allen. Il Truman show di Casal de’ Pazzi, quartiere della capitale dove è cresciuto, ha tenuto incontri all’accademia di “Belle Arti” di Roma; ha incontrato mille alunni dell’istituto tecnico commerciale a Benevento come relatore di “comunicazione sociale” ed è oggetto di studio universitario da parte di studenti della scuola di giornalismo della capitale, la Luiss. Ma Paolini un narcisista patologico, un millantatore istrionico, che ha deciso di sfruttare il tubo catodico per diventare vip, con quell’esibizionismo simulato e le sue apparizioni demenziali? O è una persona borderline, un mostro pedofilo? Figlio di un generale dell’esercito in pensione, ora ottantenne e di un’ex cantante lirica di origini torinesi, ha tre sorelle: Silvia, sociologa e maestra federale di tennis; Marinella, fotografa d’arredamento e Rossella, biologa presso La Sapienza. Nel suo sito, dedica innumerevoli pagine, alla sua famiglia e a loro, «le mie tre sorelle mi hanno sbattuto illegalmente per sei giorni all’interno del reparto di psichiatria dell’ospedale di Moncalieri, a Torino». Un rapporto difficile, quello familiare, stando a quanto scrive lo stesso Paolini, costellato da denunce e controdenunce, di amore-odio e di ricerca reciproca. Per la procura di Roma, non ha dubbi: Paolini è un pedofilo e produce materiale pedopornografico. Ma sono le parole del giudice, che firma l’ordinanza di custodia cautelare, a bollarlo più pesantemente: «assoluta incapacità di contenimento, esasperata ed anzi enfatizzata nella relazione con minori (testimonianza anche della esaltazione narcisistica insita nella auto-produzione del materiale) e con totale assenza di continenza e di rispetto dell’altrui persona, oltre al dispregio delle regole civili». In quelle 14 pagine, con cui si chiede il suo arresto, il gip Tudino descrive «un quadro di assoluta svalutazione dell’altrui libertà, con acclarata incapacità di governo dei propri impulsi antisociali» e imputa al Paolini «una condotta gravissima» compiuta «con freddezza, professionalità e abilità». Durante l’interrogatorio di garanzia davanti al gip, Paolini, sostiene che alla base dei rapporti con uno dei 17enni non ci fosse «mercimonio, ma solo affetto. Siamo fidanzati da otto mesi. Ci amiamo, mi ha presentato anche sua madre e lui ha conosciuto i miei. Siamo andati anche insieme alla piscina del circolo ufficiali dell'esercito. Il nostro è amore». Ammette di sapere che il ragazzo era minorenne e che il rapporto «era consenziente», e precisa davanti al giudice che «non ho mai preso parte a orge con minori, i video erano solo per uso personale. Per spirito narcisistico ho sempre amato documentare la mia vita per poi vedere e condividere le immagini con i miei amici». Mentre con gli altri due adolescenti, che per la procura sarebbero stati adescati in cambio di soldi, dichiara di aver avuto «solo rapporti affettuosi di amicizia, poi finiti dopo che mi sono innamorato di lui». I ragazzini coinvolti, durante gli interrogatori degli inquirenti, in forma protetta e sempre con l’ausilio di uno psicologo, hanno spiegato che Paolini «è un amico. Un uomo della tv e personaggio famoso. Andavamo in giro con la sua auto a giocare a bowling. Ci ha anche portato a bere il tè a casa con i suoi genitori e suo padre ci ha insegnato a giocare a briscola». Panorama ha incontrato i minori coinvolti nell’indagine. Per tutelare la loro privacy non sveliamo né identità, né l’età. Tommaso (il nome è di fantasia), indossa jeans e felpa, è un bel ragazzino e tiene alla sua estetica, ciglia rifatte, capelli di tendenza. All’inizio fa lo spavaldo, lo sbruffone. Dice: «va bene…tutto bene». Poi si scioglie come un cioccolatino e dice «devo solo consolare mio padre che sta un po’ giù in questo periodo e che lui di certo non se lo aspettava e anche mia mamma stessa, ma sapeva che uscivo con gabbri perché glielo ho presentato. Anna, lo so certe cose non si fanno ed ho sbagliato davvero, non vedo l'ora di uscire da questa brutta vicenda». Marco, il più loquace, va al sodo e spara a zero sui giornalisti: «Dicono solo stronzate su di me, sono infami», «ma che incontri in chat? Mica so’ scemo! Io l’ho conosciuto tramite un amico», «a me (Paolini ndr) stava simpatico, mi divertivo a uscire con lui». Marco ci ribadisce di non aver mai avuto rapporti sessuali con lui, anzi grida fiero e in maniera categorica: «Io preferisco morire che andare a letto con un uomo. Odio i gay! Mi piacciono le donneee!». Descrive il disturbatore tv, come una persona divertente, allegra da frequentare, un mattatore. Confida però di avere ricevuto soldi da lui e solo una foto «innocua» a schiena nuda, senza maglietta. Niente di più, ripete e ci tiene a confermare fino all’ultimo momento del nostro incontro, che non sta «dicendo cazzate», «non ho nulla da nascondere», «io ci sto a passà i casini pe’ questa storia», e che non ha mai avuto approcci sessuali di alcun genere. Si divertiva, perché «facevamo stronzate», cioè giocavano a soldi a bocce, a poker, a bowling. In tutto Marco ha intascato massimo 200 euro e li spendeva per andare in discoteca, per offrire da bere ai suoi coetanei. I suoi amici invece hanno «vinto» in totale 1000 euro e forse di più. Marco racconta anche che l’altro suo amico, che ha avuto rapporto consenziente con Paolini, abusava di droghe leggere, «era bruciato per le canne» e se in astinenza «faceva il pazzo». Panorama ha incontrato anche un altro ex amico di Paolini: Loris (nome di fantasia). Loris è adulto e ha frequentato Paolini per decenni. «Lo conosco da tanto tempo. Mi faceva battutine sessuali e ci provava. All’inizio non ci facevo caso. Poi Gabriele diventava sempre più insistente, anche se il suo modo era sempre istrionico, da eccentrico. Mi ha chiesto approcci sessuali in cambio di denaro. Ho sempre respinto le sue avances». Loris continua «era bizzarro, non studiava, ma adorava il teatro. La nostra amicizia si è cementata per la passione in comune per la letteratura, il cinema, il teatro. Ci confidava di aver subito abusi sessuali in spiaggia e altri da alcuni preti. Aveva atteggiamenti omofobi, forse proprio perché stava vivendo un dramma interiore». Loris rivela un Paolini, «viziato»: «Se voleva una cosa, cercava di ottenerla in tutte le maniere. Frequentandolo nei vari anni, ho capito che ha problemi seri di dipendenza sessuale. La sua vera ossessione, non è la tv, ma il sesso». Gli avvocati di Paolini, Lorenzo La Marca e Massimiliano Kornmuller, non si sbilanciano nella strategia difensiva e dicono a Panorama: «Stiamo studiando la documentazione messa a disposizione dal pm Claudia Terracina al fine di depositare nei prossimi giorni ricorso al tribunale del riesame». Nel frattempo Paolini, recluso nella sezione deisex offenders, scrive la bozza di un suo libro, «Le mie prigioni». Saranno quelle della sua coscienza o delle sbarre di cemento?
MAI DIRE ANTIMAFIA.
FALLIMENTI TRUCCATI E TOGHE CORROTTE.
GIUSTIZIA FALLITA, ANZI FALLIMENTARE - A ROMA C’È UN POSTO DOVE TUTTO HA UN PREZZO. SI CHIAMA TRIBUNALE FALLIMENTARE.
Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Su L'Espresso in edicola si legge: "cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta". I fatti si riferiscono a Roma, ma potrebbero riferirsi con altri nomi dei protagonisti ma con ruoli simili ad altri tribunali. Anche a Vicenza? Rumors intorno al palazzo ci sono, su qualche fatto avremmo anche domande dirette da fare, ma ci vorrebbe un po' di coraggio in più ...Soprattutto da parte di quegli avvocati, commercialisti, imprenditori, fornitori che si ritengono vittime del presunto sistema ma che non osano denunciarlo visti i nomi altisonanti di chi lo gestirebbe, sia come registi che come "utilizzatori finali", studi (mega studi?) di consulenza e professionisti (molto noti?) con pochi scrupoli e molti agganci in primis. Ci vuole coraggio da parte delle presunte vittime nel non limitarsi a ipocriti silenzi, che saprebbero altrimenti di gravi corresponsabilità se i fatti da loro lamentati fossero veri o di subdolo insulto all'onestà di chi loro accusano solo nelle segrete stanze delle lagnanze se i loro j'accuse" fossero falsi. Non sarà certo il silenzio a sconfiggere quel sistema, se c'è, e i danni enormi, economici e sociali, che procurerebbe, ma servono fatti, testimonianze e documenti. Sperando che i rumors siano falsi ma sollecitando prove del contrario, se esistessero, per valutarle ed eventualmente pubblicarle, noi, intanto, pubblichiamo l'inchiesta de L'Espresso: potrebbe servire da stimolo a fare chiarezza e, quindi, a qualcosa di più che non solo a informare su una Roma malsana che condanniamo ma che corriamo il rischio di scoprire anche qui, a Vicenza. Magari con colpevole ritardo.
Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. L'intrallazzo romano è sempre una miniera di cronache incredibili, ma il racconto del tribunale fallimentare capitolino fatto da uno dei suoi stessi magistrati supera ogni fantasia: è un circo, dove vanno in scena politici e mannequin, boss e cantanti. L'ex ministro Franco Frattini telefonava al giudice per "raccomandare" un suo amico architetto che doveva far fallire "dolcemente" una società che gestiva miniere di oro e diamanti in Africa. La cantante e presentatrice tv Stefania La Fauci apriva la strada a suoi conoscenti per acquistare aziende e alberghi. L'attrice e modella cinese Dong Mei sarebbe stata utilizzata dal marito, Federico Di Lauro, commercialista attivo nei fallimenti, per dirottare in Asia grosse somme di denaro che provenivano illegalmente dalle procedure giudiziarie. E poi magistrati corrotti che aggiustavano sentenze, curatori infedeli, avvocati che falsificavano carte e testimoni. Alcuni erano già stati arrestati quasi vent'anni fa nell'inchiesta Toghe Sporche su Cesare Previti e poi prosciolti, altri sono figli di magistrati citati in quell'istruttoria. Un bazar dove tutto era possibile, descritto nei lunghi verbali di Chiara Schettini, fino al 2009 giudice della stessa Fallimentare. Una dama ben introdotta nei salotti romani, che ha vissuto tra l'attico capitolino, l'appartamento di Madonna di Campiglio, quello di Parigi e l'altro di Miami, proprietà che sostiene di avere ereditato dalla madre. Poi nello scorso giugno è stata arrestata, con l'accusa di corruzione e peculato, e dopo mesi di cella ha deciso di confessare davanti al procuratore aggiunto Nello Rossi e al sostituto Stefano Fava. Ha chiamato in causa giudici, legali, commercialisti e pure il padre di suo figlio, l'avvocato Piercarlo Rossi. «Mi rendo conto di aver sbagliato e l'esperienza del carcere che ho vissuto, ingiustamente, mi ha fatto crescere molto, mi ha migliorata, ho preso coscienza di gravi mie leggerezze, perché mi sono fidata di Piercarlo Rossi di cui ero innamorata». Anche lui è finito agli arresti. E anche lui ha riconosciuto parzialmente le sue responsabilità, completando questo affresco di malaffare su cui ora indagano le procure di Roma e Perugia. Ora su molti punti Chiara e Piercarlo si accusano reciprocamente, ma l'intreccio delle loro rivelazioni offre una ricostruzione grottesca della sezione fallimentare: gli amici più spregiudicati vengono protetti o fatti arricchire, gli imprenditori senza coperture e i loro dipendenti finiscono invece in rovina. La Schettini non ha dubbi nell'indicare il responsabile di questo sistema: Tommaso Marvasi, da settembre 2012 presidente del tribunale delle imprese di Roma, arbitro di tutte le controversie in materia di proprietà industriale, diritti d'autore, diritto della concorrenza e societario e dei grandi contratti pubblici. Adesso Marvasi deve decidere se obbligare Google a versare al gruppo Fininvest un risarcimento di circa 500 milioni di euro per la violazione dei diritti sui video messi in Rete. Una singolare coincidenza generazionale. Marvasi, insieme al defunto padre Mario, anche lui magistrato romano, è citato negli atti del processo sul Lodo Mondadori come amico di famiglia di Cesare Previti. E oggi il figlio di Previti, Stefano, difende Mediaset in questa causa contro la multinazionale. I verbali della Schettini sono spietati: «L'ambiente alla Fallimentare mi è sempre stato molto ostile perché è durissimo, è atavico. Non ci sono soltanto spartizioni di denaro ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, e nessuno fa niente. Mi sono scontrata in modo violento con Tommaso Marvasi che era il dominus, era di fatto il capo della Fallimentare; l'ha sempre governata, c'è stato dieci anni ma è come se ci fosse stato venti. Un giorno piangendo per quello che mi faceva ho telefonato a Luigi Scotti (ex presidente del tribunale di Roma, ndr.) e mi ha detto: "Marvasi è il capo della cupola"». E prosegue: «Entravo in camera di consiglio e mi diceva "questo si fa fallire e questo non si fa fallire". Venivo messa in minoranza dai colleghi che si erano già accordati su cosa fare. Cercavo di puntare i piedi ma era inutile... C'erano curatori come Federico Di Lauro a cui sono stati liquidati in un procedimento 850 mila euro di compensi, perché era protetto da Marvasi che veniva in udienza a imporre le somme per i suoi amici. Mi opponevo ma ero sempre messa in minoranza». Il pm chiede chi erano gli altri due componenti del collegio: «Pannullo e Deodato o Pannullo e Severini, erano sempre loro. Poi arrivava Marvasi e diceva: "Si deve fare così", e la sua decisione veniva approvata a maggioranza». Ci sono luoghi che ritornano, come i bar di via Ferrari a pochi passi da piazza Mazzini: lì avvenne l'intercettazione del giudice Renato Squillante che nel 1996 fece nascere l'inchiesta Toghe Sporche. E lì continuano a girare le mazzette. «Si sapeva che Deodato per una nomina a commissario giudiziale andava con la valigetta e prendeva 150 mila euro da Staffa (commercialista con studio nella stessa via, ndr.). Il presidente Deodato per ogni nomina si faceva pagare e siccome lui ha dato tre quarti delle nomine allo studio Staffa, lo scambio avveniva nel bar di via Ferrari. Lo sapevano tutti. Lo dicevano chiaramente. La persona che veniva nominata consegnava la valigetta con i soldi al giudice».
Per amor di verità e per correttezza nei confronti di chi oggi è vittima ci preme approfondire alcuni aspetti della vicenda, senza, però, censurare tutto o parte dell’inchiesta di Lirio Abbate, già di per sé di dominio pubblico. A tal proposito con email del 22 gennaio 2014 i legali di Deodato hanno tenuto a precisare quanto segue: «All’att.ne del Dott. Antonio Giangrande. Il Dott. Giovanni Deodato mi ha incaricato di tutelare la sua onorabilità con riferimento alle dichiarazioni rese dalla Dott.ssa Schettini alla Procura della Repubblica di Roma e riportate dal numero 3 del settimanale L'Espresso, uscito il 17.01.2014, alle pagine 42-43, nell'articolo intitolato “Voi fallite, noi rubiamo" (sottotitolo "Cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta”) di Lirio Abbate. Al riguardo, rappresento che il Dott. Deodato, per l'intera durata della sua Presidenza della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma (gennaio 2005 - dicembre 2009), non ha mai conferito alcun incarico né di Commissario Giudiziale, né di altro tipo al Prof. Antonio Staffa o a professionisti del suo studio. A conferma di quanto esposto, e quindi del carattere calunnioso delle dichiarazioni della Dott.ssa Schettini, il mio assistito ha già provveduto a richiedere apposita certificazione alla Cancelleria della Sezione Fallimentare. La invito perciò a soprassedere dall'inserire nella Sua rivista "l'Italia dell'impunità", i fatti asseriti dalla Dott.ssa Schettini riguardanti la persona del Dott. Deodato, in attesa del rilascio della menzionata certificazione della Cancelleria della Sezione Fallimentare, che sarà mia cura inviarLe sollecitamente. Gradirei Suo riscontro in proposito. Distinti saluti. avv. Maria Cristina Pieretti.».
Antonio Staffa fu arrestato nel 1996 dal pool milanese assieme ad alcuni professionisti vicini a Cesare Previti con l'accusa di avere falsificato una perizia: l'inchiesta fu poi trasferita dalla Cassazione a Perugia e il commercialista prosciolto. Come spesso accade a Roma, ogni storia porta alla luce ragnatele di interessi e relazioni. «Un giorno mi telefona Franco Frattini dicendomi che un suo amico, Maurizio Bonifati, aveva bisogno di consigli perché aveva la società Mining che stava per fallire. Lo feci venire a casa mia e gli dissi di fare un concordato. Dopo alcuni giorni ero in montagna a sciare e mi chiama il collega Fausto Severini: mi comunica che ero stata sorteggiata come giudice delegato del fallimento della Mining e mi era stato assegnato come curatore l'avvocato Andrea Trecapelli che fa affari con Piercarlo. Sono rimasta impietrita, non so come hanno fatto a fare questo sorteggio... Hanno organizzato il fallimento della Mining a tavolino con creditori fittizi e prestazioni gonfiate. E secondo me mi hanno fatto dare il fallimento perché ero la più cogliona». Diversa la ricostruzione di Piercarlo Rossi davanti ai pm di Perugia: «Nei primi mesi del 2007, la Schettini mi presentò a casa sua l'architetto Maurizio Bonifati, fratello del noto costruttore romano, Enzo Bonifati, che gli era stato presentato da una sua cara amica Stefania La Fauci. Maurizio Bonifati si trovava in una situazione di forte indebitamento dovuta alla crisi intervenuta nel suo gruppo che fa capo alla Mining Italiana, caduta in "pre-fallimentare". L'accordo che raggiunse Bonifati con la Schettini fu quello di impegnarsi a corrispondere una somma di 800 mila euro, attraverso l'insinuazione al passivo di poste creditorie inesistenti, create ad hoc, da iscrivere con un grado privilegiato di primo ordine (ex lavoratori dipendenti), in modo da precedere tutti gli altri creditori. Il mio ruolo sarebbe stato quello di aiutare Schettini e Bonifati proprio nel creare queste pratiche. La società, nel mese di maggio del 2007 fu dichiarata fallita con la nomina di Chiara Schettini a giudice delegato». In pratica, la coppia inventa una serie di ex dipendenti in attesa di stipendio in modo da permettere all'imprenditore di portare via 800 mila euro. E questo in un fallimento - come spiega Rossi - che «riguardava una società che aveva goduto per molti anni di finanziamenti pubblici (ministero dello Sviluppo economico) di quasi 50 milioni, per la ricerca e l'estrazione di oro in diverse miniere all'estero (Africa, Canada, Cuba)». Ogni favore ha un prezzo, in un do ut des che sembra unire tutti i potentati capitolini. Pure Stefania La Fauci, esordio da cantante a Castrocaro, per tre volte a Sanremo senza sfondare, poi conduttrice della "Banda dello Zecchino" su RaiUno e a lungo inviata di "UnoMattina", sarebbe stata premiata per la sua mediazione. Secondo Schettini la cantante è amica di Frattini. Dichiara Rossi: «La Fauci ottenne come sua ricompensa, almeno per quanto mi è noto, l'assunzione quale dipendente di "Risorse per Roma" (società del Comune di Roma, dove Maurizio Bonifati era stato nominato dal sindaco Alemanno amministratore delegato, ndr.): questione poi divenuta di pubblico dominio con lo scandalo delle "50 nuove assunzioni" eseguite dai vertici nominati da Alemanno, tra cui Bonifati». E la Schettini? Nel 2009 è stata accusata di falso e sospesa dal Csm. Ma non avrebbe rinunciato al suo tornaconto, di grande pregio. «Non essendo più giudice delegato in quanto sospesa, chiese a Bonifati un favore. Bonifati doveva dare un benestare, nella sua qualità di amministratore delegato di "Risorse per Roma", a cedere a un prezzo agevolato un appartamento di proprietà del Comune». Una casa da sogno in piazza Margana, uno degli angoli più suggestivi di Roma a pochi passi dal Campidoglio: 160 metri quadrati all'ultimo piano, con una terrazza a 360 gradi che domina tutto il centro storico «di un valore molto superiore a quello pagato». Riesce infatti a comprarla per 600 mila euro: un affare unico, che gli ha garantito una vista eccezionale per le sue cene mondane. Pure sulla Mining sono state avviate indagini: Maurizio Bonifati è finito sotto processo per truffa aggravata e bancarotta fraudolenta. Ma dallo scorso aprile l'architetto amico di Frattini e Alemanno si è trasferito in Calabria: l'hanno nominato assessore comunale ai Lavori pubblici a Cirò Marina, il cui sindaco è stato eletto con il sostegno del centrosinistra. La vera miniera d'oro però sembrano essere gli uffici del tribunale. La Schettini ricostruisce i flussi di denaro esportati dal suo ex compagno: «Ha un'enorme ricchezza all'estero non soltanto in Svizzera, perché usava Lussemburgo, Cipro, Montecarlo e pure la Cina dove Piercarlo Rossi mi disse che anche Tommaso Marvasi aveva mandato un sacco di soldi». Il canale asiatico sarebbe stato aperto da Di Lauro grazie alla moglie, l'ex modella cinese Dong Mei, condannata lo scorso anno per riciclaggio. Nei verbali non poteva mancare l'ombra della criminalità organizzata. L'ex giudice dichiara che Piercarlo Rossi e i suoi complici «avevano un'associazione con Federico Di Lauro che lavorava anche con la Banda della Magliana», mentre Rossi era «molto agganciato a bande di romeni di Ostia». «Volevo denunciare Di Lauro ma Tommaso Marvasi mi ha bloccata dicendo: "Vuoi che tuo figlio venga gambizzato?", e poi ha aggiunto: "Il padre ha lavorato per Nicoletti. Ma stai scherzando?"». La donna è terrorizzata: «Mi hanno messa alle strette con questa storia della Banda della Magliana, piangevo ogni giorno, avevo paura per mio figlio. Quando sapranno di questo interrogatorio mi metteranno una bomba». Paure che rievocano un terrore antico: nel 1979 le Brigate Rosse uccisero davanti ai suoi occhi il padre, consigliere provinciale Dc molto discusso per l'attività di avvocato fallimentare ed esecutore di sfratti. La commistione tra piani alti e bassifondi, tra professionisti e banditi è surreale. La Schettini accusa Rossi di avere partecipato persino a una rapina, messa a segno dal muratore Augusto Alfieri, un pregiudicato di Ostia che sarebbe stato inserito come falso consulente in molte liquidazioni, incassando migliaia di euro. «Piercarlo con Augusto era amico e si vantava ogni tanto di fare qualche rapina insieme. Mi disse:"Sì, una volta ho fatto il palo mentre lui rapinava"». Millanterie da Romanzo Criminale? Rossi non sembrava temere le procure. Secondo l'ex compagna, agli inizi dello scandalo fallimenti «quando gli ho detto di andare a confessare tutto al pm, lui mi ha risposto ridendo: "Ma figurati, mentre i magistrati stanno fino a tarda notte a cercare indizi su di me, io me la spasso a champagne e caviale a Montecarlo"». Ora però il vento potrebbe cambiare. Da Roma a Perugia l'indagine sulle toghe sporche può portare molto in alto.
Quale mafia?
Filippo Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare..." E' vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». (...) Su Libero di giovedì 23 gennaio, Filippo Facci ci spiega che anche Ilda Boccassini smaschera vent'anni di balle dell'antimafia. Ilda la rossa, parlando del processo sulla strage di via D'Amelio, ribadisce che già nel 1994 aveva scritto che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm, a partire da Di Matteo, fecero finta di nulla. E condannarono degli innocenti.
La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.
Va bene così, continua Filippo Facci. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso.
Filippo Facci: i magistrati lavorano poco. In ferie, imboscati o fuori stanza: trovare i magistrati è un’impresa. E poi protestano per la mancanza di risorse. La Guardasigilli non ha voglia di litigare coi magistrati - non è proprio il momento - e questa è la spiegazione più seria che meriti la sua uscita di ieri, quella secondo la quale ci sono 9 milioni di fascicoli pendenti e però «l’Unione europea colloca la magistratura italiana ai primi posti in termini di produttività». Un’asserzione che non sta in piedi comunque la si metta, e che lascia intatta la nostra curiosità professionale di apprendere quali dati abbia consultato il Ministro: anche girovagando per i rapporti del Consiglio d’Europa (segnatamente del Cepej, Commission européenne pour l’efficacité de la justice) non abbiamo trovato alcun dato che giustifichi uscite del genere, anzi, risulta che l’Italia sia agli ultimi posti in tutto. Ma probabilmente ci sbagliamo noi. Ecco perché lo confessiamo: siamo fermi al luogo comune, e questo pur frequentando i palazzi di giustizia spesso e malvolentieri. Il luogo comune resta questo: i magistrati lavorano mediamente poco, non di rado il dottore «oggi non c’è» mentre caio «oggi lavora a casa», con sempronio che «oggi non è venuto». Siamo fermi ai pochi che si sobbarcano il lavoro di molti, e ai molti che spesso sono imboscati o fuori stanza: che è ciò che capita ai funzionari e ai dipendenti statali come lo sono i magistrati, con la sola differenza che i togati non timbrano il cartellino. Ecco perché, a parlar con loro, sembra quasi di parlare col corpo docente della scuola italiana: le lamentele sono identiche e tra queste c’è «la mancanza di risorse», un classico. Se di pomeriggio i tribunali sono deserti (come nel periodo estivo: una cosa che non esiste in nessun altro paese serio) la colpa invece è della «cattiva organizzazione». Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, però disse un’altra cosa: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza». Ma guai a dirlo. Vanno in prescrizione 450 processi al giorno, ma siamo «ai primi posti in termini di produttività», l’ha detto il Ministro. Lentezza equivale a ingiustizia, ma i 51 giorni di ferie l’anno dei magistrati - record italiano - con questo non c’entrano niente. E chissà come mai, quando l’ex ministro Renato Brunetta propose i tornelli a palazzo di Giustizia, un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera (ottobre 2008) vide favorevole l’80 per cento dei votanti: forse tutti malinformati, vittime di percussive campagne berlusconiane. Anche Giuliano Pisapia, sindaco di Milano ma soprattutto avvocato, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Pisapia suggerì addirittura che si facesse come quel procuratore capo che, ogni mattina, bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno: una sorta di appello. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono anche gli stakanovisti, quelli per fortuna ci sono sempre. A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni, feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione fu velocizzato. Il primo grado aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta nei weekend. Ma lasciamo perdere questo, non facciamoci fuorviare. Restiamo ai sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale. E perché? Perché mancano le risorse, certo, cattiva organizzazione, come no, e poi manca la carta per le fotocopie, del resto Tizio è in malattia, la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio, anche perché - l’ha detto il ministro - la nostra magistratura è la più efficiente d’Europa. Forse è per questo che la paghiamo così bene: gli stipendi dei nostri togati sono tra i più alti d’Europa: se si mettono a confronto prima e dopo l’ingresso nella moneta unica, ci si accorge che sono cresciuti circa del 30 per cento in 5 anni, e circa del 60 per cento in 10 anni. È giusto, tanta efficienza va premiata. I ritardi nelle condanne comportano una rifusione danni di 387 milioni di euro a cura del contribuente (rileggere la cifra, grazie) ma abbiamo i magistrati più efficienti d’Europa, l’ha detto il ministro e quindi sarà vero.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Carmine Schiavone, Casal di Principe (Caserta) 20 luglio 1943. Pentito a suo tempo camorrista, cugino di Francesco alias Sandokan, era amministratore e consigliere del clan dei casalesi (vedi SCHIAVONE Francesco). Figlio di un commerciante di agrumi e di una casalinga, anche lei Schiavone di cognome, ma del ramo delinquenziale della famiglia (sorella del padre di Sandokan). Sposato, con figli. Titolo di studio, diploma in ragioneria. Ammesso al programma di protezione, è agli arresti domiciliari in espiazione di 20 anni di pena. La sua vita l’ha raccontata nel 2000 a Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri, che l’hanno intervistato per il libro Dalla Mafia allo Stato (Gruppo Abele). Prima condanna nel 64 («legata a cose di ragazzi un po’ esuberanti che non pensavano a cosa potesse essere il domani»), da convinto fascista che era, nel 68 passa alla Democrazia Cristiana («passai al gruppo Patriarca che fu il primo politico che feci votare»). Arrestato nel 72 per tentata estorsione, in carcere allarga la cerchia di amici, affezionandosi in particolare a Mario Iovine (vedi SCHIAVONE Francesco alias Sandokan). Assolto e scarcerato dopo pochi mesi, apre centri Aima di raccolta prodotti ortofrutticoli per la trasformazione conserviera e si mette in affari con Iovine («a noi interessava il business, che all’epoca erano le bische clandestine le bollette false, e le truffe insomma»). Arrestato nel 77 per rapina («ingiustamente»), resta in carcere sei anni. Mentre i camorristi si schieravano chi dalla parte di Cutolo chi dalla parte della Nuova Famiglia, «noi facemmo Cosa Nostra casalese, e fummo battezzati io e mio cugino Sandokan. Ciò avvenne nel 1981. Io ero già mafioso dal 1974, ma non ero mai stato affiliato formalmente». Insieme agli altri gruppi casertani si schierano contro i cutoliani («Fino al 1983 ci fu proprio una guerra totale»). «Comunque, già vedevo come sarebbero andate le cose alla lunga: c’era gente che teneva la madre che faceva la vita a Milano, oppure gente che faceva lo sfruttamento della prostituzione o che spacciava droga. Dove si poteva arrivare con queste persone? Si sentivano forti perché erano diventati una massa, ma non c’era un credo ideologico, non c’era il proposito fermo dell’uomo d’onore, era una cosa sbandata». A conflitto ancora in corso, Carmine crea con Iovine il «sistema dei consorzi»: «Io contrattavo con le grosse imprese, con gli appalti, i subappalti. Tutte le attività che passavano attraverso la provincia di Caserta fino a Latina erano controllate dal clan, poi c’erano gli appoggi, a Firenze, a Bologna, a Reggio Emilia, a Roma». Si occupa anche della fornitura di droga, cocaina venduta ai grossisti di Napoli, Roma, Fondi, Milano, con assoluto divieto di spacciarla nel casertano. «La politica che facevamo era: il popolo a noi ci deve amare per amore e non per terrore. Noi non dovevamo fare gli errori che Cutolo e altri avevano fatto. Si doveva capire che noi non portavamo droga a Casale, che noi non facevamo furti, non facevamo rapine. Fino al 1989-90 se qualcuno si è permesso di fare rapine è stato ammazzato, oppure è sparito». Arrestato nell’83, in primo grado viene condannato a 18 anni per associazione mafiosa, ridotti in appello a 5. «All’epoca avevo sette figli: cinque maschi e due femmine. E a un certo punto incominciai a dirmi: “Ho i figli sposati, sono nonno, invecchio, può continuare la vita in questa maniera?». Nel 90 apre un’impresa di calcestruzzo, ma incomincia a litigare coi cugini, per primo con Francesco Bidognetti: «Io gli imputavo che loro avevano inondato l’Agro aversano di fusti tossici e nucleari». L’idea in origine era sua, ma Bidognetti lo aveva scoraggiato per poi farlo di nascosto da lui («incassavano 600 milioni al mese e alla cassa ne davano 100 al mese»). Il 6 luglio 1991 viene arrestato (nell’impresa di calcestruzzo sono state trovate delle armi che in realtà, dice Carmine, lui aveva dato a suo cugino «Walterino»). Il 26 luglio ottiene gli arresti domiciliari (si è dato per cardiopatico), ma il 21 novembre, diventata definitiva la condanna a 5 anni per associazione mafiosa, si dà alla latitanza. Sentendosi lo scaricabarile del clan (per la faccenda delle armi), se la prende con Sandokan, rinfacciandogli pure di fare la cresta sulla cassa del clan: «Abbiamo fatto una guerra con i cutoliani, una con i Nuvoletta, una con i Bardellino, una coi De Falco, l’ultima la dobbiamo fare io e te?». Oltre ai risentimenti personali c’è che dal 90 i Casalesi hanno cominciato a spacciare anche a Casale, e hanno smesso di mantenere i familiari dei detenuti, finché, nel 91, viene ammazzato perfino un bambino di dieci anni. «Quella è un’altra goccia che fece traboccare il vaso. Mio cugino stava in carcere e un altro mo cugino prese la reggenza militare, cominciarono a sparare e dove andava andava. Mi accorgo che i fatti non quadrano più, erano diventati delle bestie. Mi fanno arrestare a Maglie». È il luglio 92, in Sicilia sono stati ammazzati il giudice Falcone e Borsellino, e Carmine si prende il carcere duro («pensai: i siciliani fanno i guai per i loro intrallazzi e noi ne paghiamo le conseguenze»). In carcere viene esautorato, con la scusa ufficiale che avendo l’amante non può più fare il capo. «Mia figlia Rosaria era l’unica di cui mi fidavo, a un certo punto le dissi: “Questi mi faranno pentire, questi non si rendono conto che mi faranno pentire, perché stanno perdendo tutto ciò che significa essere uomo, con questa gente non c’è futuro più per nessuno”». «Stetti quattro o cinque giorni sul letto con la testa sul cuscino. Ho analizzato tutta la mia vita, tutta la vita loro come un proiettore che proietta un film, e dissi: “Sono bestie, io mi sono trovato in mezzo a delle bestie e sono diventato più bestia di loro. Quanti altri morti innocenti ci dovranno essere! Quanta altra gente dovrà piangere i figli drogati!». Qualche giorno dopo riceve la visita della figlia Rosaria, e le dice testuali parole: «Tu gli vuoi bene al tuo fidanzato? Se gli vuoi bene sposati, perché io questa volta sparo la bomba atomica. Questa volta muore Sansone con tutti i filistei». A maggio 1993 si pente, facendo sequestrare beni del clan per 2.500 miliardi. Dalle sue dichiarazioni nasce il processo “Spartacus” (vedi SCHAVONE Francesco detto “Sandokan”). Ammesso al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, dopo due anni ha cambiato generalità. Ora vive con la moglie e il figlio più piccolo in una località segreta. «Dal lunedì al venerdì sono impegnato nei vari processi, il sabato e la domenica cerco di lavorare quando ce la faccio. Ora tengo un po’ tutto abbandonato, perché sto da circa 8-9 mesi quasi fisso in video-conferenza o in processi. E penso che ancora per 15 anni sarà così Ancora ci sono 100 processi in Corte d’assise da fare, ditemi voi quando finirò». «È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra» (sua figlia Pina, in una lettera aperta ai giornali, subito dopo la notizia del suo pentimento, secondo Carmine Schiavone costretta a farlo dai cugini). Lo Stato «Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c’era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Riina usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio, insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci. Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il modo per raggirare». (Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini,Catalogo dei viventi 2009, Marsilio, scheda aggiornata al 5 ottobre 2008.
Carmine Schiavone: “Potessi tornare indietro non mi pentirei”. L’ex capo della cupola casalese si sfoga e si racconta il 23 agosto 2013, tra iperboli e confessioni, ai microfoni di Sky Tg24. "Politici, magistrati e forze dell’ordine sono più responsabili di noi che abbiamo sparato, perché sapevano e hanno permesso”, scrive Emanuele Repola su “Interno 18”. Continua a far rumore il servizio lanciato in esclusiva ieri da Sky Tg24. Le parole di Carmine Schiavone hanno tuonato nell'aria, lasciando a bocca aperta chiunque l'abbia visto. Eppure, quelle parole e quelle confessioni non aggiungono altro rispetto alla quotidianità di queste terre. Rifiuti, elezioni, "modello Caserta", corruzione, omicidi. L'ex ras dei Casalesi parla a ruota libera del sistema e degli enormi interessi che la società di oggi ha nei confronti della camorra. Schiavone parla delle scorie tossiche, provenienti non solo dal nord Italia, ma da tutta l'Europa, nascoste fino a 18 metri sotto terra, lungo tutto il lungomare che va da Baia Domizia fino a Pozzuoli: "Venivano a scaricare rifiuti industriali, farmaceutici, chimici, ospedalieri. In più casse di fanghi termonucleari. Tutto sotterrato tra mare e campagne. Stanno morendo oltre 5 milioni di persone". Racconta poi degli omicidi che gli sono stati imputati, 53, secondo la giustizia, oltre 500 per Schiavone, che ricorda tutti gli assassini ordinati dalla cupola nel corso delle faide territoriali. Ed anche qui l'ex boss si sfoga con la giornalista di Sky. "Ci sono oltre 500 e rotti omicidi, a partire dal '75, dopo la guerra con i Nuvoletta. Noi abbiamo sparato è vero, ma politici, magistrati, polizia, carabinieri, sono più responsabili di noi, perchè hanno permesso tutto questo". Carmine Schiavone soffre l'abbandono delle istituzioni. Attacca politici e magistrati per averlo abbandonato, e si pente del suo pentimento. Nonostante questo abbia permesso l'arresto dei capi della cupola del sistema nei processi Spartacus I e Spartacus II. "Potessi tornare indietro non mi pentirei più. Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Non lo farei più perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Quando poi la giornalista gli chiede dei soldi maneggiati, Schiavone fa un passo indietro con la memoria, e confessa il giro di miliardi che mensilmente girava nelle casse dei clan, arrivando a superare le centinaia di miliardi di lire. "Mensilmente avevamo una spesa di quasi 3 miliardi tra corruzione e piccoli lavori come le copie delle auto di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, delle radiotrasmittenti. In più noi mantenevamo le caserme, ogni tanto davamo loro qualche piccolo spacciatore. Non c'era neanche bisogno di controllarli perchè erano stesso loro che alla sera ci portavano le informazioni". Il rapporto con le istituzioni e con il mondo della politica. Le infiltrazioni all'interno dei palazzi del potere per piazzare i propri referenti. L'asse stato-mafia per Schiavone è qualcosa di indistruttibile. Una fitta maglia di intrecci di interessi da ambo le parti che non chiuderanno mai il circolo vizioso creatosi: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". L'aprassia di chi non si ribella e non si è ribellato è la chiave che ha spalancato le porte del paese al sistema criminale dello stato-mafia, e a poco serve oggi indignarsi per il racconto di ciò che ormai è storia nota da anni. "Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa".
Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. «Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle». Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".
Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi, nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere . Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CARMINE SCHIAVONE: ROMA MAFIOSA DA 100 ANNI.
Le dichiarazioni del pentito di camorra al telegiornale di Lazio tv 1. Servizio di Patrizia Polidori in onda il 7 settembre 2013. «Quest’anno, a fine luglio, c’è stata una operazione della squadra mobile di Roma con 51 arresti, “Nuova Alba”. Per la prima volta si parla di associazione mafiosa. Per la prima volta è stato contestato il reato di associazione mafiosa a Roma.».
«Roma è mafiosa da 100 anni. Le prime società, dai libri dei Beati Paoli, che furono formate le organizzazioni con le varie regole, arrivarono a Napoli attraverso il Principe di Mezzaconnone, che poi furono esportati in Sicilia, in Calabria e pure a Roma. Perché Roma, dopo il 1870 che fu fatta capitale d’Italia e dell’Impero, interessava no? E quindi a Roma ci sono stati sempre forme a livello politico, di investimenti, di racchiudere, non far uscire mai qual’era la realtà storica del paese. Non è, sai, io rido quando sento che a Milano non sapevano che c’era la ‘Ndrangheta. Ma se non stavamo da 40 anni a Como. Il fratello di coso che faceva traffico di droga assieme a Tonino Fidanzati, i fratelli di Caroglio, Nino. Sono da me verbalizzati da 20 anni.»
«Cos’è a Roma sono stati particolarmente bravi, visto che il reato è stato contestato soltanto adesso.»
«Son stati bravi!?!, Son stati coperti. Perché Roma era una Piazza in cui si poteva investire, in cui il potere politico godeva di una certa tranquillità. Ma, tenevano Pippo Calò, qui, che dominava lui la banda della Magliana con noi. Era nostro alleato. L’ho fatto prendere l’ergastolo per l’omicidio Imposimato. Pensa che è partito da Roma l’ordine di ammazzare il fratello del giudice Imposimato. Perché Imposimato era arrivato a scoprire delle cose che non doveva scoprire. Dei Segreti. Con lui era coinvolto anche lo IOR, la banca privata, i Sindona, tante di quelle cose.»
«Una battuta per chiudere. Com’è invece adesso la situazione a Roma.»
«Io ci vivo nascosto a Roma. No comment. Non posso dire niente. Ci sarebbe da rivoltare tutte le Istituzioni. A livello militare, principalmente. Ed anche un po’ a livello di magistratura. Troppe omissioni succedono.»
Tutta la mafia a Roma e nel Lazio descritta da una inchiesta di Donato De Sena su “Giornalettismo”. Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra nella Capitale e nelle province circostanti. La cronologia dei fatti di cronaca e delle indagini nelle relazioni del ministro dell'Interno. Non sorprendano le ultime inchieste e i fatti di cronaca sulla criminalità organizzata a Roma e nel Lazio. Mafia siciliana, ‘ndrangheta e camorra hanno esteso da decenni il loro raggio d’azione alle regioni del centro e del nord Italia. Ed anche la Capitale, il suo hinterland e le province circostanti si sono rivelate terreno appetibile per coltivare nuovi affari illeciti. Lo rivelano le relazioni che ogni sei mesi il ministro dell’Interno presenta al Parlamento, relative all’attività svolta e ai risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, attraverso le quali è possible tracciare una precisa cronologia delle infiltrazioni nell’economia regionale di clan e famiglie legati ai più pericolosi gruppi malavitosi.
GENNAIO-GIUGNO 2008 – Nel primo semestre del 2008, ad esempio, si rivela a Roma l’attività dei sodalizi criminali calabresi Alvaro-Palamara, Bonavota e Fiarè, operanti in particolare nel settore della ristorazione e degli appalti. La camorra – rivelano i documenti del Viminale – risulta attiva nel campo del riciclaggio e dell’usura. Nella provincia di Frosinone, a Cassino, vengono colti segnali di operatività di un gruppo di origine campana nell’importazione di autoveicoli da paesi Ue ricorrendo alle cosiddette ‘truffe carosello’, grazie a ‘società cartiere’ realizzate appositamente per evadere l’Iva comunitaria. A Latina (soprattutto a Formia e Minturno) emerge la presenza della famiglia casertana dei Bardellino, come pure di figure criminali altamente specializzate legate agli Schiavone e agli Iovine di Casal di Principe, patria del clan dei Casalesi.
LUGLIO-DICEMBRE 2008 – Nel secondo semestre del 2008 viene poi confermata la presenza nel territorio di Roma e provincia di soggetti legati a Cosa nostra, che negli anni hanno trovato sinergia con gruppi criminali locali. In particolare, si segnalano nel litorale sud personaggi interessati ad operazioni di reimpiego di capitali e al traffico di stupefacenti gestito insieme a pregiudicati della zona. Si rivela la presenza di referenti dei Rinzivillo e degli Emanuello, famiglie di Gela, operanti nel campo dell’acquisizione di appalti subappalti o rami d’azienda, come pure della fornitura della manodopera a basso costo. Si segnala poi la presenza di famiglie trapanesi interessate all’acquisto di attività commerciali e relazioni tra circuiti camorristici e mafiosi nel campo dell’ortofrutta. Per quanto riguarda la ‘ndrangheta emerge una crescente pervasività nel settore edilizio, con il tentativo di inserirsi nelle procedure di gara per l’acquisizione di appalti e sub appalti di piccola entità, ma anche nel settore commerciale, nella ristorazione , mediante l’acquisizione di quote societarie di bar, ristoranti e rivendite di tabacchi. Si rivela in particolare la presenza di rappresentanti delle cosche Alvaro, Palamara, Bonavota e Fiarè, e di altri personaggi di origine calabrese ufficialmente senza reddito o fittiziamente occupati impegnati in alcuni settori imprenditoriali, a volte attraverso prestanome. La presenza criminale calabrese viene confermata all’omicidio avvenuto il primo ottobre a San Cesareo, Roma, di Domenico Marsetti, 32enne di Sinopoli, Reggio Calabria, principale indiziato dell’omicidio di Domenico Cutrì, genero del boss Carmine Alvaro (avvenuto a Sinopoli nel settembre 2008). L’episodio denota l’estrema efficienza della ‘ndrina di scovare un fuggitivo riparatosi in una regione ben lontana dal paese di origine. Il 28 marzo , a Cisterna di Latina, viene raggiunto da numerosi colpi di pistola Alessandro Cascone, di Gragnano, Napoli, affiliato al clan D’Alessandro di Castellammare di Stabia. I tre componenti de gruppo di fuoco, arrestati, risultano collegati ad un esponente di spicco della cosca Mancuso, del vibonese. La camorra – rileva la Dia – continua ad agire in maniera silente, senza ricorrere ad eclatanti atti criminali. Nel basso Lazio risultano operanti diversi sodalizi riconducibili al cartello dei Casalesi. Nel luglio 2008 alcuni affiliati alla famiglia Giuliano di Forcella, Napoli, vengono arrestati nel quartiere esquilino della Capitale. Sul litorale nord (in special modo nei comuni di Ladispoli, Cerveteri, Santa Marinella e Civitavecchia) si riscontra poi la presenza di alcune ramificazioni dei gruppi camorristici Gallo, Misso, Mazzarella e Veneruso, attivi nel traffico di stupefacenti. L’alleanza Misso-mazzarella manifesta segnali di infiltrazione nelle dinamiche commerciali del porto di Civitavecchia. Nella provincia di Frosinone si segnala l’attività di gruppi criminali casertani. A Latina risultano ancora operativi, nelle zone di Formia, Minturno e Fondi, e in tutta l’area pontina, esponenti della famiglia Bardellino e altri pregiudicati legati alle famiglie Schiavone e Iovine.
GENNAIO-GIUGNO 2009 – Il traffico di stupefacenti si conferma vero motore delle dinamiche macrocriminali del Lazio e dell’area romana in particolare nel primo semestre del 2009. Sul litorale sud, ad esempio, risultano attivi i Triassi, ad Ostia, propaggine della mafia agrigentina, i Cuntrera-Caruana, inseritisi in numerose attività commerciali, ed i Fasciani, dediti al traffico di droga. I gruppi criminali legati a Cosa nostra si dimostrano ancora una volta in sinergia con gruppi locali. A nord della Capitale, in particolare a Civitavecchia emergono ancora presenze delle famiglie gelesi Rinzivillo ed Emmanuello, interessate soprattutto all’acquisizione di subappalti e alla fornitura di manodopera per il lavori della Centrale di Torvaianica Nord. Nella provincia di Latina, dove gli affari criminali sono prevalentemente controllati dai Casalesi, si riscontrano pure presenze di famiglie trapanesi e gelesi. Non mancano agguati e arresti eccellenti. Il 4 giugno 2009 in ocalità Acilia, Roma, viene ucciso con due colpi di arma da fuoco al volto Emidio Salomone, pluripregiudicato già legato alla Banda della Magliana, considerato correlato a molteplici realtà malavitose, sia camorristiche che mafiose, quali i Carnovale-Colafigli-Senese ed i Caruana-Cuntrera-Triassi. L’11 gennaio, nel popoloso quartiere romano di Montesacro, viene arrestato Candeloro Parrello, esponente di spicco della ‘ndrangheta, inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi. L’11 febbraio a Civita Castellana, Viterbo, finisce invece in manette un appartenente al gruppo calabrese Bonavota. In altre parole il Lazio si conferma luogo d’interesse per la latitanza di boss e affiliati. I gruppi ‘ndranghetisti intanto manifestano interesse, oltre che per i tradizionali comparti dell’edilizia e degli appalti, anche per il trasporto, lo stoccaggio e la commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. Il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, nodo di primarie interesse del settore, si rivela centro d’affari dei gruppi criminali campani e della cosca reggina dei Tripodo. Le operazioni Sud Pontino e Astura della Dia di Roma evidenziano l’interesse del gruppo criminale a monopolizzare il settore mediante condotte estorsive e intimidatorie. L’indagine Damasco dei Carabinieri di latina rivela l’interesse della ‘ndrangheta verso la gestione dei locali notturni ubicati a Terracina e San Felice Circero, l’acquisizione di appalti nel settore delle pulizia industriali e delle onoranze funebri, talvolta con il supporto di personaggi della politica locale e di funzionari e dipendenti del comune di Fondi. Nelle province di Roma, Latina e Frosinone il traffico di droga dei gruppi calabresi si sviluppa in stretta contiguità con la criminalità locale. Per quanto riguarda la camorra, una forte presenza della criminalità campana a Roma viene svelata dalle operazioni antidroga denominate Orchidea, Nuovo Impero e Puma 2007. Il 6 aprile viene arrestato a Trastevere il boss latitante Giuseppe Sarno, ritenuto vertice del clan di Ponticelli. Sul litorale romano, dove era stato assassinato Salomone, si registrano presenze invece degli Iovine, operanti nell’affare della gestione delle sale da gioco e nella ristorazione. Nel mese di marzo, nell’ambito di un operazione denominata Leone, viene poi arrestato insieme ad altre tre persone un appartenente alla famiglia Giuliano di Forcella. Con l’operazione Ca-Morra condotta dai Carabinieri di Roma e Frosinone finiscono in manette 40 persone che operavano tra Roma, Frosinone e Latina per conto delle famiglie Schiavone di Casal di Principe e Belforte di Marcianise. Il sodalizio era dedito alle estorsioni, al riciclaggio e alla commissione di truffe intercomunitarie nel commercio illegale di vetture, e guidato da Gennaro De Angelis, parente del boss Sandokan. A Formia, oltre ai Bardellino, si rivela infine la presenza delle famiglie camorristiche Schiavone, Mallardo e Del Vecchio.
LUGLIO-DICEMBRE 2009 – Per quanto riguarda la mafia siciliana oltre agli agrigentini Triassi, propaggine dei Cuntrera-Caruana, viene segnalata nel secondo semestre del 2009 lungo il litorale sud romano, in particolare ad Ostia, la presenza del gruppo dei Fasciani, dediti al traffico di stupefacenti, più volte attinti da investigazioni dei Carabinieri. A nord, a Civitavecchia, si conferma l’attività dei gelesi Rinzivillo ed Emanuello. Nella capitale si rileva l’operatività degli Stassi, contigui alla famiglia trapanese degli Accardo, operanti nel settore della ristorazione. A Viterbo e provincia, si segnala infine la presenza di alcuni affiliati alla famiglia Santapaola di Catania. Sul fronte della criminalità organizzata calabrese le indagini sul mercato ortofrutticolo di Fondi evidenziano i meccanismi che hanno portato uno degli esponenti delle cosche reggine, grazie alla complicità di imprenditori fondani ad acquisire parte gestionale nella commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. I Carabinieri di Latina, inoltre, mettono in luce gli interessi di consorterie reggine nell’acquisizione di appalti e servizi pubblici nell’area. Viene scoperta un’organizzazione, operante nel basso Lazio, che reinveste il provento dei delitti di usura e di traffico di stupefacenti nell’acquisizione di attività economiche, commesse pubbliche e appalti. A luglio, i Ros e Gico di Reggio Calabria, nell’ambito di indagini coordinate dalle Dda di Reggio e Roma, sottopongono a sequestro 13 attività di ristorazione ubicate a Roma e patrimoni societari riconducibili ad esponenti della cosca Alavaro-Palamara. Tra i locali sequestrati anche lo storico e centralissimo Cafè de Paris. A Viterbo e provincia, intanto, si segnala la presenza di affiliati alla cosca Mammoliti. Nel reatino si rileva l’attività di personaggi contigui alla ‘ndrina dei Morabito. Per quanto concerne la camorra compare con forza nella Capitale il sodalizio Senere, storicamente alleato ai Moccia di Afragola, Napoli, principale referente di diversi gruppi camorristici campani nonché epicentro di imputazioni relazionali sviluppate con esponenti di vertice della criminalità romana. L’organizzazione criminale campana estende il suo raggio d’azione alla ricettazione di preziosi, nell’ebusivo esercizio di attività finanziaria, nelle rapine, nel gioco d’azzardo e e nel mercato di autovetture. Sul litorale romano, in particolare ad Acilia, si conferma la presenza degli Iovine. In provincia di Frosinone si segnalano, infine, presenze degli Esposito di Sessa Aurunca, Caserta, dei Belforte di Marcianise, Caserta, e dei Di Lauro del quartiere napoletano di Secondigliano. A settembre vengono sequestrati a Cassini beni dal valore di 150 milioni di euro appartenenti ad una famiglia del luogo, risultata contigua alla criminalità campana e a storici personaggi della Banda della Magliana.
GENNAIO-GIUGNO 2010 – Relativamente al primo semestre del 2010, la Dia conferma la presenza dell’influenza nella Capitale e in provincia delle famiglie siciliane Rinzivillo, Emanuello, Triassi e Cuntrera-Caruana. ed evidenzia come le organizzazioni macrocriminali presenti in Lazio, soprattutto nella provincia di Latina, siano protese a stringere alleanze per aggredire in modo sempre più stringente il tessuto economico ed imprenditoriale. Il 10 maggio si conclude l’operazione Sud Pontino, ad opera di Dia e Polizia di Stato, e che conferma le sinergie criminali, da tempo instaurate con pacifica e strutturata convivenza, tra Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, tese a monipolizzare l’attività del settore ortofrutticolo. L’operazione conduce al sequestro di beni dal valore di circa 90 milioni, consistenti in decine di aziende del settore, appartamenti, terreni, conti bancari e numerosi automezzi adibiti al trasporto. A Roma si conferma la presenza delle cosche calabresi Alvaro, Palamara, Mancuso, Bonavota e Fiarè, attive soprattutto in ambito commerciale. Le ‘ndrine dei Gallace e dei Novella invece risultano operanti nel campo degli appalti pubblici. Per quanto riguarda la camorra, invece, l’indagine Sud Pontino dimostra l’esistenza di un’alleanza, risalente da tempo, tra le famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ecrolano, i clan camorristici Schiavone e Mallardo di Giugliano in Campania, ed alcune famiglie della ‘ndrangheta calabrese. La minaccia locale espressa dal sistema camorristico, attraverso le sue manifestazioni più aggressive, tende insomma ad assumere un carattere globale. Oltre ad esportare fuori regione il suo modello di controllo del tessuto sociale, specialmente attraverso le estorsioni, la camorra attiva forme di imprenditoria che inquinano in maniera sensibile l’economia legale.
LUGLIO-DICEMBRE 2010 – Nel secondo semestre del 2010 la mafia siciliana è ancora attiva soprattutto nelle province di Roma e Frosinone. La relazione del Viminale sull’operato della Dia cita anche la presenza nella regione della famiglia Bonanno. Il 16 agosto i carabinieri arrestano nella Capitale un affiliato al clan catanese dei Santapaola. L’operazione Golden Checks 2 del 9 novembre, condotta dalla Questura di Roma nelle province di Roma, Latina e Viterbo, consente di individuare un gruppo di calabresi che avevano trasferito la propria residenza nella Capitale per aprire conti correnti ed emettere assegni falsi. L’operazione comporta l’emissione di 19 misure cautelari in carcere nei confronti di altrettanti indagati, tra cui personaggi legati ai Vrenne-Bonaventura-Corigliano, ritenuti responsabili di truffa e riciclaggio. Altre indagini confermano l’esistenza di attività di esponenti della ‘ndrangheta nel settore della droga e dell’usura, come affiliati ai clan dei Gallace e degli Andreacchio. L’operazione Paredra della Dda di Roma rivela attività dei sopracitati gruppi criminali con i Romagnoli di Roma. A novembre a Fondi i Carabinieri di Latina, su disposizione del tribunale, eseguono un decreto di sequestri di beni nei confronti di un imprenditore, originario della zona, legato a personaggi contigui alla ‘ndrina Bellocchio-Pesce di Rosarno, Reggio Calabria, dediti all’usura. Si complica il quadro della camorra. Nel quartiere Aurelio il 4 luglio viene ucciso Carmine Gallo, ex collaboratore di giustizia, che aveva reso nel 2004 dichiarazioni su fatti riguardanti il clan Gallo-Limelli-Vangone di Torre Annunziata, Napoli. Il 19 luglio la Polizia di Stato di Latina e Formia, nell’ambito dell’operazione Coast to Coast, esegue un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 23 persone collegate al clan Longobardi-Beneduce di Pozzuoli, Napoli, dedite al traffico di droga, estorsioni e usura. Il 6 ottobre la Squadra Mobile di Caserta esegue un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto ritenuto esponente dei Casalesi, da anni residente a Latina, responsabile di estorsione aggravata nei confronti di due imprenditori edili. Il 15 ottobre la Questura di Latina esegue un sequestro di beni di una persona ritenuta contigua alla famiglia camorristi a dei Cava di Quindici, Avellino. Il 23 agosto, a Gaeta, tre persone vengono arrestate in flagranza di reato mentre tentano di spendere banconote falsificate. Tra loro un presunto appartenente alla criminalità organizzata operante nel Rione Berlingieri di Secondigliano, Napoli. Il 28 agosto – a dimostrazione dell’inquietante capacità di penetrazione della camorra nel basso Lazio – vengono infine rinvenute venti cornacchie grigie morte, poste l’una dall’altra ad una distanza regolare di 30-40 metri, nei pressi di una villetta ove era ospite Roberto Saviano.
GENNAIO-GIUGNO 2011 – Nel primo semestre del 2011 il lavoro della Dia rivela ancora un ruolo minore della grande criminalità organizzata siciliana nel Lazio relativamente all’infiltrazione nel tessuto economico produttivo. La ‘ndrangheta si conferma invece particolarmente attiva. L’ambito privilegiato dalle organizzazioni calabresi resta il mercato degli stupefacenti. Il 19 gennaio, nel quartiere romano di Tor Tre Teste, viene ucciso con numerosi colpi di pistola, esplosi da distanza ravvicinata, all’esterno di una sala giochi, un pregiudicato calabrese domiciliato a Velletri, Roma. Il 9 marzo la Guardia di Finanza della Capitale, nel corso dell’operazione Hummer, sequestra, in Lazio, in Calabria, in Basilicata e in Toscana beni per 40 milioni di euro riconducibili alla cosca Muto di Cetraro, Cosenza. La camorra rafforza la sua presenza nella regione come prosecuzione delle attività svolte in Campania. Il 20 gennaio in un appartamento ai Parioli, viene arrestato Luigi Moccia, appartenente alla famiglia camorristica di Afragola. Dopo circa un mese, il 19 febbraio, nel quartiere Montesacro, viene catturato Emilio Tancredi, già collegato agli storici clan napoletani Alfieri e Zaza. Nell’ambito dell’operazione Orfeo dei Carabinieri del Ros il 3 maggio vengono poi raggiunti da ordinanza di custodia cautelare in carcere trentotto persone ritenute vicine al clan camorristisco Senese, attivo nella Capitale, e alla famiglia Moccia. L’operazione smaschera un’organizzazione dedita al traffico internazionale di stupefacenti nei quartieri Appio, Tuscolano e Laurentino. L’11 maggio la Guardia di Finanza di Napoli e Roma sequestra, sia in Campania che in Lazio, appartamenti dal valore di centinaia di milioni di euro riconducibili al clan mallardo di Giugliano in Campania. Infine, l’operazione Verde Bottiglia condotta dalla Dia per il contrasto alle strutture affaristiche dei Casalesi nel basso Lazio all’ablazione di un patrimonio camorristico costituito da società, ditte individuali, immobili, autovetture e rapporti finanziari localizzati a Cassino, Aquino, Castrocielo, Frosinone, Formia e Gaeta.
LUGLIO-DICEMBRE 2011 – Si conferma nel secondo semestre del 2011 la presenza in Lazio di attività del caln Ercolano di Catania, alleato dei Casalesi per il controllo degli affari del settore ortofrutticolo, della famiglia Triassi, presente lungo il litorale sud e a Ostia. Quattro siciliani vengono arrestati il 14 novembre nell’ambito di un operazione della Dia compiuta congiuntamente alla Squadra Mobile di Caserta. Gli arrestati vengono accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, illecita concorrenza con minaccia o violenza e trasferimento fraudolento di valori. Nuovi omicidi e ferimenti, intanto, confermano l’esistenza di contrasti tra gruppi criminali calabresi riferibili al controllo delle piazze di spaccio di droga e alla gestione di alcune sale da gioco nella Capitale. Sul fronte della lotta alla ‘ndrangheta il 3 agosto la Guardia di Finanza di Tivoli arresta, nell’ambito dell’operazione Lady Milly, sei persone componenti un sodalizio criminale dedito al commercio di stupefacenti, in diretto contatto con un’organizzazione di soggetti di origine calabrese. A capo del gruppo criminale è stato scoperto un noto pregiudicato. Il giorno seguente i Carabinieri del Nucleo Investigativo arrestano in flagranza di reato un calabrese, originario di Gioia Tauro, Reggio Calabria, in possesso di circa 50 kg di cocaina. Il 5 luglio 2011, a Roma, Ardea, Formello e Fiumicino, la Dia di Roma esegue una misura di prevenzione a carattere patrimoniale nei confronti di due componenti di un gruppo delinquenziale calabrese. Uno di essi, pregiudicato, residente ad Ardea, Roma, era in passato considerato vicino alla cosca Gallico. I beni posti sotto sequestro ammontano a circa 20 milioni di euro. La robusta presenza camorristica nella Capitale, nel frusinate, in provincia di Latina e, in particolare, nel sud pontino, si manifesta ancora a fine 2011 attraverso l’efficace infiltrazione nel tessuto economico, il mirato reinvestimento delle risorse finanziarie acquisite illecitamente nel settore immobiliare, nella ristorazione e nella gestione degli esercizi commerciali, e, infine, attraverso la scelta mirata di Roma come località di latitanza di esponenti di spicco dell’organizzazione criminale. Il 23 luglio nel quartiere tiburtino viene arrestato dalla Polizia di Stato il latitante Emilio Esposito, appartenente alla famiglia camorristica denominata ‘clan dei mozzoni’, originaria della zona di Sessa Aurunca, Caserta, e responsabile di estorsione aggravata. A Latina e provincia vengono raggiunti da provvedimenti di obbligo di soggiorno nel comune di residenza e da misure cautelari affiliati al clan Di Lauro e ai Casalesi. A Frosinone e provincia, infine, si conferma la presenza di gruppi autoctoni che fanno riferimento a clan napoletani e casertani.
GENNAIO-GIUGNO 2012 – La mafia siciliana e le altre grandi organizzazioni criminali operano ancora attraverso la consueta ‘strategia della sommersione’, con metodi meno pervasivi rispetto alla regione di origine. Per quanto concerne i gruppi siciliani il 18 aprile 2012, nell’ambito dell’organizzazione Plata 2009, i Carabinieri eseguono un provvedimento restrittivo nei confronti di 32 persone, ritenute responsabili di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di cocaina e hashish, operante nel quartiere Trullo di Roma. Il clan era capeggiato da un pluripregiudicato di Partanna, Trapani, da tempo residente nella Capitale, e già inserito in contesti criminale dediti al traffico internazionale di stupefacenti. Infine, le continue indagini dell’operazione Sud Pontino relativa al controllo del mercato ortofrutticolo di Fondi, hanno condotto all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di sei persone appartenenti ad organizzazioni operanti in Campania e in Sicilia, con ruolo di vertice nel sodalizio casertano dei Casalesi e in Cosa nostra. Sul fronte della ‘ndrangheta si rileva un decreto di confisca, emesso il 22 giugno, nei confronti di un imprenditore romano interessato alla conduzione di numerose aziende operanti in diversi ambiti. Il 22 febbraio viene arrestato dalla Squadra Mobile di Roma un latitante di Taurianova, Reggio Calabria, che aveva trovato rifugio presso l’abitazione di un noto pregiudicato calabrese. Il 5 giugno viene eseguito un decreto di sequestro nei confronti della cosca Alvaro di Sinopoli, Reggio Calabria, di beni del valore di 3,5 milioni di euro. Per quanto concerne la camorra, invece, la città di Roma – rileva la Dia – sembra essere diventata un luogo di dimora privilegiato. Nel primo semestre del 2012 vi si segnala che il clan Pagnozzi intrattiene rapporti con gli alleati dei clan Moccia e Cava ma anche con esponenti della criminalità romana ritenuti contigui al clan napoletano Senese. Sul litorale nord si attestano alcuni epigoni del clan Gionta e Gallo di Torre Annunziata e presenze riconducibili ai Mazzarella e al vecchio clan Giuliano. Sul litorale sud si rilevano presente del clan Moccia. Nel sud pontino i Mallardo di Giugliano in Campania sono impegnati in investimenti finanziari con il contributo di soggetti imprenditoriali dei quali è stato accertato il coinvolgimento. Nel frusinate, infine, operano sia affiliati ai Casalesi che ai clan napoletani.
IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.
"Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia a “Sky tg 24”. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa". "Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente”. Queste le parole di Carmine Schiavone, ex boss di camorra del clan dei Casalesi, intervistato in esclusiva da SkyTG24. Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. "Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle”. Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".
Camorra, parla il pentito Schiavone: "Abbiamo ordinato oltre 500 omicidi". Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi , nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".
Tirato fuori dopo decenni, giovedì 31 ottobre 2013 il documento che denuncia la collusione dello Stato con le organizzazioni mafiose. In data 31 Ottobre il Parlamento ha fatto ciò che non ha mai voluto fare in passato, scrive “News You-ng”. Tutti i governi, di destra e di sinistra, dal 1997 in poi non hanno mai tolto il segreto di stato posto 16 anni fa sul verbale di 63 pagine concernente le dichiarazioni e le prove che il boss mafioso Carmine Schiavone, appartenente alla “Cosa Nostra Campana” (cioè il clan dei casalesi), ha consegnato ai giudici e ai parlamentari presenti nella Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Il boss noto come il “cugino di Sandokan“, non solo ha indicato tutti i siti in cui sono stati intombati i rifiuti, ma ha anche sottolineato più e più volte che quei rifiuti prima o poi “uccideranno tutta la povera gente“. In un’intervista di venerdì scorso a Le Iene (in onda su Italia Uno), Schiavone descrive con disprezzo la reazione del governo, dell’amministrazione locale e di tutti coloro che avrebbero dovuto predisporre le bonifiche dicendo: “Mi sono sentito dire che non hanno i soldi, in nome dei soldi lasciano che tutta questa gente muoia…“. “Da che pulpito viene la predica” verrebbe da dire, anche perché a sotterrare quei rifiuti è stata proprio la Cosa Nostra Campana che lucra maggiormente col traffico di droga e il traffico dei rifiuti tossici e nucleari e che oggi potrebbe voler lucrare sulle bonifiche. Ma Carmine Schiavone non ci sta a queste dietrologie, lui dice che si è pentito “per un fatto di coscienza”, una coscienza che dovrebbe pesargli tanto dopo aver ucciso con le sue stesse mani di “50 o 70 persone”… Non riesce nemmeno a contarle ma afferma che “però erano tutti colpevoli perché appartenevano ai clan avversari“. Una personalità davvero sui generis quella del boss pentito, che però consegna nomi, cognomi e numeri di targa anche dei camionisti e delle ditte di trasporti che si sono occupati nella propria vita del trasporto di rifiuti. Almeno quelli che conosce lui, uno dei massimi esponenti della mafia casertana. Perché di mafia si tratta, Schiavone ci tiene a precisare che il clan dei casalesi non è “Camorra” come Saviano ha tentato di insegnarci, ma “Mafia” affiliata a quella siciliana di cui parla anche con un certo disprezzo. Infatti quando il giornalista gli chiede: “Ma chi ha ucciso il giudice Giovanni Falcone?”, Schiavone risponde pesando molto bene le parole: “Materialmente chi può essere, solo quell’ignorante di Riina o quel pecoraio di Provenzano. I giudici si corrompono, non si ammazzano, non si fa un allarme sociale di questo genere, solo che loro non volevano essere corrotti e allora li hanno uccisi“. Fubini continua: “Ma allora chi li ha uccisi?” e Schiavone risponde: “Loro materialmente, ma gli ha detto di ammazzarli?“. Il giornalista incalza: “Chi?“. A quel punto Schiavone dice una cosa che fa rabbrividire: “Vuoi che ci prendiamo una denuncia per calunnia io e te o vuoi essere ammazzato da qualcuno qui fuori? Ma tu che pensi: i segreti di Stato… lo sai quanti ce ne stanno sepolti?“. Ha consegnato allo Stato particolari scottanti che valgono molto, ma ha consegnato anche 2500 miliardi di beni e ha fatto arrestare 1500 persone, ha fatto condannare persone per centinaia e centinaia di anni di galera ed è grazie a lui se son stati sentenziati un centinaio di ergastoli. In pratica Schiavone si vanta di aver distrutto la Mafia “sia a livello internazionale, sia nazionale”. Lui in compenso però si è fatto 10 anni e mezzo e basta, perché è un pentito. Carmine Schiavone è quello che non si stupisce della Trattativa Stato Mafia, infatti ha detto che “la Mafia fa parte dello Stato“, solo che è un braccio nascosto di questo sistema. Non c’è da stupirsi insomma, soprattutto quando si parla di continuità o di trattativa tra Stato e Mafia. Non c’è niente da stupirsi soprattutto se lo Stato sapeva che sarebbero morti tutti con i rifiuti nucleari sepolti, intombati sotto la falda acquifera. Sarebbe bastato che si abbassasse la falda acquifera per portare i danni di questi rifiuti a decine e decine di chilometri di distanza. Il bacino imbrifero si reticola per chilometri. Per dare l’idea di quanto sia pericoloso porre dei rifiuti vicino alla falda acquifera, facciamo l’esempio dell’Irpinia che oggi combatte contro le compagnie petrolifere che vorrebbero trivellare per l’estrazione di petrolio. Premesso che le trivellazioni provocano terremoti come hanno sostenuto in questi anni molti scienziati e premesso che gli acidi perforanti sono composti da sostanze altamente tossiche di cui non si conosce la composizione perché coperte dal segreto industriale, è stato stimato che l’inquinamento delle falde acquifere in Irpinia potrebbe portare danni fino a Reggio Calabria. Ma in Campania l’inquinamento delle falde acquifere interessa moltissimi siti: da Pianura ad Acerra, da Caserta a Somma Vesuviana, da Terzigno a tutta l’area Nord della città partenopea, dall’agro nolano ad Orta di Atella dove si è formato un vero e proprio lago grazie ai barili chimici discioltisi nelle acque sotterranee. Con quelle stesse acque gli agricoltori innaffiano pomodori e peperoni e tutte le colture dei vari vegetali che arrivano sulle tavole locali ma che vengono appaltate anche da prestigiose aziende dell’agroalimentare e quindi distribuite in tutta Italia e, in alcuni casi, anche in Europa. Una popolazione ingannata quindi non solo dalla Mafia e dalla Camorra, ma anche dallo Stato. Servivano davvero 16 anni per desecretare queste 63 pagine? Ed ora che sono state rese note cosa ne sarà del registro tumori il cui finanziamento fu bloccato nel settembre 2012 proprio dal governo monti che impugnava la legge regionale del 19 Luglio dello stesso anno in cui la giunta Caldoro (PDL) disponeva il finanziamento del registro per 1,5 milioni? Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano era Ministro dell’Interno all’epoca delle dichiarazioni. Sapeva tutto sulla sua città natale, Napoli. Come poteva non sapere delle dichiarazioni rilasciate alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti? Oggi che le dichiarazioni sono state desecretate dopo ben 16 anni, si sono espressi tutti su questo piccolo ma significante particolare. Le dichiarazioni più addolorate sono quelle di Antonio Marfella, Presidente dell’Isde Medici per l’Ambiente, il quale si è sfogato su Facebook con queste parole: “Scoprire che Giorgio Napolitano era il Ministro dell’interno all’epoca delle dichiarazioni secretate di Schiavone è una notizia che mi da un dolore profondo, insopportabile, veramente una pugnalata in petto. Ve lo giuro. Non me lo aspettavo….”. Lo stesso Giorgio Napolitano chiamato a testimoniare per il processo sulla Trattativa Stato Mafia, lo stesso Giorgio Napolitano per cui venne ordinata la “distruzione dei nastri delle intercettazioni usate come prove per la Trattativa”. Perchè una simile disposizione? Cosa c’era in quei nastri? ”Per le bonifiche non ci sono soldi” dicono le amministrazioni locali, ma quando questi soldi usciranno l’unica speranza è che non vadano a quei criminali che hanno ucciso decine e decine di migliaia di persone in questi 30 anni di avvelenamento.
Rifiuti, la Camera rende pubblica la deposizione di Carmine Schiavone: «Quei camion dal nord» (da Il Mattino – 31.10.2013), scrive Chiara Graziani. Il pentito dei Casalesi nel ’97 indicò i luoghi degli sversamenti: «Fra vent’anni lì moriranno tutti di tumore. Per ogni fusto tossico 500mila lire a noi, due milioni a chi doveva smaltire». Cade il segreto sulla deposizione del pentito dei Casalesi Carmine Schiavone, deposizione rilasciata nel remoto ’97 davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. All’epoca parve tanto deflagrante da richiedere la segretazione. Oggi, una decisione dell’ufficio di presidenza della Camera, presa all’unanimità, ci restituisce la verità di Carmine Schiavone. Una verità detta, ormai, 16 anni fa. Dalla viva voce del pentito dei Casalesi torna la descrizione di anni impuniti e criminali: alcune cose già note, altre tutte da scandagliare. Schiavone, ad esempio, elenca i luoghi dove finivano i rifiuti tossici dalla Germania e dall’Italia del centro nord, portati con i camion nelle discariche. Dice di aver già detto tutto “all’autorità giudiziaria”, di avere accompagnato sui luoghi gli investigatori. Racconta che sopra i veleni, appena ricoperti di terra, poi qualcuno ci allevava le bufale. Il tutto in un clima descritto come di generale collaborazione per cui, secondo i ricordi di Schiavone, «la discarica autorizzata faceva scaricare là, attraverso i clan». I rifiuti partivano da fuori la Campania, racconta, inviati da altre amministrazioni e con destinazione discariche autorizzate. Finivano, invece, smaltiti nel terreni dei clan, racconta il pentito. Ricostruzioni già note, in gran parte. Ma la forza del documento sta nell’essere così remoto e così attuale. E di svelarci la mentalità “statale” della camorra, totalmente indifferente ai destini delle persone. Perfino burocratica e banale. Così è stata devastata la Campania. Da persone così. Col registro sottobraccio. Fra le altre cose dal documento emerge il completo controllo dei Casalesi sui subappalti per le opere stradali. Controllo che dava loro la gestione di tutti gli scavi. Per questo sarebbe stato proposto a Schiavone, si legge nella deposizione, lo smaltimento di fusti tossici fin nel 1988. Lui, a quel punto, si sarebbe accorto che “qualcuno”, però, aveva già iniziato a sfruttare l’affare ma che teneva per sè i proventi. Circa 700 milioni al mese. Segue l’affermazione scioccante: «Arrivavano camion di fanghi nucleari (sic) dalla Germania. E hanno scaricato nelle discariche». Ad un certo punto Carmine Schiavone ha un lapsus che fa innervosire il presidente Scalia che lo interroga. Spiega che, secondo lui, «mio cugino (Francesco Schiavone) , Mario Iovine e Bidognetti», già prima del ’90 avrebbero fatto attività di smaltimento illegale di rifiuti, senza versare però nelle casse del clan. «Fino al ’90 – sentenzia quasi sdegnato – hanno rubato . Poi hanno iniziato a versare soldi nella casse dello Stato..(…) Era un clan di Stato, mi sono confuso». Alla protesta di Scalia (“Il vostro Stato!”) Schiavone non si scompone e dice: «La mafia e la camorra non potevano esistere se non era (sic) lo Stato». Così parlava 16 anni fa l’uomo che teneva il registro sotto il braccio e si arrabbiava se qualcuno faceva la cresta mentre lui teneva la contabilità dei fusti tossici, prezzo di smaltimento 500mila lire l’uno. Veleni gettati nei campi, nelle falde acquifere (“Le bucavamo, ci passavamo attraverso, avevamo il controllo totale di tutti gli scavi”). E lui prendeva nota e faceva la somma. Cinquecentomila a noi, e voi ve ne mettete in tasca due milioni secchi a fusto. Da registrare lo stupore nel quale procede l’interrogatorio, nel remoto ’97. Domanda del presidente, che quasi non trova le parole:«Lei è in grado di fare una stima..Quante tonnellate..quanti camion..». Preciso, l’uomo del registro risponde: «Qui si parla di milioni, non di migliaia…Si tratta di milioni e milioni di tonnellate». Ma è la storia dei fanghi nucleari che non può restare sospesa, mostruosa, lugubre. Può dirci qualche cosa di più, chiede Scalia? «So solo che questi fanghi arrivavano in cassette di piombo da 50, un po’ lunghe. Ma mica andavo a vedere l’immondizia di notte..», No, non c’era bisogno che Schiavone seguisse l’affare di notte. Ci pensava il “sistema militare” messo su per gestire il territorio ed il flusso dei rifiuti. Incensurati, con il porto d’armi, con l’auto di dotazione. Pattuglie che, all’occorrenza, potevano usare palette e divise di carabinieri, polizia, finanza. Le forze dell’ordine dei Casalesi. Con un “coordinamento un po’ massonico, un po’ politico”. Laura Boldrini, presidente della Camera, si è detta molto soddisfatta: «Esprimo grande soddisfazione – ha detto Boldrini – per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti». «Si tratta della prima volta che la presidenza della Camera – senza che questo sia richiesto dalla magistratura – decide di rendere pubblico un documento formato da commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».
“La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.
Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?
Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?
«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto». «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».
Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati. La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".
Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla ndr)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».
I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino - ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".
«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana; ndr) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....
Rifiuti tossici nel Lazio. La Procura di Cassino cerca i fusti velenosi di cui ha parlato l'ex collaboratore di giustizia del clan del Casalesi. Sospetti sulla cava di Penitro, a Formia, appena riattivata con un'ordinanza del sindaco, scrive Andrea Palladino su “Il Fatto Quotidiano”. Carmine Schiavone di dubbi non ce n’erano. “Abbiamo sversato veleni anche nel sud del Lazio”, ha sempre dichiarato, dal 1993 ad oggi. Parole ripetute davanti alle telecamere nei mesi scorsi, per gli amanti del dubbio. La procura di Cassino ha deciso di andare fino in fondo, andando a cercare i fusti tossici, dopo aver ascoltato le parole dell’ex collaboratore di giustizia. Lo ha fatto su un territorio che fino a qualche giorno fa apparteneva ad un altro Tribunale, quello di Latina, passato sotto la sua giurisdizione dal primo ottobre, dopo la riorganizzazione decisa dal governo. Con un’inchiesta che parte da Formia – città roccaforte da trent’anni di almeno cinque gruppi di camorra – dove i sospetti si sono concentrati su una cava, Penitro. Uno sversatoio chiuso diverse volte, ma tornato attivo qualche giorno fa dopo un’ordinanza del sindaco Sandro Bartolomeo. Ha una storia curiosa la cava di Formia. Il nome è riportato nella copiosa rassegna stampa che la Polizia provinciale presentò alla commissione d’inchiesta sui rifiuti nel 1997 – presidente Scalia – per mostrare le tante operazioni realizzate alla caccia dei veleni. Il primo sequestro dell’area era avvenuto il 14 aprile del 1991. La replica arriva sei anni dopo, nel 1997, quando la polizia provinciale rimette i sigilli nella discarica, trovando – sotto uno strato di argilla – alcuni contenitori da 200 litri “con sostanze tossiche e nocive”. All’epoca la notizia aveva ricevuto un certo rilievo, con l’apertura di un’indagine contro ignoti da parte della procura di Latina. Caso archiviato qualche anno dopo, nel 2001. Nessuno sa, però, se l’amministrazione comunale ha bonificato l’area. Non risultano, al momento, neanche delle ricerche specifiche per verificare se i due contenitore da 200 litri fossero solo la punta di iceberg ben più pericoloso. La cava, nel frattempo, sta continuando a ricevere rifiuti inerti, che coprono l’area del sospetto sversamento di rifiuti tossici. Gli anni ’90 furono un decennio tragico per il sud pontino. Nel 1997, durante un’ispezione della commissione Scalia, i parlamentari scoprirono, in un deposito di Pontinia, 11.600 bidoni contaminati, molti dei quali ancora pieni di scorie. Un ritrovamento che ha poi occupato diverse pagine della relazione finale. Alla procura di Latina non c’è però traccia di un procedimento su quello che venne definito come uno dei principali ritrovamenti di rifiuti pericolosi degli anni ’90, mentre i documenti acquisiti tra il 1997 e il 1998 dalla commissione sul deposito di Pontinia non appaiono nell’elenco dei fascicoli liberamente consultabili. Secretati, come le parole di Schiavone, la cui audizione continua a non essere pubblica, nonostante le assicurazioni di un mese della presidenza della Camera. Quei fusti di Pontinia erano gestiti da un imprenditore di rilievo, attivo ancora oggi, Vittorio Ugolini. Il suo nome appare in una informativa della Criminalpol di Roma datata 12 dicembre 1996, come uno dei tanti imprenditori in stretto contatto con Cipriano Chianese, avvocato considerato in molte inchieste la mente dei traffici gestiti dai casalesi, oggi imputato per disastro ambientale. Nella lunga lista dei veleni del sud del Lazio il primo posto tocca alla discarica di Borgo Montello. “Qui portavamo i fusti tossici”, ha raccontato Carmine Schiavone. Oggi le analisi dell’Arpa Lazio dimostrano – dati alla mano – la presenza di sostanze di origine industriale nelle falde acquifere. Dagli archivi spunta l’unica sentenza di condanna per l’avvelenamento di quel sito, del gennaio 1997: quattro mesi di reclusione per l’allora direttore della discarica, Adriano Musso. Motivo: “Aver effettuato fasi di smaltimento di rifiuti tossici e nocivi”. Nessuno, però, ha mai cercato il corpo del reato. Quei veleni sono ancora lì.
Pignatone: "A Roma la mafia più che uccidere, investe". Intervista al procuratore della Repubblica della capitale su “La Repubblica”. Anteprima dalla rivista italiana di geopolitica Limes in edicola a cura di Lucio Caracciolo, Luca Di Bartolomei e Niccolò Locatelli. Sintesi della conversazione con Giuseppe Pignatone pubblicata nel volume di Limes 10/13 "Il circuito delle mafie".
«Esiste la mafia a Roma?»
«La risposta a questa domanda è meno immediata e semplice di quanto si possa pensare. Bisogna innanzitutto considerare l’estrema complessità della realtà romana, anche dal punto di vista della procura della Repubblica. Mentre a Palermo, a Reggio Calabria o (con le dovute differenze) a Napoli il problema principale è l’associazione di tipo mafioso, a Roma i fenomeni criminali di maggior rilievo sono molto più variegati. A Roma c’è la corruzione della pubblica amministrazione, c’è la criminalità economica (fallimenti che sfociano in bancarotte fraudolente, grande evasione fiscale e altre frodi a danno dello Stato) per importi di miliardi di euro, c’è un problema tipicamente «romano» e di poche altre città come l’eversione, il terrorismo e la criminalità politica, c’è un problema di gravi reati in materia ambientale. Poi c’è l’ingente fenomeno del narcotraffico: con i suoi tre milioni di abitanti, Roma è un grande mercato delle droghe ma è anche uno snodo: l’aeroporto di Fiumicino e il porto di Civitavecchia sono punti di ingresso consolidati per stupefacenti che verranno venduti e consumati sia in città che altrove. E, naturalmente, c’è la criminalità diffusa che spesso è quella che più immediatamente preoccupa i cittadini. Storicamente, le mafie sono state attive nella capitale. Basti pensare a Pippo Calò che per un lungo periodo ha risieduto a Roma, dove aveva intensi rapporti con la banda della Magliana e con l’eversione di destra. O a Vincenzo Casillo, braccio destro di Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata, assassinato proprio a Roma. O ai molti latitanti arrestati nel corso degli anni. Poi c’è stata, per quasi un ventennio, la presenza ingombrante della banda della Magliana [...]. La complessità di Roma si riverbera anche sul fenomeno della criminalità mafiosa, che qui intendiamo in senso stretto, ossia con riferimento alle organizzazioni che abbiano le caratteristiche previste dal 416bis. La domanda quindi andrebbe sdoppiata: a Roma sono presenti le mafie «tradizionali» (Cosa Nostra, camorra, ’ndrangheta e Sacra corona unita) e ci sono anche fenomeni mafiosi autoctoni?»
«Partiamo dalle mafie «tradizionali».
«Finora, la risposta che si è data, anche a livello istituzionale, è che non ci sono a Roma organizzazioni mafiose strutturate, ma grossi investimenti riconducibili a soggetti di origine campana, siciliana o calabrese che possono destare sospetti di riciclaggio. Al momento abbiamo solo elementi indiziari, visto che i processi sono in corso e partiamo dalla presunzione di non colpevolezza. Per esempio nel 2009 la procura di Reggio Calabria ha ottenuto il sequestro del famoso Café de Paris e di altri locali di lusso riconducibili alla ’ndrangheta. Anche le procure di Napoli e Catanzaro, oltre a quella di Roma, hanno ottenuto il sequestro di beni immobili, locali commerciali e attività imprenditoriali per un valore complessivo di alcuni miliardi di euro. A livello non giudiziario ma empirico constatiamo che esiste una platea molto ampia di negozi e attività commerciali la cui proprietà è cambiata in tempi molto stretti. Questi negozi vengono acquistati da soggetti di origine meridionale che altrettanto rapidamente procedono spesso a sostituire il personale e i fornitori con persone provenienti dalle loro stesse regioni. C’è il sospetto che in alcuni casi i nuovi proprietari e i loro dipendenti siano persone affiliate a clan camorristici, della ’ndrangheta o di Cosa Nostra. Ma servono indagini, spesso non semplici, per trasformare i sospetti in prove.»
«Quanto alle mafie autoctone?»
«Ultimamente abbiamo fatto un passo avanti: ferma restando la presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio, a luglio abbiamo eseguito una misura cautelare nei confronti di una cinquantina di persone, una parte delle quali indagata anche per il reato di associazione mafiosa. Secondo noi ci sono due organizzazioni mafiose operative nella zona di Ostia, che pur essendo solo un municipio di Roma conta oltre 200 mila abitanti (Reggio Calabria ne conta 180 mila). Una fa capo al gruppo Cuntrera-Caruana, uno dei più importanti di Cosa Nostra, per legami storici e di parentela. L’altra fa capo alla famiglia Fasciani e rappresenta qualcosa di nuovo: è un’associazione autoctona, completamente sganciata dalle mafie tradizionali, che ha affermato il suo controllo del territorio, creando un clima di diffusa intimidazione e operando in particolare nel settore commerciale e nel traffico di stupefacenti.»
«Che rapporto c’è tra la mafia e la società civile romana?»
«Mentre in molte realtà del Sud è impossibile non notare la presenza della mafia, a Roma è diverso: la presenza della criminalità mafiosa è tutta da capire e da verificare, senza posizioni pregiudiziali in un senso o nell’altro. A Roma alcuni settori della società sono consapevoli dell’esistenza e dell’importanza del problema. C’è però il rischio che di fronte a grandi disponibilità di denaro liquido, specie in tempo di crisi, si abbassino le difese immunitarie –anche perché, come abbiamo detto, il ricorso alla violenza fisica è solo l’extrema ratio e solo di rado c’è bisogno di usarla. Chi entra in contatto con i gruppi mafiosi agisce molto spesso in base a precisi calcoli di convenienza. Alcune figure possono fare da cerniera tra i due mondi. Un’impresa mafiosa, un grande evasore, un soggetto della pubblica amministrazione che abbia accumulato capitali con la corruzione hanno bisogno degli stessi professionisti o intermediari per potere occultare, riciclare e utilizzare al meglio ingenti somme di denaro. Proprio tali figure possono mettere in contatto l’universo mafioso con il resto della società. Anche per questo la procura di Roma richiede sempre più spesso, e vi sono già decisioni positive del tribunale, il sequestro e la confisca dei beni anche nei confronti dei «colletti bianchi», di chi cioè ha accumulato ingenti patrimoni grazie a delitti contro l’economia e la pubblica amministrazione.»
«E con la politica?
«Allo stato non sono emersi dalle indagini concluse di recente qui a Roma (parlo solo della mia esperienza diretta, che si riferisce agli ultimi due anni) intrecci tra le organizzazioni mafiose ed esponenti politici. C’è qualche contatto, appena accennato, con funzionari –più che politici –dell’amministrazione locale. Alcuni fatti specifici sono stati accertati in anni precedenti. Certo è che il coinvolgimento del mondo delle professioni e della politica nei rapporti con la mafia è un fenomeno antico quanto la mafia stessa. Se la mafia si presenta con il volto pulito e la valigetta piena di soldi le è più facile farsi strada. Per questo la guardia deve essere sempre alta, anche a Roma.»
POLITICA BIPARTISAN. RUBANO SU TUTTO. IL TESORO DEI BIGLIETTI CLONATI.
Inchiesta su “La Repubblica” di Daniele Autieri e Carlo Bonini. Ticket duplicati in un bunker segreto 70 milioni in nero nell'Atac dei partiti. Nel 2008 si sigla un patto bipartisan per la pacificazione e la continuità nella gestione dei trasporti capitolini tra centrodestra e centrosinistra in una cena a casa dell'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, braccio destro di Alemanno. Si blinda un sistema che consente la produzione di milioni di titoli di viaggio paralleli che non sono fatturati e che producono un fiume di denaro da spartire. L'incredibile frode denunciata in una relazione finita in Procura e confermata da un'altra indagine interna rimasta senza conseguenze. Nel 2008 si sigla un patto bipartisan per la pacificazione e la continuità nella gestione dei trasporti capitolini tra centrodestra e centrosinistra in una cena a casa dell'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Macini, braccio destro di Alemanno. Si blinda un sistema che consente la produzione di milioni di titoli di viaggio paralleli che non sono fatturati e che producono 70 milioni di euro l'anno da spartirsi e per finanziare i partiti. L'incredibile frode denunciata in una relazione finita in Procura e confermata da un'altra indagine interna rimasta senza conseguenze. L'accesso alla struttura protetta consentito solo allo stesso personale presente da dieci anni. Il silenzio dell'attuale vertice dell'azienda. Al cuore di una città in bancarotta - 800 milioni di euro è il deficit annuale del comune di Roma - c'è un'azienda pubblica che spiega molto, o forse tutto, di questo abisso di insolvenza. Perché in fondo ne è insieme lo specchio e una delle cause. È la più grande azienda del trasporto pubblico locale in Italia e una delle più grandi in Europa. È la peggiore. Perché, da dieci anni almeno, è la stanza di compensazione e la tasca della politica capitolina. Il perno di un Sistema. È Atac spa. Acronimo di "Azienda Tramvie ed Autobus del Comune": 12mila dipendenti, un miliardo di passeggeri nel 2012 (un terzo di quelli della "Rapt" parigina, un quarto di quelli londinesi della Transport for London), un deficit annuo di oltre 150 milioni e un debito che ha raggiunto 1 miliardo e 600 milioni. In Atac tutto è stato possibile. Crasso clientelismo, appalti gonfiati. Ma - si scopre ora - anche digerire un audit interno che denuncia un'emorragia di liquidità da biglietti clonati che avrebbero la loro stamperia clandestina proprio dentro l'azienda. Un fiume di denaro nero, per una contabilità altrettanto nera necessaria a finanziare chi a questo carrozzone assicura la sopravvivenza. La Politica. Per due mesi, "Repubblica" ha raccolto documenti e testimonianze che raccontano cosa è diventata Atac. Perché ne è cruciale il controllo. Ha quindi chiesto al nuovo amministratore delegato dell'azienda, Danilo Broggi, di rispondere ad alcune domande. A cominciare dalle circostanze illuminate dalla più sorprendente delle truffe - i biglietti clonati, appunto - che si consumerebbe ai danni della società con complicità interne. Ma ne ha ottenuto un cortese rifiuto via mail. Restano dunque una serie di evidenze per un racconto che ha il suo incipit nella primavera di cinque anni fa. È il 29 aprile del 2008. Ventiquattro ore prima, il voto ha consegnato il Campidoglio al nuovo sindaco Gianni Alemanno. Il senatore Pdl (e futuro vicesindaco di Roma) Mauro Cutrufo presenta un'interrogazione parlamentare ai ministri del Lavoro, dell'Interno e della Giustizia. Attacca la gestione "veltroniana" delle aziende comunali, denuncia appalti truccati, disservizi, e sprechi. Ma la verve polemica e la voglia di pulizia ai vertici delle aziende comunali della Destra è un fuoco fatuo, che si spegne in un'estate. "Nel settembre del 2008 - racconta un ex manager dei trasporti - partecipai ad una cena a casa di Riccardo Mancini in cui si parlò dei vertici delle aziende del trasporto pubblico". Mancini, in quel momento, è l'asso di briscola del nuovo sindaco. Ha un passato neofascista in Avanguardia Nazionale e un presente da tesoriere della campagna elettorale di Alemanno (il futuro, lo vedrà prima issato alla poltrona di ad dell'Ente Eur e quindi in galera per le tangenti degli appalti per i filobus destinati al corridoio mobilità nel quartiere Laurentino). Per la "politica dei trasporti" è dunque da lui che bisogna passare. Ebbene, la sera di quel 29 aprile 2008, intorno al tavolo di casa Mancini, oltre al senatore Pdl Vincenzo Piso, sono seduti alcuni top manager. "Fu l'occasione - racconta la fonte - per parlare di un accordo politico bipartisan, siglato ad alti livelli, che avrebbe imposto pacificazione e continuità sulle aziende del trasporto pubblico nel passaggio dal centro-sinistra al centro-destra". Lo spoil system promesso da Alemanno è dunque un'operazione di facciata. Prova ne sia che la maggior parte degli alti dirigenti nominati nell'era veltroniana non viene cacciata, ma assegnata ad altre posizioni di rilievo. Ma, soprattutto, che la linea degli operativi, a partire dai direttori generali, rimane al suo posto. "Al termine della cena il messaggio era chiaro a tutti - ricorda ancora l'ex manager - Il sistema andava preservato". Primavera 2008, estate 2013. Marino è il nuovo sindaco di Roma e, il 27 luglio, Danilo Broggi arriva in Atac come nuovo amministratore delegato. In molti, dentro e fuori l'azienda, parlano con enfasi di "rivoluzione". Perché la nomina del manager milanese (è stato ad di Consip) viene letta come segno di macroscopica discontinuità. E' così? In realtà, il povero Broggi mette piede in un'azienda che è una foresta pietrificata, dove il "patto" ha garantito continuità assoluta negli uomini. Il presidente dell'azienda, Roberto Grappelli, confermato da Marino, è stato infatti nominato da Gianni Alemanno nel dicembre del 2012. Al culmine di una parabola che lo ha visto, dal 2010 al 2012, amministratore delegato di Officine Grandi Revisioni (la società che gestisce la manutenzione dei veicoli Atac) e, prima di allora, presidente di Met.Ro. (altra società della galassia). Antonio Cassano, il potente ex-direttore generale di Atac (oggi "a disposizione" dell'ad Broggi con uno stipendio di quasi 280mila euro), è un sopravvissuto a tre consiliature (Veltroni, Alemanno e adesso Marino) e dal 2002 ricopre cariche apicali che gli hanno consegnato la gestione operativa dell'azienda. Gioacchino Gabbuti, dopo aver guidato l'Atac dal 2005 al 2009, prima con Veltroni poi con Alemanno, viene accomodato sulla poltrona di amministratore delegato di Atac Patrimonio (società nata per vendere il patrimonio immobiliare dell'azienda ma che fino ad ora non ha concluso una sola operazione) con uno stipendio, tra indennità e bonus, di quasi 600mila euro. Il direttore acquisti, Franco Middei, nonostante le inchieste in corso su alcuni appalti sospetti, rimane saldamente ancorato alla sua poltrona, dove è arrivato nel 2008, dopo aver ricoperto incarichi di rilievo nella società Trambus, poi confluita in Atac. L'inossidabilità del Sistema Atac ha una ratio, a quanto pare. Che sembra un segreto di Pulcinella e che una fonte interna all'Azienda (di cui Repubblica conosce l'identità e a cui ha assicurato l'anonimato) racconta con assoluta franchezza. Così: l'Atac stampa biglietti per autobus e metro. E i biglietti sono denaro. Chi ha le mani sui biglietti, ha le mani sulla cassa. E se quella cassa è in parte in chiaro e in parte in nero, perché quei biglietti sono in parte veri e in parte falsi, chi ha le mani sull'Atac ha di fatto le mani su una banca che batte moneta. Già, "i biglietti falsi". E' una truffa che può costare all'Atac anche 70 milioni di euro l'anno, perché consente di immettere sul mercato milioni di titoli di viaggio contraffatti. E le cui dimensioni si possono intuire leggendo una semplice voce del bilancio 2012. I ricavi dalla vendita dei biglietti risultano pari a soli 249 milioni di euro, poco più del 20% del valore totale della produzione dell'azienda, che supera il miliardo. Eppure, dalle statistiche aziendali, emerge che quasi un miliardo di passeggeri prende ogni anno i mezzi gestiti dall'Atac, autobus e metropolitane. Dunque? La Guardia di Finanza ha lavorato a lungo sulla "falsa bigliettazione Atac", arrivando alla conclusione che si tratta di "un sistema oliatissimo capace di creare una contabilità parallela" dell'azienda. Un pozzo milionario senza fondo necessario a finanziare attività di altro genere. Ma ora la fonte di Repubblica dice di più. Della truffa spiega il meccanismo (semplice), il cuore, i beneficiari. "Tutti i biglietti emessi da Atac - dice - hanno un numero. Il processo normale di bigliettazione è costruito in modo che quando il biglietto viene ceduto ai rivenditori ufficiali entra automaticamente in una white list. Una volta acquistato e obliterato lo stesso biglietto finisce invece in una black list. Così quando il ciclo si conclude, white list e black list si ricongiungono e i biglietti venduti e utilizzati vengono cancellati. Quest'ultimo passaggio nel sistema di Atac non c'è. La black list non è mai ricongiunta con la white list e un ipotetico biglietto clonato con lo stesso numero di serie può passare anche dieci volte senza che le macchinette lo riconoscano. Atac è come la Banca d'Italia: ha la carta moneta, ci scrive sopra che cifra è, vende e rendiconta. Il tutto senza segregazione di responsabilità, cioè senza alcun controllo esterno". La frode, a quanto pare, va avanti da 13 anni. Ancora la fonte: "Tutto nasce intorno al 2000 con la gara vinta dalla società australiana Erg per la fornitura della tecnologia informatica per la bigliettazione. Nel 2003 l'allora presidente di Atac Mauro Calamante scrive all'ex-sindaco Walter Veltroni una lettera riservata personale in cui denuncia che Atac non controlla il flusso dei soldi. A quel punto viene deciso di bonificare alla Erg il debito accumulato da Atac per il pagamento del servizio, e di cominciare a internalizzare tutto. Il management Erg entra dentro Atac e continua a resistere fino ad oggi. Erg nel frattempo cambia pelle e ritorna a lavorare con Atac con il nome di Claves, una società controllata dalla stessa Erg e con una quota importante in mano a Banca Finnat, la potente fiduciaria romana. Cambiano i nomi, ma gli uomini che gestiscono il servizio sono sempre gli stessi". "In via Sondrio, dove si cono alcuni uffici Atac - prosegue la fonte - è presente da anni un'area blindata alla quale si accede solo con un badge abilitato. Quello è il nucleo di dipendenti ex-Erg che non sono mai cambiati nel tempo. Sono una ventina e in tutti questi anni non è mai stata introdotta alcuna discontinuità nel personale. Lì dentro è raccolta l'intelligenza del sistema di bigliettazione". Quindi, la chiosa. "È un sistema che dura da anni, un tram sul quale in tanti sono saliti e scesi arricchendosi. Manager, prima di tutto, e poi la politica. I benefici di un sistema che può drenare fino a 70 milioni di euro vanno oltre le istituzioni locali, e toccano anche alcuni parlamentari. Il salto di qualità arrivò nel 2006 quando si capì che al tavolo avrebbero dovuto sedersi tutti, centrosinistra e centrodestra. Il modo migliore per assicurarsi che nessuno lo avrebbe ribaltato". L'Atac non ignora cosa accade con i suoi biglietti. Il 3 agosto 2012 consegna alla Procura di Roma una "Relazione tecnico investigativa sui titoli di viaggio dell'Atac spa", un report coperto da segreto cui ha lavorato un team di ingegneri, investigatori e specialisti. "La maggior parte degli illeciti attinenti i titoli di viaggio - si legge nella Relazione - sono avvenuti a mezzo complicità interne all'azienda (...). Ciò perché il settore dei titoli di viaggio Atac è vasto e complesso, il personale impiegato è numeroso, i compartimenti sono stagni e se ciò evita le comunicazioni e le associazioni, viene favorita invece la formazione di 'chiesette' consolidate sulle quali il controllo diventa difficile (...) Il sistema di bigliettazione elettronica dell'azienda è completamente indifeso". Un secondo report, frutto del lavoro di una commissione interna di manager Atac, al contrario non è mai uscito dagli uffici di via Prenestina. Troppo, e troppo gravi, a quanto pare, le scoperte che documentava. Il 7 marzo scorso la Procura di Roma invia i primi avvisi di garanzia a tre alti dirigenti dell'Azienda (l'allora direttore commerciale, il responsabile della bigliettazione elettronica e il dirigente del settore informatico), ma il sasso sembra cadere in uno stagno. Perché la regola della sopravvivenza è digerire tutto, non strillare. Le "chiesette" hanno bisogno di far semplicemente dimenticare. Non fosse altro perché i biglietti non sono l'unica grana. Negli ultimi anni, Atac e Metropolitane di Roma (Met.Ro.), azienda dedicata alla gestione dei mezzi di trasporto fusa in Atac l'8 aprile del 2010, finiscono infatti al centro di numerosi scandali sull'assegnazione degli appalti. L'altra grande voce del Sistema. Qualche esempio. Il 31 dicembre 2009, l'amministratore delegato di Metropolitane di Roma, Antonio Marzia, firma il provvedimento 112 che prevede la fornitura di 500 dischi freno per i mezzi della linea del metro B. Valore totale della commessa: 3,3 milioni di euro. L'appalto viene affidato senza gara alla Ats, una piccola azienda con 11 dipendenti registrati nel 2008 e un capitale sociale di 100mila euro. L'8 aprile del 2010, al momento della fusione con Atac, la gestione degli appalti di Met.Ro passa quindi nelle mani dell'ad di Atac, Adalberto Bertucci. Ma invece di bloccare la commessa, la direzione tecnica dell'azienda richiede un intervento di sostituzione massiccio per il biennio 2010-2011 che prevede l'acquisto di 2.500-3.000 dischi freni per un valore previsto di oltre 13 milioni di euro, sempre da assegnare alla Ats. Ebbene, una semplice ricerca di mercato, realizzata dal membro del collegio sindacale Renato Castaldo sulle maggiori aziende mondiali del settore, dimostra che il prezzo medio per un disco freno non sono i 6.752,20 euro riconosciuti da Atac alla Ats, ma tra i 1.300 e i 1.600 euro. Pagare le commesse fino a sei volte il prezzo di mercato sembra normale e consolidata amministrazione in Atac. L'8 aprile del 2008 la società Officine Grandi Revisioni (Ogr), costola di Met.Ro. e di Atac per la manutenzione dei veicoli, trasmette al top management delle due aziende una ricerca di mercato dedicata ai pezzi di ricambio acquistati per le "Frecce del Mare", i convogli che collegano la Capitale a Ostia. Il confronto si concentra sui vetri porte. A fronte dei due ordini approvati da Met.Ro. il 20 agosto e l'11 novembre 2008 alle ditte Angeloni srl e Vapor Europe srl, che prevedono un costo a pezzo di 98 euro per la prima e 128,52 per la seconda, le offerte pervenute dalle altre aziende contattate sono in media dieci volte più basse, e si aggirano tra i 6,48 e i 13,60 euro a pezzo. Non cambia la musica nel 2011. Atac assegna un appalto per i servizi di pulizia con un valore a base d'asta di 95 milioni di euro. Una gara su cui, il 22 aprile di quest'anno, accende un faro il collegio sindacale che nella relazione allegata al bilancio 2012 denuncia una maggiorazione del 30% rispetto alle gare precedenti per lo stesso servizio. Ma per Atac, evidentemente, non è un problema. I "conti" che devono tornare non sono quelli dei bilanci.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".
Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.
Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.
Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.
1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.
2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.
3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.
4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:
1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);
2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!
A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.
5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.
6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.
Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.
Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.
Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.
Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.
7. L’effettivo stato di
cose. Il
reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione
possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro
sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul
lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi
chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi
diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti?
Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato?
Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad
entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata
che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un
poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un
giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il
lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti
l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior
parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche,
cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli
ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre
parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo
strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare
i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col
sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda
sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto
in questo modo:
L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.
8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:
- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;
- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;
- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;
- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.
- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.
- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.
- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.
9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.
E poi c’è quello che non ti aspetti.
LA LEGA MASSONICA.
Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".
Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?
"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza, scrive Angelo Panebianco su “La Repubblica”. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa. Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra. Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani. Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio. La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia». Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica). Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci. Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri. Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.
SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.
Un simbolo per tutte le ingiustizie. Con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Gli italiani non avevano un simbolo comune su cui convogliare la rabbia per le ingiustizie patite da ciascuno: i reati subiti e non puniti, i reati puniti e non commessi, le sfacciate disparità di trattamento, i ritardi e le disfunzioni dei processi, le persecuzioni nel nome della Legge e del Fisco, più il vittimismo. Ora la magistratura, dopo un lungo e assurdo percorso, li ha accontentati: con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune. Un paese in ginocchio, con una maggioranza cagionevole, riceve il colpo di grazia. Nessun senso dello Stato e del Bene Comune, nessuno sforzo di chiudere con equilibrio una feroce partita che ha sfasciato l'Italia. Intanto i corvi, le jene e le carogne maramaldeggiano a mezzo stampa. E invece è un dramma per tutti, a cominciare dalla sinistra, surrogata dai giudici nel liquidare con la forza l'era berlusconiana (col rischio di resuscitarla più cazzuta che pria). Ora il Pd si vede costretto a governare con un condannato in via definitiva o a sfasciare il governo e dunque il Paese con una chiamata folle alle urne. E la destra si vede obbligata a stringersi intorno al Capo. Di lui, il condannato, non dirò niente, anzi la butterò sul comico che è l'unica via d'uscita dal tragico kafkiano. Se andrà in carcere, in pochi mesi lo acclameranno direttore del carcere. Se sarà costretto ai domiciliari rifonderà la Casa delle Illibertà. Se sarà affidato ai servizi sociali dovrà aiutare le coetanee ad attraversare la strada. Che pena.
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
Gli italiani non hanno fiducia nella giustizia. La sentenza della Cassazione su Berlusconi non c'entra. Lo dice anche il presidente Napolitano: "Serve una riforma", scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica nella dichiarazione immediatamente seguita alla sentenza: "ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso". Napolitano rappresenta l'Italia. Come il Re fu l'incarnazione dello Stato monarchico il Presidente della repubblica lo è di quello Repubblicano. Infatti non sbaglia. Il 96% degli italiani, cioè tutti, ritengono che “bisogna che il sistema della giustizia funzioni meglio di ora". Questo non significa che non vi sia fiducia nel sistema legale italiano. Anche se il Paese su questo aspetto è dubbioso. La maggioranza dei cittadini (52%) è sfiduciato dall’operato dei giudici, mentre solo il 47% da loro credito. Valori che ci avvicinano di più a paesi europei come la Polonia e Slovacchia che non Germania, Inghilterra o Danimarca e Svezia. Ma si tratta pur sempre di quasi la metà della popolazione. Allora diventa interessante comprendere chi, pur dimostrando fiducia nella giustizia, ne richiede con forza la riforma: si tratta del 30% degli italiani. Sono tendenzialmente in maggior numero fra i maschi, in età tra i 35 ed i 55 anni e con livelli d’istruzione medio-alti. Vengono principalmente dalle “regioni rosse” ed infatti, avere fiducia nella giustizia ma richiederne con forza una riforma, sembra un tema molto più caro a chi si definisce di centrosinistra che non di centrodestra, ambito in cui il favore alla magistratura riscuote molto meno consensi. Tra i partiti, persino la maggioranza, seppur relativa, degli elettori di Sel (46%) o del Pd (45%) è di questa opinione, gli altri o semplicemente non hanno fiducia o hanno in merito opinioni contrastanti. Se più della metà della popolazione non ha fiducia nei magistrati e i due terzi degli altri ne chiedono una riforma, allora la questione sembra andare al di là delle questioni politiche legate ai problemi di Berlusconi. Si va oltre al centrodestra. Con questi numeri, il tema di una riforma dell’ordine giurisdizionale sembra molto più essere legato alla singola esperienza dei singoli cittadini.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.
Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori.
Ora arriva la ciliegina.
Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane. Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.
Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?
Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.
I pm d’assalto hanno radici profonde…
Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.
Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?
In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.
Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.
Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.
Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.
La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.
Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?
Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.
In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.
Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.
Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.
Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.
Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.
I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.
Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?
Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.
Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.
Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.
Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?
Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.
Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?
La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.
Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?
È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.
Da un paradosso ad un altro.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
Le 10 condanne record nella storia degli Usa. Bradley Manning rischia di essere condannato a 140 anni di carcere. Ma quali sono state le condanne più severe in passato? Scrive Michele Zurleni su “Panorama”. Si è salvato dall'accusa più pesante, "complicità con il nemico", il reato che prevedeva l'ergastolo, ma Bradley Manning rischia di dover subire una durissima condanna. Sulla base delle imputazioni, la talpa che ha passato i documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato a Wikileaks, potrebbe non uscire mai più di prigione: la pena potrebbe arrivare fino a quasi 140 anni di carcere. Non un fatto inusuale per la giustizia americana. In passato sono state diverse le condanne record. Questo è l'elenco delle dieci più severe.
1) Charles Scott Robinson, 30.000 anni di carcere
I giurati del suo processo dissero che volevano essere sicuri che non uscisse mai più di prigione. Era il 1994, eravamo in Oklahoma e questa sentenza ha stabilito un record che non è stato ancora eguagliato. La più alta pena mai inflitta in un tribunale statunitense. Robinson era stato arrestato per aver stuprato dei bambini. Per ogni atto di violenza, 5.000 anni di carcere. Il giudice non voleva che l'allora trentenne potesse ottenere la grazia e uscire dal carcere dopo qualche anno, circa 15 anni, come accade in media. Per cui stabilì una pena che, di fatto, lo condannava a vita. Secondo i suoi calcoli, infatti, l'uomo avrebbe potuto fare domanda di perdono solo all'età di 108 anni.
2) Dudley Wayne Kyzer, 10.000 anni di carcere
Nel 1981, per aver ucciso la moglie, l'uomo ebbe questa condanna del tribunale dell'Alabama che lo giudicò. E per aver assassinato la suocera e un ragazzo, la corte decise che Kyzer doveva essere anche condannato all'ergastolo per ognuno dei due omicidi. Due vite intere in carcere più diecimila anni. Un altro record della giustizia americana. Ma il giudice disse che quello che aveva commesso Kyzer era stato troppo crudele per essere più clemente con lui..
3) Darron Bennalford Anderson, 2.200 anni di carcere
Per i reati di sodomia, stupro e rapimento di minore, venne condannato in Oklahoma nel 1994 a più di venti secoli di carcere. Fece appello e stabilì un nuovo record. La sua pena venne aumentata invece che diminuita. Di alcuni secoli. Poi, in un altro appello, venne ridotta di 500 anni. Alla fine, rimase la pena originaria. Anche in questo caso, il giudice voleva essere sicuro che l'uomo non potesse chiedere perdono dopo pochi anni. Ma solo dopo qualche secolo.
4) Peter Malloy, 1000 anni di carcere
L'ex proprietario del canale televisivo TV33 di Lagrange, in Georgia, è stato condannato nel 2013 per sfruttamento e abusi sessuale di minori. Cinquanta i casi accertati, per ognuno dei quali, Malloy ha preso 20 anni di prigione, in totale, dieci secoli di prigione. Era stato arrestato nel 2011 dopo una denuncia. Durante le perquisizioni, gli inquirenti ritrovarono migliaia e migliaia di file di materiale pedopornografico. Poi, il processo e la condanna.
5) Bobbie Joe Long, 28 ergastoli e una condanna a morte
Un serial killer della Florida, che ha avuto una sorta di record di condanne. Per i suoi reati, dieci omicidi, più rapimenti e violenza carnale, Long ha collezionato una condanna a cinque anni di carcere, quattro a novantanove anni di carcere, 25 ergastoli senza possibilità di perdono, 3 con possibilità di grazia e una condanna a morte sulla sedia elettrica, che deve essere ancora eseguita.
6) Ryan Brandt e Jeffrey Kollie, sette ergastoli a testa e 265 anni di carcere per ogni rapina
Non avevano commesso delitti, non avevano stuprato, ma erano dediti alle rapine a mano armata. La giustizia della Georgia non è stata leggera con loro. Nel 1996, dopo la loro cattura, il giudice decise di dar loro una condanna esemplare, che fosse da monito anche agli altri rapinatori. I loro legali, ma non solo, protestarono con forza per quella dura condanna. Voleva dire buttare via la chiave della prigione in cui venivano rinchiusi due persone che altrimenti, sosteneva l'avvocato, avrebbero potuto redimersi. La condanna è arrivata dopo che i due avevano rifiutato un patteggiamento che li avrebbe tenuti 40 anni in carcere.
7) Sholam Weiss, 845 anni di carcere
La sua data di rilascio, in questo momento, è il 23 novembre 2754. Processato nel 2000 per la bancarotta del National Heritage Life Insurance, accusato di frode e di riciclaggio, di aver truffato e sottratto milioni i dollari ai pensionati che avevano investito i loro fondi, Sholam Weiss ha un poco invidiabile record sulle sue spalle: è il “colletto bianco” a cui è stata inflitta la pena più severa.
8) Mark Anthony Beecham, 645 anni di carcere
Rapimento e violenza sessuale su minori Il 25enne dell'Alabama è stato condannato nel 2012 a 99 anni per ogni reato per il quale è stato ritenuto colpevole. Dopo la sentenza, ha protestato, dicendo di non avere avuto un processo equo. Quella do Beecham è stata la seconda condanna più pesante nella storia dell'Alabama dopo quella inflitta a Dudley Wayne Kyzer.
9) Norman Schimdt, 330 anni di carcere
La sua data di rilascio è il 12 settembre 2291. Norman Schimdt è al secondo posto della speciale graduatoria dei “colletti bianchi” condannati con le pene più alte. E'rinchiuso in un carcere in Texas e al processo è stata ritenuto colpevole di aver architettato una truffa milionaria.
10) Bernard Madoff, 150 anni di carcere
Un nome famoso, una truffa clamorosa, una condanna esemplare. L'uomo d'affari newyorchese, protagonista della più grande truffa finanziaria nella storia degli Usa, 65 miliardi di dollari, una vera e propria montagna di denaro, è rinchiuso nel penitenziario di stato di Butner e la sua data di rilascio è il 14 novembre 2139.
E, infine, un altro caso esemplare, quasi da record, non per la lunghezza della pena, ma per le condizioni in cui scontata
10 (ex equo) William Blake, 77 anni di carcere, 26 passati in assoluto isolamento
In una lettera spedita ad un'associazione di carcerati, occasione unica nell'ultimo quarto di secolo, quest'uomo, arrestato per l'uccisione di un poliziotto nello stato di New York, ha raccontato il suo calvario: ventisei anni passati in totale isolamento, per decisione del giudice che l'aveva condannato per l'omicidio a 77 anni di carcere. “Non vedo la televisione dagli anni'80 e non ho mai utilizzato un telefono cellulare” - ha raccontato William Blake. “Tu devi passare il resto dei tuoi giorni all'inferno” gli avrebbe detto il giudice del suo processo nel 1987. Da allora ha vissuto nella sezione d'isolamento della prigione di Elmira: 23 ore in cella, niente televisione, possibilità di telefonare o di fare attività ricreative o sportive. Sepolto vivo.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
Il magistrato Vincenzo Maccarone è innocente. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula pi ampia: il fatto non sussiste. Finisce così il calvario dell’ex sostituto procuratore generale della Cassazione, un calvario iniziato l’8 maggio del 2007. Quella sera un gruppo di agenti della Guardia di Finanza avevano bussato alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattarono le manette e l’alto magistrato venne condotto nel carcere di Regina Coeli, rinchiuso in una cella di isolamento. L’arresto era nato da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore Leonardo Giombini. Lo scopo: aiutare Giombini a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia, una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi all’obbligo di dimora nel comune di Osimo. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Maccarone dalla Procura generale di Roma alla Corte d’appello de L’Aquila. Da allora sono passati due anni e il gup Palmisano, il 16 luglio scorso, ha accertato che Maccarone e gli altri imputati sono innocenti. 16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto, scrive Riccardo Arena su “Il Detenuto Ignoto”. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente.
8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore Giombini. Lo scopo: aiutare Giombini a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia. Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati. Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.
TOGHE SCATENATE.
Tempi ad personam per Berlusconi: già emesso e notificato il decreto di carcerazione. Revocato il passaporto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che procedura ordinaria. Neanche il tempo che si asciughi l'inchiostro sulla sentenza, e la Cassazione mette il turbo alla macchina destinata a eseguirla e a privare Silvio Berlusconi del seggio di senatore, della possibilità di espatriare e - alla fine, non si sa come né quando - della libertà. Le sentenze sotto i cinque anni di solito viaggiano da Roma a Milano per posta ordinaria, e anche in questo caso tutti si attendevano che la prassi venisse rispettata. Invece alle 20 e 31 di giovedì dalla cancelleria della sezione feriale della Cassazione il fax con la condanna parte per l'ufficio di Manlio Minale, procuratore generale a Milano: dove però a quell'ora non c'è nessuno, proprio perché nessuno si aspettava tanta fretta. Ieri mattina, alle 7 e 59, un cancelliere insolitamente mattiniero della Cassazione rimanda il fax: stavolta al numero dell'ufficio esecuzione della Procura generale. Gli impiegati lo trovano poco dopo, arrivando in sede. È il segnale del via. La macchina dell'esecuzione è partita. Perché tanta fretta? Cinque o sei giorni non avrebbero cambiato niente. L'unica spiegazione possibile è che a Roma o a Milano qualcuno fosse convinto che Berlusconi si preparasse a scappare, e che per questo fosse urgente ritirargli il passaporto. Per questo si è voluto tagliargli le vie di fuga verso una sua personale Hammamet. La Procura di Milano, vista la rapidità d'azione della Cassazione, si mette al passo. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna legge il fax e lo trasmette al piano di sopra, nelle mani di Ferdinando Pomarici: 71 anni, uno dei grandi vecchi della Procura milanese, il pm dei processi a Prima Linea e del caso Calabresi. Duro era e duro è rimasto. Vicino alla pensione, Pomarici si occupa di un ufficio usualmente defilato, l'ufficio esecuzione. Che però in questo caso diventa un ufficio delicato. Pomarici non perde tempo. Apre un fascicolo intestato a «Berlusconi Silvio». Emette il decreto di carcerazione, e subito dopo il decreto che sospende l'esecuzione della pena per dare il tempo al condannato di chiedere misure alternative. Poi fa partire tre copie del provvedimento. Una è per i carabinieri, che devono mettersi alla ricerca di Berlusconi. Uno è per la questura di Milano, che ha rilasciato il passaporto al Cavaliere e che deve revocarlo. Il terzo, ed è quello che arriva per primo a destinazione, è per il Senato, perché provveda - in applicazione del decreto legge anticorruzione del governo Monti, che porta la firma di Angelo Alfano e che molti avevano accusato di essere troppo morbido - a dichiarare decaduto l'ex presidente del consiglio dallo scranno di Palazzo Madama. Subito dopo è la questura di Milano a dare immediata esecuzione all'ordine della Procura. Il passaporto rilasciato al cittadino Berlusconi viene revocato «su ordine dell'autorità giudiziaria». A farsi riconsegnare materialmente il documento provvederà la questura di Roma, dove - secondo quanto ha verificato in tempo reale la Procura - il Cavaliere ha trasferito da poco la sua residenza. Ma la revoca del passaporto è già stata inserita nel database delle forze di polizia. Se oggi Berlusconi cercasse di espatriare - anche per una vacanza o un impegno politico - si vedrebbe respinto alla frontiera. Anche il passaporto diplomatico di cui gode, rilasciato dal ministero degli Esteri, verrà revocato in queste ore. Sono misure a loro modo burocratiche, ovvie. Ma che segnano una svolta epocale nel percorso giudiziario, umano e politico di Berlusconi. Di visite dei carabinieri il Cavaliere ne ha già ricevute tante, a partire dal giovane ufficiale che il 22 novembre 1994 gli portò a Napoli il primo avviso di garanzia. Ma la visita di ieri del generale Maurizio Mezzavilla a Palazzo Grazioli racconta tutta un'altra storia. Nel foglio che gli consegna il generale gli viene comunicata la sua prima sconfitta. Certo, c'è la sospensione della pena, ci sono trenta giorni di tempo - che poi diventeranno più di settanta per via delle vacanze - per decidere le prossime mosse. Ma il foglio era intestato: «Ordine di esecuzione». Non deve essere stato un bel momento.
Il pm Fabio De Pasquale aggiunge un nuovo "primato" al suo lungo curriculum: fu il primo a ottenere una condanna definitiva per Bettino Craxi, oggi invece è il primo ad ottenere una condanna definitiva per Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Il Cavaliere dopo un assedio durato vent'anni perde il suo status di incensurato, e le brutta nuova arriva al termine di un'inchiesta firmata proprio dalla toga De Pasquale, che anni fa fece incriminare il leader socialista nell'affare Eni-Sai. Erano i tempi di Tangentopoli, De Pasquale agiva all'ombra di Antonio Di Pietro, era il volto semisconosciuto della Procura milanese. Anche oggi non è una delle toghe più celebri, nonostante la lunga indagine su Mediaset, iniziata nel 2001. Di sicuro, a Milano, ben più riconoscibile di lui c'è Ilda Boccassini, la grande accusatrice nel caso Ruby, la toga che ha fatto sfilare le Olgettine in aula e che, per ora, si è dovuta accontentare di una condanna soltanto in primo grado, seppur molto più pesante (sette anni e interdizione a vita per Berlusconi). Che beffa, per Ilda la rossa, bruciata sul traguardo dal collega De Pasquale (che, per altro, può fregiarsi delle migliori stellette anti-Cav: in quattro anni ha istruito tre processi contro l'ex premier).
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI
L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.
ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.
AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.
CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.
ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.
GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.
ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
Chi è Antonio Esposito?
Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.
Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».
Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?
«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».
Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?
«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere». Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.
Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".
Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».
D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.
Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.
Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».
Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.
Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».
L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».
Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca. Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti». Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.
Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla. Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".
Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.
PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.
Parliamo di quando Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando Esposito figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.
Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….
Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando Esposito subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando Esposito rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando Esposito non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Fernando Esposito. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando Esposito compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta - scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando Esposito che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Ferdinando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando Esposito su quello stranissimo incidente stradale del 2007?
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
Il 30 maggio davanti al gup l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando Esposito, sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando Esposito non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando Esposito altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.
LA REPLICA DEL SOSTITUTO PROCURATORE ESPOSITO.
Dall’articolo pubblicato in data odierna sul “Il Fatto Quotidiano” a firma di Davide Milosa apprendo che tale avvocato Vincenzo Minasi – arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa – avrebbe affermato innanzi al G.U.P. di Milano che io sarei amico di Giulio Giuseppe Lampada “presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Poiché la notizia è completamente falsa, Le chiedo formalmente di pubblicare la seguente smentita: Non sono amico né frequentatore del Lampada, persona a me del tutto sconosciuta e della quale non ho alcun ricordo. Non ho mai conosciuto né letta una riga degli atti investigativi della inchiesta condotta dai magistrati della Dda. So soltanto – e credo che basti – che mio padre, dr. Antonio Esposito ha presieduto il Collegio che in Cassazione ha confermato le misure cautelari (e le ordinanze del Tribunale del riesame adottate nei confronti degli associati e dei fiancheggiatori); e so soltanto che le calunniose dichiarazioni del Minasi sono – guarda caso – di pochi giorni successivi al deposito delle decisioni adottate dalla Suprema Corte. Mi riservo ogni azione a tutela dei miei diritti gravemente lesi. Ferdinando Esposito.
Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria GrecoIl Giornale”. Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando Esposito, a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave. su “
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
Quando la toga sparlava delle avventure piccanti del Cavaliere con le deputate Pdl, scrive “Libero Quotidiano”. Probabilmente non sapeva che il giornalista seduto tra lui e il giudice Ferdinando Imposimato fosse un cronista del Giornale. Del resto era una cena conviviale con il vincitore del premio Fair Play 2009 e lui, il giornalista, aveva appena consegnato il riconoscimento che negli anni passati aveva dato a Giulio Andreotti, Ferruccio De Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Quell'anno era toccato a Imposimato che si era portato appresso il collega Antonio Esposito, il giudice della Suprema Corte che mercoledì scorso ha emesso il verdetto di condanna contro Silvio Berlusconi. Stefano Lorenzetto, questo il nome del giornalista, rivela oggi quella chiacchierata a tavola e il racconto ha davvero dell'incredibile. "Esposito nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare con palese compiacimento circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario salvo poi smentirsi". "Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione", continua Lorenzetto, "dava segno di conoscerne a fondo il contenuto come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato nelle registrazione il Cav avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. ' E indovini chi delle due vince la gara?', mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo, nè volevo replicare di diede da solo la risposta: 'La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?". Lorenzetto quella sera del 2 marzo 2009 ancora non si era ripreso dal disgusto di quella conversazione che il giudice Esposito regalò ai commensali un altro scoop: rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente antipatica: "Colpevole". Dopo meno di 48 ore un lancio dell'Ansa confermava ciò che il magistrato aveva anticipato durante la cena all'Hotel Due Torri di Verona. Di questo episodio Lorenzetto però ne aveva già parlato nel suo libro del 2011 "Visti da lontano": allora aveva "giustificato" lo sproloquio di Esposito con il troppo alcool circolato a tavola. Alla luce della sentenza di mercoledì Lorenzetto ha cambiato idea: "Era assolutamente lucido nei suoi proprositi. Fin troppo".
Così infangava Berlusconi il giudice che l'ha condannato. Antonio Esposito parlò di presunte gare erotiche del premier con due deputate del Pdl. E anticipò la condanna di Vanna Marchi che emise due giorni dopo, scrive Stefano LorenzettoIl Giornale”. Questo è l'articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell'impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s'è ribellato: «Devi!». – su “
Dunque eseguo per scrupolo di coscienza. In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti - fiducia e rispetto - per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio. Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell'illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l'ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell'imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall'alto ufficio che ricopre. Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L'avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m'invita in veste di moderatore-intervistatore. È un'incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell'occasione l'ex giudice istruttore dei processi per l'assassinio di Aldo Moro e per l'attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l'uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato. Seguì un ricevimento all'hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d'onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest'ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?». Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio. Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell'Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l'altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l'esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio? Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell'udienza, v'è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell'avventura che m'è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d'appello l'8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente. A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un'affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po' brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l'altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati». Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d'aver ecceduto con l'Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo.
«Ho scritto con grande disagio interiore. Ma ho dovuto farlo. Non avevo scelta». Dice di essersi rigirato nel letto una notte intera, Stefano Lorenzetto, scrive Cristiano Lodi su “Libero Quotidiano”. Il giornalista scrittore, autore dell’articolo pubblicato ieri dal Giornale sul giudice che, prima di pronunciare il tombale verdetto di condanna, aveva infangato Silvio Berlusconi, adesso cerca di farsi coraggio. Prova a seguire il consiglio dei pochi che lo difendono dagli attacchi e dagli insulti dei molti. Soggetti che hanno gridato allo scandalo. Non perché il magistrato in ermellino che ha condannato il Cavaliere lo aveva già insultato pubblicamente al ristorante nel 2009 («venendo meno ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre »), ma in quanto Lorenzetto ha osato scriverlo. Essendo stato testimone di un episodio che dovrebbe preoccupare chiunque. Il giornalista descrive il fatto (risalente al 2 marzo 2009) avvenuto alla presenza di testimoni autorevoli. In occasione di un pranzo a Verona, presente Antonio Esposito (presidente della sezione feriale della Cassazione che giovedì ha letto la sentenza), egli ha sentito pronunciare parole sprezzanti nei confronti di Berlusconi. «Un grande corruttore», «un genio del male », questi gli appellativi usati dall’alto magistrato; a dimostrazione della “imparzialità” e della “serenità” nei confronti dell’imputato. Stefano Lorenzetto racconta, con dettagli incontrovertibili, che durante quel ricevimento di inizio primavera 2009, alla presenza anche dell’ex giudice istruttore e presidente onorario aggiunto della Cassazione, Ferdinando Imposimato, il collega Antonio Esposito aveva cominciato «a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni riguardanti l’allora premier, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Adda - rio, salvo poi smentirsi». Il presidente Esposito, dice ancora lo scrittore: «Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora premier». E a sentire l’eminente magistrato, nei brogliacci delle conversazioni «il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti». Con tanto di indovinello, allo stesso Lorenzetto, su chi delle due donzelle vinse la gara. «Ma, siccome non potevo né volevo replicare », dice il giornalista, «Esposito si diede da solo la risposta: “La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?». E non finisce qui, perché il giudice, in quella stessa occasione, avrebbe anche «anticipato la sentenza di condanna inflitta a Vanna Marchi solo due giorni dopo». Su richiesta di chi? Del pg Antonio Mura: lo stesso giudice che mercoledì, ha chiesto di condannare Berlusconi. Quando si dice il destino. Lorenzetto non nasconde il disagio, ma si sente sollevato e ricorda le parole che gli disse Enzo Biagi: «Quando la coscienza bussa alla tua porta, non puoi fare finta di non essere in casa». «La mia coscienza», ammette il giornalista, «ha martellato una notte intera, impedendomi il sonno. Così mi sono alzato e ho scritto quello che avevo visto e sentito dal giudice Esposito, quattro anni prima». In tempi non sospetti, tanto che lo scrittore cita l’episodio anche in Visti da lontano, edito da Marsilio nel 2011. «Alle 7 del mattino di venerdì ho cominciato a scrivere», racconta ancora Lorenzetto, «e alle 12 ho spedito tutto al direttore del Giornale, lasciandolo libero di cestinare». Alessandro Sallusti non lo ha fatto. E Lorenzetto non arretra di un millimetro: «Mi dicono che Antonio Esposito sia un giudice di grande linearità giuridica, un mostro del diritto nello stendere le sentenze. Non ne dubito. Ma io ritengo che avrebbe dovuto astenersi dal giudizio su Berlusconi». Sui network piovono attacchi feroci al giornalista che ha osato tanto. «Vengo accusato di avere difeso il padrone. In realtà sono un cassintegrato di Panorama, l'altro mio datore di lavoro, e penso di essere stato il primo e unico giornalista ad avere lasciato la vicedirezione del Giornale, rinunciando ai cinque sesti dello stipendio, per poter tornare a scrivere e a occuparmi, come faccio da 15 anni, solo di italiani qualunque ». Si definisce un «don Abbondio di campagna, che il coraggio se l'è dovuto dare, più dedito alla lettura dei Salmichenon dei giornali». Uno convinto che «i magistrati debbano fare i magistrati e i giornalisti i giornalisti: sarebbe così bello andare tutti d’amore e d’accordo, fidarsi gli uni degli altri. Invece...». Un amico magistrato, due avvocati e la moglie l’avevano sconsigliato di imbarcarsi in quest’avventura. «Mi sa che mi sono messo in un mare di guai. Ma non potevo sottrarmi. Del resto, come recita un proverbio talmudico, il male che un uomo è capace di fare a se stesso non sono capaci di farglielo dieci nemici». Ecco, dice Stefano Lorenzetto: «Questo vale per me e anche per il giudice Esposito».
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso -fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area- e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)». Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.
«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.
Vent'anni di persecuzione continua.
Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca FazzoIl Giornale E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia TagliaferriIl Giornale Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».
I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.
L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.
Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia. Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora c’è anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani, a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
Da Almirante a Craxi chi tocca
la sinistra muore, scrive Marcello VenezianiIl
Giornale
Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra
è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca,
più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio
Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze,
spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo
fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno
fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a
liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse
il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando
l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto
rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva
sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di
voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un
cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì
una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le
accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come
Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si
accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci,
fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate.
Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a
delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani
vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il
Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico,
voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si
emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a
esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di
stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a
esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui
diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi.
Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo.
Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle
orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere
ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci
sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè).
Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a
quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di
eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono
risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia
di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no.
Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì
l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i
casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da
Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi,
volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il
mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono
delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una
spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero
nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni
neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla
con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi
navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per
finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra
dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi
antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti
sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se
qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse
setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero
trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a
spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi
vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il
criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel
suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della
partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di
teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il
nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe
nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che
si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni
decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero
accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un
meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze
dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a
partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della
responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono
una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che
solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che
non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono
le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni
poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato;
non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il
terminale periferico. Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi
conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure
diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no.
Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella
abortita dal '68.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano FilippiIl Giornale Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano ZurloIl Giornale La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”. Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone. “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".
"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".
GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.
Il senso di Bersani per la musica non è mai stato granché felice, scrive Andrea Scanzi su “Il Fatto Quotidiano”. Qualche anno fa scelse Un senso di Vasco Rossi. Il testo recitava: "Voglio trovare un senso a questa storia/ anche se questa storia un senso non ce l'ha". Praticamente la recensione fulminante del Pd. Bersani, tramite Twitter, ha comunicato il nuovo inno. Che, con originalità guizzante, si chiama proprio Inno. È verosimile che, quando Bersani va al ristorante e gli chiedono che vino voglia bere, risponda: "Vino". Una sorta di eccesso didascalico proletario. L'autrice è Gianna Nannini, brava ma non esattamente un portafortuna: nel 1990, con Edoardo Bennato, interpretò Notti magiche per i Mondiali di Italia '90. Non aveva calcolato le uscite di Zenga (e gli Zenga fuori forma, nel centrosinistra, non mancano). Il rapporto tra musica e politica è conflittuale. Ieri Beppe Grillo ha lanciato sul blog l'inno elettorale dei 5 Stelle: L'urlo della rete, uno vale uno, di Leonardo Metalli e Raffaello Di Pietro: "Vita rubata dai cialtroni vestiti da buffoni che mangiano milioni". La destra, non avendo cantori di riferimento a parte Masini, Tony Renis e Umberto Smaila, si affida a rincalzi. Con effetti raggelanti, da Forza Italia a Menomale che Silvio c'è. In confronto, Valerio Scanu è Robert Plant. Ultimamente vanno di moda Mario Vattani, noto statista nazi-rock con un'idea lievemente sbarazzina di democrazia, e Gianluigi Paragone, che da un giorno all'altro si è messo in testa di strimpellare durante L'ultima parola. Le sue cover sono così personali e ad minchiam che, per contrasto, risultano quasi gradevoli. A sinistra, al contrario, l'affiliazione con i cantautori serve anche a ribadire la superiorità culturale. Giorgio Gaber, saccheggiato da chiunque (gli ultimi sono stati Pisapia e Renzi) per lo slogan "Libertà è partecipazione", ironizzava in Destra-sinistra: "Quasi tutte le canzoni son di destra/se annoiano son di sinistra". Difficilmente confutabile, pensando allo stereotipo un po' cimiteriale della canzone d'autore (Cantacronache, Nuovo Canzoniere Italiano, Vecchioni). Il centrosinistra, nel 1996, scelse La canzone popolare di Ivano Fossati. Portò fortuna, anche se il musicista in seguito parve pentirsi: quando gli chiedevano se avrebbe ridato il brano al centrosinistra, reagiva con lo stesso fastidio esibito all'ennesima domanda su La mia banda suona il rock. La seconda vittoria di Prodi, nel 2006, ebbe per colonna sonora Una vita da mediano di Ligabue. Veltroni, da navigato buonista ilare e sempre giovane, due anni dopo optò per Mi fido di te. Una delle canzoni migliori di Jovanotti. Nel 2008 circolò anche una versione tremebonda, ideata da alcuni militanti milanesi, sulla base di Ymca dei Village People (che reagirono malissimo e chiesero i diritti). Purtroppo per Veltroni, gli elettori non si fidarono di lui. È poi celebre il caso di Bettino Craxi. Adorava Viva l'Italia di Francesco De Gregori, al punto da citarne una strofa a Montecitorio: "L'Italia che soffre, che lavora e che resiste". De Gregori non gradì e, nel '92, si vendicò: "È solo il capobanda/ ma sembra un faraone/ si atteggia a Mitterand/ ma è peggio di Nerone". Craxi (e suo figlio Bobo, oggi amico del cantautore) ci rimasero male. Col tempo, De Gregori è diventato più morbido. Nel 2006 ha dichiarato: "Se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia stato superiore a tanti politici attuali". De Gregori conobbe Craxi. Si videro a Trastevere, nell'appartamento di Lucio Dalla (amico del leader Psi). Craxi continuò a chiedere come facesse quella canzone. De Gregori, recalcitrante, prese la chitarra ed eseguì Viva l'Italia. Ai cori, Bettino. Altri tempi. Forse migliori e forse no.
Francesco De Gregori intervistato da Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”.
Francesco De Gregori, sono sei anni, da quando in un'intervista al «Corriere» lei demolì la figura allora emergente di Veltroni, che non parla di politica. Che cosa le succede?
Succede che il mio interesse per la politica è molto scemato. Ha presente il principio fondativo delle rivoluzioni liberali, "no taxation without representation?". Ecco, lo rovescerei: pago le tasse, sono felice di farlo, partecipo al gioco. Però, per favore, tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi».
Cos'ha votato alle ultime elezioni?
«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com'è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull'elenco del telefono».
Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L'autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?
«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos'è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell'orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos'è oggi la sinistra italiana?».
Me lo dica lei, De Gregori.
«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».
Alla fine la sinistra si è alleata con Berlusconi.
«Questo governo non piace a nessuno. Ma credo fosse l'unico possibile. Ringrazio Dio che non si sia fatto un governo con Grillo e magari un referendum per uscire dall'euro. Se poi molti nel Pd volevano governare con Grillo e io non sono d'accordo non è un dramma. Ora il Pd è di moda occuparlo, prendere la tessera per poi stracciarla. Non ne posso più di queste spiritosaggini».
Apprezza Letta?
«Le ho detto che seguo poco. Se mi chiede chi è ministro di cosa, magari non lo so. Quando viaggio compro sei giornali, ma dopo dieci minuti li poso e comincio a guardare fuori dal finestrino...».
Colpa dei giornali o della politica?
«Magari è colpa mia. Mi sento, mischiando Prezzolini e Togliatti, un "inutile apota". Comunque nutro un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e di Alfano. Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra; io ho sempre avuto nemici a sinistra, e non me ne sono mai occupato. Ho votato Pci quando era comunista anche Napolitano. Ma viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».
Di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è stato fondamentalmente un uomo d'azienda. Nel suo campo e nel suo tempo una persona molto abile, non un vecchio padrone delle ferriere. Ha fatto politica solo per proteggere i suoi interessi, senza avere nessun senso dello Stato, nessun rispetto per le regole e, credo, con alle spalle una scarsa cultura generale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È imputato di reati gravi e si è difeso dai processi più che nei processi. Che altro vuole sapere? Aveva ragione l'Economist : Berlusconi era inadatto a governare l'Italia. Mi chiedo però anche se l'Italia sia adatta a essere governata da qualcuno».
Un premier non telefona in questura per far liberare un'arrestata dicendo che è la nipote di Mubarak, non crede?
«Certo. Andreotti non si sarebbe mai esposto così. Però, guardi, ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere. E ho trovato anche ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta al sindaco di Firenze per un suo incontro col premier».
Renzi appare l'uomo del futuro.
«Renzi è uno che ha sparigliato. Se il Pd avesse candidato lui probabilmente avrebbe vinto. Ma la scelta del termine rottamazione non mi è mai piaciuta, mi è sempre parsa volgare e violenta. E poi non sono più disposto a seguire nessuno a scatola chiusa».
Quindi non crede in lui? E non voterà alle primarie?
«Il verbo "credere" non dovrebbe appartenere alla politica. Non basta promettere bene e saper comunicare. E poi penso di non votare alle secondarie, si figuri se voterò alle primarie. Il Pd sta passando l'estate a litigare. E magari anche Renzi ne uscirà logorato».
Aveva acceso speranze Grillo e l'idea della rete come veicolo di partecipazione.
«Ho trovato inquietante la campagna di Grillo, il suo modo di essere e di porsi, il rifiuto del confronto, le adunate oceaniche. Condivido i tagli ai costi della politica e la richiesta di moralizzazione che viene da molti e che Grillo ha saputo ben intercettare. Molti elettori e molti eletti del M5S sono sicuramente persone degne e capaci di fare politica. Ma questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».
Con Veltroni avete fatto pace?
«Per quell'intervista mi saltarono addosso in molti, compresi alcuni colleghi cantanti. Qualcuno mi chiese addirittura "Chi ti ha pagato?". Con Veltroni ci siamo incontrati per caso un paio di mesi fa al Salone del Libro a Torino, abbiamo parlato qualche minuto e credo che questo abbia fatto piacere a tutti e due. È sempre una persona molto ricca sul piano umano. Ma non mi andava di essere catalogato tra i Veltroni Boys».
Non c'è proprio nessuno che le piaccia?
«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».
Oggi non canterebbe più «Viva l'Italia»?
«Al contrario. Sono convinto che l'Italia abbia grandi chance per il futuro. E ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. "L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere". "L'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora". L'Italia che ogni tanto s'innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l'Italia, e per gli italiani, non è in discussione. Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».
Avete presente la storiella del corvo che si lamenta di quant'è nero il merlo? A tanti è venuta in mente ieri leggendo le dichiarazioni di tanti esponenti del Pd dopo che Francesco De Gregori, un'icona storica della sinistra, aveva detto al Corriere: «Non voto più, la mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav». De Gregori si iscrive al club degli artisti delusi dalla sinistra. Il cantante volta le spalle al Pd "perso tra slow food e No Tav", ma raccoglie solo critiche: "Incredibile, sei invecchiato così male", scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Irritati, gli hanno mandato a dire: «Non possiamo credere che tu sia invecchiato così male». E poi lo hanno rassicurato (minacciosamente): «Conserveremo l'intervista, la ricorderemo come un errore e una critica eccessiva, tenendo a mente che non è da un calcio di rigore sbagliato che si giudica un giocatore». Mamma mia. In realtà il «calcio di rigore» è forse una delle più lucide e dolorose interviste di Francesco De Gregori negli ultimi anni, quello che con Il generale e La storia siamo noi si è conquistato nei decenni il rispetto di un'intera area politica. Parlando con Cazzullo, ha snocciolato tutti i mal di pancia di chi votava a sinistra e ora anche no. La sinistra? «È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo a tratti incompatibile con la modernità». Berlusconi? Oltre alle solite precisazioni anti Cav, ha sottolineato che «pensare di eliminarlo per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra». La quale, per intenderci, avrebbe fatto meglio a porsi «qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto». Probabile che a far rabbrividire i piddini duri e puri siano state frasi come «sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy», oppure «trovo ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta a Renzi per un suo incontro con Berlusconi» o, infine quel gelido «ho trovato inquietante la campagna di Grillo» proprio poco dopo che il Pd di Bersani ha fatto di tutto per portarselo al governo. Insomma, dopo aver fatto suonare La storia siamo noi a tutti i congressi sin dai tempi della «gioiosa macchina da guerra», ora è la sinistra a farsele suonare dalla propria icona. Oltretutto la base Pd deve pure trangugiare quello che quasi tutti pensano: «Se il Pd avesse candidato Renzi, probabilmente avrebbe vinto». Insomma, la caporetto della salamella. Sarà per questo che le reazioni, specialmente quelle sui social network, sono arrivate al bivio: da una parte gli increduli, dall'altra (più numerosi) quelli che approvavano le parole di un artista nel quale si riconoscono sin dagli anni '70. Di certo, l'enfasi dei commenti legittima lo status di De Gregori ma non la novità delle sue parole. In realtà, seppur autorevolissima, è l'ultima di una sfilza di j'accuse di maestri della musica che parte da quel disco (e spettacolo) Polli d'allevamento di Giorgio Gaber che nel 1978 segnò la sua frattura con il movimento giovanile. Da allora è stato uno stillicidio di cannibalismo: artisti storicamente identificati con la sinistra che ne prendevano drasticamente le distanze, trasformando spesso con il senno del poi il sonno del prima. Nanni Moretti ad esempio. Oppure Francesco Guccini (La locomotiva è un must da lacrimoni di nostalgia per vetero comunisti) che non ha fatto giri di parole quando Prodi è stato trombato nell'ultima corsa al Quirinale. Dopotutto, sul sottile filo che dal disilluso Gino Paoli arriva al De Gregori di oggi, stanno in equilibrio della contestazione a sinistra anche Antonello Venditti («Il Pd è chiuso nel proprio apparato»), Pino Daniele quello che cantava «Questa Lega è una vergogna» e ora dice di «esser deluso dalla sinistra», Giovanni Lindo Ferretti (un genietto nato con un gruppo che si chiamava nientemeno che CCCP) e anche Lorenzo Jovanotti che ha semplicemente detto: «L'opposizione a un vuoto finisce per essere un altro vuoto». Molto bipartisan. Ma molto più doloroso per chi non accetta la cosiddetta autocritica perché, come diceva il pioniere Gaber, è sempre «più comunista degli altri».
Da De Gregori a Guccini: il Pd è rimasto senza voce. De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati delusi dai generali democratici. Da Guccini a Samuele Bersani, da Jovanotti a Venditti e alla Mannoia: il Pd è rimasto afono, scrive Domenico FerraraIl Giornale”. Il Pd è diventato afono. Le uniche voci rimaste sono quelle degli artisti, pronti a cantare la loro delusione. Sono finiti i tempi dei palchi, delle colonne sonore e del connubio tra musica e politica. Adesso, i democratici sono rimasti senza cantori. Francesco De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati stufi dell'incapacità dei generali. Non resta che abbandonare il campo. Vuoi perché “la sinistra si è persa tra slow food e No Tav”, vuoi perché le ultime decisioni democratiche hanno fatto traboccare un vaso già pericolante. E così arrivano defezioni che non ti aspetti. Come quella di Francesco Guccini che, all'indomani della pugnalata inflitta dai falchi democratici al suo amico Romano Prodi, arriva a sentenziare affranto: “Non so se il Partito democratico sia ancora il mio partito”. O come quella di Antonello Venditti, che alla vigilia delle amministrative capitoline, suonò note caustiche: “Il Pd non sa che cos’è e che cosa vuole essere, è chiuso nell’apparato, non ascolta e non capisce più Roma”. Pd capoccia. E pensare che nel 2007 il cantautore si diceva convinto che “non credere nel Pd sarebbe come rinnegare me stesso, è la mia storia naturale. Non credo tanto nel partito, penso che il vero partito siamo noi''. Per Samuele Bersani è stato proprio uno spaccacuore. Il cantante riminese non ha avuto remore a esternare tutto il suo malumore davanti al pubblico pagante: “Non mi fido più del Pd, voterò Movimento 5 Stelle”, annunciò prima delle ultime elezioni politiche. Se prima avrebbe affidato le chiavi di casa a Walter Veltroni, adesso Jovanotti al Pd probabilmente non affiderebbe nemmeno un centesimo. “Questo governo fa male all'Italia, un accordo Pd-Pdl non mi sembra rispettoso dell'esito delle elezioni, non mi convince molto”. Cherubini rimane un nostalgico di Veltroni, ma una volta finito il suo progetto, ha dovuto ammettere che “nel Pd sono tornati a galla gli anziani D'Alema, Bersani, Bindi. Li rispetto, ma non si va da nessuna parte con loro”. Adesso non gli resta che puntare su Renzi, sperando di non rimanere l'unico a cantare: "Mi fido di te". Fiorella Mannoia, in tempi non sospetti, ha fatto coming out preferendo Ingroia: “Non ho votato Pd e non sono pentita. Sono di sinistra. È per questo che non li ho votati". Quelle che le donne dicono... L'ultima cantante che ha espresso parole positive nei confronti di un esponente del Pd è stata Gianna Nannini: “Complimenti per la scelta! Finalmente qualcuno che si intende di musica! Inno è il pezzo più bello che ho scritto negli ultimi 20 anni!”, disse la cantante commentando la scelta di Pier Luigi Bersani della nuova colonna sonora del Pd. Adesso il segretario è Epifani e quella musica non ha portato molto bene. su “
ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.
La sgangherata pattuglia pentastellata non conosce nemmeno il nome dei suoi eroi. La consueta gaffe, questa volta, ce la regala il senatore grillino Nicola Morra, capogruppo a Palazzo Madama. Prende la parola in aula, e nello sventolio di agendine rosse dei movimentisti seduti attorno a lui, ricorda la strage di via D'Amelio. Così Morra: "Dobbiamo ricordare Salvatore Borsellino...". Tra i suoi compagni di "movimento" nessuno dice una parola, nell'emiciclo si leva una voce: "Non sa nemmeno come si chiama...". Quindi prende la parola il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso, che riprende Morra: "Stiamo ricordano Paolo, perché non credo proprio che Salvatore Borsellino sia nelle condizione di essere ricordato". Salvatore, infatti, è il fratello. Vivo e vegeto. Grillini, analfabeti parlamentari: "Non capiamo che cosa votiamo" Che autogol in diretta streaming...I senatori a 5 Stelle si coprono di ridicolo nella loro assemblea: "Emendamenti incomprensibili, qualcuno ce li traduca". Però incolpano gli altri partiti, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Per giorni e giorni fra marzo e aprile avevano tuonato contro la mancata costituzione delle commissioni parlamentari perché così non li facevano lavorare. Ora dopo quattro mesi di lavoro in commissione il Movimento 5 stelle scopre di annegare in quel lavoro che gran parte dei suoi eletti non sanno fare. La gran confusione e l’esteso dilettantismo è emerso durante la riunione (parzialmente trasmessa in streaming) del gruppo parlamentare al Senato giovedì 25 luglio. A sorpresa la conduzione dell’assemblea è stata affidata a Maurizio Buccarella e non al capogruppo pro-tempore Nicola Morra, che pure gli sedeva a fianco silente. A illustrare l’imbuto in cui il movimento si è infilato è stato invece Maurizio Santangelo, il senatore che si è ritagliato un po’ di notorietà a palazzo Madama perché ogni cinque minuti interrompe la seduta per chiedere la votazione elettronica. Santangelo si è lamentato della scarsa incidenza dei parlamentari del movimento, che spesso fanno lunghi interventi «anche di qualità», che però nessuno ascolta. Forse è meglio - ha sostenuto - utilizzare più delle parole gli emendamenti per migliorare i provvedimenti presentati dal governo e della maggioranza. Ed è qui che è nato lo psicodramma interno al gruppo. A prendere la parola è stata infatti la catanese Ornella Bertorotta, membro della commissione bilancio del Senato: «A proposito di emendamenti», ha esordito, «esco un attimo dal tecnicismo per dire che nella commissione bilancio abbiamo molta difficoltà a difendere i nostri emendamenti, perché proprio non li capiamo». Scritti - come quasi tutte le leggi che si vorrebbero cambiare in modo incomprensibile. «Ci vuole tutto uno studio», ha sostenuto la Bertorotta, «per capire il linguaggio giuridico, e con i tempi che abbiamo non ce le facciamo. Forse potremmo approfittare delle nostre segretarie perché prendano appunti da chi conosce le cose e poi redigano una spiegazione in calce ad ogni emendamento». Semplifica Laura Bignami: «Sì, anche io ho questa impressione: che non capiscono i nostri emendamenti e quindi poi non riescono a difenderli». Di fronte allo smarrimento di gran parte dei senatori a Cinque stelle, va diretto un altro membro della commissione Bilancio, Elisa Bulgarelli: «Guardate, gli emendamenti debbono passare tutti in bilancio. Quando arrivano sono veramente molto tecnici, e non solo a livello giuridico. Gli ultimi che venivano dalla commissione Lavoro erano scritti in modo del tutto incomprensibile. Così non siamo riusciti a difenderli: non capendoli non sapevamo che argomenti trovare con gli altri». Qualcuno fa osservare che gli ultimi emendamenti inviati avevano la loro spiegazione allegata, e la Bulgarelli scuote la testa: «Non dovete scriverci spiegazioni che sono identiche al testo incomprensibile perché ovviamente non capiamo nemmeno quelle». Ai Cinque stelle puoi dire di tutto, salvo che lavorano male. Perché sono molto fieri del proprio presunto sapere e pontificano su tutto. Quindi di fronte alle critiche si offendono. E rigirano la frittata. L’ha fatto subito lo stesso Santangelo: «Loro hanno certo ragione. Però questa problematica nasce dal fatto che il governo e questa maggioranza mettono dei decreti omnibus in cui ci sono delle cose complicatissime e c’è sempre poco tempo per capire e trovare soluzioni. Ecco: quando parliamo di ostruzionismo il vero ostruzionismo è quello che si sta facendo nei confronti dell’unica forza politica nuova, che è la nostra: il Movimento 5 stelle. Noi ancora non siamo pratici, abbiamo bisogno di un po’ di tempo...». Ribaltando la frittata, Santangelo sostiene che «ad esempio nel decreto Iva sia Pd che Pdl avevano presentato molti emendamenti di buon senso che avremmo votato. Appena l’hanno capito hanno fatto ostruzionismo contro noi, decidendo di ritirare tutti gli emendamenti». Siamo alla fantasia più sfrenata. Che nasconde una sola verità, poi ammessa nella riunione: «Dobbiamo imparare e farci furbi. Basterebbe essere un po’ più veloci e presentare emendamenti nostri anche all’ultimo, con la firma di otto senatori. Quelli non li possono ritirare…». E il grande complotto alla fine diventò un auto complotto.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.
POPULISTA A CHI?!?
Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio SolinasIl Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema. su “
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
Corruzione, in manette giudice e avvocato. Indagati due ammiragli della Marina Militare. Sette in tutto gli arresti. La richiesta è partita dalla procura di Roma. Tra le persone finite il manette il magistrato del Tar del Lazio e l'ex presidente della Banca popolare di Spoleto, scrive “La Repubblica”. Sette arresti per corruzione in atti giudiziari: 3 in carcere, 4 a domiciliari. Ad eseguirli, su richiesta della Procura di Roma, sono stati i carabinieri del Noe. In manette sono finiti il giudice del Tar del Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti. Ai domiciliari invece l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, Francesco Clemente, Francesco Felice Lucio De Sanctis e Marco Pinti. Nell'inchiesta risultano indagati anche due ammiragli della Marina Militare e il costruttore Claudio Salini, dell'omonima impresa edile. Ma sono oltre 17 le persone indagate per fatti avvenuti negli ultimi mesi del 2012 ad oggi. L'inchiesta, si legge nel provvedimento del gip, ''trae origine dall'attività di intercettazione disposta nell'ambito di altro e diverso procedimento pendente dinanzi alla Procura di Napoli''. De Bernardi era già finito in manette a maggio 2013 con l'accusa di riciclaggio su richiesta della procura di Palermo: secondo gli inquirenti siciliani sarebbe stato a capo di un'associazione a delinquere sgominata dai finanzieri. Ora il pm della procura capitolina gli contesta il reato di corruzione in atti giudiziari. In particolare, come scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare, De Bernardi avrebbe siglato un accordo con l'avvocato Matilde De Paola ''in base al quale quest'ultima si impegnava a corrispondere al giudice del Tar somme di denaro quale compenso per il compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio consistenti di volta in volta, nell'accordarsi con parti processuali in ordine alla nomina della stessa De Paola quale difensore in procedimenti davanti al Tar del Lazio''. Episodi di corruzione non sporadici ma che, secondo il giudice, dimostrano, come scritto in un passaggio delle 101 pagine del provvedimento di custodia cautelare, "in maniera chiara ed univoca la sussistenza di un articolato ed organizzato sistema di corruzione che fa capo al De Bernardi". "Sussistono seri elementi, ben al di là di quanto esige il parametro dei gravi indizi di colpevolezza, in ordine al fatto - si legge nel provvedimento - che, egli si sia ripetutamente accordato con diversi privati ed in relazione a diversi procedimenti per alterare, dietro la corresponsione di somme di denaro, il corretto e imparziale esercizio dell'attività giurisdizionale. In particolare risulta che egli abbia svolto tale illecita attività di interferenza avvalendosi, nella maggior parte dei casi, dell'ausilio dell'avvocato De Paola, avvocato amministrativista del foro di Roma. Al riguardo le emergenze processuali hanno dimostrato che il giudice aveva stretto con la citata professionista un accordo corruttivo 'aperto' in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano per ottenere il suo interessamento ai procedimenti che li riguardavano , ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell'attività di assistenza legale". Quanto ai due ammiragli della Marina Militare, Marcantonio Trevisani e Luciano Callini, entrambi 65enni, sono indagati per corruzione sui ricorsi pilotati al Tar del Lazio dal giudice De Bernardi. Stando al gip Maria Paola Tomaselli, De Bernardi avrebbe ''indirizzato allo studio dell'avvocato Matilde De Paola i due ammiragli, curando per loro la stesura dei ricorsi amministrativi dagli stessi proposti ed influendo in modo determinante nella stessa stesura della sentenza, ricevendo quale corrispettivo dall'avvocato De Paola, per il tramite della propria convivente Evis Mandija (che emetteva in relazione a tale pagamento fattura per operazioni inesistenti) la somma di 10mila euro''. ''Il giudice - dunque - ha svolto un'attività di interferenza nella fase di studio e di predisposizione del ricorso''. In una conversazione con l'avvocato De Paola, intercettata dagli investigatori, il magistrato amministrativo si sarebbe spinto ad affermare ''di aver fatto al Trevisani 'una sentenza ad hoc'''. Salini, invece, è tirato in ballo perché secondo l'accusa, il giudice amministrativo De Bernardi e l'avvocato De Paola, a partire dallo scorso marzo, ''accettavano, per il tramite di Francesco Clemente da ICS Grandi Lavori spa (riconducibile al gruppo facente capo proprio a Salini) la promessa del pagamento di imprecisate somme di denaro'', ''in cambio della sua attività di indebito interessamento ed illecita interferenza volti ad alterare le corrette procedure di assegnazione e decisione del ricorso proposto da ICS per l'annullamento del provvedimento di assegnazione dell'appalto per la costruzione del Ponte della Scafa''. ''Condotta illecita - scrive il gip Maria Paola Tomaselli - in effetti concretamente posta in essere da De Bernardi mediante la predisposizione di memorie difensive ed altre condotte orientate a conseguire un esito favorevole al ricorrente, come in effetti avvenuto, con corresponsione a De Bernardi di una prima parte (euro 5.000) del compenso concordato''. Nella vicenda del ricorso di ICS Grandi Lavori spa, il gip Maria Paola Tomaselli spiega che ''lo schema si ripete, con l'unica peculiarità che, in questo frangente, il privato non contatta il giudice De Bernardi, ma è, al contrario, un cliente dell'avvocato De Paola, alla quale era stato indirizzato dal di lei marito Patrizio Giuliani, amico dell'amministratore delegato della società Francesco Clemente''. Secondo il gip, la De Paola ''ricorre al sostegno del giudice De Bernardi al fine evidente di acquisire il gruppo Salini come cliente, avendo peraltro ben compreso che Clemente l'aveva incaricata della causa, affiancandola all'avvocato Musenga, proprio per giovarsi dell'intervento illecito di De Bernardi''. Per quanto riguarda l'arresto di Antonini, al centro dell'inchiesta ci sarebbe invece il ricorso al Tar del Lazio nei confronti di Bankitalia contro il commissariamento della Spoleto credito e servizi. L'ipotesi accusatoria sembra essere quella di un interessamento del giudice Maria De Bernardi al procedimento in cambio di 50mila euro ricevuti tramite Cerruti che entra in gioco, sottolinea il gip, ''sin dal 27 febbraio 2013 allorquando invita a pranzo (al ristorante "Il Caminetto" a Roma, ndr) De Bernardi, unitamente a un monsignore Manlio Sodi (di cui non sono ancora chiari il ruolo nella vicenda e il concreto interesse nutrito anche se il prelato risulta inserito in una Onlus, ndr), e ad Antonini, anticipandogli che si dovrà parlare di un ricorso amministrativo proposto da quest'ultimo. Il giudice - si legge nell'ordinanza - si mostrava molto disponibile ad adoperarsi per l'amico di Cerruti, esprimendosi testualmente nei seguenti termini: e glielo facciamo fare... lo serviamo come merita...è amico tuo''. L'accordo corruttivo poi prenderà forma l'8 aprile quando nello studio dell'avvocato Matilde De Paola si incontrano, oltre allo stesso legale, De Bernardi, Cerruti, Antonini al fine di discutere del ricorso. L'interessamento di De Bernardi è tale che la sua richiesta di essere assegnato all'udienza della terza Sezione (che non è quella di sua appartenenza) viene accolta. E ne informa subito la De Paola. Il difensore di Antonini, l'avvocato Manlio Morcella, si riserva una più approfondita valutazione una volta esaminati tutti gli atti d'indagine, ma sottolinea finora che ''non ci sono intercettazioni dirette tra Antonini e il giudice''. Il legale ha anche già annunciato ricorso al tribunale del riesame contro l'arresto. «Un cappuccino anche per il giudice». Sono state intercettazioni come questa a incastrare il gruppo che al Tar del Lazio decideva chi dovesse vincere i ricorsi a suon di tangenti, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera” . In carcere sono finiti Franco De Bernardi, magistrato della seconda sezione quater, l'avvocato Matilde De Paola e Giorgio Cerruti, considerato uno degli intermediari delle mazzette. Gli altri due, Marco Pinti e Francesco De Sanctis, sono ai domiciliari insieme all'ex presidente della Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, e all'amministratore delegato dell'impresa di costruzioni ICS Grandi Lavori, Franco Clementi. Fra gli indagati, il fondatore della ICS Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, da cinque anni presidente del Centro alti studi per la difesa (la principale scuola di formazione degli ufficiali italiani), e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. Sarebbero decine le cause pilotate contestate dal procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi e dai pm Stefano Pesci e Alberto Pioletti. E ammonterebbero a decine di migliaia di euro le tangenti ricostruite grazie alle conversazioni intercettate per un anno dai carabinieri del Noe, al comando del capitano Pietro Rajola Pescarini. La promessa di 50 mila euro avrebbe permesso all'ex presidente della Popolare di Spoleto di vincere il ricorso contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro. La vittoria sarebbe stata propiziata da una cena al ristorante «Il Caminetto», ai Parioli, dove il 27 febbraio scorso Cerruti avrebbe invitato il giudice, Antonini e un non ancora identificato monsignore. «Cerruti, soggetto pregiudicato per reati gravi di criminalità economica», scrive il gip Maria Paola Tomaselli nelle 101 pagine dell'ordinanza, aveva «un proprio personale interesse all’esito favorevole del ricorso avendo egli goduto di un trattamento assolutamente privilegiato durante la gestione della banca da parte di Antonini». Anche la ICS Grandi Lavori avrebbe vinto un ricorso truccato, sconfiggendo quindi il Campidoglio che aveva assegnato a un'altra impresa l'appalto da 25 milioni di euro per la costruzione del ponte della Scafa. Secondo chi indaga, gli intermediari (Cerruti, Pinti e De Sanctis) conducevano dal magistrato i ricorrenti pronti a ottenere una sentenza favorevole a ogni costo e questi li invitata a rivolgersi all'avvocato, che «sapeva come fare». Ma il ruolo di De Bernardi non si sarebbe limitato all'invio dei clienti allo studio legale: smessa la toga indossata al mattino al Tar, il magistrato si trasformava in avvocato e scriveva le memorie che occorrevano per sostenere le tesi dei ricorrenti. Scrive infatti il gip: «Il giudice aveva stretto con la De Paola un accordo corruttivo "aperto" in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano, ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell’attività di assistenza legale». Ancora: De Bernardi si sarebbe «adoperato per utilizzare la sua collocazione presso il tribunale del Lazio al fine di influenzare a vantaggio del cliente l'esito dei procedimenti sia cercando di indirizzare le cause in udienze nelle quali era prevista la sua presenza, sia svolgendo un'attività di sensibilizzazione nei confronti di giudici amici». Stando all'ordinanza, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi degli ammiragli «per mezzo dello studio De Paola» e avrebbe «percepito dall'avvocato un compenso di circa 10 mila euro». Secondo la procura si tratterebbe di una tangente, però mascherata da fattura per una consulenza pagata a Mandija Evis, compagna albanese del magistrato del Tar. Su Callini, poi, c'è un'intercettazione che lascia pochi dubbi, visto che proprio De Bernardi confida all’avvocato De Paola: «Gli ho fatto una sentenza ad hoc». L'inchiesta, durata un anno, è partita dagli atti trasmessi dalla procura di Napoli, che ha raccolto i primi indizi indagando su una storia di camorra. Il giudice e l'avvocato sono stati arrestati per corruzione in atti giudiziari, gli altri per corruzione. De Bernardi era già finito in carcere a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro (ma dopo tre giorni l'ordinanza era stata annullata), mentre Cerruti è noto alle cronache per il fallimento da cento miliardi di lire della sua Compagnia generale finanziaria nel '93. Legato alla massoneria e a Flavio Carboni, gli inquirenti dell'epoca erano arrivati a Cerruti seguendo i soldi di Licio Gelli.
Corruzione Roma: “Fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri”, scrive Donatella Stasio su “Il Sole 24Ore”. A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l’enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L’ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L’ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla “bilancia” un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant’è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l’effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C’è anche «l’utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso – e recente – dei processi previdenziali “finti”. «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all’estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell’Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un’altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch’essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l’eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un’integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie “anime morte” della giurisdizione». Va bene Gogol, ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell’impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell’impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali». L’elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».
«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 Ore”. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente». Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.
Nello Rossi. Ma non è quel magistrato attenzionato dal CSM?
Il magistrato era stato intercettato al telefono con Mancino. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente. Il Csm ha aperto un fascicolo sul procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per la telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, con l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente, dopo che il testo della conversazione era stato pubblicato da alcuni quotidiani. La conversazione, in cui il magistrato, esponente storico di Magistratura democratica, tranquillizza Mancino, è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia della Procura di Palermo. Nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha più volte sottolineato le difficoltà incontrate a indagare su un tema così delicato che sfiora e in alcuni casi coinvolge pezzi importanti dello Stato se non istituzioni. Nel giugno scorso la Procura di Palermo ha chiuso le indagini per dodici persone: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri. Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ed ancora. «Il pm che mi ha indagato in 60 giorni non fatto nulla per mio padre in tre anni».
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
L'autore del libro «Il caso Genchi» a processo con l'accusa di aver diffamato un magistrato dell'Anm: «Ma le indagini preliminari sulle valvole cardiache impiantate a mio padre che fece poi un ictus le ha tenute aperte tre anni e sei mesi. Poi la Procura ha chiesto nientemeno che l'archiviazione», scrive Felice MantiIl Giornale C'è un filo rosso che lega le grandi inchieste che coinvolgono parlamentari e magistrati e l'eterna lotta tra politici e toghe. Sullo sfondo c'è la riforma della giustizia che ad alcuni ambienti della magistratura proprio non va giù. Il libro «Il caso Genchi» sulla storia e i segreti del consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris sul caso "Why Not", che ha fatto irritare molti magistrati, ne è la summa. A Milano nei prossimi mesi inizierà il processo contro l'autore del libro, Edoardo Montolli, che avrebbe diffamato il magistrato romano Nello Rossi e che oggi è alle prese con l'ultimo romanzo («L'Illusionista», Alberti editore), dove la fanno da padroni giudici e poliziotti corrotti. L'accusa contro di lui è rappresentata da Maurizio Romanelli, il pm che ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, editore del «Giornale», per la famosa intercettazione Fassino-Consorte, quella dell'«abbiamo una banca». Del famoso brogliaccio si parla anche nel tuo libro, vero? Ma il pm non ti ha chiesto nulla? «Romanelli? Investigava sull'intercettazione Fassino-Consorte e non mi ha mai nemmeno convocato per farmi qualche domanda, dato che ne "Il caso Genchi" dedicavo a quella telefonata oltre cento pagine dense di dati, e non opinioni, che emergevano dall'archivio del consulente e dalla sua memoria difensiva. Ma si vede che non erano dati interessanti». Riguardavano Paolo Berlusconi? «No. Tutt'altro. Ma rimando alla lettura del libro, che comunque il pm Romanelli ha letto». Perché? «Sono stato querelato per il libro dall'ex segretario dell'Anm Nello Rossi, attuale procuratore aggiunto di Roma che, insieme all'ex magistrato Achille Toro, aprì l'indagine su Genchi. La querela è del 2 marzo. E il 3 maggio Romanelli ha chiuso le indagini. Evidentemente, nonostante le numerose indagini di cui si occupa, è riuscito a leggere molte pagine del libro e a tirare le conclusioni in due soli mesi, senza fare alcuna indagine. È stato strepitosamente veloce. Specie rispetto all'esperienza che ho vissuto con lui da privato cittadino». Cioè? «Mah, siccome ero strabiliato da una tale velocità, a luglio sono andato a controllare in tribunale a che punto fosse un esposto, che avevo fatto per quanto accaduto a mio padre nel novembre 2006, assegnato proprio a Romanelli. Per me una cosa un pochino più grave». Spiega. «Dopo un'operazione di sostituzione di valvola aortica nel 2000, mio padre ha avuto un ictus ed un'emiparesi sinistra, restando invalido al 100% a soli 55 anni. Pensavo fosse colpa del destino. Ma nel novembre 2006 la valvola, praticamente ancora nuova, risultava piena di trombi, nonostante tutte le settimane, invece che tutti i mesi, un primario ne controllasse i valori sanguigni, risultati sempre nella norma. Andava sostituita nuovamente. E siccome la valvola era stata messa da un medico, poi arrestato e condannato, ho chiesto il sequestro della vecchia valvola, avvenuto all'indomani dell'operazione e spiegato tutto in un esposto». Risultato? «L'indagine è stata presa in carico da Romanelli. Non ha mai chiamato né me né i medici che dovevano testimoniare. Ho pensato che avesse svolto indagini, che non fosse emerso nulla e che l'inchiesta fosse stata archiviata. Invece a luglio ho scoperto che, dopo 3 anni e sei mesi, l'indagine era ancora in fase preliminare». Tre anni e sei mesi? «Già. Ho chiesto l'avocazione del procedimento, ma la cosa più straordinaria è che stato respinto perché la Procura, addirittura in agosto, ha chiesto l'archiviazione. Cioè, ha tenuto aperto un fascicolo per tre anni e sei mesi per poi chiedere l'archiviazione, senza nemmeno sentire un teste. Ma ci volevano tre anni e sei mesi per accorgersi che non era accaduto nulla di penalmente rilevante? Da chi dovevano far analizzare la valvola, dalla Nasa? Ecco, il problema è proprio questo». Quale? «Che se è l'ex segretario dell'Anm a presentare una querela per diffamazione, i tempi del dottor Romanelli sono incredibilmente veloci, se invece da Romanelli va un cittadino qualsiasi, si prende un sacco di tempo. Certo, Nello Rossi si sentiva diffamato e si doveva fare in fretta, mentre mio padre ha "solo" rischiato di morire». Non sembri avere molta fiducia nella magistratura. «È che mi fanno sorridere i magistrati che attaccano Berlusconi, dicendo che la legge deve essere uguale per tutti. Come no. Per esperienza personale e professionale, aggiungerei tutti quelli che vogliono loro. Dipende da chi querela e da chi è l'imputato. D'altra parte scrivo sempre di vicende di ingiusta detenzione, e non a caso l'Italia è il Paese più condannato dall'Ue in materia, senza che nessun magistrato sia mai stato condannato per questo. Finché la situazione è questa, se io fossi il premier, farei una legge "ad personam" al giorno per difendermi. D'altra parte nella conclusione del libro sul caso Genchi evidenziavo una volta di più il vero problema dell'Italia, che non è la destra o la sinistra, ma l'anomalia della magistratura». Cioè? «Proponevo una separazione delle carriere un po' diversa da quella richiesta dai politici: i magistrati che vanno al ministero non tornino in tribunale. Perché non è possibile che a giudicare i politici siano gli stessi magistrati che alla legislatura successiva ottengono incarichi di governo. O fai una cosa o fai l'altra». Genchi però attacca sempre di più Berlusconi...«Ognuno ha le sue idee. Di certo in "Why Not" di Berlusconi non c'era alcuna traccia. Ma basta leggersi il libro per trovare gli stessi nomi e gli intrecci emersi con il successivo scandalo Protezione Civile o alcuni sprazzi sulle stragi del '92-'93. Ma, a dirla tutta, ho scritto che nemmeno m'importava se "Why Not" fosse giusta o sbagliata. Quello che mi sembrava paradossale era che a prendere in mano le carte di De Magistris fossero magistrati sicuramente in contatto con alcuni imputati. Ecco, questo non è eticamente accettabile. Così come non è eticamente accettabile che chi ha sequestrato l'archivio Genchi avesse fatto alcune telefonate presenti all'interno del medesimo archivio, come quella tra l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi e l'ex ministro della giustizia Mastella che doveva mandare in soffitta entro la fine di luglio del 2007 la riforma Castelli sulla separazione delle carriere: il tutto mentre Prodi era stato appena indagato e a giorni lo sarebbe stato proprio Mastella. È su questo, su ciò che accadde a luglio 2007, che si discuterà nel corso del mio processo. E invito tutti a venirlo a vedere per capire in che Paese viviamo. Che non ci sono eroi, tantomeno bianchi e neri. Ma che tutto è un intreccio grigio».
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”.
Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.
E che dire di un altro Generale. Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Robereto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.
Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigiole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.
"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".
Come ha conosciuto Speciale?
"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".
Cosa vuole dire?
La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".
E questa lista cosa sarebbe?
"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".
Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.
"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".
Cosa?
"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".
Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.
"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".
SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA. QUALE MAFIA? MAFIE, LA GRANDE ALLEANZA.
Cosa Nostra, 'ndrangheta, camorra. Sempre più spesso collaborano tra loro: per gestire affari, riciclare denaro, influenzare la politica. E' la nuova strategia della criminalità organizzata. Che passa per Roma e arriva al nord, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Larghe intese criminali per gestire traffici globali. Nel terzo millennio la grosse koalition è diventata la regola delle mafie italiane. Cosche di regioni diverse si mettono d'accordo per aprire insieme singoli business o condividere professionalità. Un modo per ottimizzare i profitti e ridurre le liti, quelle che richiedono il piombo e alzano l'attenzione delle istituzioni. Così boss campani e siciliani, calabresi e pugliesi trovano intese per rilevare negozi, eliminare avversari, costruire aziende, corrompere autorità. Nuovi assetti flessibili, liberi da cerimonie ufficiali e affiliazioni impregnate di sacralità. Oggi gli affari e i target da raggiungere hanno soppiantato i principi dell'onore e della fedeltà eterna. Si moltiplicano le joint venture, consorzi temporanei tra holding criminali, che permettono agli spregiudicati padrini versione 2.0 di dominare il mercato. «Le alleanze servono a ridurre i rischi e permettono di adattarsi alle circostanze», osserva Federico Varese, professore di criminologia a Oxford e tra i più importanti studiosi di mafie globalizzate. I clan collaborano per importare tonnellate di coca, per nascondere casse di Kalashnikov, per ripulire milioni di euro in contanti. Oppure lo scambio può riguardare figure particolari: un killer prestato per un'azione di fuoco o un cantante neomelodico da far esibire al party del capo bastone. Sì, anche la musica entra nei patti. Lo ha raccontato un pentito della famiglia Birra di Ercolano: i suoi capi avrebbero speso migliaia di euro per ingaggiare quattro artisti neomelodici napoletani da inviare nei feudi della 'ndrangheta. L'evento da festeggiare? La scarcerazione del padrino calabrese.
MASTER CRIMINALE. Anche in questo caso, mammasantissima campani e calabresi si sono conosciuti in prigione. Non in un penitenziario qualunque, ma nel rigore del carcere duro. Le regole del 41bis impongono che i detenuti più pericolosi stiano in cella con criminali di territori differenti: Totò Riina per anni ha potuto parlare solo con un malavitoso napoletano e oggi Antonio Iovine, l'ultimo leader casalese catturato, passa il tempo con un pregiudicato pugliese. Così per alcuni dei 709 mafiosi reclusi nelle aree speciali del 41bis, il carcere duro sta diventando un master di alto livello, dove conoscersi e stabilire le basi per le iniziative congiunte. «Il penitenziario può trasformarsi in un istituto criminogeno, luogo di nuove alleanze, in cui si decidono le sorti delle organizzazioni sul piano nazionale e locale», spiega a "l'Espresso" Antonello Ardituro, magistrato della Procura antimafia di Napoli in prima linea contro il clan dei Casalesi. «Negli ultimi anni i 41 bis aumentano perché è cresciuto il numero di capi arrestati mentre i posti nel carcere duro stanno finendo».
GRANDE SUMMIT. C'è un mistero irrisolto da tre anni. Nasce dalle immagini riprese dalle telecamere del carcere milanese di Opera: i colloqui nell'ora d'aria tra Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio condannato per le stragi del 1992-93, e Francesco Schiavone, il "Sandokan" padrone di Gomorra. I due parlano sottovoce camminando durante i summit, ripetuti per giorni. L'allarme per investigatori e procure è stato immediato. L'oggetto delle conversazioni è ancora al vaglio degli inquirenti. Una chiave potrebbe nascondersi nella lettera mandata dal grande capo dei casalesi ai familiari subito dopo la sentenza di Cassazione, in cui li invitava ad andarsene poiché sarebbe arrivata «una valanga». Di cosa? Arresti? Ritorsioni? Pentimenti? Qualche mese dopo quei colloqui, la Direzione investigativa ha svelato che Cosa nostra e casalesi avevano già prodotto una società a capitale mafioso, che assieme ai calabresi gestiva il trasporto di frutta e verdura dai centri di produzione meridionali fino ai ricchi ortomercati del Centro e del Nord.
ROMA DOCET. Il grande laboratorio delle alleanze flessibili è Roma. Accade dai tempi della Magliana: nessuno si sente così forte da occupare la capitale e quindi tutti cercano di mettersi d'accordo. A partire dal traffico di cocaina. L'ultimo consorzio è stato smantellato due settimane fa: un gruppo misto di settanta malavitosi - calabresi, napoletani, romani, albanesi, boliviani, colombiani e venezuelani - che hanno inondato il Lazio di polvere bianca. Tra i fornitori c'era "Bebé", ossia il manager della droga Roberto Pannunzi, considerato il grossista della 'ndrangheta nelle Americhe. Già nel 2006 l'indagine Ibisco ha svelato l'intreccio tra banditi capitolini, ndrangheta, famiglie siciliane e narcos venezuelani e spagnoli per distribuire tonnellate di neve sui sette colli. Dove poi investivano i guadagni nel settore immobiliare grazie a colletti bianchi ricchi di entrature. Tre settimane fa il copione si è ripetuto. E' stata smantellata la collaborazione tra la cosca calabrese dei Gallace e il clan romano dei Romagnoli: smistavano centinaia di chili di coca, contando sulla complicità di personale dell'aeroporto di Fiumicino. «Possono essere anche gruppi diversi di una stessa mafia a investire risorse per comprare droga. Esistono alleanze interne e flessibili basate su specifici progetti», spiega il professor Varese, che conclude: «Le alleanze possono soffrire di fragilità. E generare conflitti. La grande sfida per i clan è ovviare alla mancanza di fiducia utilizzando meccanismi informali che possano portare a buon fine i loro piani, uno di questi è il classico scambio dell'ostaggio, molto usato tra narcos e organizzazioni italiane». Metodi arcaici per business modernissimi.
OBIETTIVI POLITICI. Spesso le sinergie si consolidano intorno a obiettivi politici. Giuseppe Piromalli junior è tra i mammasantissima più potenti della Penisola. Sovrano di Gioia Tauro e della Piana, da oltre dieci anni si trova nella cella di massima sicurezza del carcere di Tolmezzo. E qui ha passeggiato e dialogato con capi siciliani, tra cui Antonino Cinà, medico personale di Riina e membro del direttorio di Cosa nostra. Più degli affari li unisce la volontà di scardinare il 41bis, contro cui calabresi e siciliani «hanno fatto fronte comune elaborando una strategia unitaria», scrivono i magistrati di Reggio Calabria. E «non per caso» sarebbe avvenuta la trasferta milanese dell'emissario della 'ndrina Piromalli negli uffici del fondatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri: diventa l'occasione per ricordare al politico «che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia». L'incontro tra Cinà e Piromalli è un ulteriore indizio della vicinanza tra padrini siciliani e calabresi: un puzzle di rapporti e favori al centro di una complessa indagine dell'Antimafia di Reggio Calabria, che ha aperto un fascicolo sul ruolo della 'ndrangheta nella trattativa Stato-mafia.
TRIBUTI DOLCI. I Piromalli sono anche storici alleati dei Santapaola di Catania. Dettano legge sui porti delle città che controllano: tra container e gru hanno eretto imperi. Dopo l'incontro di Tolmezzo, gli emissari di Piromalli hanno incontrato pure i palermitani di Brancaccio. Nell'appuntamento di Gioia Tauro, i picciotti siculi si sono presentati con un vassoio di cannoli freschi, in segno di rispetto alla signoria locale. Invece la famiglia guidata da Salvatore Lo Piccolo, che fino al 2011 ha dominato Palermo, è in contatto con il clan napoletano Polverino. Durante la detenzione di Roberto Perrone, camorrista di punta del gruppo campano, i suoi familiari sono stati ospitati e riveriti da parenti stretti dei Lo Piccolo: pranzi nella villa in riva al mare a Mondello e dolci napoletani inviati per ringraziarli dell'ospitalità.
BUSINESS SENZA CONFINI. Le joint venture spesso sono determinanti per imporsi nei centri del Nord. Nella Repubblica di San Marino un nome salda gli interessi di camorra e Cosa Nostra: Franco Vallefuoco. Un boss contemporaneo. Businessman più che picciotto. Ben inserito nei salotti buoni della politica, socio occulto di società finanziarie e di recupero crediti intestate a insospettabili avvocati e notai locali. Una ragnatela usata - secondo i pm antimafia di Napoli e Bologna - per riciclare decine di milioni di euro. Il percorso dei denari può arrivare anche più lontano, fino alla City di Londra. Lì era stata cementata l'alleanza più sorprendente: quella tra il latitante Herry James Fitzsimon, cassiere dei terroristi irlandese dell'Ira, e due potenti 'ndrine calabresi, Iamonte e Mancuso, ben inserite nella massoneria. Insieme, sostiene l'accusa, hanno ripulito milioni attraverso investimenti immobiliari e costruzioni di villaggi turistici.
NEW BUSINESS. La professionalità di alcuni manager è l'ingrediente che fa lievitare i profitti dei gruppi mafiosi. Se l'esperto è capace e disponibile, si moltiplicano le cosche che gli fanno la corte. Vito Nicastri nel settore dell'eolico e del fotovoltaico ha maturato anni di esperienza. La Dia gli ha confiscato oltre un miliardo di euro contestando la sua vicinanza al superlatitante trapanese Messina Denaro. Ma è anche lo specialista al quale le famiglie calabresi di Africo, Platì e San Luca, si sarebbero affidate per vendere terreni destinati a ospitare pannelli solari. Il consorzio è anche la formula vincente nel gioco d'azzardo legale. Ogni mafia ha il suo re delle slot e delle scommesse, che uniscono le forze fuori dal territorio di origine. Nascono così società miste tra imprenditori di 'ndrangheta, camorra e Cosa nostra. E' il caso di Renato Grasso e Antonio Padovani, che per diversi anni hanno saldato interessi di clan campani e siciliani nella grande arena del gioco. Oppure di Nicola Femia, 'ndranghetista che ha rifornito di macchinette le bische modenesi dei Casalesi e dei circoli del clan Sarno di Ponticelli. E in Emilia Romagna alcuni pentiti hanno raccontato del patto tra boss casertani e 'ndrine crotonesi: province divise in zone d'influenza, a Reggio Emilia la 'ndrangheta, a Modena la camorra. Si coordinano senza pestarsi i piedi: il piombo è il peggior nemico del business, il silenzio il miglior alleato.
MAFIA A ROMA: SOLO L'INIZIO.
Mafia a Roma, è solo l'inizio, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. L'inchiesta che si è conclusa oggi con 51 arresti a Ostia non solo conferma l'esistenza concreta di Cosa Nostra alle porte della Capitale, ma è anche il primo provvedimento dei giudici di Roma in cui si contesta questo reato. I mafiosi stavano incontrastati sul litorale romano, a Ostia, e facevano affari dividendosi fra loro il territorio e gli affari illeciti. La loro presenza era evidente anche a causa delle intimidazioni messe in atto sul territorio. E fra i criminali romani e i mafiosi siciliani ne è nato un grande feeling che dura da vent'anni: due gruppi, quello dei Fasciani e Triassi sono diventati i padroni di Ostia e gran parte del litorale. L'inchiesta che si è conclusa oggi con 51 provvedimenti di custodia cautelare eseguiti dalla polizia ed emessi dal gip del tribunale di Roma su richiesta dei pm della procura, non solo fa emergere l'esistenza concreta della mafia alle porte della Capitale, ma ci fa riflettere che questo provvedimento giudiziario è il primo che viene emesso dopo tanti anni dai giudici di Roma in cui viene contestata l'accusa di associazione mafiosa. Fino adesso gli arresti e i sequestri di beni eseguiti nella Capitale sono arrivati con provvedimenti di altre procure del Sud. Da oggi c'è un nuovo tassello giudiziario che punta a dimostrare l'esistenza di una associazione mafiosa a Roma. L'indagine sul clan Fasciani e Triassi condotta dagli agenti della Squadra mobile è iniziata un anno fa, ed è partita dalla scoperta di un ordigno inesploso sulla spiaggia di Ostia. Un episodio di intimidazione che ha dato il via all'inchiesta che si è conclusa positivamente dopo dodici mesi con 51 arresti per mafia. E' stata dunque colpita l'intera famiglia dei Fasciani: in manette sono finiti il capo, Carmine, e i fratelli Giuseppe e Terenzio Nazzareno. Tra i Triassi sono stati arrestati Vito e Vincenzo, legati ai siciliani e in particolare ai trafficanti di droga Cuntrera e Caruana, che da anni si erano trasferiti ad Ostia mantenendo un legame con Cosa nostra. L'attenzione deve cadere proprio sui Triassi perchè sono stati loro nel 1998 i favoreggiatori e i basisti della fuga in Spagna del boss narcotrafficante Pasquale Cuntrera. I fratelli Vincenzo e Vito Triassi hanno aiutato il mafioso siciliano dandogli rifugio a Roma e poi trovandogli una sistemazione a Fuengirola sulla Costa del Sol. Dei Triassi hanno parlato dopo questa fuga alcuni collaboratori di giustizia e in ultimo anche Gaspare Spatuzza. Nonostante ciò i due fratelli sono rimasti fino adesso formalmente incensurati e lontani da eventuali indagini antimafia. Adesso la svolta che porterà ad altri sviluppi investigativi sulla mafia nella Capitale.
Dei cinquantuno arrestati nell'operazione di polizia chiamata «Nuova Alba», ventisette sono accusati di associazione mafiosa, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Numeri siciliani, o calabresi. Invece è accaduto a Roma, all'esito di un'inchiesta durata poco più di un anno e condotta con le metodologie tipiche dell'investigazione antimafia: microspie e dichiarazioni di pentiti che hanno svelato dall'interno il modus operandi dell'organizzazione criminale che da Ostia ha esportato affari e interessi in varie zone della città. E non è un caso che un simile risultato sia stato raggiunto da inquirenti e poliziotti che, prima di approdare nella Capitale, hanno lavorato a lungo nel contrasto a Cosa nostra e alla 'ndrangheta. Parlare di mafia da queste parti non è una novità, ma stavolta la situazione si presenta con altri connotati. Finora ci si concentrava sulle infiltrazioni della malavita organizzata, gli investimenti nascosti, la necessità di intrecciare rapporti col potere politico ed economico; la mafia a Roma, insomma. Ora emergono gli indizi (secondo i magistrati le prove) di almeno due gruppi prima contrapposti e poi pacificati che gestiscono una porzione di territorio, hanno insediato le proprie attività illecite (dalla droga alle estorsioni e all'usura) e impongono le loro regole attraverso le minacce e la violenza; la mafia di Roma, quindi. C'è differenza. La capitale non più solo terra di penetrazione per il riciclaggio e le relazioni nei Palazzi da parte di chi ha accumulato altrove i propri guadagni truffaldini, ma un'area dove impiantare traffici illegali con modi solitamente utilizzati in altre regioni, tradizionalmente considerate in mano alla mafia. Il «metodo mafioso» fondato sulla «capacità di intimidazione e la condizione di assoggettamento e omertà», come scrivono i magistrati, è arrivato anche qui. Si parla di «controllo del territorio» e spartizione dei settori d'intervento: a me il traffico di droga in questa zona, a te in quella, a lui il mercato delle armi, necessarie a convincere i più riottosi. E poi il racket, che spesso si trasforma in strozzinaggio e spreme le vittime fino alla cessione degli esercizi commerciali. E ancora il condizionamento della pubblica amministrazione, l'assegnazione delle case degli enti pubblici, i tentativi di pilotare gli appalti per la riqualificazione del porto. Tra le persone coinvolte c'è chi in passato ha avuto rapporti con qualche epigono della banda della Magliana, che proprio a Ostia aveva una delle sue ramificazioni più significative. Un fenomeno criminale - quello - deflagrato vent'anni fa tra omicidi e tradimenti, che altri giudici tentarono di ricondurre nei confini dell'associazione mafiosa, ma alla fine le sentenze fecero cadere l'accusa. Oggi la Procura ci riprova con gli eredi di quell'esperienza, forte di conversazioni captate in diretta che sembrano tratte direttamente da Il Padrino , e di parentele e rapporti d'affari molto stretti tra alcuni inquisiti e importanti cosche siciliane. I processi diranno se il reato di associazione mafiosa può considerarsi provato oppure no, ma intanto parlano i fatti rivelati dall'indagine. La «mafia di Roma», al di là delle qualificazioni giuridiche, più che un'ipotesi o uno spettro sembra un'inquietante realtà. Alleate e prestanome, scrive Rinaldo Frignani su “Il Corriere della Sera”. Ma anche insostituibili aiutanti nella gestione degli affari e dei contatti con i «soldati». Non più semplici mogli e figlie dei mafiosi, relegate a ruoli di secondo piano, ma complici sempre in prima linea. Sono le donne dei clan di Ostia, finite al centro delle indagini della procura e della Squadra mobile. Dalle sorelle Felicia e Nunziata Caldarella, mogli di Vincenzo e Vito Triassi - figlie di Santo Caldarella, condannato per associazione mafiosa e «canali indispensabile per i contatti con i Caruana Cuntrera, ossia con Cosa Nostra», scrive il gip Simonetta D'Alessandro - alla coniuge e alle figlie del boss Carmine Fasciani - Silvia Bartoli, Azzurra e Sabrina Fasciani. A tutte è contestata l'accusa di mafia. In particolare, aggiunge il gip, Azzurra - «la scienziata» - «sotto la direzione del padre e con la collaborazione della madre sovraintende al settore del controllo delle attività economiche e della gestione delle intestazioni fittizie», mentre Sabrina, con lo zio Terenzio Fasciani «Garibaldi» - e ancora la madre - si occupava dell'acquisizione, anche con minacce, di attività commerciali da chi non riusciva a pagare i prestiti a strozzo (come nel caso dell'autosalone «Messina Car» a Isola Sacra). Ma la quarantenne, sempre per il gip, «supervisiona» sul territorio italiano le operazioni legate al traffico di cocaina e hashish dalla Spagna gestito dai parenti. Anche la madre ha un ruolo importante nell'organizzazione criminale diretta dal marito. Per ottenere i soldi da un debitore spiega a Fasciani: «Perché questo se ne approfitta... ce devo andà io?», ma il boss la ferma facendo «intendere alla moglie che non era il caso di intervenire drasticamente ma di attendere con calma», sottolinea ancora il giudice. Il boss è sempre il punto di riferimento delle figlie. In un'intercettazione Sabrina - addetta per il clan al settore usura-estorsioni -, gli rivela di avere speranze per un posto di lavoro e il padre - spiega il gip - «le riferisce che finché c'era la Polverini alla Regione, aveva un aggancio per farle fare il corso (da designer d'interni), adesso devono aspettare e vedere chi andrà alla Regione». Ed è sempre lei, nella clinica Villa Faieta, dove il padre è ricoverato, a portargli gli appunti con il dare-avere delle vittime d'usura. Dalle indagini della Mobile è emerso che sia lei (coinvolta anche nel noleggio-vendita di videopoker) sia la sorella Azzurra (anche contabile e contatto con le banche) - «avevano presentato una domanda di sussidio essendo figlie di un soggetto colpito da un provvedimento di sequestro dei beni». Azzurra sovrintende «alla gestione delle attività imprenditoriali nelle quali l'organizzazione ha investito i suoi capitali».
A ROMA LA MALA SI FA IN QUATTRO.
A Roma la mala si fa in quattro, scrive Lirio Abbate
Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss della criminalità che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. Massimo Carminati non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. E' stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. E' questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. E' la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.
Pestaggi, sparatorie e agguati a Ostia: Clan Fasciani, la legge del terrore.
Un giovane gambizzato: aveva sputato sull'auto della figlia di don Carmine. Il gip: "Per la cosca il rispetto è fondamentale per controllare il territorio", scrivono Federica Angeli e Giuseppe Scarpa su “La Repubblica”. La regola del terrore. Per riavere indietro soldi prestati, ma soprattutto per mantenere il rispetto, corollario fondamentale per un nome come quello della famiglia Faciani e decisivo per il gip Simonetta D'Alessandro per stabilire "il controllo del territorio", uno dei corollari del 416 bis, l'associazione di stampo mafioso che ha decapitato la "piovra" a Ostia con 51 arresti eseguiti dalla squadra mobile di Renato Cortese. Il primo novembre del 2012 all'ospedale Aurelia Hospital dove don Carmine è detenuto, il nipote Alessandro, arrestato qualche mese fa in Spagna per un omicidio avvenuto all'Ostiense, comunica allo zio, di un affronto subito. Un certo "Remo" ha parlato molto male di loro. Di più: ha sputato sulla macchina di Sabrina, la primogenita del boss di Ostia, ma guidata al momento dello sputo da un affiliato della banda, Diego Rossi, asserendo che "sono tutti infami". Carmine, glaciale, chiede dove abitasse questo Remo. Lo chiede per due volte. Il nipote, che gli inquirenti ritengono essere l'erede delle attività del clan, capisce al volo. E lo rassicura: "Abita a Fiumicino, ci andrò stasera zì, così sto più tranquillo". "Il concetto di rispetto si afferma anche per comporre diatribe in materia di stupefacenti", scrive il gip. Così accade che dopo la gambizzazione di Davide Puggioni (pusher al soldo di Fasciani) avvenuta a Torbellamonaca il 28 marzo scorso, due componenti del clan (Luciano Bitti e Christian Testi), si pongono il problema di come reagire a quell'affronto (il ferimento del "collega"). I due propendono per la reazione armata e per "la violenza palese". Fasciani vuole prima tentare la via dell'accordo. Poi "una volta fallita la via compositiva - raccontano le carte - perché non venga leso il rispetto di cui il clan Fasciani deve godere", don Carmine dispone la reazione violenta. Così si arriva alla pianificazione dell'attentato nei confronti dell'uomo da punire: Claudio Cesarini, ovvero colui che avrebbe ferito, secondo i Fasciani, Puggioni. "Glie sparamo con la 38, 34 botte... sai che buchi che fa", dicono al telefono due luogotenenti del clan. Il colpo fallisce, ma solo perché la vittima designata viene arrestata dalla Dda. Nell'incontro del 1 novembre all'Aurelia Hospital dove Carmine Fasciani stava scontando la pena detentiva per problemi di salute, il boss racconta un'impresa compiuta da un loro affiliato qualche tempo prima. Mirko il Gigante aveva sparato alle gambe a una persona per via di un debito che non riusciva a riscuotere. In effetti il 23 ottobre, poco dopo la mezzanotte, un pregiudicato Mario Velletrani, si presentò al pronto soccorso dell'ospedale di Ostia con un proiettile conficcato in una gamba. Ascoltato dai carabinieri sul ferimento Velletrani raccontò che alle 23, in macchina in via di Castelfusano con altre due persone, fu accostato da un'altra vettura che aprì il fuoco contro di loro. L'uomo ferito rifiutò di collaborare, non indicando né il nome dell'aggressore, né il vero luogo in cui era avvenuta la sparatoria. Questo gli costò una denuncia per favoreggiamento personale. Meglio essere indagati che fare nomi. Gli investigatori della squadra mobile sono riusciti però a inquadrare anche quell'episodio e a capire che dietro quell'agguato c'era la mano di don Carmine.
I FANTASMI DELLA MAGLIANA.
Tra i fantasmi della Magliana, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Da 35 anni i misteri della banda più famosa di Roma dominano le cronache. E la loro parabola criminale ormai sconfina nella leggenda. Tra soldi, cocaina, massoneria, cardinali, servizi deviati e molto altro. La tomba del boss nella basilica pontificia nascondeva centinaia di scheletri: martiri, beati, gentiluomini di Sua Santità finiti in eterno riposo accanto al re di traffici e pistolettate. C'è un monsignore sotto inchiesta e il sospetto popolare che quell'ossario offra la chiave al mistero di una quindicenne inghiottita nel gorgo delle trame. In quella cripta pochi giorni fa si è aperta l'ultima puntata di un feuilleton fosco e seducente, che da 35 anni lascia la Banda della Magliana padrona delle prime pagine. Eppure quello della Magliana è un incredibile caso di marketing criminale. Perché la Banda non è mai esistita. O meglio, non è mai stata come la raccontano adesso. Il mito lo ha inventato un magistrato, per puro sfizio letterario: Giancarlo De Cataldo. Si è tenuto dentro l'impressione di quel processo di cui fu giudice, ha metabolizzato i caratteri degli imputati e ha partorito l'eccezionale romanzo de "il Dandi", "il Libanese", "il Freddo". Poi sono venuti il film di Michele Placido con la meglio gioventù del cinema italiano (Favino, Rossi Stuart, Santamaria, Accorsi, Germano) e infine la serie tv di Stefano Sollima che l'ha resa un cult, con tanto di merchandising: accendini, felpe e persino le repliche degli abiti, come il gilet de "Il Bufalo" o la cintura de "Il Nero". E' un modello di "marketing virale", che dalle strade di Testaccio ha contagiato gli studenti della Bocconi come i professionisti emiliani: la leggenda si è imposta da sola, grazie al fascino del fuorilegge e alla nostalgia vintage di una stagione di Baglioni e discodance, di Alfette e Moto Guzzi, di brigatisti e democristiani. Ma la Banda affascina soprattutto perché è Roma: un arcano incomprensibile, dove miseria e nobiltà hanno la stessa faccia e l'impossibile diventa sfacciatamente ordinario. Tra la borgata e il potere non c'è distanza. La Trastevere più popolana abbraccia il Vaticano; tra il ministero della Giustizia e il vicolo dove fu ucciso Renatino De Pedis ci sono duecento passi. La città non ha centro e periferia, è un gomitolo ingarbugliato, anzi uno "gnommero" come direbbe Carlo Emilio Gadda, milanese conquistato dalla forza di questo dialetto diventato lingua comune del malaffare nazionale: un enorme pasticciaccio di eccellenze e felloni, dominato dall'ossessiva ricerca della scorciatoia, della raccomandazione eletta a sistema. Tutto è possibile se conosci la persona giusta, non esistono stanze inaccessibili. Prendete Renato Nicoletti, "il cassiere" che ancora vanta l'intimità di allora con Giulio Andreotti - "Mi aveva dato libero accesso al palazzo del governo, entravo da dietro e l'aspettavo in ufficio" - e persino con Aldo Moro - "Il professore? Era così affettuoso: quante volte lo ho incontrato, pure a Palazzo Chigi". Incredibile? Non a Roma, non per la Banda. Dal 1977 al 1990 sono stati custodi delle scale invisibili che portano dall'inferno al paradiso: soldi, cocaina, ricatti e revolver gli aprivano tutte le porte. Si sono infilati ovunque, un gruppo che - specularmente al commissario del "Pasticciaccio" - era "ubiquo ai casi, onnipresente agli affari tenebrosi": la strage di Bologna, il Banco Ambrosiano, i servizi deviatissimi, i cardinali più corrotti, la massoneria padrona dello Stato, il sequestro Moro e il complotto per uccidere Wojtyla. Come i Cesari, arbitravano vita e morte. La geografia delle loro gesta si sovrappone alla mappa della metropoli. Graziano Panfili e Alfredo Covino l'hanno ripercorsa in queste foto, sintesi di una via Crucis in 50 tappe, tutti misteri dolorosi. Emanuela Orlandi, la figlia quindicenne del funzionario vaticano sparita nel nulla. Fu vista l'ultima volta all'uscita della scuola di musica di Sant'Apollinare il 22 giugno 1983: era assieme a un uomo, che aveva qualche somiglianza con De Pedis. Il capo che si atteggiava a dandy ha poi ottenuto sepoltura nobile in quella basilica, grazie alla generosità delle sue elemosine. Nella stessa piazzetta avvengono un dramma e una farsa, entrambi resi grotteschi dalla vicinanza con il Senato. Paradossale il nascondiglio del loro arsenale, nei sotterranei del ministero della Sanità: sono usciti da lì persino i mitra per i depistaggi degli 007. Che dire del Jackie'O, il night dove coca e femmine fatali permettevano di agganciare sottosegretari e avvocati? E' in via Boncompagni, di fronte all'ambasciata americana, all'angolo di via Veneto. Ancora oggi il "cassiere" Nicoletti rivendica il possesso degli studi cinematografici De Paolis, dove hanno girato Pasolini, Comencini, Scola e Verdone. Ha dovuto però rinunciare alla villa hollywoodiana costruita dietro le Terme di Caracalla: è stata confiscata e tramutata nella Casa del Jazz. A segnare questa storia c'è il Tevere, l'anima liquida della romanità, che gli argini sabaudi cancellano dal centro ma in periferia torna a essere maestoso. E' stato la culla della loro epopea: i fondatori sono nati e cresciuti lungo le sponde da Testaccio alla Magliana fino a Ostia. Lì, in una roulotte arrugginita hanno studiato le prime rapine. Il fiume costeggia l'ippodromo di Tor di Valle, dove un allibratore li guidò verso il colpo grosso: il rapimento del duca Grazioli Lante della Rovere nel 1977, due miliardi di riscatto investiti in droga. La foce è stato anche il teatro dei regolamenti di conti calibro nove. Sono finiti tutti male, senza nulla di epico. Una decadenza brutale, di infamità, vendette, omicidi e carcere. Antonio Mancini, "l'Accattone" poi "pentito", è tra i pochi libero e vivo: "Sono stato miliardario ma il denaro l'ho sempre disprezzato. I soldi me li so' magnati tutti, adesso sono rovinato". Gli altri sono morti. Il primo a cadere fu Franco Giuseppucci, "er Negro", che nel romanzo diventa "Il Libanese", uno stratega del crimine: un solo proiettile, in piazza San Cosimato, oggi angolo "à la page" di Trastevere. Ma la maledizione ricade anche sui loro figli. L'ultimo delitto di peso, che ha ridato lustro al mito nefasto, è quello di Flavio Simmi, erede di un ristoratore coinvolto a suo tempo nelle inchieste. L'hanno ammazzato un anno fa, a cinquecento metri dal palazzo di giustizia e dalla sede della Rai.
ROMA CRIMINALE. SANITA', MAFIA ED URBANISTICA.
SCANDALO SANITA’ 87 MILIONI DI RIMBORSI D’ORO
Per i 460 lavoratori del San Raffaele di Cassino, che a fine maggio scioperavano dopo essere rimasti senza stipendio per tre mesi, è altro sale sulle ferite. La Procura della Corte dei conti ha citato in giudizio la società proprietaria della casa di cura e sedici persone che negli anni si sono avvicendate ai vertici dell'azienda sanitaria di Frosinone, perché rispondano di un danno erariale astronomico: 86 milioni 931.219 euro e 54 centesimi, scrive “Il Corriere della Sera”. Non una società qualunque. Perché il San Raffaele fa capo alla famiglia del deputato del Popolo della libertà Antonio Angelucci, re delle cliniche private convenzionate con la sanità pubblica nonché editore di Libero e azionista dell'Alitalia. L'iniziativa dei magistrati contabili, innescata da due denunce del presidente del collegio sindacale dell'Asl di Frosinone Edoardo Cintolesi nel luglio del 2010, riguarda una vicenda già in parte nota. Il procuratore regionale Angelo Raffaele De Dominicis ne aveva accennato all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 segnalando come la Corte dei conti avesse chiesto, e ottenuto, il sequestro conservativo di beni immobili per 126,5 milioni della società San Raffaele «a garanzia del danno subito dal servizio sanitario regionale per effetto di un'indagine sulla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite in particolare presso la casa di cura di Velletri». Indagine estesa anche alla clinica di Cassino con accertamenti affidati ai carabinieri dei Nas dai quali sarebbero emerse, raccontava De Dominicis, irregolarità tali da determinare un danno erariale enorme conseguente «non solo alla violazione sistematica delle convenzioni sanitarie ma soprattutto all'omissione di controllo sulla conformità e sulla regolarità delle prestazioni» rimborsate. E qui si arriva alle presunte pesantissime responsabilità e connivenze dei dirigenti pubblici. Primo fra tutti, l'ex direttore generale della Asl Carlo Mirabella, deceduto qualche mese fa. Personaggio noto alle cronache: occupava quel posto al tempo della giunta di Francesco Storace, ma era stato rimosso da Piero Marrazzo. Per tornare alla guida della Asl con Renata Polverini. Il suo sponsor, Franco Fiorito, «Er Batman» di Anagni, che dovendo rinunciare alla poltrona di assessore all'Agricoltura, aveva ottenuto di designare il direttore dell'Asl della propria zona d'influenza. Piazzando lì, oltre a Mirabella, anche il direttore amministrativo: l'ex segretario comunale di Anagni, città della quale Fiorito era stato sindaco. Tutto comincia nel 2005, quando Storace sta per lasciare la Regione. Mirabella firma un protocollo d'intesa con gli Angelucci che prevede la riconversione di 40 posti letto, sui 60 disponibili, da «Residenza sanitaria assistita» (Rsa) a «Riabilitazione alta intensità» (Rai) e «Lungodegenza alta intensità» (Lai). Due sigle esistenti solo nella regione Lazio, ma che garantiscono tariffe elevatissime. Per avere un'idea, si parla di cifre superiori alle 250 euro al giorno contro 100-110 euro della Rsa. Il Protocollo viene ratificato dal medesimo Mirabella il 14 febbraio del 2005 e lo stesso giorno, con rara e fulminea sollecitudine, la giunta Storace approva la relativa delibera, nonostante manchi il parere obbligatorio del direttore sanitario Sandra Spaziani. La quale, interrogata in seguito dai magistrati contabili, dirà di aver subìto numerose pressioni e riferirà anche di una telefonata di Antonello Iannarilli, allora assessore regionale all'agricoltura, futuro presidente della Provincia di Frosinone e deputato del Pdl: «Qua è passata una delibera della Asl e la firma tua non c'era... ». Dalle verifiche descritte nella citazione salta fuori di tutto. Prestazioni non erogate. Personale non abilitato ma adibito all'assistenza diretta ai pazienti. Cartelle cliniche con firme «identiche e seriali». Somme ingenti per prestazioni oltre budget liquidate alla casa di cura: quasi 54 milioni dal 2006 a oggi, a fronte di un fatturato riabilitazione pari a 124,3 milioni. Cambi di regime di ricovero dei pazienti con le tariffe più elevate non decisi dai medici ma dal personale amministrativo. Perfino «l'alterazione delle scale di Barthel», ovvero dell'indicatore di disabilità, non era stabilita dai sanitari. La rivelazione è sorprendente: «Uno dei soggetti che ha effettuato la maggior parte delle modifiche delle scale di Barthel», scrivono i giudici, «risulta inserito nell'elenco delle timbrature come addetto alle pulizie». Quando Cintolesi decide di dare fuoco alle polveri, avendo scoperto lo sforamento del budget , si scopre che non solo le prestazioni «incriminate» sono identiche a quelle già contestate alla clinica di Velletri, ma che il direttore sanitario della Asl frusinate Raffaele Ciccarelli «presente alle trattative regionali per il riconoscimento dei pagamenti over budget alla San Raffaele Cassino proveniva proprio dalla struttura San Raffaele Velletri». La Corte dei conti chiede chiarimenti a Renata Polverini, nella convinzione che le irregolarità dovrebbero comportare, oltre al «recupero delle somme percepite illegittimamente», la «revoca immediata dell'accreditamento» e l'azzeramento del budget . Ma questo non accade. «Anzi», ricordano i giudici, «veniva emanato dall'ex governatore «apposito decreto che prevedeva per la Casa di cura San Raffaele di Cassino l'istituzione di nuovi posti letto in medicina, in precedenza tagliati alle altre strutture pubbliche della Regione Lazio». Va precisato che gli 86 e rotti milioni di presunto danno erariale, su cui i giudici si esprimeranno il 17 dicembre, riguardano i soli tre anni dal 2007 al 2009, a cavallo fra le giunte Marrazzo e Polverini.
L’URBANISTICA DI ROMA
Così i nuovi barbari saccheggiano Roma. "Capitale corrotta, nazione infetta". Un titolo dell'Espresso di 58 anni fa che sembra scritto oggi. Aree edificabili intorno al Gra, Metro C, litorale di Ostia, i quadranti sud-est, i soldi, leciti ed illeciti passano di qui. Centinaia di milioni di euro finiti nel nulla senza che la città divenga finalmente una metropoli europea, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica.” "Capitale corrotta, nazione infetta", titolava l'Espresso l'11 dicembre del 1955 sul sacco della città. Un'equazione che avrebbe consegnato Roma al destino di eterno termometro della febbre del Paese. Sono passati 58 anni e Repubblica, con questa inchiesta, documenta quale grado di infezione profonda continui ad avvelenare oggi il tessuto della città. Di fronte ai signori del "mattone" e a quelli del "ferro", ai grandi costruttori e alla criminalità con o senza il colletto bianco, la politica ha cercato un appeasement che l'ha progressivamente espropriata delle sue funzioni. L'oro di Roma - la sua crescita, le sue opere infrastrutturali come la terza linea della metropolitana - è stato consegnato a un nuovo silenzioso sacco. La "Grande area metropolitana" è - come leggerete - un progetto ridotto a simulacro. Perché la città "policentrica" ha, nei fatti, consegnato un cittadino su tre alla marginalità di quartieri che sono isole dormitorio escluse da ogni forma di partecipazione. Rovine del presente, prima ancora che indizi di futuro. In questo spazio, interi pezzi di territorio sono diventati terre di mafia. Come il litorale di Ostia o i quadranti sud-est della città, dove chi comanda porta il nome di famiglie che governano con la legge dell'intimidazione e dell'omertà, dove un'arma da guerra si compra con duecento euro, dove a chi prova ad alzare la cresta si spaccano le ossa e dove gli unici mercati che tirano sono quello degli stupefacenti e del denaro a strozzo. Luoghi, insomma, in cui lo Stato sembra aver rinunciato a esercitare una sovranità piena. E se è vero che le città vivono anche di simboli, quello che meglio racconta oggi Roma è il cantiere della linea C della metropolitana, la più grande opera infrastrutturale del dopoguerra. Un progetto i cui costi hanno già raggiunto i 3 miliardi e 400 milioni di euro, di cui non è dato vedere la fine e che, negli ultimi dieci anni, è stato l'Eldorado promesso dalle giunte di centro-destra e centro-sinistra che si sono alternate in Campidoglio. Intorno alla terza linea della metro era stato concepito il progetto di una "nuova città" che le avrebbe dato tempi e bioritmi da grande capitale europea. Una promessa diventata inganno, perché regolarmente disattesa, e che oggi costringe chi abita a Roma a trascorrere in macchina una media di 227 ore l'anno. Undici giorni di vita ogni 365. Uscita da una stagione politica di cui resteranno per sempre effigie le immagini dei Proci dalla testa di maiale nelle feste in costume ai tempi della Regione governata dalla Polverini e quelle del saluto dei vecchi camerati nel giorno della "presa del Campidoglio", Roma continua a raccontare la storia di una malattia più che la vigilia di una convalescenza.
Appalti e subappalti milionari, la corsa vincente delle cosche. I lavori per la Metro C vicino piazza San Giovanni. Contratti da milioni di euro a ditte in sospetto di infiltrazioni mafiose. E quando la Prefettura sospende le commesse il Tar annulla la decisione. Sullo sfondo sbucano intrecci con antichi esponenti della banda della Magliana ed ex terroristi neri, scrive Daniele Autieri su “La Repubblica”. "Mi ha kiamato ora Roma. Appuntamento domani alle 10,30". Aprile 2010: Alberto Pizzichemi, delegato della Regione Calabria nella capitale invia questo sms a Natale Iamonte, esponente del clan Iamonte di Melito Porto Salvo. Il giorno seguente il boss e l'imprenditore Giovanni Tripodi, l'anima industriale della cosca calabrese, sono in via dell'Umiltà dove ha sede il Pdl. Ad attenderli c'è Giuseppe Bono, uno degli assistenti politici dell'ex ministro del governo Berlusconi Sandro Bondi. Ed è proprio Bono che spiega all'imprenditore calabrese: "Roma è chiuso... è chiuso così forte che tu non hai manco l'idea... a livello di lavoro... girano sempre quelle quindici, venti persone grosse". Ma Tripodi è abile, entra nel giro della politica, e riesce a rompere lo sbarramento portando la sua Fravesa dentro i cantieri di metro C dove ottiene i primi importanti appalti. Secondo la Procura nazionale antimafia la forza dell'azienda e di Giovanni Tripodi è legata "all'appoggio derivante dall'appartenenza a una cosca ben radicata sull'intero territorio nazionale, quale è la cosca Iamonte; ma anche alla spasmodica ricerca e frequentazione di amicizie influenti che Tripodi Giovanni vanta tra esponenti del panorama politico nazionale". Non solo ristoranti, centri commerciali, slot e gioco d'azzardo. Le cosche hanno montagne di denaro da ripulire e le grandi opere sono la via più facile per farlo. Cantieri infiniti, progetti faraonici, infrastrutture costosissime e mai terminate: Roma è un lunapark per le mafie e la metro C il suo ottovolante. Anche per la giustizia quello della linea C è un cantiere vergine: a parte la prassi del controllo sui subappalti coordinata dalla Prefettura di Roma, non ci sono ancora inchieste in corso. Le mafie sanno come muoversi e hanno evitato di lasciare tracce di estorsione, racket o regolamento di conti come spesso avviene nei cantieri delle opere pubbliche in altre regioni italiane. La pax romana è un valore da preservare. Lo sa bene anche Giovanni Tripodi che riesce a infilare nei cantieri della metro un'altra azienda di famiglia, la Tripodi Trasporti, sempre con sede a Melito Porto Salvo. Nel confuso intreccio di subaffidamenti e subappalti, la 'ndrangheta trova così una strada per mettere le mani sull'opera pubblica più grande d'Italia. E lo fa in buona compagnia. Già dal 2008 inizia a lavorare La Palma srl, specializzata nell'affitto di macchinari e movimentazione di terra. La Palma ottiene quattro commesse per un totale di 210mila euro. Si tratta di subappalti che arrivano da aziende a loro volta subaffidatarie. I contratti vanno dal 29 luglio del 2008 al 10 giugno del 2009 e vengono interrotti il 2 febbraio del 2010 dall'interdittiva della Prefettura. Secondo gli inquirenti La Palma è mafia. Una corrispondenza altamente riservata della Dia indica la famiglia Farruggio (Angelo Farruggio è proprietario e procuratore de La Palma srl) come "famiglia notoriamente vicina alla mafia tradizionale di Palma di Montechiaro, contando su vincoli di parentela con esponenti di spicco della criminalità organizzata locale". Eppure le infiltrazioni nel grande buco che attraversa la pancia di Roma non si annidano solo nelle piccole imprese. Nel 2012 la Prefettura invia a Roma Metropolitane un'interdittiva antimafia che stavolta colpisce Fondazioni Speciali spa, una grossa azienda parmense controllata dal gruppo Italterra che vanta commesse in tutta Italia, dall'autostrada dei Laghi A8/A9 fino all'Expo 2015 di Milano. Nel maxi-cantiere dell'Esposizione universale l'azienda, riunita in un'Ati (Associazione temporanea di imprese), gestisce uno degli appalti più grossi che vale 99 milioni di euro. Il 26 settembre 2012 arriva anche nei cantieri dell'Expo l'interdittiva antimafia nei confronti della Fondazioni Speciali. Le accuse sono molto dure e circostanziate. In questo caso i riflettori si accendono su Guido Cillo, procuratore e direttore tecnico dell'azienda, ma anche destinatario di un decreto di rinvio a giudizio emesso il 6 luglio 2011 dal gip del tribunale di Reggio Calabria. L'uomo, secondo l'accusa, sarebbe coinvolto nelle indagini "Patriarca" e "Infinito" condotte dalla Dia di Reggio Calabria e di Milano che riguardano la realizzazione della variante esterna all'abitato di Marina di Gioiosa Ionica, lungo la statale 106, appaltato dall'Anas per un valore di 131 milioni di euro. Le forze dell'ordine hanno accertato l'influenza delle famiglie Aquino e Mazzaferro nella realizzazione dell'opera e il condizionamento mafioso operato nella selezione di fornitori e subappaltatori. La risultante che emerge nella relazione della prefettura di Parma è inequivocabile: "indipendentemente dagli sviluppi in sede processuale, appaiono sussistenti, in capo alla ditta Fondazioni Speciali spa, forme di condizionamento mafioso". La zona grigia che unisce il mondo delle imprese a quello delle cosche sembra allargarsi di giorno in giorno. Il 30 ottobre del 2012 lo stop della Prefettura di Roma arriva anche alla Casilina Presagomati spa. L'azienda, che ha ottenuto un appalto da 5 milioni di euro, è un soggetto rispettato nel panorama industriale laziale al punto che il suo presidente, Gian Rodolfo Bertoli, viene chiamato il 15 maggio dello stesso anno sulla poltrona di presidente della sezione metalmeccanica, metallurgica e costruzioni di Unindustria, la Confindustria laziale. Secondo l'interdittiva prefettizia la Casilina Presagomati è collegata a una serie di aziende i cui amministratori o persone di riferimento hanno precedenti di associazione mafiosa. Tra questi Giovanni Straccia, che controlla due società (la Straferro Costruzioni srl e la Straferro Centro Italia srl), entrambe destinatarie di interdittive antimafia da parte della prefettura di Ascoli Piceno. Mentre la Straferro figura già in un procedimento penale che riguarda il clan Stolder di Napoli, Giovanni Straccia, dicono gli inquirenti, ha intrattenuto rapporti con un esponente del clan mafioso di Villabate, in provincia di Palermo, oggi condannato per associazione mafiosa. Passano mesi e la vicenda della Casilina Presagomati diventa un caso: a maggio la Prefettura revoca il provvedimento che ha creato non pochi problemi all'azienda (taglio delle commesse e 30 dipendenti in cassa integrazione) mentre a breve è attesta l'udienza del Tar che dovrebbe confermare l'annullamento della sospensiva. Nella grigia vicenda delle infiltrazioni mafiose dentro la metro C alcune aziende sono state riammesse al banchetto degli appalti a seguito di sentenze del Tar del Lazio, che ne ha accolto i ricorsi e le istanze ribaltando le risultanze delle indagini condotte dalla Dia. È quanto accaduto con la Codimar (altra azienda raggiunta da un'informativa della Prefettura) per la quale il ricorso è stato pienamente accolto con la sentenza 6415 del luglio 2012. Sentenza Tar a favore anche la Fondazioni Speciali che, dopo le interdittive ricevute dalle prefetture romana e milanese, ha presentato ricorso. Il tribunale lombardo lo ha accolto giudicando insufficienti le informazioni inviate dalla Prefettura e lo stesso ha fatto il Tar del Lazio, che ha accettato l'istanza di sospensiva cautelare presentata dall'azienda e fissato l'udienza di merito al prossimo 14 novembre. C'è una linea invisibile che unisce la criminalità organizzata, l'ala deviata di Finmeccanica, alcuni pezzi dell'estremismo nero, e gli ultimi e potenti superstiti della banda della Magliana. E quella linea percorre il tracciato della metro C. Il 16 maggio del 2012 Lorenzo Cola, superconsulente dell'ex-amministratore delegato di Finmeccanica Piefrancesco Guarguaglini, rivela nel corso di un interrogatorio: "La vicenda dei filobus (l'appalto affidato a Breda Menarini grazie all'intermediazione del fedelissimo di Alemanno Riccardo Mancini, poi ripagato, secondo l'accusa, con una tangente da 500mila euro) era un primo step per intervenire, attraverso le controllate di Finmeccanica, nella costruzione della metropolitana di Roma, un affare che poteva valere 2 miliardi di euro". Tra il 2009 e il 2010 Finmeccanica si interessa ai tanti affari del Campidoglio e Guarguaglini incontra il sindaco Gianni Alemanno. A muovere il manager è il desiderio del Gruppo di entrare nel business della metro C. Guardando oggi gli elenchi degli appalti quel desiderio è stato saziato e la presenza di Finmeccanica è ovunque. Non solo con Ansaldo Sts che è parte del contraente generale (insieme ad Astaldi, Vianini, Cmb e CCC) ma con Ansaldo Breda che ha vinto la gara da 270 milioni di euro per la fornitura delle carrozze e con Elsag Datamat, l'azienda che ai tempi delle commesse metro era gestita da Marina Grossi, moglie di Pierfrancesco Guarguaglini. Solo nel 2010 la controllata di Finmeccanica ha ottenuto da metro C subaffidamenti per 1,5 milioni di euro. Fin qui le vie ufficiali. Ma il mondo che gravita intorno a Lorenzo Cola e al suo commercialista Marco Iannilli ha trovato strade più discrete e forse più efficaci per mettere le mani sul grande business. Nel 2010 Cola viene arrestato con l'accusa di gestire il sistema delle tangenti Enav. La scorsa settimana il commercialista vicino agli ambienti dell'estrema destra è stato nuovamente arrestato insieme ad alcuni soci e prestanome nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Roma. Al centro dell'indagine la Arc Trade, la società di cui Iannilli è stato azionista e dominus, attraverso la quale sono state create le provviste per il pagamento delle tangenti prima che fosse portata al fallimento. E proprio tra i soci della Arc Trade figura per un certo periodo anche Lorenzo Marronaro, l'ex-attaccante della Lazio che fa parte dell'omonima famiglia di imprenditori abruzzesi. I Marronaro sono titolari, tra l'altro, della Semar Appalti, azienda capofila dell'Ati Consorzio Stabile Roma Duemila che ottiene appalti milionari nella metro C. Il suo presidente, Maurizio Marronaro, è cugino di Lorenzo (il socio di Iannilli) e la Semar Appalti ha una sede nello stesso stabile della Macoge, altra azienda in cui è presente Lorenzo Marronaro. La Marcantonio Spa invece (gruppo oggi in liquidazione che nel 2009 ha preso appalti nella metro per 5 milioni di euro) ha sede nello stesso complesso e allo stesso indirizzo (via Zoe Fontana 220) della Arc Trade di Marco Iannilli. Nel turbine delle coincidenze ci sono però alcune certezze: il Consorzio Stabile, in raggruppamento con la Marcantonio spa, avrebbe affidato alcuni subappalti a società legate alla criminalità organizzata. Sia La Palma srl, riferibile al clan siciliano dei Farruggio, che la Fravesa dei Tripodi di Melito Porto Salvo ottengono così le loro commesse. Ma i rapporti di Iannilli non si limitano all'universo Finmeccanica. Sullo sfondo spunta a volte Massimo Carminati, conosciuto da molti come il "nero" della banda della Magliana, condannato per la sua appartenenza ai Nar e indagato nel '99 per il furto al caveau della Banca di Roma all'interno del Palazzo di Giustizia. Oggi Carminati è considerato uno dei capi più temuti e rispettati nel panorama criminale romano. Del resto, in questa pagina buia di storia italiana, gli intrecci tra i boss e gli uomini in doppiopetto sono fin troppi. Prendiamo per esempio Fabrizio Montali, il dominus dell'istituto di vigilanza Metronotte Nuova Città di Roma. Nel 2012 l'azienda di Montali, in Associazione temporanea di imprese con altre società della security, si assicura l'appalto per la gestione della sicurezza nella metro C. Valore della commessa: 5 milioni di euro. Ma Montali non è un imprenditore qualunque. Sotto l'abito scuro e l'amore per le macchine da corsa si nasconde il profilo di un indagato per collusione con Enrico Nicoletti, il cassiere della banda della Magliana oggi in galera. Riciclaggio, corruzione e intestazione fittizia di beni con l'aggravante della mafiosità i reati contestati nel processo che va a sentenza in questi giorni. Nonostante il processo però nessuno ha pensato di revocare alla Metronotte Nuova Città di Roma l'appalto milionario della metro né tanto meno l'affidamento ottenuto dalla Regione Lazio per la gestione della sicurezza di alcuni dei più importanti ospedali romani. Anche in questo caso le tracce del contratto siglato con metro C si perdono nel fiume degli oltre 5mila subaffidamenti che oggi costituiscono l'impalcatura dell'opera. Una montagna di carte e denari, interessi e appalti sapientemente nascosti tra i cantieri di ferro, cemento e graniti che corrono sotto la pancia di Roma.
Ostia assediata dai clan. Ma sulla mafia cala l'omertà, scrivono Federica Angeli e Carlo Bonini su “La Repubblica”. Il litorale della cittadina a due passi dalla Capitale brucia dei roghi dei capanni come ogni vigilia d'estate. Nessuno vede, nessuno parla, nessuno ascolta. Eppure si sa che da vent'anni, dopo la dissoluzione della Banda della Magliana, su tutto comandano tre famiglie. Nomi che ricorrono spesso nelle inchieste avviate da alcuni coraggiosi magistrati della Procura di Roma. Di fronte alle tre famiglie - Fasciani, Triassi e Spada - la politica si è sempre genuflessa con rispetto. La triade vive di un equilibrio nato nel 2007, quando Vito Triassi viene gambizzato due volte nel giro di un anno. Una "pace armata" in nome del controllo dei locali notturni, del traffico di stupefacenti sulla rotta Ostia-Malaga e di un fiorente riciclaggio che si mangia pezzi della località. Ora sembra che la magistratura voglia aprire una nuova partita per chiudere un'era con una tempesta o un invito alla resa. Era la notte dell'11 maggio. Ed erano in tre. Incappucciati. Hanno fatto inginocchiare la guardia giurata nella sabbia, con lo sguardo rivolto verso il mare, facendogli sentire la canna del "ferro" alla nuca. "Guarda dritto che così non succede nulla. A te e alla tua famiglia". Lui ha obbedito e le fiamme si sono mangiate quel che il disgraziato doveva vigilare: il ristorante "Nemo" dello stabilimento "Nuova Pineta". Si scrive Ostia, si intendono Roma (già XIII e ora X Municipio) e il suo litorale, ma in fondo parliamo di una di quelle Corleone d'Italia che nessuno vuole vedere. Perché a Roma "la mafia non esiste". Anche se il litorale brucia dei roghi dei capanni a ogni vigilia d'estate. Quest'anno (il 5 maggio fiamme all'"Anima e core", il 22 aprile al capanno del "Glam Beach", dove si sono presentati con taniche e mazze), come negli anni precedenti (nel 2001, sei roghi. Nel 2012, un pacco-bomba fasullo allo stabilimento "Il Capanno"). Anche se in un bar di Nuova Ostia, in via Antonio Forni (era il 22 novembre 2011), due pezzi da novanta come Giovanni Galleoni (detto "Baficchio") e Francesco Antonini (detto "Sorcanera"), noti per altro come "riscossori di piccoli oboli" nei chioschi delle spiagge attrezzate, se ne vanno al Creatore sfigurati da una calibro 38 e da una 9x21. A Ostia, come nella storia delle tre scimmiette, nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla. E chi decide di dire la sua, o è un ex poliziotto che non ha più nulla da perdere, ma preferisce lasciarsi intervistare di spalle da anonimo intabarrato in una felpa. O è l'imprenditore Paolo Papagni, socio e fratello del presidente dell'Assobalneari Renato, che prende cappello e si "indigna" contro chi vuole "infangare" la reputazione di questo spicchio di città che i diavoli hanno eletto a loro Paradiso. Come se la questione degli arenili fosse banale faccenda di racket delle estorsioni e le stimmate della criminalità organizzata nelle esecuzioni che contano non significassero ciò che appare evidente anche ai più ingenui. Come se nessuno sapesse quel che sanno anche i sassi e che è scritto negli atti di indagine e nelle pronunce coraggiose di qualche magistrato della Repubblica. Che da vent'anni, a Ostia, dopo la dissoluzione della Banda della Magliana, comandano tre famiglie, dai cognomi che fanno abbassare lo sguardo. Che da vent'anni, a Ostia, non si muove paglia che non vogliano o non sappiano i Fasciani, i Triassi, gli Spada. Che da vent'anni, a Ostia, la regola ferrea dell'omertà e della paura vuole che degli omicidi di malavita i mandanti restino ignoti. Che le vittime si chiamino Paolo Frau, Rosario Lauricella, Michele Settanni. Di fronte alle tre famiglie - Fasciani, Triassi e Spada - la politica si è sempre genuflessa con rispetto. E poco importa che il vecchio Carmine Fasciani, entrato e uscito di galera per narcotraffico, ami farsi dare del "don", o che Vito, uno dei due fratelli Triassi (originari di Siculiana e già collonnelli di Pasquale Cuntrera), sia conosciuto nel giro come "Er Mafia". O, ancora, che uno degli Spada, Armando (imparentato con i più noti Casamonica di Roma est), sia indagato per l'omicidio di "Sorcanera" e "Baficchio" e, alla scoperta della telecamera di Repubblica nel suo stabilimento, salga di tono minacciando "un colpo in testa" ai cronisti ficcanaso. Alle tre famiglie non si può dire di no. Come ha imparato nei suoi cinque anni Giacomo Vizzani, fino al maggio scorso, presidente del XIII (ora X) municipio e dominus delle concessioni sui 14 chilometri di arenili. Da minisindaco di Ostia votato dalla destra, i suoi rapporti con le tre famiglie sono stati saldi come la gomena di una nave. E oggi di concessioni sull'arenile ne hanno una i Fasciani (lo stabilimento "Village"), una gli Spada ("Orsa Maggiore"), una i Triassi (è una spiaggia attrezzata che insiste su un lembo di arenile originariamente dato in concessione a delle suore e gestito da un cognato da quando i due, un anno fa, hanno deciso di trascorrere buona parte del loro tempo a Tenerife, nelle isole Canarie). E pensare che sembrava finito il vecchio "don Carmine". L'uomo, abruzzese di Capistrello, ha 63 anni e dice di dovere le sue fortune "all'acqua e alla farina" delle sue panetterie (la prima la apre a Ostia negli anni 70, in via dei Traghetti) ma si dà del tu con il boss di camorra Michele Senese "'o pazzo" (tornato in carcere il 26 giugno scorso). Negli anni della Banda della Magliana, presta i soldi a strozzo. Poi, entra nel Gioco Grande e di Ostia diventa "il sindaco ombra". Traffica al telefono con il sottobosco degli ex Nar come Gennaro Mokbel che, nella nuova Italia, posano a imprenditori. Ma, soprattutto, come documentano le inchieste della Procura, don Carmine traffica in stupefacenti. Nel '98 sfugge all'arresto nella sua villa all'Infernetto e sparisce per un anno, prima di essere arrestato in Germania. In carcere resta poco. Per tornarci nel 2010. Ancora per narcotraffico. E questa volta insieme al fratello Floro. Nel 2011, lo condannano in primo grado a 26 anni e 8 mesi di carcere (pena che, il 3 luglio scorso è stata ridotta a 23 anni). Fino al 9 luglio era agli arresti ospedalieri, nella casa di riposo "Villa Faieta" di Fiumicino, dove riceveva amici e "clienti" come fosse casa sua. Una libertà di troppo che gli è costata il ritorno (temporaneo?) in carcere. Mentre un secondo processo - ancora per narcotraffico e in cui l'accusa aveva chiesto 30 anni - lo ha visto assolto in primo grado nel 2012. Tanto da restituirgli, insieme al buon umore, il patrimonio che gli era stato sequestrato e il rispetto di tutti. A cominciare dal fratello del presidente dell'Assobalneari, Paolo Papagni, che di lui dice: "Abbiamo percorso strade diverse, ma quando lo incontro per strada baci e abbracci". La triade di Ostia vive di un equilibrio nato nel 2007, quando Vito Triassi viene gambizzato due volte nel giro di un anno. Chi gli spara sono due tipi noti nel giro come "Nasca" (Roberto De Santis) e "Cappottone" (Roberto Giordani), accreditati come gli epigoni di Paolo Frau, vecchia conoscenza della Banda della Magliana. E a convincere Vito a non consumare la sua vendetta e a trasformare il litorale in un mattatoio è proprio Carmine Fasciani, dopo aver riunito nel salotto di casa sua Senese e i Triassi. Una "pace armata" in nome del controllo dei locali notturni, del traffico di stupefacenti sulla rotta Ostia-Costa del Sol, Ostia-Canarie (a Ostia, la "vox populi", in un mix di ammirazione e paura, vocifera che i Fasciani e i Traissi custodiscano il loro tesoro in autobotti interrati nell'entroterra di Malaga) e di un fiorente riciclaggio che si mangia pezzi del litorale. Siano esercizi commerciali, piuttosto che ristoranti o gioiellerie. Una "pace" che in qualche modo resiste e all'ombra della quale viene consumato anche l'ultimo duplice omicidio di "Baficchio" e "Sorcanera". Se è vero come è vero che la notte della loro esecuzione, il cielo di Nuova Ostia, quartiere controllato dagli Spada, si è illuminato di fuochi di artificio. L'11 luglio, per l'omicidio dei due, è stato arrestato Nader Amna Saber Abdelgawad, un cittadino egiziano indicato come l'esecutore materiale. Ma indagati con lui sono anche Armando e Ottavio Spada. Gli Spada, dunque. Nell'ordinanza del gip Cinzia Parasporo, al netto dei dettagli di un movente che gira intorno a una "partita di pessima qualità di hashish", è interessante scoprire come, negli equilibri di Ostia pesino, insieme alla Camorra di Senese, anche la 'ndrangheta calabrese, che con gli Spada aveva cominciato ad avere "qualche problema". Una conferma, ammesso ce ne fosse bisogno di quale grana è fatta la "pax" del litorale. E che le sue stimmate sono mafiose. Altro che folclore. La Criminalità organizzata non perde tempo in luoghi che non assicurino profitti. Del resto, con enfasi, alla fine del maggio scorso, congedandosi da presidente del XIII Municipio, Giacomo Vizzani mette in chiaro quale sia stata in questi anni e quale sia oggi la posta in gioco. "Molti progetti che abbiamo messo nero su bianco - dice - saranno visibili già nei prossimi giorni con l'avvio dei cantieri di alcune opere di grande rilievo che avranno ricaduta positiva su tutto il territorio del XIII Municipio. Effetti positivi che vedrà la prossima legislatura. Ci auguriamo che anche il progetto del Waterfront possa andare a buon fine perché con esso sarà possibile dare risposte in termini di occupazione e di infrastrutture. Questa vasta area di Roma, il Lido, è un monte d'oro che non è mai stato sfruttato per quanto vale. Investire qui vuol dire riqualificare ad esempio il mare di Roma e gli scavi di Ostia Antica". Già, Ostia è "un monte d'oro" . Per quel che oggi già è e, soprattutto, per quel che potrebbe diventare, o, meglio, che la destra al governo in Campidoglio, immaginava potesse diventare: una passerella di casinò, approdi per yacht, centri commerciali, locali, destinati al turismo dei nuovi ricchi. Insomma una Atlantic City de noantri. Avere un piede ad Ostia, meglio ancora sui suoi arenili, è una scommessa a vincere. Non fosse altro perché, in attesa della manna "Waterfront", ogni stagione balneare frutta in media 60 milioni di euro ai 40 stabilimenti spalmati sui 14 chilometri dell'arenile. O, almeno, chi ha partecipato alla spartizione è convinto che lo sia. Come del resto il sindaco uscente di Roma Gianni Alemanno ancora prometteva appena il 2 maggio scorso durante la sua campagna elettorale. E come è tornato a ripetere dall'opposizione, chiedendo al nuovo sindaco Ignazio Marino di fare proprio "il progetto di riqualificazione di Ostia". Anche per questo, per capire come funzionino le cose a queste latitudini è utile uno sguardo al lavoro dell'Ufficio Tecnico del XIII Municipio, diretto, nell'era Vizzani, dall'ingegnere Aldo Papalini. Avere un amico in quell'ufficio vale una fortuna. Perché dopo la gestione della Capitaneria di Porto e quella della Regione, da tre anni le concessioni sono faccenda di competenza del Municipio di Ostia. Così negli anni, Papalini firma 32 "determinazioni dirigenziali" per "lavori di somma urgenza" che appaltano 14 milioni di opere senza gara. E attraverso il suo ufficio tecnico - per ironia della sorte affacciato sulla spiaggia dei Triassi - passano le concessioni demaniali di stabilimenti e chioschi. Come i 5 che, il 28 aprile scorso, vengono sequestrati su mandato del pm Mario Palazzi sull'arenile di Castelporziano, spiaggia nella zona di Ostia levante e nota ai romani come "I Cancelli". La Capitaneria di Porto scopre infatti che quelli che dovrebbero essere modesti capanni in cui dare riparo a sdraio e ombrelloni si sono trasformati in ristoranti sul mare da 150 metri quadrati. Scopre, che a gestire uno di uno dei cinque capanni sequestrati è un dirigente dell'Ufficio tecnico di Ostia, Mario Bellavista, già capogruppo Pdl al XIII municipio, che le concessioni le assegna. E che tra i beneficiati e "abusivi" delle concessioni ci sono anche la moglie, Mara Contu, e la figlia Azzurra. Del resto, nel mondo capovolto di Ostia, la storia di alcune delle concessioni documenta meglio di qualsiasi inchiesta della magistratura quali itinerari segua il governo della cosa pubblica in un territorio che, di fatto, l'amministrazione non controlla, ma distribuisce a chi ne è altrimenti padrone. La concessione per lo stabilimento "Kitesurf" viene assegnata senza bando dall'ingegner Papalini a Italo Mannucci, già vice difensore civico del comune di Roma in quota Pdl. Il "Moma" è gestito da Maurizio Perazzolo, già consigliere regionale con la Polverini. L'"Orsa Maggiore" finisce a Ferdinando Colloca (fratello dell'ex Pdl e quindi Udc Salvatore), candidato alle ultime amministrative con Casa Pound e socio nello stabilimento con la famiglia Spada (che dell'Orsa maggiore ha il 60 per cento), dove per altro la sicurezza è gestita da un ex sottufficiale della Capitaneria di Porto e da un ex agente del commissariato di Ostia. E dove la spiaggia non ha il colore della politica ecco le stimmate delle "famiglie". Dello stabilimento di don Carmine, si è detto. Come di quello dei Triassi, su una striscia di arenile originariamente in concessione alle suore. Ma è arrivati all'"Acuna Matata" che si fa una scoperta. La concessione è assegnata a Cleto di Maria, l'autista dei Triassi. Un arresto a Fortaleza negli anni '90 con un maxi carico di cocaina. Il business degli arenili ha avuto come appendice anche quello dei parcheggi all'esterno degli stabilimenti. Per dirne una, nell'estate del 2012, la gestione degli spazi "con strisce a pagamento" di Ponente venne appaltata ad Armando Spada, l'uomo indagato ora per duplice omicidio (il progetto poi abortì ed è comunque costato agli abitanti di Ostia 50mila euro). Mentre al porto, è Frank l'Iracheno (al secolo Sulaiman Faraj), una passato di legami con la Banda della Magliana, ad aver vinto l'appalto per la gestione del grande parking attorno allo scalo marittimo. Arrestato nel 2004 con l'operazione Anco Marzio, seguita all'omicidio di Frau (che qualche mese prima di essere assassinato aveva vinto l'appalto per la gestione del parcheggio a pagamento della multisala di Ostia "Cineland") per traffico internazionale di stupefacenti, oggi "Frank" passa le sue giornate dentro un gabbiotto e riscuote un euro per ogni auto che parcheggia nel porto. Arenili, Waterfront, traffico di stupefacenti, riciclaggio, parcheggi. L'equilibrio di Ostia è ora a un passaggio cruciale. Che non è scritto soltanto nel futuro giudiziario di don Carmine Fasciani o in quello degli Spada, nella sconfitta politica del centro-destra alle recenti elezioni amministrative. Ma nell'avviso ai naviganti arrivato nella notte tra il 26 e il 27 giugno, quando Michele Senese è tornato in carcere accusato di un vecchio omicidio. La Procura di Roma, con Giuseppe Pignatone, sembra voler aprire una nuova partita. E Senese in carcere ne è la premessa. Come l'individuazione degli assassini di "Baficchio" e "Sorcanera". Colpi di cannone che annunciano verosimilmente una tempesta. O magari un invito alla resa. A soli venti chilometri da Roma. Dove qualcuno ha continuato a ripetere e a far finta di credere per troppo tempo che "la mafia non esiste".
Casamonica, i nuovi re di Roma. Quando la famiglia è potere.
Ville dove il fuoco arde sempre (per poter bruciare la droga in caso di irruzione della polizia), auto di lusso, prepotenze, ma nessun omicidio. Così i sinti arrivati dall'Abruzzo da trent'anni hanno preso possesso di una parte della Capitale, temuti da tutti, scrive Massimo Lugli su “La Repubblica”. Nelle ville dei Casamonica il fuoco non viene mai spento. Arde nei camini, pacchiani come la vasca da bagno di Al Pacino in "Scarface", anche in agosto inoltrato. I carabinieri e la polizia sanno che quelle fiamme sono il loro peggior nemico: servono a distruggere in pochi secondi le bustine di cocaina al primo segno di perquisizione. I blitz che ormai si ripetono al ritmo di uno ogni sei mesi da oltre vent'anni sono una corsa contro il tempo, una sfida d'astuzia e velocità. Poliziotti e carabinieri annunciano la loro presenza dopo aver circondato la villa ed essersi preparati a un'irruzione con tecnica da commando. Appena la telecamera di sicurezza li inquadra, agenti e militari cercano di precipitarsi dentro scavalcando muri di cinta e balconi mentre, tra saloni decorati a stucchi e colonne di marmo rosa, statue dorate, copriletto di raso o di guanaco, rubinetti d'oro massiccio e posacenere d'argento, è una corsa affannosa a gettare le dosi nel camino o nel cesso. Segue una sceneggiata dal copione ormai collaudato: le donne dalle lunghe gonne zingaresche, ingioiellate come la Madonna di Pompei, che urlano, piangono, fingono malori e disperazione, gli uomini torvi e massicci che accolgono gli intrusi con volti chiusi e ostili, ma ostentano un rispetto da vecchi nemici, gli "sbirri" o i "carubba" che buttano tutto all'aria con poche speranze di mettere le mani su qualche indizio utile, gli avvocati che si precipitano sul posto nel giro di pochi minuti, strepitano e protestano con uno sfoggio di aggressività che serve solo a garantire le loro parcelle. Poi arresti, denunce a piede libero, sequestro di beni: appartamenti, terreni, ville, purosangue, conti correnti e le solite Ferrari. E tutto ricomincia come prima. Luglio 2003: "Sequestrato il tesoro del clan: 85 milioni di beni". Gennaio 2012: "Sgominata la gang: 39 arresti". Due titoli scelti a caso tra le decine e decine che ricordano le ormai continue offensive contro una delle organizzazioni criminali più strutturate, impenetrabili e pericolose d'Italia. Solo negli ultimi due anni, i carabinieri del gruppo di Frascati hanno ammanettato cento membri del clan e sequestrato beni per 25 milioni. Eppure il gruppo sembra invulnerabile e sopravvive a ogni attacco con una capacità quasi soprannaturale di ripresa. L'impero che si spande tra Romanina, Tuscolano, Porta Furba e l'Anagnina continua ad allargare i suoi confini oltre il Raccordo Anulare, raggiungendo a sud i comuni di Frascati e Montecompatri e a Nord alcuni centri abruzzesi da dove, trent'anni fa, il primo nucleo di sinti stanziali mosse alla conquista della capitale quando ancora si combatteva la malaguerra tra la Gang dei Marsigliesi e i vecchi boss capitolini ostinati nel rifiuto del nuovo business dell'eroina. Gli affari, iniziati con il tradizionale allevamento dei cavalli, sono ormai differenziati come quelli di una multinazionale e spaziano dal traffico di droga all'usura, dal recupero crediti alle truffe, dal riciclaggio fino all'abusivismo edilizio e addirittura al furto di energia elettrica in una sorta di sfoggio d'illegalità degno dei gangster anni 30. Restano le tradizioni zingaresche, i matrimoni tra lontani parenti che hanno cementato il patto d'acciaio tra Casamonica, De Rosa, Di Silvio, Di Guglielmo, Spada e Spinelli, il lessico familiare in un misto di italiano e di slang sinti e il disprezzo delle armi da fuoco. I Casamonica non sparano, picchiano. Quando c'è proprio bisogno di una pistola, il compito è delegato a qualche manovale non affiliato, spesso romeno e si tratta, quasi invariabilmente, di una pura intimidazione. In tutta la storia criminale di un'organizzazione che conta oltre mille componenti non si registra un solo omicidio. "Nel territorio di Roma Sud Est sono stanziate ben 45 abitazioni riconducibili alle famiglie Casamonica", si legge in una recente ordinanza del Tribunale romano, "dislocate in agglomerati composti da un minimo di cinque famiglie che fanno parte di un unico gruppo rivendicante una tradizione zingaresca con propri usi, costumi, lingua, caratterizzato da una totale forma di chiusura... A tale proposito appare significativo evidenziare che la quasi totalità dei connubi, che si esplicano principalmente in coppie di fatto e raramente in matrimoni, avviene all'interno del gruppo stesso (unione di fatto tra cugini ecc). Sono molto rari i casi in cui entra a far parte della famiglia chi ne è esterno e, quando accade, deve necessariamente sottostare e adeguarsi totalmente alle abitudini della stessa". Non c'è mai stato un pentito, nella gang e mai ci sarà. Una digressione quasi sociologica, quella del Gip, ma che serve a spiegare la peculiarità e la vera risorsa, l'arma segreta del clan. "Il numero cospicuo di appartenenti alle famiglie e la loro totale chiusura dà forza al gruppo - continua il magistrato - forza che permette a ogni singolo appartenente di avere atteggiamenti intimidatori e prevaricatori nei confronti dell'esterno". Già perché la storia dei Casamonica, al di là degli arresti, dei sequestri, delle trasferte a Montecarlo in alberghi da 1500 euro a notte per riciclare i soldi al casinò o delle innumerevoli operazioni antidroga, è, sostanzialmente, una storia di prepotenza. Gente che vende un camion o una macchina e si ritrova con un pugno di assegni scoperti in mano, negozianti costretti a "regalare" orologi di lusso e gioielli, ristoratori che imbandiscono cene da 25 persone e non incassano un centesimo, creditori svillaneggiati e minacciati. Quasi sempre basta il nome: "Siamo Casamonica, non ci rompere le palle", per far battere in ritirata anche i più ostinati. A volte vola qualche sganassone e la fama del clan si accresce. Una reputazione che ormai permette alla gang di fare affari, da pari a pari, con parecchie cosche della camorra e della Sacra Corona e che accresce il peso del gruppo nel ramo del recupero crediti. Due anni fa la mobile romana scoprì un nuovo livello di scambio tra alcuni vecchi usurai romani e i Casamonica: due debitori riottosi ceduti alla gang in cambio di uno più remissivo. Tanto, coi Casamonica, pagano tutti. Qualcuno, a volte, non ci sta e siamo alle storie quasi grottesche tipiche di tutta la malavita capitolina: il marmista iraniano che, dopo aver chiesto inutilmente il prezzo del suo lavoro, incassa una scarica di legnate ma fa arrestare i suoi aguzzini e addirittura la badante romena che denuncia i Casamonica perché non pagavano i contributi. Nessuno dei due è emigrato in Sud America o si è fatto cambiare i connotati da un chirurgo plastico. I Casamonica menano, minacciano ma sanno anche perdere. Quando i carabinieri si presentano per demolire le loro ville abusive, al solito bailamme di urla, lacrime e giaculatorie segue, inevitabilmente, un rituale preciso e un po' comico: mentre i muri crollano sotto l'urto delle ruspe, a tutti i militari, dal colonnello alla recluta, viene offerto il caffè.
Ultime parole famose. La costruzione della Metro C di Roma è la storia di continue promesse mancate, di qualche bugia, di ritardi continui e di costi che aumentano in modo esponenziale, scrive Giulia Paravicini su “La Repubblica”. La parabola di una grande opera infrastrutturale, la seconda per dimensione e costi mai messa in cantiere dalla nascita della Repubblica. Un progetto che da vanto è divenuto spina nel fianco di tutte le giunte capitoline, e dei governi cui è sopravvissuto e da cui è stato ereditato senza che nessuno lo abbia ancora potuto concludere. La metafora perfetta del Sistema Italia dove una striscia d’asfalto, il pilone di un ponte, la posa di un binario costano mediamente il 30% in più del resto d’Europa e anno tempi di realizzazione fuori da ogni standard. Nel 2007, Roma, a sentire Walter Veltroni, all’epoca sindaco della Capitale, doveva già essere in carrozza. Il progetto originario, annunciato come una “rivoluzione”, prevedeva una linea nuova di zecca che, incrociando la A e la B, attraversando il centro storico e archeologico, avrebbe dovuto collegare i quartieri Clodio-Mazzini (Roma Nord) al Pantano (Roma Sud-Est) in 45 minuti senza mai scendere dallo stesso convoglio. Al momento per compiere lo stesso tragitto è necessario prendere un autobus, la Metro fino alla Stazione Termini e da lì la Ferrovia, tempo stimato oltre l’ora e mezzo, traffico e ritardi permettendo. I cantieri della C sono ancora aperti. E dire che il 14 febbraio del 2006 il consorzio di imprese facente capo a Astaldi con la Vianini di Caltagirone, il Consorzio cooperative costruzioni e Ansaldo Trasporti, si aggiudiòa la gara d’appalto principalmente per due ragioni: la consegna di parte dei lavori (tratto San Giovanni – Alessandrino) 620 giorni prima del previsto e una riduzione dei costi che avrebbe dovuto produrre un risparmio di ben 500 milioni di euro. Ironia della sorte proprio la tratta che aggiudicò l’appalto potrà ora far saltare i 450 milioni stanziati dal governo Letta. Se non dovesse infatti aprire ad ottobre, addio ai fondi del Decreto del "fare".
20 maggio del 2002. Viene firmato un protocollo, in gergo tecnico “accordo procedimentale", che fissa la tappe per tutte le scadenza dell’intera operazione che avrebbe dovuto portare alla costruzione della terzo linea metropolitana di Roma: la Metro C. Nel documento si legge che qualora le date non siano rispettate, i finanziamenti saranno interrotti. Si enuncia che il tratto centrale della c t4 e t5 sarà pronto nel 2007.
WALTER VELTRONI: “Le firme di oggi testimoniano un coerente sforzo delle istituzioni per dotare finalmente Roma di un sistema di metropolitane all’altezza della capitale”.
Gli fa eco PIETRO LUNARDI: “Questi accordi rappresentano un modello d’intervento sulla mobilità nei centri urbani, non più a pioggia, ma organizzati in un sistema integrato, con tempi e risorse certe”.
In chiusura FRANCESCO STORACE annuncia:“Dopo questa firma l’operazione procederà spedita, ci saranno solo questioni tecniche, non certo politiche”.
Un milione per un gazebo, centomila per una rivista. All'ombra di ministri e politici (di destra). Nel 2010 ottiene un incarico da 70mila euro per non meglio precisata attività di comunicazione la Fondazione Res Publica per una Cultura Liberale, scrive Daniele Autieri su “La Repubblica”. I canali finanziari che pompano dentro gli ingranaggi di Metro C miliardi di euro provenienti dal Cipe, dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio hanno qualche falla, qualche foro che in questi anni ha alimentato la criminalità organizzata, quella comune, oltre ad aver concesso alcuni casi di clientelismo e sprechi. Nel 2010 ottiene un incarico da 70mila euro per non meglio precisata attività di comunicazione la Fondazione Res Publica per una Cultura Liberale. Come è spiegato nel suo sito internet "la Fondazione è un luogo di dibattito e di confronto. E fornisce strumenti di comunicazione per aggregare la componente liberale presente tanto nell'area laica quanto nell'area cattolica". All'apparenza non emergono legami tra la mission politica del think tank e le tipicità di comunicazione di un'opera infrastrutturale fatta di ferro, cemento e acciaio. Ma la Fondazione sa esercitare una certa influenza. Sulla poltrona di presidente del Comitato scientifico siede Giulio Tremonti che proprio in quegli anni è ministro del Tesoro. Un altro ministro, Pietro Lunardi (autore della legge Obiettivo che regola il funzionamento amministrativo di Metro C), vede intrecciati i suoi destini con quelli dell'opera. La sua Rocksoil, gigante internazionale della trivellazione, ottiene importanti appalti dalla metro che, tra il 2009 e il 2011, gli valgono quasi 4 milioni di euro. Nell'ottica della vicinanza al territorio, nel corso del 2010 Municipio Ottavo News sigla un contratto da 100mila euro. Come si legge nei registri degli appalti il compito del quindicinale di informazione è quello di "offrire servizi relativi alla sponsorizzazione di articoli". Il direttore del periodico si chiama Emanuele Amici, è un consigliere dell'VIII Municipio e alle ultime elezioni ha aderito alla formazione di destra "Fratelli d'Italia". Come dimostrano questi casi, sono proprio le spese per la comunicazione quelle che, all'apparenza, sembrano le più esagerate. Nel 2011, per la gestione di un info-point (un gazebo dedicato ai rapporti con la stampa e alla comunicazione al territorio e gestito da una sola persona) viene stanziato 1 milione di euro. Tanti soldi che finiscono nel frullatore di Metro C e vengono spezzettati nella fitta ragnatela dei subappalti.
Traffico, polveri ultrasottili, il vero killer per la popolazione.
Secondo l'Oms tolgono un anno di vita ai romani. Trasporti pubblici ignorati e inefficienti, consumo esasperato del suolo urbano, boschi e prati sacrificati al cemento: ecco come e perché i tempi della battaglia ecologica di Roma si dilatano all'infinito, scrive Antonio Cianciullo su “La Repubblica”. Lo dice l'Oms, l'Organizzazione mondiale della sanità, le polveri ultrasottili, le PM25, micidiali prodotti del traffico cittadino, rubano ai romani in media un anno di vita. Se si riducesse di 10 microgrammi per metro cubo la concentrazioni di queste polveri si eviterebbero 1.278 morti ogni anno con un risparmio di 2,1 miliardi di euro. Ma nella città eterna la soluzione dei problemi ambientali rischia di avere tempi che si dilatano all'infinito. Sul fronte dell'inquinamento atmosferico e del traffico, nell'ultimo decennio si sono registrati progressi così piccoli da acquistare significato solo in una prospettiva secolare. Per dare una speranza ai viventi occorre un'accelerazione decisa e, in alcuni casi, un netto cambio di rotta. Ecco, mettendo assieme i dati di Legambiente e quelli dell'Organizzazione mondiale della sanità, un quadro sintetico della situazione. Tra il 1993 e il 2008 i terreni destinati a usi urbani sono aumentati del 12%: 4.800 ettari di verde sono stati lasciati in balia di cemento e asfalto. Una perdita subita soprattutto della fascia agricola che circonda la città (4.384 ettari persi), e in misura minore dai boschi (416 ettari). Non basta. Secondo i Piani regolatori vigenti le previsioni peggiorano: altri 6.700 ettari, prevalentemente agricoli, verranno sacrificati all'espansione della città peggiorando, in assenza di una programmazione delle infrastrutture, tutti i problemi, a cominciare dal traffico. Nel 2003 garantiva 499 viaggi per abitante all'anno. Nel 2011 era salito appena a 519 (mentre Milano passava nello stesso periodo da 404 a 456). Negativo anche il dato sulle auto circolanti: 70 ogni 100 abitanti, molto più che a Parigi, Londra o Berlino. "I metri quadrati di suolo destinati ai pedoni romani sono fermi dal 2003 a un ridicolo 0,14 metri quadrati per abitante", aggiunge Laurenti. "Nonostante la crisi, l'impennata del costo dei carburanti e il fatto che la distanza percorsa in media in ambito urbano non supera i 7 chilometri, l'auto resta padrona incontrastata del trasporto romano". Nel 2003 i valori medi annui per le polveri sottili erano 47 microgrammi al metro cubo; nel 2011 il dato si è attestato a 36,5 microgrammi al metro cubo. Un miglioramento modesto e - sottolinea Mirko Laurenti di Legambiente - dovuto anche al fatto che sono state modificate più volte le posizioni delle centraline di monitoraggio. Nonostante questi accorgimenti, al 2012, secondo i dati dell'Arpa Lazio, restano con limiti fuori legge 4 centraline su dieci. Le conseguenze dell'invasione dei tubi di scappamento è un rischio per la salute dei cittadini romani su vari fronti. Il primo - spiega Roberto Bertollini, direttore di ricerca dell'Oms Europa - riguarda il 43% dei romani che vive a meno di 150 metri da arterie trafficate: l'11% degli attacchi di asma dei bambini e il 23% degli episodi acuti legati a malattie coronariche nelle persone con più di 65 anni sono associati alla residenza. Il secondo rischio è evidenziato dal recente studio pubblicato su Lancet Oncology che documenta a livello europeo il rapporto tra inquinamento e tumore al polmone. "I limiti ammessi per i vari inquinanti sono ancora troppo alti: le ultime ricerche stanno mettendo a fuoco un rischio legato all'esposizione alle polveri sottili che finora era stato sottovalutato", continua Bertollini. "In particolare preoccupano le polveri ultra sottili, le cosiddette PM 2,5, quelle con un diametro inferiore ai 2,5 milionesimi di metro: penetrano in profondità negli alveoli polmonari e modificano la capacità di coagulazione del sangue aumentando il rischio di malattie cardiache e di tumori. Si sono osservati effetti significativi sulla salute anche con concentrazioni di PM 2,5 inferiori a 10 microgrammi per metro cubo, che è il limite attualmente proposto dall'Oms. Il limite dell'Unione europea è 20, lo stesso attorno a cui si aggira la concentrazione nella capitale". Tra il 2003 e il 2011 la raccolta differenziata è passata dal 10,5% al 24,2%. Calcolando che dovrebbe essere già al 65% e che l'obiettivo europeo tende a spostarsi in avanti si comprende che la corsa è lunga e affannosa e il risultato incerto. Anche perché nel frattempo è esplosa la bomba Malagrotta. La discarica più grande d'Europa si è arresa di fronte ai ritardi nella creazione di un ciclo virtuoso del trattamento dei rifiuti: dovrebbe chiudere ma va avanti a forza di proroghe.
Il sogno di una Roma policentrica spezzato dagli appetiti dei costruttori.
Dovevano essere diciotto "centralità", ovvero diciotto centri intorno alla città spostando uffici e funzioni. Ma le previsioni del Piano regolatore si vanno rovesciando e stanno nascendo solo quartieri dormitorio con trasporti pubblici scadenti, scrive Francesco Erbani su “La Repubblica”. Dov'è la ricchezza di Roma? Dove è sempre stata almeno per tutto il Novecento: nel mattone. Ma ricca è la città nel suo complesso o è ricco soltanto chi è stato in grado di estrarla quella ricchezza e di farla propria? Ora che la ricchezza si è ridotta di molto, il paradosso appare più evidente. Le politiche urbanistiche praticate a Roma negli ultimi decenni hanno lasciato ben poco alla città e molto invece ai costruttori, ai proprietari delle aree, alla rendita fondiaria e immobiliare. Questa è la convinzione più volte espressa da Giovanni Caudo, professore a Roma Tre, ora diventato assessore all'Urbanistica della giunta capitolina di Ignazio Marino. Compito impegnativo, il suo: provare a raddrizzare la barra di una città che dal dopoguerra ha visto crescere ininterrottamente il suo edificato nonostante la popolazione del 2011 sia quasi uguale a quella del 1971. A Roma si è prodotto tantissimo in termini di volumetrie, ma Roma ne ha acquistato in benessere? E chi ha deciso dove, cosa, come, per chi costruire? Gli interrogativi inquietano. Nel volgere di pochi anni, fino alla crisi del 2008, i valori immobiliari nella Capitale sono pressoché raddoppiati, ma alla città è rimasto ben poco. Anzi, la città si è impoverita. Il debito sfiora i 9 miliardi. Le aziende municipalizzate sono al tracollo finanziario. Si costruivano tantissime case - 10mila ogni anno in media, dal 2003 al 2008 - quando il mattone tirava molto, ma contemporaneamente 163mila romani lasciavano la città e si trasferivano in provincia o anche fuori perché non potevano permettersi una casa. Quando il ciclo si è arrestato, la città si è trovata a fare i conti con le case sfitte, vuote o invendute (193mila, stando al censimento del 2001, 250mila secondo le stime di Legambiente). E con 25.700 famiglie - cifre fornite dal Comune - che cercano casa, approssimativamente 100mila persone. L'urbanistica, le politiche pubbliche per la città avrebbero dovuto rimettere in equilibrio questi elementi impazziti. Secondo Caudo, "da anni a Roma non si fa più urbanistica o si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più". L'emergenza sociale è acuta. In molti quartieri le case sfitte vengono occupate. Negli anni di Alemanno, gli anni della crisi, si è provato in tutti i modi a offrire suolo in cambio di servizi. L'ex sindaco l'ha chiamata "moneta urbanistica". Roma come una zecca: così l'ha definita Caudo: "Non possiamo più stampare la lira e allora stampiamo metri cubi. Prendiamo le centralità, uno dei perni del Piano regolatore, già cariche di cubature e che Alemanno pensava di gravare di ulteriori previsioni edificatorie". Le centralità, uno dei grandi miti della Roma fine Novecento, primi del Duemila. Roma che diventa una città policentrica. L'idea di fondo era quella di ricucire centro e periferie attraverso un certo numero di insediamenti da realizzare lontano dal cuore antico. Pezzi di centro che si trasferiscono in periferia, 18 in totale, 18 città nella città. Alcune centralità, quelle più imponenti, erano immaginate a cavallo del Grande raccordo anulare, diventato nei decenni un potente magnete di insediamenti d'ogni tipo - residenziali, commerciali, industriali. Senza uno straccio di pianificazione. Quello delle centralità, anche se arrivato in ritardo rispetto ad altre metropoli europee, era un sogno ad alta densità culturale. Roma che distribuisce ordinatamente uffici ministeriali, direzioni di aziende pubbliche e private, di enti, di banche e di assicurazioni, università, centri di ricerca e di formazione, luoghi di cultura e di svago, di sport e di ricreazione. Roma che restituisce ossigeno e vita ai quartieri sorti dopo la guerra - quasi i nove decimi di tutto il territorio urbanizzato - che nonostante la giovane età sono già sfigurati e senza fibra e costituiscono una multiforme periferia che si distende dentro i confini del Gra, a ridosso di esso e anche fuori, diradandosi sempre di più a mano a mano che si invade quello che un tempo era l'agro romano. Oltre settecentomila sono i romani che vivono fuori dal Gra (su una popolazione complessiva di due milioni settecentomila residenti). Diventeranno in pochi anni circa novecentomila, il 30 per cento in più (quelli dentro il Gra è previsto che crescano di un'inezia): è scritto nel Piano strategico per la mobilità, redatto nel 2009 dagli uffici del Comune, il quale segnala, con parole burocraticamente allarmate, quanto il destino di questi cittadini è quello di essere sempre meno cittadini e di non poter usufruire, per esempio, di un sistema di trasporto pubblico minimamente decente. Che cosa avrebbe voluto realizzare il Piano regolatore che si è iniziato a elaborare a metà degli anni Novanta (sindaco Francesco Rutelli) e che è stato adottato dalla giunta di Walter Veltroni nel 2003 e poi approvato definitivamente dal Consiglio comunale nel 2008? Tante centralità, tanti luoghi in cui portare quelle che gli urbanisti chiamano funzioni pregiate, servizi che avrebbero favorito la rigenerazione di periferie stanche, nate assecondando la speculazione edilizia, periferie pubbliche, disseminate con i Piani di edilizia economica e popolare (Laurentino 38, Corviale, Tor Bella Monaca, Torrevecchia, Quartaccio, Nuova Fidene, Castel Giubileo...), palazzi e torri con oltre cinquecentocinquantamila vani (ci abitano il 16 per cento dei romani), e poi le periferie ex abusive dove, stando alle stime di alcuni anni fa, vivrebbero oltre ottocentomila romani. Il vantaggio per la città, secondo consulenti e amministratori capitolini, era duplice: la periferia, intorno al Gra e altrove, si sarebbe arricchita, il centro storico si sarebbe alleggerito di uffici e di centri direzionali che attirano molto traffico e che sono incompatibili con il tessuto edilizio storico. (L'idea non era nuova anche se articolata in maniera molto diversa rispetto a quando nel Piano regolatore del 1962 si previde il Sistema direzionale orientale, lo Sdo - un'unica centralità alternativa al centro storico, che non è mai stata avviata). A molti critici, però, le centralità parvero fin da subito troppe. E contemporaneamente troppo deboli. Poco o per niente servite da una buona rete di trasporto pubblico. Aggravano, insisteva qualcuno, il brutto vizio della Roma novecentesca di spostare sempre più in là la residenza, lasciando vuoto il centro, un centro da raggiungere di mattina solo in macchina e dal quale ripartire la sera sempre in macchina. Coincidenti, alcune di queste centralità, le più grandi, con le proprietà fondiarie di potenti signori del mattone: i terreni della Bufalotta, a nord, sono dei fratelli Toti e del gruppo Parnasi; quelli di Ponte di Nona, zona est, di Francesco Gaetano Caltagirone; quelli di Romanina, sud est, di Sergio Scarpellini; quelli di Acilia Madonnetta, sud, di Pirelli Real Estate... È vero che la centralità di Tor Vergata, già avviata da tempo, è tutta di proprietà pubblica. Ma è anche vero, sostenevano i più scettici, che con le centralità si perpetuava a Roma il solito sistema per cui la crescita della città avveniva prevalentemente dove la trascinava la rendita fondiaria. Dal Campidoglio si è replicato che il Piano regolatore avrebbe fissato, appunto, regole e che il mercato delle aree a loro riguardava fino a un certo punto. 18 centralità vuol dire 18 città nella città. Almeno nei programmi: 16 milioni di metri cubi di costruzioni, 11 dei quali già in corso di realizzazione nel momento in cui il Piano è stato approvato. Sempre sulla carta, le centralità vengono destinate per quasi la metà (48 per cento) a servizi e direzionale, che, tradotto, vuol dire uffici pubblici, ministeri e sedi di importanti enti. Appena il 14 per cento è la quota per le abitazioni (il calcolo arriva a ipotizzare 12mila abitanti). Il 13 per cento viene occupato da università e campus per studenti. Solo una parte minima, l'11 per cento, è commerciale: ipermercati, centri commerciali, grande distribuzione. Il risveglio dal sogno è stato brusco. E molte di queste previsioni si stanno rovesciando, dando vita a quartieri di sola residenza, quartieri dormitorio. Alcune centralità, come Tor Vergata, si sono arricchite: accanto all'università è sorto nell'estate del 2012 l'edificio dell'Agenzia Spaziale Italiana. Ma l'accessibilità resta drammatica, non essendoci la metropolitana. E il resto delle centralità a che cosa si è ridotto? Due di esse, una quasi del tutto realizzata, Porta di Roma, l'altra ancora sulla carta, Romanina, sono raccontate in due articoli più specifici in questo stesso dossier. Un'altra, Ponte di Nona, costruita appena fuori del Gra, è di fatto un quartiere solo residenziale ancora in via di completamento iniziato nel 2002 (in base a una convenzione del 1995 e ad accordi fra Caltagirone e il Campidoglio che risalgono a quando sindaco era Franco Carraro) e che si prevede possa ospitare anche 40mila residenti. Trasporti pubblici scadenti, una fermata della linea ferroviaria regionale Roma-Tivoli che potrebbe aprire solo fra tre anni (nonostante nelle Norme tecniche del Piano regolatore ci sia scritto che "l'attuazione delle Centralità metropolitane e urbane è subordinata alla preventiva o contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie"), scuole con il contagocce (centinaia di bambini in lista d'attesa per nido e materna), il verde pubblico in condizioni d'abbandono. Il cuore del quartiere è poco più in là, ed è il Centro commerciale Roma Est. Ogni luogo, anche costruito, deve produrre un'immagine di sé, uno spazio in cui sono racchiusi valori simbolici. Il simbolo di Ponte di Nona è l'asse centrale, intitolato a Francesco Caltagirone, padre di Francesco Gaetano e capostipite della dinastia. È un vialone sul quale si affacciano i palazzi che recano il marchio della ditta: i balconi che sfilano lungo la facciata come un nastro continuo. La centralità è tutta qui.
La grande abbuffata del re del mattone. Così Scarpellini ha sanato la Romanina.
La brutta storia di un accordo tra Campidoglio e imprenditore che ha rovesciato completamente l'equilibrio previsto nell'area fra pubblico e privato, continua ancora Francesco Erbani. La Romanina è il regno di Sergio Scarpellini. E Scarpellini è uno dei re del mattone a Roma. Er sor Sergio, come lo chiamano tutti, ha ottenuto che la Romanina - un quartiere quasi tutto abusivo a sud est della città - fosse la sede di una delle 18 centralità previste dal Piano regolatore di Roma. Ma Scarpellini non è solo un costruttore, è anche il potentissimo proprietario di una enorme quantità di appartamenti, spesso di interi palazzi, dati in affitto a istituzioni come la Camera dei deputati, il Senato della Repubblica, il Tar, il Consiglio di Stato, alcune authority, la Rai. Nel solo 2010, accertò la deputata radicale Rita Bernardini, il 35,5 per cento di tutte le spese sostenute dalla Camera per consulenti e forniture è andato a Scarpellini. Scarpellini, insomma, è uno che ci sa fare benissimo con le autorità pubbliche. E che nella vita non si fa mancare nulla: alcuni anni fa ha comprato la villa con piscina sull'Appia Antica che fu di Silvana Mangano e l'ha destinata un po' a residenza privata, un po' l'affitta per banchetti e matrimoni (talvolta però la fortuna lo abbandona come nel settembre del 2009, quando nella sua proprietà entrarono le ruspe per rimuovere un parcheggio abusivo). L'area della Romanina dove dovrebbe sorgere la centralità è grande cento ettari. Da qui si vedono i Castelli romani e l'onda di Santiago Calatrava, la piscina mai terminata e destinata ai Mondiali di nuoto del 2009. Scarpellini l'acquistò nel 1990 per 160 miliardi di lire. Il progetto originario della centralità, ratificato nel Piano regolatore, prevede edificabilità su 35 ettari, così ripartiti: 58 per cento funzioni pubbliche, 42 private. L'accordo fra il Comune e Scarpellini parte da una proposta di Scarpellini stesso: si costruiscono 1 milione 130 mila metri cubi, una parte minore è fatta di case vendute a mercato libero, più strutture commerciali e anche turistico-ricettive, la parte maggiore è comunque edificata dal privato, ma ceduta al pubblico. Il progetto della centralità è affidato da Scarpellini a Manuel Salgado, architetto portoghese di grande notorietà. Ma già così, il piano incontra molte critiche: perché, per esempio, prevedere una centralità a Romanina, quando ce n'è un'altra tutta su aree pubbliche a Tor Vergata, a poche centinaia di metri? Con il passare degli anni, però, e soprattutto con il cambio della guardia in Campidoglio e l'arrivo di Gianni Alemanno, Scarpellini chiede di rivedere l'accordo: il costruttore lamenta troppe concessioni al pubblico e margini di profitto troppo esigui. A dicembre del 2011 Scarpellini e l'assessore all'urbanistica Marco Corsini spiegano i nuovi termini dell'intesa. I metri cubi complessivi salgono da 1 milione 130 mila a 1 milione 920 mila, il 70 per cento in più circa. La parte residenziale sale da 220 mila metri cubi a 1 milione 200 mila. 3 torri, altezze che superano i 60 metri, oltre 4 mila appartamenti. E invece che su 35 si costruirà su 60 ettari. Soprattutto cambia, anzi si rovescia completamente, l'equilibrio fra pubblico e privato: al primo invece che il 58 per cento di quanto costruito, va il 5 per cento, al secondo il 95 invece che il 42. Tutta un'altra storia. Ben altri guadagni per il sor Sergio. In una zona densamente abitata di Roma, con una rete di trasporto pubblico completamente insufficiente (il capolinea della Metro A è a tre chilometri), potrebbero arrivare altre 10.500 persone e nessuna di quelle funzioni di pregio contenute nel primo accordo. Che cosa ci guadagna la città? In che cosa consiste lo scambio? Che cosa ci guadagna l'insediamento abusivo della Romanina che sperava di avere servizi migliori dalla centralità? Stando ai nuovi accordi, inoltre, si scopre che Scarpellini verserà alle casse comunali 186 milioni per l'incremento di cubatura. Bella somma per un bilancio dissestato. A che cosa serviranno? È questa la "moneta urbanistica" di cui ha parlato Alemanno, si fa cassa vendendo pezzi di città, spremendo fino al midollo l'organismo urbano? Quei 186 milioni sono una somma fissata dal Piano regolatore che si aggiunge agli oneri di urbanizzazione stabiliti dalla legge. Però a legger bene la proposta progettuale si scopre che 36 di quei 186 milioni vengono spesi per parcheggi interrati e 70 per un tunnel dove transiteranno le macchine e una metropolitana leggera che dovrebbe prolungare la Metro A. Il tunnel passa sotto il quartiere, che così sarà una confortevole isola pedonale. Insomma, 106 di quei 186 milioni, ben più della metà, che sarebbero quanto il Comune guadagna dall'accordo, servono a rendere più attraente il quartiere e consentono a Scarpellini di vendere a un prezzo più alto i suoi appartamenti, appartamenti con ampi parcheggi e affacciati su larghe strade pedonali. Detto in altri termini: servono a valorizzare la parte privata. "La stragrande maggioranza del contributo fornito al Comune dal privato", spiegava Giovanni Caudo prima di diventare assessore all'urbanistica del Campidoglio, "lo si spende in opere che non ha deciso il Campidoglio e la cui utilità pubblica non è chiara. Per esempio, la scelta della strada interrata appare sproporzionata ora che il progetto si è trasformato in un normale quartiere residenziale di 10.500 abitanti. Lo stesso per i parcheggi: perché deve essere il Comune a finanziare la comodità del garage interrato? Se si facessero strade a raso e parcheggi ugualmente a raso il risparmio si aggira sui 60 milioni, che forse potrebbero essere destinati per riqualificare davvero l'abitato della Romanina, dove nelle strade mancano anche i marciapiedi".
Porta di Roma, storia esemplare di pianificazione tradita.
Così gli appetiti degli immobiliaristi hanno stravolto le indicazioni degli urbanisti. Doveva essere un polo direzionale si è trasformato in uno dei più grandi centri commerciali d'Europa. La prevista linea della metro non arriverà mai e al posto degli uffici sono sorte palazzine di appartamenti. Rimasti invenduti, continua a scrivere ancora Francesco Erbani. Porta di Roma è l'ingresso nella Capitale per chi viene da Nord, una fungaia di palazzi affacciati sul Gra. È un quartiere non ancora completato, nonostante l'avvio della costruzione risalga al 2007. E, nelle intenzioni del Campidoglio, quando sindaci erano Francesco Rutelli e Walter Veltroni, sarebbe dovuta essere una delle 18 centralità previste dal Piano regolatore. Una città nella città. Ma le intenzioni sono rimaste in gran parte tali, lamentano comitati e associazioni di cittadini. Era previsto, per esempio, che un quarto dell'edificato fosse destinato a centri direzionali pubblici e privati. Porta di Roma è invece un quartiere quasi solo di residenza, abitato appena per metà, il cui cuore è uno dei più grandi centri commerciali d'Europa. Il Piano regolatore del 1962 prevedeva che qui, nel punto di confluenza dell'Autostrada del Sole nel Gra, sorgesse un polo logistico. Un luogo, quello della Bufalotta, in cui venivano scaricate dai tir le merci provenienti da fuori, merci che poi sarebbero state smistate con mezzi più leggeri in città. Un'idea sensata e lungimirante. All'inizio degli anni Novanta, però, i nuovi proprietari dell'area, due gruppi emergenti sulla scena immobiliare romana e non solo, Lamaro e Parsitalia, valutarono che quella destinazione d'uso non garantiva sufficienti margini di profitto. E cominciarono a premere sul Campidoglio perché la si potesse modificare. Il mercato esige i suoi diritti e quel che serve alla città può attendere. Nel frattempo prendeva forma l'idea di strutturare Roma in 18 centralità. Bufalotta sarebbe stata una di queste, una fra le più grandi. E sarebbe diventata la Porta di Roma. L'accordo fra l'amministrazione di Francesco Rutelli e i proprietari fu di realizzare un quartiere su 330 ettari di terreno dove l'edificato ne avrebbe occupati 65. Sarebbe stata allestita un'area verde di 150 ettari, il Parco delle Sabine (ma la Bufalotta, prima che atterrassero i palazzi, era tutta verde) e lì si sarebbe attestata una diramazione della linea B della metropolitana. L'intesa prevedeva che solo il 38 per cento fosse destinato ad abitazioni che avrebbero ospitato circa 10mila persone. Il 21 per cento era adibito a servizi turistico-ricettivi. Il 25 per cento a funzioni direzionali pubbliche e private. Sull'estremo Nord del Gra sarebbe sorto un quartiere moderno, anche se non proprio il polo logistico che s'immaginava. Avrebbe dato comunque ossigeno, servizi e qualità agli insediamenti di edilizia pubblica degli anni Settanta, le torri di Nuova Fidene e di Castel Giubileo, le cui sagome svettavano sul Gra. E anche ai quartieri abusivi che si erano caoticamente disposti appena dentro e appena fuori il raccordo anulare. A tempi record fu anche realizzato un nuovo svincolo del Gra. Ma anche quell'accordo sarebbe saltato. Insieme a Lamaro e a Parsitalia altri costruttori si sarebbero gettati nell'impresa, fra questi Caltagirone e Mezzaroma. Veniva invocato un altro cambio di destinazione d'uso: i servizi e la ricezione turistica diventavano residenza. Più si andava avanti nell'edificazione più sulle colline della Bufalotta si sistemavano solo palazzine solcate da grandi strade sinuose che volenterosamente chiamano boulevard e che convergono nella piazza del quartiere, il centro commerciale con l'Ikea, Decathlon, Leroy Merlin e altri colossi della distribuzione. Niente centri direzionali, niente servizi o funzioni pubbliche: il mercato delle aree, che tutto governa, sconsigliava di trasferirli alla Bufalotta, luogo inaccessibile se non in macchina, dove la fermata della metropolitana non sarebbe mai arrivata. E se fosse arrivata sarebbe costata l'ira di dio, settecento milioni per una tratta di quasi quattro chilometri dalla stazione di Conca d'Oro, una linea in massima parte realizzata con soldi dei privati che in cambio avrebbero ottenuto altre cubature: una specie di spirale infinita. La mescolanza di funzioni che sola rende possibile l'effetto città si allontanava definitivamente. Ora Porta di Roma, con le sue palazzine affacciate sul Gra, è solo un quartiere residenziale e commerciale, ancora non ultimato e con molti appartamenti invenduti e vuoti, esemplare paradosso del più grande paradosso romano per cui in città a 250mila appartamenti non abitati (stando a una stima di Legambiente) corrispondono circa 30mila famiglie che non hanno casa, segno di quanto a Roma si costruisca non per soddisfare un fabbisogno, ma per altre ragioni. Un tempo Porta di Roma lo avrebbero chiamato quartiere dormitorio.
Duemila euro per prenotare una casa. Così il piano del Comune ha fatto flop.
In quasi tremila hanno versato e nelle casse sono entrati oltre cinque milioni di euro, ma solo pochi sono diventati proprietari dell'appartamento che faceva parte del patrimonio municipale. E vista la lentezza esasperante della burocrazia capitolina per gli aspiranti compratori si profila una nuova beffa: se il rogito di vendita non viene concluso entro 5 anni dalla prenotazione l'inquilino perde il diritto all'acquisto ma anche i duemila euro versati, scrive Mario Reggio ancora su “La Repubblica”. Il piano di vendita di duemila e 700 appartamenti del Comune agli inquilini si è trasformato in un gigantesco flop. Dopo tre anni e mezzo, solo pochi alloggi sono stati venduti e in Campidoglio regna una gran confusione. Nulla sanno a Risorse per Roma, la spa di proprietà del Comune, che tra gli altri compiti ha anche quello dell'alienazione del patrimonio comunale. Buio pesto anche all'assessorato al Patrimonio il cui siti internet è oscurato da settimane. Ripercorriamo il tortuoso cammino della "dismissione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica". Nel 2008 la giunta Veltroni prepara un piano di vendita che riguarda 3 mila appartamenti. Le condizioni sono vantaggiose: il prezzo viene calcolato in base alla rendita catastale a cui vengono applicati una serie di sconti. Un esempio: 90 metri quadri alla Magliana, 64 mila euro. Veltroni lascia per sfidare Berlusconi. Arriva Alemanno. Nel novembre del 2009, Risorse per Roma spedisce tremila lettere ad altrettanti inquilini. Nel precontratto è anche indicato il prezzo base, ma per poter "prenotare" occorre versare 2 mila euro. Nella lettera di Alemanno l'eloquio è accattivante: "Proseguendo nella politica di vicinanza ai problemi dei cittadini il Comune di Roma continua la vendita del patrimonio immobiliare". Tempo sei mesi e la pratica verrà chiusa. In 2 mila e settecento accettano e versano i 2 mila euro a Risorse per Roma. La società incassa 5 milioni e 400 mila euro. Inizia il calvario. Nel maggio del 2011, la spa ha perfezionato solo 7 contratti. Il Campidoglio decide di affidare il lavoro alla Romeo, la società che ha in appalto la manutenzione del patrimonio immobiliare del Comune che, nel giro di poco tempo, predispone 630 contratti, li passa a Risorse per Roma che li gira al Comune. Si blocca di nuovo tutto. E vista la lentezza esasperante della burocrazia capitolina per gli aspiranti compratori si profila una nuova beffa, infatti se il rogito di vendita non viene concluso entro 5 anni dalla prenotazione l'inquilino perde il diritto all'acquisto ma anche i duemila euro versati e Risorse per Roma. Alla domanda, che fine hanno fatto i 5 milioni e 400 mila euro versati dagli inquilini-acquirenti delle case comunali, la risposta è "non lo sappiamo". E alla seconda: avete la gestione della vendita, si può sapere a che punto siete? La risposta: "Dobbiamo chiedere all'Assessorato al Patrimonio, ma noi non c'entriamo nulla". E l'Assessorato al Patrimonio? Il responsabile, all'ora Alfredo Antoniozzi, vecchia conoscenza dc del pentapartito stava preparando le valige, quindi inutile disturbarlo. Ma il direttore generale, Walter Palumbo, è un dirigente quindi continua a svolgere le sue funzioni. Per due giorni risulta in riunione o fuori sede. Poi, una solerte segretaria chiama: "Il direttore non può parlare senza l'autorizzazione del Segretario generale del Comune, Per quanto riguarda il sito istituzionale del Dipartimento è in via di perfezionamento per adeguarlo alla legge sulla trasparenza". Peccato che la legge sia stata approvata dal Parlamento il 24 marzo del 2012, quindi, a più di un anno di distanza tutti i dati, comprese le notizie sugli affitti riscossi, il quadro del patrimonio immobiliare del Campidoglio, devono ancora essere messi in rete. Buio pesto. Solo dalla somma delle delibere si riesce a capire che, nel 2012, per i canoni, pagati dal Comune ai privati per locali in affitto, sono stati spesi più di 106 milioni di euro.
E i "Punti verdi di qualità" diventano l'ultimo affare della destra romana.
Sono gli spazi ludico-sportivi con le piscine clorate e i chioschetti per il caffè che da diciotto anni cinque amministrazioni della città (e ora sono sei) tentano di portare nelle periferie più profonde. Solo 16 progetti su 76 varati sono stati portati a termine. Negli ultimi cinque anni ci sono stati finanziamenti bancari garantiti dal Comune per 265,6 milioni di euro, di gran lunga superiori alle effettive necessità. Il business puntava ad acquisire con pochi soldi aree comunali le cui concessioni erano in mano ad assegnatari spompati dalla crisi e dalle lungaggini inflitte da una burocrazia corrotta. Oggi quelle poche opere di verde iniziate giacciono in totale abbandono, scrive Corrado Zunino sempre su “La Repubblica”. I "Punti verdi qualità" sono stati l'ultimo contratto in nero della destra romana politico-affaristica, un blocco di potere reale affossato dalla sconfitta rovinosa dell'ex sindaco Gianni Alemanno alle ultime amministrative. E rappresentano la prima eredità spinosa della giunta Marino. I "Punti verdi qualità" sono gli spazi ludico-sportivi con le piscine clorate e i chioschetti per il caffè che da diciotto anni cinque amministrazioni della città (e ora sono sei) tentano di portare nelle periferie più profonde. Di questo lungo esperimento pubblico-privato, solo sedici progetti (su 76 varati) sono stati portati alla fine: 423 ettari di verde attrezzato a disposizione del pubblico. Nove cantieri restano aperti, venti progetti sono rimasti un disegno urbanistico (spesso già finanziato), ventuno sono da delocalizzare, dieci sono stati abbandonati. Negli ultimi cinque anni sui singoli "Punti verdi" ci sono stati finanziamenti bancari garantiti dal Comune di Roma per 265,6 milioni di euro, importo di gran lunga superiore alle effettive necessità. Altri 360 milioni furono garantiti dalle giunte di centrosinistra (Rutelli e Veltroni). L'indebitato Comune di Roma oggi scopre un buco nei conti largo (625,6 milioni) e difficile da sanare: la tesoreria del Campidoglio, fin qui, è dovuta intervenire per 11,5 milioni di rate di mutuo bancario non versate dai privati (il Comune è garante del 90% degli importi finanziati sotto forma di prestito), ma un dossier interno segnala scoperti da parte degli imprenditori-assegnatari per 80 milioni. I "Punti verdi" hanno prodotto fino ad oggi quattro arresti nel marzo 2012: gli imprenditori e soci Massimo Dolce e Marco Bernardini, il funzionario comunale Stefano Volpe e la sua compagna, anche lei al Dipartimento Ambiente, Anna Maria Parisi. Quattordici gli indagati per corruzione, truffa aggravata, falso ideologico e falsa fatturazione: dieci sono stati rinviati a giudizio di recente: cinque imprenditori della mala-destra e cinque tra funzionari comunali e architetti pubblici, secondo l'accusa, nutriti a tangenti, riforniti con Bmw e Land Rover direttamente in concessionaria, gommoni all'Argentario, smartphone e televisori consegnati a domicilio. Per chi indaga quattordici aziende romane, tutte perquisite dalla Guardia di Finanza, hanno certificato finti lavori per consentire agli assegnatari di aree pubbliche di prendere finanziamenti comunali, girati poi su conti privati. Diversi filoni giudiziari, ancora, stanno per produrre nuovi risultati. Due richieste di rinvio a giudizio sono arrivate anche per otto Punti verdi infanzia. La quarta inchiesta della procura di Roma sui Pvq - la prima risale addirittura al 2004 - ha acceso un faro su quattro aree: Spinaceto, Tor Sapienza, Parco Feronia e Parco Kolbe, individuando successivamente anomalie in almeno diciassette strutture. Come hanno raccontato imprenditori ricattati, inchieste giornalistiche e almeno due denunce (subito archiviate), l'intero sistema negli anni è cresciuto nella corruzione e si è consolidato, nel periodo alemanniano, sotto la giurisdizione di alcuni uomini (e donne) decisivi per l'ex sindaco del Pdl. Sull'argomento nell'ottobre 2010 il consigliere regionale Enzo Foschi presentò una denuncia in cui sosteneva che dodici "Punti verdi" erano riconducibili a parenti e amici d'area politica di Antonio Lucarelli, già leader romano di Forza nuova, quindi capo segreteria della giunta Alemanno, per un periodo delegato dal sindaco a gestire la complicata questione amministrativa. Nel 1995 Lucarelli, imprenditore e contemporaneamente consigliere nell'ex V Municipio, fondò con i cugini Emiliano e Giampaolo la Mondo Verde sas e nel dicembre 1996 - quando la giunta Rutelli approvò definitivamente la delibera 4480 sui "Punti verdi" - la società di famiglia ottenne due terreni: la Torraccia e il Nomentano-San Basilio. Alla fine degli anni Novanta, con i progetti avviati, Antonio Lucarelli lasciò la Mondo Verde, i cugini si sfilarono tra il '99 e il 2000 e amministratore della società diventò Silvio Fanella, l'uomo che l'inchiesta Telecom-Sparkle considera il cassiere di Gennaro Mokbel, destrissimo imprenditore romano finito in carcere accusato di riciclaggio. Nella primavera del 2006 la Mondo verde, che nel frattempo aveva acquisito altre due aree (Ponte di Nona e il Parco di Villa Veschi), diventò proprietà dell'ingegner Fabrizio Moro, amico della prima ora dell'ex capo di gabinetto. Il giro Pvq, si è capito presto, sembrava in mano alla destra d'impresa. In tre aree gestite da Fabrizio Moro - Torraccia, Nomentano-San Basilio e Ponte di Nona - il direttore dei lavori era stato Giancarlo Scarozza. Bene, lo stesso Scarozza, uomo considerato vicino sia all'ex capo di gabinetto che all'ingegner Moro, con due società diverse aveva ottenuto l'assegnazione dei "Punti verdi" di Castel Giubileo e Forte Ardeatino. L'architetto Scarozza è, tra l'altro, cognato di Gennaro Mokbel (è il marito della sorella). In un'inchiesta del pm Capaldo si può rintracciare una telefonata tra Mokbel e lo stesso Scarozza in cui l'imprenditore nero vuole aiutare il boss di Ostia, Carmine Fasciani, su un punto verde: "Ma è possibile acciuffà quello sulla Colombo?", chiede. Il cognato risponde: "No, quello è di Salabè, un operatore dei servizi segreti". Dicevamo la sorella di Mokbel, Lucia. Lei, con Gianfranco Ziccaro, gestisce ancora oggi l'area di Parco Feronia: via dei Monti Tiburtini. Vicina ai servizi, nel 1978 Lucia Mokbel abitò all'interno 9 di via Gradoli 96: era l'appartamento a fianco di quello preso in affitto dalle Brigate Rosse per tenere sotto sequestro Aldo Moro. La donna raccontò alla polizia di aver sentito il ticchettio di un apparecchio Morse all'interno della casa a fianco. Per il Pvq di Parco Feronia - acquisito per soli 200mila euro da una storica società di ex detenuti - nel novembre 2011 due funzionari del Dipartimento ambiente del Comune di Roma hanno segnalato alla magistratura come i finanziamenti pubblici continuassero ad arrivare per una struttura di fatto chiusa. Fu in quell'occasione che si iniziò a scoprire la rete degli imprenditori di destra: Massimo Dolce e Patrizia Allegri, per esempio. Loro avevano ottenuto vantaggi grazie alle "aree dislocate", spostate dopo una prima scelta: Torrevecchia 2, Parco Casa Calda, Parco di Spinaceto, gli Emicicli di Valadier di via Principessa Clotilde e viale Portuense. Da alcuni terreni dell'Alitalia, per comprendere il peso politico del gruppo, era stata allontanata la Fonopoli di Renato Zero: si doveva recuperare lì, a tutti i costi, un prezioso punto verde. Il giro alemanniano si ritrova anche a Parco Kolbe, area in via Tiburtina. La Procura qui ha indagato Andrea Munno, titolare della società Edil House '80 srl, un passato nell'estrema destra e una solida amicizia con l'ex sindaco di Roma. Nella contabilità della sua azienda - dove lavorava come consulente Stefano Mastrangelo, ex dirigente del X Dipartimento del Comune sotto la giunta Veltroni, il padre dei "Punti verdi" romani - sono state trovate diverse fatture gonfiate. Munno, un certificato penale siglato da bancarotta fraudolenta e detenzione d'armi, una Porsche Cayenne in garage e un 14 metri in rada, secondo il racconto della sua ex compagna ha avuto un ruolo anche in un'area verde riconducibile proprio ad Antonio Lucarelli. "Voglio chiarire - ha detto a verbale la testimone - che Munno ha seguito dal punto di vista amministrativo e contabile anche i lavori presso il punto verde San Basilio, gestito dall'ingegnere Fabrizio Moro, da Carlo Di Cesare e Giancarlo Scarrozza, nonché Antonio Lucarelli, le cui quote credo siano state fittiziamente cedute a una delle figlie di Di Cesare". La prima denuncia del genere (archiviata) fu firmata da un ex missino, Massimo Boni, detto Cico: richiamò per la prima volta l'attenzione sull'esorbitante aumento dei costi dell'area di via Cortina d'Ampezzo, "l'Area", appunto, che poi sarebbe diventata luogo di cene elettorali e riunione politiche di Gianni Alemanno, residente in zona. Allora si iniziò ad appalesare la figura di Massimo Dolce, anche lui già bancarottiere, una Rolls Royce da 700mila euro. In quegli anni Marco Bernardini avrebbe lasciato la divisa da capitano della Finanza - già macchiata dalle condanne per uso illegittimo di notizie d'ufficio - per lanciarsi con Dolce nell'impresa dei "Punti verdi" romani. Il Nucleo di polizia tributaria di Roma, dopo aver ascoltato un'intercettazione, ha scritto: "L'imprenditore Bernardini, concessionario di Spinaceto, ha raccontato all'architetto Volpe come Stefano Salsa, dello staff dell'assessorato all'Ambiente, avrebbe contattato il Banco di credito cooperativo presentandosi come segretario dell'assessore Visconti per procedere con il Punto verde Spinaceto". I finanzieri parlano di pressioni sull'assessore della giunta Alemanno per sbloccare un finanziamento da 8,7 milioni. In un appunto sul suo libro mastro (sequestrato) l'imprenditore Dolce scrive di aver consegnato "11mila euro a seg. Ass. (Salsa/Visconti)". Stefano Salsa, appunto, segretario di Visconti già accusato - nella Parentopoli Atac - di aver pilotato l'assunzione della moglie nell'azienda municipalizzata romana. Fra i protettori di Dolce l'inchiesta romana annovera l'ex vicesindaco Sveva Belviso, il cui marito è un imprenditore amico del bancarottiere dei "Punti verdi". L'area elettorale Belviso è proprio l'ex V Municipio su cui è cresciuto lo scandalo del Parco Spinaceto e in diverse intercettazioni i protagonisti vantano questa entratura e i vantaggi che ne possono derivare: "Ora mi informo", risponde a Dolce, al telefono, la Belviso di fronte a una richiesta di aiuto per sbloccare un finanziamento. L'ultima truffa da annoverare è contenuta nella denuncia dell'ex calciatore Gigi Di Biagio, convinto a investire 400mila euro nell'Olgiata fitness club, centro sportivo fondato da Luigi Barelli, fratello del presidente della Federazione italiana nuoto e iperattivo imprenditore delle piscine romane. Con Di Biagio erano entrati nel club dell'Olgiata (un "Punto verde qualità") l'ex capitano della Lazio Paolo Negro, l'ex talento della Lazio Francesco Dell'Anno e il pilota romano di Formula Uno Giancarlo Fisichella. Anche qui, a un certo punto di una vicenda di assegni finiti altrove e fallimenti societari, è comparso Massimo Dolce. Ecco, gli "imprenditori banditi" - definizione dell'architetto Volpe - Dolce e Bernardini, dal 2006 evasori totali, capaci di produrre fatture false con un software dedicato, ospitati nel dipartimento Ambiente in un ufficio abusivo, acquisivano con pochi soldi aree comunali le cui concessioni erano in mano ad assegnatari spompati dalla crisi e dalle lungaggini inflitte da una burocrazia corrotta. Oggi il laghetto del Torrino - altro "Punto verde" - è pieno di schiuma, il campo nella Città del rugby di Spinaceto (33 milioni finanziati) è corto di 13 metri, i Parchi della Colombo sono diventati un McDonald's e a Cinecittà Est i costruttori Di Veroli stanno progettando supermercati su rovine romane.
Indagato per corruzione Franco Bianchi, presidente della terza sezione Tar Lazio. Il giudice amministrativo si occupa di tutti i ricorsi che riguardano l'economia italiana: tra questi anche quella degli ex vertici del Mps contro le sanzioni per oltre 5 milioni inflitte loro da Bankitalia, scrive “La Repubblica”. Il gup di Torino ordina alla procura di indagare per corruzione Franco Bianchi, l'attuale presidente della terza sezione Tar Lazio. È la sezione che si pronuncia su tutti i ricorsi che riguardano l'Economia italiana. Il 3 luglio 2013, ad esempio, deciderà anche dei ricorsi presentati dagli ex vertici del Monte dei Paschi di Siena contro le sanzioni per oltre 5 milioni di euro inflitte loro da Bankitalia. Ma la sezione di Bianchi è balzata agli onori delle cronache di recente per aver accolto - in controtendenza rispetto ad altre sezioni del Tar - un ricorso che in sostanza ha demolito la spending review del governo sulla Sanità, annullando il listino prezzi di acquisto delle Asl e mandando così in fumo un miliardo di risparmi. La vicenda giudiziaria torinese chiama in causa Bianchi quando era presidente del Tar Piemonte: secondo l'accusa, avrebbe sottoscritto un patto corruttivo con uno dei ricorrenti, Adolfo Repice, in cambio di una raccomandazione presso l'ex dg della Rai, Agostino Saccà, affinchè trovasse un posto di lavoro al figlio. Il procedimento disciplinare. Per questo episodio Bianchi è anche sottoposto ad un processo disciplinare presso il "Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa", il Csm dei magistrati del Tar. Mentre il procedimento penale era in corso di definizione, e quello disciplinare in fase di avviamento, Bianchi veniva trasferito dalla presidenza del Tar Piemonte e "promosso" a quella della Terza sezione Lazio. La storia. Il Tar subalpino nel 2010 deve pronunciarsi su un delicato contenzioso sanitario. Due holding della sanità privata - Villa Maria Pia Hospital srl e Casa di cura san Luca - si contendono la gestione di una Rsa comunale da 300 posti letto, l'Opera Pia Lotteri gestita da un commissario, Adolfo Repice, ex segretario del Comune. Repice aveva affidato la Rsa a Villa Maria Pia, la San Luca aveva fatto ricorso al Tar. Qualcosa, però, nel contenzioso non fila liscio, tanto che uno dei tre componenti del collegio del Tar presieduto da Bianchi, Paola Malanetto, si insospettisce. E invia un esposto in procura. "In questo processo - denuncia il consigliere Malanetto - sussistono possibili irregolarità". Non dice nulla al presidente "per fondati dubbi sulla sua riservatezza". Le intercettazioni telefoniche disposte dai pm Cesare Parodi e Francesco Pelosi traducono in realtà i sospetti della Malanetto. Repice e Bianchi hanno effettivamente fatto un accordo: favorire Villa Maria Pia in cambio di una raccomandazione da Saccà per il figlio di Bianchi. Ma i pm interpretano quei fatti come una tentata corruzione e chiedono l'archiviazione per il magistrato. Il colpo di scena. All'udienza preliminare, avvenuta nei giorni scorsi, il gup Silvia Salvadori riformula il reato in corruzione, condanna Repice (corruttore), e ordina ai pm di procedere contro Bianchi (corrotto). I pubblici ministeri stanno in queste ore preparando la richiesta di riapertura indagini nei confronti dell'attuale presidente della Terza sezione Tar Lazio. La nuova contestazione. Secondo il giudice Salvadori, la promessa (o dazione dell'utilità), s'è consumata con l'intervento da parte di Repice nei confronti di Saccà. "Le intercettazioni telefoniche e altri risultanze - si legge nell'ordinanza del gup - dimostrano l'accordo corruttivo in funzione del quale Bianchi si è dimostrato adesivo all'interesse della parte processuale rappresentata da Repice rispetto all'esito del ricorso, e in vista del perseguimento di un proprio interesse personale, ossia l'intercessione nei confronti di Saccà a favore del figlio". Secondo il gup, la presenza, all'interno di un organo giurisdizionale collegiale "di un componente privo del requisito dell'imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo, inficia, nonostante l'estraneità degli altri membri, la validità dell'intero iter decisionale perché il giudice corrotto è del tutto privo di legittimazione. Le intercettazioni. Bianchi, due giorni prima dello svolgimento della Camera di consiglio da lui presieduta (13 gennaio 2011), telefona all'amico Repice e gli parla male della memoria della ricorrente San Luca, depositata da un luminare del foro torinese, l'avvocato Vittorio Barosio, professore di diritto amministrativo università di Torino. "L'offerta di Barosio - dice Bianchi - era tutta malandata una ricostruzione diciamo tutta sua, un po' fantasiosa". Dice poi "speriamo di confermare", anticipando così, osserva il gup, "univocamente la propria posizione discrezionale rispetto al thema decidendum del ricorso" a favore dell'amico Repice. Il giorno successivo della camera di consiglio, Bianchi rassicura Repice dell'esito del processo: "Abbiano definito in quel senso". Quindi lo informa di avere avuto qualche difficoltà. La memoria del docente amministrativista Barosio, evidentemente, non era poi così fantasiosa e malandata. "Barosio ci stava mettendo tutti nel sacco", spiega Bianchi con preoccupazione. "Con la frase "Barosio ci mette nel sacco" - osserva, però, la Salvadori - Bianchi rivendica una propria opinione già formata rispetto a una decisione già condivisa". Il presidente del Tar Piemonte, conclude l'ordinanza del gup, s'era messo a disposizione anche per altri ricorsi che Repice aveva pendenti in Calabria, in particolare a Catanzaro. "Là - gli promette Bianchi - ho degli amici da sentire".
TUTTI DENTRO: IL GIUDICE CHIARA SCHETTINI ED IL PREFETTO FRANCESCO LA MOTTA.
Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, ed al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile. (Aristotele)
«Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». Le parole sono ancora più inquietanti perché arrivano da un Giudice: Chiara Schettini, scrive Giulio Cavalli. Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l’ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata il 12 giugno 2013 per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c’è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l’aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l’avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione…. È veramente una rottura senza limiti… Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo».
Secondo quanto scrivono ‘Il Messaggero’ e ‘Il Fatto Quotidiano’ la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo. L’inchiesta, scrivono ‘Messaggero’ e ‘Il Fatto’, è partita da un esposto presentato da Francesco Taurisano, fino a pochi mesi fa giudice della Fallimentare di Roma, che accusa i suoi ex capi: il presidente di sezione, Ciro Monsurrò e il presidente del Tribunale di Roma, Paolo de Fiore. L’accusa, al vaglio del procuratore capo di Perugia Giacomo Fumo, ha per oggetto le nomine della “procedura fallimentare più grande d’Europa”, cioè la Federconsorzi, la gestione da parte del Tribunale di Roma del crack del gruppo Di Ma-rio (un importante gruppo di costruzioni prima dichiarato fallito, poi rimesso in amministrazione straordinaria e poi recentemente nuovamente dichiarato fallito) e infine le nomine del presidente del Tribunale Paolo de Fiore. Secondo ‘Il Fatto’ un esempio fatto da Taurisino per far capire le procedure che sarebbero adottate nel Tribunale fallimentare, è quello dell’avvocato Giuseppe Tepedino. Avvocato che, secondo l’esposto, avrebbe cumulato incarichi milionari dal Tribunale: Taurisino fa notare che la moglie di Tepedino è la segretaria del presidente del Tribunale di Roma De Fiore e nipote del presidente della sezione fallimentare Ciro Monsurrò. Ma il caso più importante citato nell’esposto di Taurisino è quello di Federconsorzi. Al centro dell’esposto c’è l’ultima tornata di nomine dei commissari Federconsorzi che – almeno stando a quanto denunciato – sarebbe stata oggetto di una disputa durissima tra giudici alla fine della quale un commercialista già nominato (Roberto Falcone) avrebbe rinunciato all’incarico per le pressioni indebite del presidente del Tribunale fallimentare Ciro Monsurrò, che aveva in mente un altro nome e che avrebbe quindi nominato un altro commissario, con cui era, secondo l’accusa, in “ottimi rapporti”.
Chiara Schettini, ex giudice fallimentare del Tribunale Roma, è stata arrestata mercoledì mattina 12 giugno 2013 su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. Il giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede, è stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere. Perquisizioni sarebbero ora in corso da parte dei magistrati perugini a Roma. La giudice è accusata dai pm di Perugia di essere coinvolta in una “cricca di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma”. Insieme a lei, iscritti sul registro degli indagati ci sono anche il presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, e il giudice a latere Nicola Pannullo. Il nome della giudice Schettini era balzato agli onori delle cronache alcuni anni fa in merito alla controversa sentenza, da lei firmata, che diede momentaneamente il via libera all’utero in affitto per una donna che non riusciva ad avere figli. La cricca dei curatori fallimentari, sarebbe secondo l’accusa, di una serie di sentenze pilotate che attraverso la redazione di documenti falsi e scritture notarili con firme “taroccate”, avrebbero lasciato confluire quantità ingenti di denaro su conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro, per poi sparire nei paradisi fiscali.
Chiara Schettini: «Io giudice, più mafiosa dei mafiosi». Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l'ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei, scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c'è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l'aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l'avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione.... È veramente una rottura senza limiti... Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Pochi dubbi quindi che sui risarcimenti pilotati al fallimentare (dove buone e consolidate relazioni possono tuttora aprire molte porte) tra gli anni 2004 e 2008 - tutte procedure approfondite dagli investigatori coordinati da Nello Rossi - la Schettini avesse un ruolo determinante. Tra i frutti delle perquisizioni eseguite mercoledì 12 giugno 2013, con l'arresto della Schettini, l'affiorare di ulteriore documentazione che proverebbe il coinvolgimento di Grisolia, una sorta di «faccendiere» secondo gli investigatori di Perugia, nelle vicende della giudice. L'interrogatorio di garanzia è previsto per venerdì. La Schettini, assistita da Carlo Arnulfo e Giovanni Dean nega ogni addebito e risponderà alle domande del pm Manuela Comodi.
Sentenze pilotate e giudici sotto inchiesta. Coinvolta Chiara Schettini, famosa per il via libera all'utero in affitto e compagna di un commercialista. L'accusa: «Consulenze d'oro e crediti pagati senza verifiche», scrive Haver Flavio su “Il Corriere della Sera”. Il caso più eclatante è quello della sceneggiatura commissionata da una azienda specializzata nella produzione di olio extravergine d'oliva, liquidata con due milioni e mezzo di euro. E poi ci sono «consulenze d'oro». Sentenze in tempi da «Guinness dei primati» per la giustizia nostrana, appena un giorno. E crediti pagati senza fare verifiche approfondite. L'inchiesta sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare ha registrato nelle ultime ore un clamoroso e, per certi verso inaspettato, salto di qualità: i nomi del presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, del giudice a latere Nicola Pannullo e delle relatrice dei provvedimenti, Chiara Schettini, sono stati iscritti sul registro degli indagati dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi. L'accusa è grave, peculato. Proprio ieri il pm ha interrogato a lungo nel carcere romano di Regina Coeli i personaggi arrestati nella prima fase dell'inchiesta dai colleghi della Capitale, che hanno trasmesso poi per competenza alle toghe della città umbra il fascicolo. E dopo la reiterazione dei provvedimenti di custodia cautelare da parte del gip di Perugia Lidia Brutti, le deposizioni di ieri hanno consentito di delineare con maggiore precisione il quadro di ruoli e complicità utilizzati per arrivare a ottenere «provvedimenti pilotati» su decine e decine di ricchi fallimenti all'esame del Tribunale di Roma. La posizione più delicata è quella del giudice relatore. La Schettini, diventata nota alcuni anni fa per la controversa e contestatissima sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli, è la compagna di uno degli arrestati, quel commercialista Piercarlo Rossi che ? secondo l'accusa ? sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti falsi e scritture notarili con firme «taroccate» che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi ? con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce ? nei paradisi fiscali.Le bancarotte su cui si sono ufficialmente accesi i fari sono tre. Della «Pasqualini», della «Tecnoconsult» e della «Domitia Hospital» le toghe si sono occupate in un lungo lasso di tempo, almeno una decina d'anni fino al 2005. Nel caso del fallimento della prima l'escamotage per dirottare e incassare i soldi liquidati è stato quello che più di altri ha insospettito per le modalità e per la facilità con cui la «cricca» ha proceduto: il commercialista Federico Di Lauro (marito della show girl di origini cinesi Dong Mei, arrestata in un altro procedimento), era riuscito a far inserire tra i creditori gli autori di una sceneggiatura per una serie di fiction televisive dal titolo «Serial giallo». Peccato che le indagini dei pm romani Stefano Fava e Giorgio Orano e del procuratore aggiunto Nello Rossi abbiano portato alla luce ben altra attività: il core business della «Pasqualini» ? è stato ricordato negli ordini di cattura ? era «estrazione, raffinazione e commercializzazione dell'olio di oliva».
Ex giudice fallimentare arrestata a Roma, i soldi finivano a Miami, scrive Valentina Errante su “Il Mattino” e su “Il Messaggero”. Due appartamenti al Colosseo, gli investimenti a Miami e le società lussemburghesi. Poi alcune case a Fregene e una Madonna di Campiglio gestite da società fiduciarie. Era lì che finivano i soldi sottratti ai fallimenti, almeno secondo il gip Lidia Brutti, che due giorni fa ha arrestato il giudice Chiara Schettini con le ipotesi di peculato, falso, corruzione e per le minacce a un avvocato che doveva ritrattare le accuse nei suoi confronti. Un reato commesso in concorso con gli avvocati Antonio Casella e Roberto Clemente, anche loro indagati. L’ordinanza racconta come il giudice, nonostante i procedimenti pendenti «non abbia mai modificato il suo modo di esercitare la giurisdizione, piegandola agli interessi propri e dei professionisti di cui si è di volta in volta servita con una non comune determinazione e scaltrezza e con capacità di determinare altri a delinquere, offrendo loro prospettive di crescita professionale e facile arricchimento». I soldi del fallimento Tecnoconsult, una dei tre curati da giudice e finiti sotto accusa, secondo le indicazioni del compagno della Schettini, Piercarlo Rossi, dovevano essere accreditati sul conto della società lussembrurghese Xtelis international limited o sulla Allegra Investment di Federico Mario Carlo De Vittori, il riciclatore elvetico della coppia. Si legge nell’ordinanza: «Rossi aveva formato le false lettere di incarico per giustificare i crediti, poi aveva provveduto a gestire la pratica relativa alla cessione del credito del Baldi (procuratore all’incasso di tutti i finti creditori) alla società Allegra Investment, riconducibile a De Vittori. Quest’ultimo secondo le indicazioni di Rossi, aveva poi girato le somme alle destinazioni finali: 650mila euro all’acquisto dell’appartamento di via del Colosseo, con somme transitate estero su estero, euro 188mila 459 a Ugo Valenti negli Stati Uniti, destinati agli investimenti immobiliari a Miami». Ma sono due gli appartamenti, in via del Colosseo, acquistati da Rossi e Schettini con i soldi dei fallimenti. Il secondo, del Comune di Roma, viene riscattato dalla vecchia affittuaria con i soldi di Rossi e Schettini. «Appaiono significativi - si legge nell’ordinanza - i molteplici contatti telefonici di Chiara Schettini con vari soggetti nell’imminenza della scadenza della rata Imu di dicembre 2012 che palesavano come, fra non poche ansie, avesse dovuto occuparsi in prima persona delle gestione dei relativi pagamenti». Immobili intestati a società, alcune delle quali collegate a fiduciarie riconducibili a Rossi, e sequestrate al momento dell’arresto del professionista. Case a Fregene e Madonna di Campiglio. «L’indagata giungeva addirittura a ipotizzare di avanzare istanza di restituzione e si preoccupava di precostituire prove della provenienza della provvista utilizzata per l’affitto di Madonna di Campiglio da conto corrente intestato alla madre defunta, nonché della propria partecipazione diretta alle trattative finalizzate alla stipulazione del contratto preliminare». E’ stato il curatore fallimentare Federico Di Lauro a raccontare ai pm com’era andata: «Dopo l’estate 2010 la Schettini mi chiamò e mi disse che voleva regalare un gommone al suo compagno Piecarlo, se potevo aiutarla a trovarne uno. Ci incontrammo all’Eur con l’amico mio andammo a provare l’imbarcazione al Circeo. Dopo qualche giorno la Schettini mi chiamò e mi disse che il gommone le piacevae aveva intenzione di prenderlo. Mi riferì però di dire all’amico mio che, in cambio del gommone, gli avrebbe conferito un buon incarico in una procedura fallimentare. Alla fine la compravendita non andò a termine perché la Schettini, sospesa dala funzione, non garantiva il conferimento dell’incarico».
Era stata trasferita a L'Aquila nel marzo stesso, come pubblicato nel Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia. Oggi, è finita agli arresti, scrive “Abruzzo 24”. Si tratta di Chiara Schettini, romana, magistrato ordinario di quinta valutazione di professionalità con funzioni di giudice del Tribunale di Roma, trasferito al Tribunale di L’Aquila con funzioni di giudice. A riportare la notizia del suo arresto è il Corriere della sera nell'edizione romana. L'arresto è avvenuto mercoledì mattina su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento - riferisce il Corriere della sera- sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. La Schettini, secondo quanto riferito dal Corriere, è coinvolta nell'indagine portata avanti dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi, sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma. La Schettini è salita agli "onori della cronaca" anni fa per la controversa sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli. La Schettini è inoltre la compagna di Piercarlo Rossi, commercialista che — secondo l'accusa — sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti con firme falsificate che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi — con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce — nei paradisi fiscali.
Sull'arresto del giudice Schettini in servizio a Roma, c'è anche una lettera dell'ANM. "In relazione alle odierne notizie di stampa, relative all’avvenuto arresto del magistrato in servizio da quest’anno presso il tribunale di L’Aquila, Chiara Schettini, ivi trasferita fuori concorso dal Consiglio Superiore della Magistratura, la Giunta Distrettuale abruzzese dell’Associazione Nazionale Magistrati prende atto con disagio di quanto accaduto, convinta che, comunque, il merito delle vicende venga affrontato nelle aule di giustizia con i dovuti strumenti processuali. Con riferimento alla copertura del già esiguo e insufficiente organico di giudici del Tribunale di L’Aquila, Ufficio presso cui pendono indagini e processi di natura complessa e delicata, conseguenti alle molteplici conseguenze sociali e giuridiche del sisma del 2009, le cui ferite sono assolutamente aperte e drammaticamente attuali, la Giunta auspica che le prossime scelte di Autogoverno avvengano con particolare attenzione. In questo ambito si pone anche l’attesa di tutti gli operatori di giustizia aquilani per la nomina del nuovo presidente del Tribunale di L’Aquila, che si spera il Consiglio Superiore della Magistratura voglia adottare quanto prima".
Da un’istituzione ad un’altra. Giudici arrestati e Prefetti arrestati.
Fondi Viminale, arrestato il prefetto La Motta. Il gip: "Una beffa indicibile per i cittadini". A finire in manette sono stati in quattro. L'inchiesta capitolina riguarda la gestione dei Fondi del Viminale: le accuse sono di peculato e falsità ideologica. Un'inchiesta parallela a Napoli lo vede indagato per associazione a delinquere e rivelazione del segreto d'ufficio. Il giudice nell'ordinanza: "Rischio di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove". Indagata per peculato anche dirigente degli Interni. Alfano: "Il ministero è parte lesa", scrive Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica”. Peculato e falsità ideologica. Con queste accuse sono stati arrestati dai carabinieri del Ros il 14 giugno 2013 il prefetto Francesco La Motta e l'ex banchiere Klaus George Beherend. Altre due ordinanze di custodia in carcere sono state notificate ai broker Eduardo Tartaglia e Rocco Zullino, già arrestati dalla procura di Napoli. Ed è proprio dalla Campania che sono arrivati gli atti ai Pm romani: la vicenda dei soldi rubati dalle casse del Viminale attraverso il Fec (fondo per gli edifici di culto attraverso il quale il ministero dell'Interno gestisce un enorme patrimonio artistico) era di competenza della capitale. Il Pm Paolo Ielo e i militari hanno continuato le indagini e accertato che, grazie a La Motta, direttore del Fec dal 2003 al 2006 quando è stato nominato vice direttore di quello che ora è l'Aisi, il servizio segreto civile, sarebbero spariti nel nulla circa 10 milioni di euro, transitati su conti svizzeri. La Motta avrebbe affidato l'investimento a Zullino, collaboratore di Tartaglia, a sua volta parente di La Motta. Quanto al banchiere Beherend, secondo i Ros e i carabinieri di Napoli che stanno svolgendo le indagini, è lui che avrebbe redatto i piani di investimento dei Fondi in collegamento con Tartaglia. Stamattina all'alba, gli arresti. Risulta invece indagata Rosa Maria Frisari, della 'Direzione centrale per gli affari generali e per la gestione delle risorse finanziarie e strumentali' del Viminale. Alla donna viene contestato il reato di peculato. La donna avrebbe messo la propria firma su vari atti di svuotamento del conto' acceso presso una banca in Svizzera. Altre volte, secondo il giudice, era La Motta a mettere "la propria firma su analoghi atti, non come 'quisque de populo' bensì nella sua qualità di prefetto, ancora di fatto legittimato a disporre del conto de quo, nonostante nel frattempo avesse lasciato il Fec per passare ad altro incarico''. A tirare in ballo nella vicenda la Frisari è stato Zullino, che nel corso di un interrogatorio agli inquirenti di Napoli, raccontò dell'attività svolta dalla donna. L'inchiesta napoletana. La Motta risulta indagato anche in un'inchiesta parallela condotta dalla Direzione antimafia della Procura di Napoli per associazione per delinquere e rivelazione di segreto di ufficio, sulla base di dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Secondo un pentito, avrebbe offerto coperture a imprenditori e fornito informazioni sulle indagini in corso, nonché tentato di ostacolare le inchieste ''silurando'' un magistrato della Procura. Nel verbale in particolare si chiama in causa La Motta su presunte 'soffiate' alla camorra. Secondo il collaboratore di giustizia il prefetto aveva avvertito esponenti del clan Polverino che erano sotto indagine ma loro si erano riuniti lo stesso in un summit e la polizia li aveva scoperti suscitando la rabbia di La Motta. ''Ci disse: 'Ho sistemato le carte e questa è l'ultima volta''', racconta il pentito. Esaminando l'agenda di La Motta, sequestrata insieme con una rubrica dai carabinieri del Ros, i magistrati napoletani avrebbero inoltre scoperto che l'ex prefetto avrebbe incontrato con cadenza quasi settimanale broker della camorra. I magistrati napoletani si sono imbattuti in La Motta seguendo i soldi del clan Polverino e in particolare un investimento di 7,2 milioni legato alla realizzazione di un grosso centro commerciale in provincia di Napoli. Questi soldi sarebbero finiti nell'istituto svizzero Hottinger. L'operazione sarebbe stata seguita da Tartaglia e Zullino, arrestati e ascoltati il 13 maggio dai pm napoletani Antonio Ardituro e Marco del Gaudio. L'ordinanza del gip. ''Una indicibile beffa per i cittadini che in una epoca di necessaria austerità'' devono ''apprendere dai giornali che i soldi pubblici gestiti da un ministero, quello degli Interni, erano andati a confluire su un fondo'' all'estero. Questo il giudizio contenuto in un passaggio dell'ordinanza di custodia cautelare. Nelle sue 25 pagine il gip definisce di ''eccezionale gravità'' la condotta dell'ex prefetto. L'alto rappresentante dello Stato ''ha asservito - scrive il gip - la funzione pubblica ad interessi privati''. Nel provvedimento viene citata anche una circostanza in cui La Motta ''nel corso di una perquisizione si è avvalso della presenza e collaborazione degli attuali responsabili dell'ufficio legale e capo di gabinetto dell'Aisi''. La Motta, infine, era in attesa di un ulteriore incarico e al telefono, stando al gip che cita una intercettazione, ''si rammaricava delle indagini in corso'', ad esempio con un funzionario del Ministero dell'Interno, Ferdinando Esposito, figlio di Vitaliano - ex procuratore generale della Cassazione - e attualmente garante per il rispetto dell'Aia all'Ilva di Taranto. Scrive, dunque, il gip: ''Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il cercato contatto con la persona che si suppone essere il presidente di sezione della Corte di Cassazione Antonio Esposito, padre di Ferdinando, sia andato a buon fine, occorre evidenziare come il tenore della conversazioni e l'immediatezza con cui l'ex prefetto viene ricontattato la dicono lunga'' sui rapporti di La Motta con ''appartenenti ad apparati dello Stato e sulle più che concrete possibilità per lo stesso di inquinare le indagini''. Secondo Di Lauro è reale anche, per La Motta come per gli altri tre arrestati, il pericolo che gli indagati "commettano ancora gravi delitti". A parere del giudice le "modalità dell'azione criminosa sono rivelatrici di una indole criminale mantenutasi inalterata negli anni". Per il giudice appare "notevole e significativa la pericolosità sociale di tutti gli indagati nonostante lo stato di incensuratezza degli stessi. Pericolosità che può essere fronteggiata solo con la misura della custodia in carcere". Collusione e regali al Fec. Inoltre, sempre nel testo dell'ordinanza, si legge come sia ''del tutto probabile che vi siano state collusioni con altri pubblici ufficiali organici'' al Fondo edifici di culto del Viminale, ''essendo del tutto inverosimile che nessuno si sia accorto di nulla per svariati anni''. Non solo perché in occasione delle festività, alcuni "solerti consiglieri" del Fec del ministero dell'Interno avrebbero ricevuto regali e biglietti di auguri che avevano lo scopo di "ingraziarseli" e "dissuaderli dall'iniziativa di chiudere il conto" presso la banca svizzera, "nell'evidente timore che si scoprissero i milionari ammanchi" dal Fondo edifici di culto. La vicenda è ricostruita dal gip con le intercettazioni dei carabinieri di Napoli. "Relazione del ministero solo dopo la diffusione sui giornali". La relazione del Viminale sulla gestione dei fondi del Fec è arrivata alla procura "solo dopo che i mass media avevano dato ampio risalto" alle indagini, scrive il Gip di Roma nell'ordinanza d'arresto sottolineando che "sia pure a distanza di ben sette anni" dall'instaurazione dei rapporti tra il Fec e la banca svizzera, "un organo del ministero dell'Interno finalmente si assume la responsabilità di stigmatizzare" questi rapporti. Nell'ordinanza il gip scrive che la Commissione ministeriale è stata istituita con decreto il 5 aprile 2013 e ha trasmesso alla procura la relazione sulla gestione del conto aperto dal Fec presso la banca Hottinger il 20 maggio scorso. "La Commissione - si legge - ha precisato che il Fec non può assolutamente intrattenere a norma di legge un conto corrente bancario e, soffermandosi sulla gestione dei capitali acquisiti a qualsiasi titolo dal Fec, ha chiarito che qualsivoglia reinvestimento deve avvenire previo versamento dei capitali nel conto corrente infruttifero acceso presso la tesoreria centrale e successiva emissione di un mandato di pagamento". Nell'informativa della polizia giudiziaria del 30 maggio si evidenzia invece che "il conferimento alla Hottinger è avvenuto tramite bonifici disposti dall'ufficio italiano cambi (fino al 3 dicembre 2007) e dalla banca d'Italia - ufficio rapporti con il tesoro, che venivano autorizzati, con i medesimi decreti dirigenziali, al trasferimento del denaro imputando la spesa alla tesoreria generale dello stato nel capitolo 501 dello stato di previsione della spesa del Fec per l'anno finanziario di riferimento".
Tutti i segreti di La Motta, scrive Piero Messina su “L’Espresso”. Ecco chi è l'ex prefetto finito agli arresti il 13 giugno 2013 e al centro di una doppia indagine. A Roma, con l'accusa di aver fatto sparire dieci milioni di euro dalle casse del Viminale. A Napoli, con quella - ancora più grave per un uomo dei servizi - di aver fornito informazioni ai clan. Francesco La Motta "Ci scusiamo per il ritardo nella pubblicazione dei primi due numeri del corrente anno della rivista 'Gnosis' (il trimestrale dell'Aisi, i servizi segreti civili) assicurando che saranno disponibili entro il prossimo mese di luglio". Firmato: la redazione. Di solito un comunicato del genere lo sigla il direttore responsabile della testata. Ma Francesco La Motta, evidentemente, non può: il prefetto, già numero due dell'intelligence civile e già direttore di Gnosis, il giornale degli 007 italiani, è stato arrestato su ordine della Procura di Roma in merito al filone capitolino dell'inchiesta sulla gestione del Fondo per gli edifici di Culto del Viminale. All'Aisi, il prefetto La Motta era arrivato alla fine di dicembre del 2006, alla vigilia della riforma del settore. Era stato Franco Gabrielli a volerlo al suo fianco come vice direttore. A La Motta toccherà, ad aprile del 2007, comporre la lista degli oltre 80 agenti segreti epurati con l'avvio della "procedura di restituzione ad altra amministrazione". E' La Motta a scegliere i buoni e i cattivi e a far partire un monumentale contenzioso tra l'amministrazione e gli agenti cacciati che ricorreranno, senza successo, al Tar, compromettendo però la riservatezza del sistema. I ricorsi sono pubblici e dalle carte giudiziarie dei ricorsi verranno svelati uomini e procedure della nostra intelligence. Ora dal sito dei servizi segreti il nome di La Motta è scomparso, così come è stata cancellata la sua firma come direttore responsabile del giornale. Quella firma nascosta è il tentativo, giocato sul filo del rasoio, di mettere al riparo l'intelligence dall'onda lunga dello scandalo che potrebbe riportare l'orologio del tempo indietro di venti anni, quando gli uffici di Piazza Lanza furono al centro dell'inchiesta sui fondi neri. La Motta era in pensione da due mesi, quiescenza raggiunta in perfetta coincidenza con le prime avvisaglie giudiziarie in arrivo da Napoli e Roma. Alla guida della rivista di intelligence italiana, La Motta, nei suoi immancabili editoriali, non risparmiava strali ed analisi contro i sistemi di riciclaggio messi in campo della cosche mafiose. Sistemi che, secondo quanto stanno ricostruendo i carabinieri del Ros, La Motta conosceva bene. L'ex prefetto è al centro di una doppia indagine. A Roma è sotto accusa per corruzione e peculato, proprio per la vicenda di 10 milioni di euro del Fondo degli edifici di culto spariti dalle Casse del Viminale. La Motta li avrebbe trasferiti in Svizzera. Da Napoli, invece, arriva la più grave delle incriminazioni possibili per un funzionario della sicurezza nazionale: l'ex dirigente dei servizi segreti, indagato per associazione per delinquere e violazione del segreto d'ufficio, avrebbe fornito informazioni al clan Polverino su indagini che riguardavano quel gruppo criminale. L'inchiesta che ha portato oggi all'arresto di La Motta aveva subito una brusca accelerazione meno di un mese fa, quando con gli arresti dei broker finanziari ritenuti al servizio della camorra, Edoardo Tartaglia (cugino di La Motta) e Rocco Zullino, erano emerse le trame oscure che legherebbero l'ex prefetto ai sistemi criminali. Secondo la ricostruzione dei magistrati partenopei, che hanno raccolto le dichiarazioni di Roberto Perrone, imprenditore legato ai Polverino e diventato collaboratore, La Motta avrebbe avvertito esponenti di quel clan che si stava indagando su di loro. Perrone cita come sua fonte Nicola Imbriani, arrestato nel 2011 in un blitz contro l'organizzazione camorristica. "Tartaglia ha fatto spesso riferimento a suo cugino come fonte delle informazioni che ci venivano fornite - queste le parole di Perrone, riportate nel faldone di 288 pagine prodotto dalla Procura di Napoli - e ricordo ad esempio che, in occasione di un incontro che avemmo presso lo studio di Nicola Imbriani con il Tartaglia, si diffuse la notizia che vi era stato un controllo della Polizia o meglio che le Forze dell'Ordine erano venute a conoscenza di questo nostro incontro; in particolare, il Tartaglia l'indomani dell'incontro contattò l'Imbriani e gli riferì che suo cugino si era inquietato in quanto, nonostante ci avesse avvertito che vi erano indagini sul nostro conto, noi ci eravamo comunque incontrati; che tale circostanza era stata appunto appresa dalle Forze di polizia e che lui aveva comunque sistemato le carte anche se si trattava dell'ultimo intervento che lui aveva inteso effettuare, vista la nostra imprudenza nel gestire i rapporti fra di noi". A complicare ancor di più la posizione di La Motta ci sono alcuni documenti "finanziari" sequestrati a Tartaglia. Nel prospetto riepilogativo del "portafoglio clienti" sequestrato dai carabinieri al cugino di La Motta, viene riportata anche la dizione "Aisi Roma", con accanto il presunto ammontare di un conto corrente: 172 milioni di euro. I pm ne chiedono conto e ragione a Rocco Zullino, broker finanziario ritenuto vicino al clan Polverino e partner di Tartaglia. Zullino ai magistrati romani sosterrà di essere "letteralmente allibito", ma confermerà di avere avuto contatti con il Prefetto La Motta: "l'unico contatto che ho avuto con l'Aisi risale almeno ad un anno e mezzo prima (il 2008, ndr), quando fui presentato al responsabile finanziario dell'Aisi da Tartaglia e da La Motta, allo scopo di valutare la possibilità di investire delle somme che l'Aisi aveva in posizioni finanziarie presso una banca italiana, spostandole presso la Hottinger. Dopo questo approccio, tuttavia, non demmo seguito ad alcuna iniziativa e dunque non so spiegare in alcun modo la documentazione".
LEGALITA’, MAI DIRE POLIZIA, ANCHE MUNICIPALE.
Come nei film americani. Arrestati quattro poliziotti. Violenza sessuale, corruzione, falso e furto. Sono queste le accuse che hanno portato all’arresto di due ispettori, un sovrintendente e un assistente della Polizia di Stato. Le quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere, eseguite dalla Squadra Mobile della Questura di Roma e dalla polizia giudiziaria del Tribunale di Roma, sono state emesse dal gip presso il Tribunale di Roma. In particolare, sono ritenuti responsabili di aver trafugato, nel 2009 e 2010, quando prestavano servizio presso la Squadra Mobile, somme di denaro ad alcuni commercianti stranieri e di aver preteso elargizioni in cambio di mancate denunce. Gli arrestati avrebbero anche stuprato delle prostitute dietro la minaccia dell'arresto. La divisa, e in alcuni casi anche le manette, erano le “armi” utilizzate per intimorire le vittime. I quattro erano in servizio presso la Squadra Mobile ma durante l'inchiesta sono stati trasferiti in ufficio. Tutto è partito da una denuncia presentata da un commerciante straniero che mesi fa raccontò in Procura dei soprusi subiti dai quattro che erano diventati un po' il terrore dei negozianti stranieri di Roma. Gli arrestati indossavano sempre la divisa, anzi, a dire del denunciante, la usavano proprio per tenere sotto scacco le vittime. L'uomo raccontò di vessazioni continue nonostante fosse in regola con i vari permessi sulla sua attività. A volte il tutto si traduceva in veri e propri furti che i quattro facevano nei negozi che andavano a controllare. per minacciare i commercianti si mettevano anche a stilare delle denunce false. Inoltre i poliziotti chiedevano soldi, vere mazzette di migliaia di euro, minacciando i negozianti di fargli chiudere l'attività.
“Stupri, ricatti e mazzette". Con queste accuse sono finiti in carcere i quattro poliziotti della Questura di Roma: due ispettori, un sovrintendente e un assistente. La squadra mobile ha eseguito gli arresti dei colleghi dopo le ordinanze emesse dalla sezione di polizia giudiziaria del Tribunale. Durante l'arresto ai poliziotti sono stati ritirati sia la pistola che il tesserino. I reati contestati dalla procura della Repubblica di Roma risalgono agli anni negli anni 2009 e 2010 e sono pesanti: violenza sessuale, corruzione, falso e furto. In particolare, i poliziotti si sarebbe fatti consegnare, quando prestavano servizio presso la squadra mobile, somme di denaro da alcuni commercianti stranieri con la minaccia di far chiudere la loro attività con denunce per irregolarità inesistenti. Le accuse di stupro si riferiscono a violenze che avrebbero compiuto verso una donna straniera fermata per prostituzione, sotto la minaccia dell'arresto immediato. Le indagini erano scattate dopo una denuncia presentata da un commerciante straniero: mesi fa ha raccontato in Procura dei taglieggiamenti subiti dai quattro in divisa, e di non essere l'unica vittima, tanto da aver rivelato che i quattro, che agivano sempre insieme, erano considerati "il terrore dei negozianti stranieri di Roma". E i quattro, nel racconto del negoziante, si presentavano sempre in divisa proprio per tenere ancor più sotto scacco psicologico le vittime. L'uomo ha parlato di vessazioni continue nonostante fosse in regola con i vari permessi sulla sua attività, e ha raccontato di veri e propri furti che i quattro compivano nei negozi che andavano a controllare e di come ricattavano i negozianti, minacciando di stilare denunce false. E chiedevano continuamente soldi, mazzette per migliaia di euro. Particolari che emergono anche dalle intercettazioni pubblicate da “La Repubblica”. ''Paga o ti facciamo chiudere il negozio''. Così uno dei quattro poliziotti arrestati minacciava uno dei commercianti taglieggiati e vessati dalla banda di agenti della Mobile.
E se non bastasse: Vigili, concorso truccato, quattro indagati per falso. Inchiesta della procura sulla prova dell’anno 2012. Indagati quattro funzionari della polizia municipale. Esposto del Comune, scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Un concorso pubblico a cui hanno partecipato migliaia di aspiranti vigili urbani probabilmente da rifare. Per falso documentale la procura di Roma ha infatti iscritto nel registro degli indagati quattro funzionari della polizia municipale per aver sostanzialmente documentato il falso e poter far diventare presidente della Commissione giudicante l'ex comandante del corpo della Municipale Angelo Giuliani. I quattro indagati, che saranno sentiti nei prossimi giorni erano anche loro membri della commissione. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha dato mandato agli uffici di predisporre gli atti necessari alla revoca della Commissione esaminatrice. La vicenda risale a un anno fa. Poco dopo l’uscita dagli uffici di via della Consolazione del comandante Angelo Giuliani, travolto da una serie di scandali all’interno del corpo della Municipale, tra cui la vicenda delle mazzette estorte da un gruppo di vigili agli imprenditori Bernabei legate a un condono oltre a episodi di corruzione, era imminente un mega concorso per assunzioni di vigili urbani. Un concorso a cui si presentarono migliaia di aspiranti poliziotti preparati ad affrontare la miriade di problemi legati al traffico, alla gestione del centro storico e agli abusi edilizi di Roma Capitale. Ma qualcosa non andò come doveva e ad accorgersene pare sia stato proprio il sindaco Gianni Alemanno che ha presentato un esposto in Procura sull’anomalia. I pubblici ministeri Laura Condemi e Ilaria Calò — gli stessi magistrati che hanno arrestato due funzionari dell’Ufficio Contravvenzioni di via Ostiense, tra cui un dirigente dei vigili urbani accusati di aver distrutto multe e relativi ricorsi di cittadini e personaggi istituzionali — hanno affidato le indagini ai carabinieri del nucleo operativo di via In Selci. Così è iniziata l’inchiesta. La magagna pare sia stata trovata dagli inquirenti proprio in alcuni documenti che i quattro membri della Commissione del concorso hanno presentato al Campidoglio. Ovvero la candidatura dell’ex comandante della Municipale Angelo Giuliani che, tecnicamente, pare non potesse fare il presidente per quel concorso. Falsi documentali sono stati preparati e presentati proprio per consentire a Giuliani, che al momento non è iscritto nel registro degli indagati, di poter presiedere quel concorso. Perché fosse così importante che il capo uscente dei vigili urbani presenziasse a quel concorso ancora non è chiaro. Come non è chiaro per quale motivo i quattro vigili ora indagati per falso documentale abbiano dovuto modificare carte e documenti se in realtà tutto era svolto alla luce del sole. "Senza entrare nel merito della correttezza dei lavori della Commissione - si legge in una nota del Campidoglio -, l'esistenza di questa indagine per falso ideologico mina alla base la serenità del futuro operare della Commissione da un lato e degli esaminandi dall'altro. Al fine di assicurare i presupposti di trasparenza e correttezza nell'azione dell'amministrazione capitolina, quindi, il sindaco ha disposto la revoca della Commissione dando contestualmente mandato agli uffici di provvedere alla nomina di una nuova Commissione per salvaguardare il concorso per istruttore di polizia municipale''.
Dovevano dedicarsi al concorso per l’assunzione di circa 300 vigili urbani, scrivono Fabio Rossi e Sara Menafra su “Il Messaggero”. E invece, si concedevano vacanze e trasferte, proprio nei giorni di riunione della commissione d’esame. Per questo motivo, sul registro degli indagati della procura di Roma sono finiti i nomi di tutti i membri della commissione d’esame, a cominciare dall’ex comandante Angelo Giuliani. Sono tutti accusati di falso ideologico, per aver falsificato i verbali della commissione. La pm Laura Condemi ha convocato a piazzale Clodio alcuni testimoni. E questi hanno confermato l’ipotesi contenuta in una denuncia arrivata nei giorni scorsi in procura. In un caso accertato, i commissari, a cominciare dal presidente Giuliani, hanno firmato un verbale in cui sostenevano di essersi riuniti per correggere le prove scritte dei circa tremila aspiranti che hanno partecipato alla prima prova scritta. E invece, molti di loro si trovavano fuori Roma e la riunione non si è mai svolta. Più in generale, l’inchiesta della procura passerà al setaccio tutte le procedure di valutazione che sarebbero procedute a rilento, senza alcuna programmazione circa i tempi di correzione dei compiti e senza l’istituzione di sottocommissioni, finalizzate a dividere al meglio i carichi di lavoro. L’indagine rischia di far tremare tutto il vertice della polizia municipale cittadina. Oltre a Giuliani, sono stati iscritti al registro degli indagati Donatella Scafati, una dei tre vicecomandanti attualmente in carica, con delega alla Direzione del coordinamento operativo e alla pianificazione dei servizi operativi e Maurizio Sozi, comandante del quinto gruppo. Insieme a due segretarie, pure loro membri a tutti gli effetti della commissione: Gloria Conte ed Alessandra Ascione. Il concorso in questione è quello per la selezione di trecento istruttori vigili urbani. Dopo averlo programmato nel 2010, il sindaco Gianni Alemanno ha spinto molto nell’ultimo anno, perché le selezioni si svolgessero in tempi celeri. Nell’autunno 2012, quando i giornali parlavano insistentemente del racket delle licenze commerciali, annunciò che il rinnovamento sarebbe passato anche attraverso l’entrata di «nuove risorse» a partire da «300 nuovi vigili entro il 2013». Effettivamente, la prova scritta si è svolta nei primi mesi del 2013: tremila partecipanti per quelle poche centinaia di posti. Ma ai vincitori sarebbe stata assicurata un’assunzione a tempo indeterminato. Merce rara, di questi tempi. Le prime voci hanno iniziato a circolare quando passati due mesi dalla prova, ancora non c’era alcuna notizia del risultato. E’ così che anche i funzionari comunali hanno capito che qualcosa non andava. Il primo episodio accertato è quello del verbale fasullo. Ma le testimonianze raccolte a piazzale Clodio su cui stanno lavorando i carabinieri del Nucleo investigativo di via Inselci, parlano di una selezione praticamente bloccata. In cui, passati mesi dalla prima selezione, sarebbero state corrette sì e no due o tre prove al giorno. Ma senza nessuna distribuzione formale dei carichi di lavoro e quindi con il rischio di una totale arbitrarietà sui punteggi assegnati ai partecipanti. La Scafati e Sozi sono stati pure loro convocati in procura. E avrebbero fatto alcune ammissioni, ma la notizia dell’indagine in corso era stata tenuta riservata fino a quando al Comune di Roma è arrivata una prima notifica dell’esistenza del fascicolo d’indagine. Per il momento, la stessa amministrazione comunale ha deciso di congelare il concorso. La commissione è stata tutta sospesa e le prove d’esame messe sotto chiave. Ma a questo punto è possibile che l’intero esame debba essere annullato per ripartire da capo, con il rischio di un lungo caos a botte di ricorsi amministrativi.
Ed ancora. Contravvenzioni col trucco. Per ora sono 1.100 ma il sospetto è che siano molti di più, scrive Rinaldo Frignani su “Il Corriere della Sera”. Sono i ricorsi per contravvenzioni al Codice della strada respinti e in attesa di essere inviati in Prefettura che invece sono scomparsi nel nulla. Centinaia di migliaia di euro di mancato incasso per il Comune che nel 2012 aveva presentato un esposto in procura per chiedere di fare luce sulla situazione perché non corrispondevano i verbali e i ricorsi registrati nei sistemi informatici di Roma Capitale con quelli effettivamente giunti all'ufficio prefettizio. I carabinieri del Nucleo investigativo di via “In Selci” hanno dato una prima risposta al mistero: il vice direttore del Dipartimento delle Risorse economiche di Roma Capitale, Angelo Vitali, 62 anni, funzionario della polizia municipale, e un'impiegata amministrativa, Tiziana Diamanti (49), sono stati arrestati alle loro scrivanie dai militari dell'Arma che hanno perquisito gli uffici di via Ostiense. I due - accompagnati in carcere dai carabinieri - sono accusati di falso ideologico per soppressione di atti. E fra quegli atti, come hanno accertato gli investigatori, ci sono anche molte contravvenzioni ricevute dall'azienda della famiglia Bernabei, finita mesi fa al centro dell'indagine - sempre dei carabinieri - su presunte tangenti che i due fratelli a capo della ditta di prodotti enogastronomici sarebbero stati costretti a versare ad alcuni vigili urbani. Insieme con queste multe, tuttavia, ce ne sarebbero molte altre ricevute da un centinaio di altri soggetti e mai pagate. In pratica, secondo i militari dell'Arma, il vice direttore e l'impiegata non inviavano in Prefettura i ricorsi sulle contravvenzioni dichiarati improcedibili e poi nel sistema informatico del Dipartimento - dal quale dipende l'ufficio che si occupa delle multe - li trasformavano in «annullati». Poi la documentazione veniva fatta sparire. E così di una valanga di verbali non c'è più traccia. Dopo l'esposto di Roma Capitale la procura, con i pm Ilaria Calò e Laura Condemi, si è messa in moto incaricando i carabinieri di svolgere una serie di accertamenti almeno sul 2011. Il gip Maurizio Caivano ha emesso le ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di Vitali e Diamanti, mentre un altro impiegato dello stesso ufficio è indagato per i medesimi reati. Ma gli investigatori temono ora che il fenomeno sia molto più vasto e che, continuando a scavare anche negli anni precedenti, possano emergere sia la sparizione di altre migliaia di multe sia il coinvolgimento di altri pubblici ufficiali. Mancano infatti non solo i verbali, ma anche le relate di notifica di migliaia di contravvenzioni indispensabili affinché non si blocchi l'iter burocratico che porta poi alla richiesta al cittadino del pagamento della sanzione. Un'enorme quantità di documenti probabilmente distrutta. Dietro pagamento? È una delle ipotesi investigative ora al vaglio dei carabinieri. Non si esclude infatti che il sistema delle tangenti, già emerso con la vicenda Bernabei, possa aver raggiunto anche gli uffici di Roma Capitale come dimostrano gli arresti. Mentre, sempre sulla storia delle mazzette ai vigili urbani, si attende la decisione del gip sulla richiesta di rinvio a giudizio per i quattro agenti (Duilio Valente, Antonio De Stefanis, Giancarlo Vicari e Spartaco Pierotti, fino all'agosto 2011 al I Gruppo della Municipale) accusati di aver preteso dai ristoratori il pagamento di tangenti. Con loro c'è anche il geometra Francesco Belmonte, attualmente latitante, allora a capo dei lavori commissionati da Paolo Bernabei nella sede della società.
Il business delle multe cancellate, spunta un file segreto sul Senato. Rinvenuto un registro con le pratiche delle cariche istituzionali, poi distrutte. E il capo della municipale promette: "Chi ha sbagliato, deve pagare", scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Un registro con l'intestazione "Scritti difensivi - Senato - Vitali Angelo". Erano queste le pratiche delle cariche istituzionali trattate, e distrutte, dal vicedirettore del dipartimento Risorse Economiche ora in carcere per concorso in falso ideologico mediante soppressione in atti pubblici. Ma una diligente impiegata del suo ufficio ha annotato tutte le operazioni che Vitali le chiedeva di fare. Così è spuntato questo registro di multe "Senato" composto da 21 fogli dei ricorsi improcedibili. Oltre a quello ce n'è anche un altro, composto da 32 fogli, con l'intestazione "Scritti difensivi - Talevi" (un impiegato che non è più in servizio negli uffici di via Ostiense), su cui ci sono i numeri delle pratiche trattate e annullate senza passare attraverso il Prefetto. Nell'elenco "Scritti difensivi Senato" ci sono complessivamente 1.745 verbali di very important people insabbiati, stracciati e mai pagati, relativi all'anno 2011. Questo significa, in soldoni, che 200mila euro di contravvenzioni non sono mai entrate nelle casse del Comune perché Vitali e Diamanti (l'impiegata dell'Ufficio Contravvenzioni, anche lei arrestata e scarcerata dopo l'interrogatorio di garanzia) due anni fa. E considerando che i favoritismi sono cominciati nel 2007 e si sono protratti almeno fino al 2012, si intravede un danno che sfiora il milione di euro. Non un solo centesimo dalle autorità sanzionate è stato versato grazie al sistema clientelare che il funzionario della Polizia Municipale ha garantito col suo occultamento di carte e ricorsi. Tutto quello che resta sono numeri di pratiche inseriti nei sistemi informatici archiviati con la dicitura "improcedibile". Soltanto a cinque giorni dallo scandalo delle multe stracciate, il comandante del Corpo Carlo Buttarelli si è pronunciato. Attraverso un comunicato ha fatto sapere che: "Allo stato dei fatti c'è un'indagine aperta dalla magistratura che riguarda vicende legate alle contravvenzioni al codice della strada. Come sempre, attendiamo con serenità gli esiti dell'inchiesta e la sua conclusione in sede giudiziaria. Non ci saranno sconti o favoritismi per nessuno: se saranno accertate responsabilità, chi ha sbagliato, ne pagherà le conseguenze". La reprimenda (è auspicabile) si riferisce a tutti coloro che hanno contribuito alla magagna, anche ai superiori della polizia municipale di Roma Capitale, che l'indagata Tiziana Diamanti ha tirato in ballo. Ovvero coloro che hanno fatto pressioni perché quelle pratiche diventassero carta straccia per favorire potenti e personaggi istituzionali.
IL CASO. Migliaia di multe e ricorsi cancellati ad un lista di cittadini di «serie A» composta da deputati, senatori, carabinieri, poliziotti e alti funzionari dello Stato, spiega Giulio De Santis su “Il Corriere della Sera”. Succede all'Ufficio contravvenzioni del Comune dove, a partire dal 2011, è operativo un comparto riservato alla lavorazione dei verbali per le violazioni del Codice delle strada relative a una ristretta cerchia di persone. L'esistenza di questo «settore speciale» è emersa nel corso delle indagini della Procura che hanno condotto all'arresto di Tiziana Diamanti e Angelo Vitali, due dipendenti dell'Ufficio. L'inchiesta è ancora in una fase embrionale. I due funzionari dei vigili urbani sono accusati di concorso in falso ideologico mediante soppressione di atti pubblici. Il «bubbone» è esploso dopo una denuncia di Pasquale Pelusi, direttore del dipartimento Risorse economiche dell'ufficio, insospettito dall'improvvisa scomparsa di un numero di verbali troppo consistente per essere casuale. Tuttavia, non sono ancora chiare le ragioni del comportamento degli arrestati. Corruzione? Bustarelle? Mazzette? O abusi di potere? Gli investigatori non hanno trovato la prova di eventuali dazioni di denaro. Pertanto non è possibile stabilire cosa si celi dietro questi ricorrenti comportamenti anomali. A complicare l'inchiesta è la scomparsa del materiale cartaceo attraverso il quale gli investigatori potrebbero capire se le operazioni siano state condotte proprio per favorire un gruppo privilegiato di cittadini escludendoli dal pagamento delle contravvenzioni. Non è chiaro neanche da quando è operativa la direttiva di trattare in modo distinto un ristretto numero di persone. Al momento, nelle mani dei pubblici ministeri ci sono le liste delle macchine a cui sono state elevate le contravvenzione poi sparite nel nulla. E dalla proprietà dei mezzi si è ricavato che si trattata di «auto blu» guidate da autisti stipendiati dallo Stato. Quale deputato, senatore o alto funzionario fosse in macchina al momento della multa è un dato che gli inquirenti ancora ignorano. Il nodo cruciale dell'inchiesta è infatti capire se è lecita l'esistenza di un suddivisione del lavoro tra cittadini di serie «A» e «B». E soprattutto il perché delle cancellazioni. A rivelare la creazione di un comparto riservato al trattamento di una categoria di cittadini è stata la Diamanti, che ha spiegato il suo ruolo ai pm. La funzionaria ha ammesso di aver cancellato i verbali ma ha aggiunto di averlo fatto eseguendo gli ordini dei superiori. Una collaborazione che le ha permesso di ottenere il parere favorevole dei pubblici ministeri alla concessione degli arresti domiciliari. Un altro dato che ha colpito chi indaga: tra le persone di serie «A» ci sono anche i fratelli Bernabei, i grandi accusatori dei vigili urbani.
FIDUCIA NELLO STATO: ADDIO.
Costoro con tali esternazioni che abbiano ragione?
Un infiltrato della Finanza nella rete di insospettabili che ripuliva soldi sporchi. Arrestati il tributarista Gianni Lapis, ex prestanome della famiglia Ciancimino, e un magistrato in servizio al Tribunale amministrativo regionale del Lazio che utilizzava il suo ufficio per incontrare i mediatori d'affari, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono voluti mesi per entrare nelle grazie dei manager del riciclaggio, fra mail anonime, collegamenti Skype, e appuntamenti nei luoghi più impensati. Ma, alla fine, l'agente sotto copertura - un ufficiale della Guardia di finanza - è riuscito ad accreditarsi in quel paludoso mondo di insospettabili faccendieri. C'era anche un giudice del Tar Lazio nella grande rete del riciclaggio che gestiva in modo illegale il cambio di grosse quantità di valuta straniera: Franco Angelo Maria De Bernardi è stato arrestato il 16 maggio 2013, riceveva faccendieri e intermediari d'affari addirittura nel suo ufficio romano, lì riteneva di essere al sicuro da intercettazioni, e invece i suoi movimenti sono stati seguiti dalla Procura di Palermo e dal nucleo speciale di polizia valutaria della Finanza diretto dal generale Giuseppe Bottillo. Sono 34 le ordinanze di custodia cautelare scattate all'alba: 22 in carcere e 12 ai domiciliari. Sono state eseguite in tutta Italia. Secondo la ricostruzione dell'accusa, il principale mediatore del gruppo stava a Palermo, adesso è in carcere. Si tratta dell'avvocato tributarista Gianni Lapis, già condannato per essere stato uno dei principali riciclatori del tesoro di Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo vicino ai boss. Nel blitz della Finanza sono finiti anche due sottufficiali dei carabinieri in servizio a Roma, avrebbero avuto un ruolo nelle complesse operazioni finanziarie che puntavano non solo a ripulire soldi sporchi, ma a commercializzare in modo illegale oro che arrivava dal Ghana. Ai domiciliari è andato un funzionario della Regione Siciliana, Leonardo Di Giovanna, in servizio al settore Beni e servizi. L'accusa contestata, a vario titolo, è quella di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. L'inchiesta ha scoperto che i mediatori incassavano il 5 per cento su ogni operazione di riciclaggio andata a buon fine. E' rimasto il giallo sull'origine dei soldi sporchi che dovevano essere ripuliti. All'infiltrato fu detto che una parte di quei soldi avevano "natura politica", sarebbero state tangenti versante ai politici fra il 1986 e il 1988.
A Roma cresce l'allarme mafia, scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Dopo l'omicidio di un appartenente al clan Moccia a Nettuno e la bomba lasciata in uno stabilimento balneare di Ostia, il presidente della Commissione sicurezza e lotta alla criminalità Fliberto Zaratti ha fissato una riunione in Regione. E il prefetto Pecoraro, su richiesta del presidente della provincia Nicola Zingaretti, sta valutando se convocare il Comitato per l'ordine e la sicurezza. E' arrivato il momento, a quanto pare, di affrontare la questione delle organizzazioni mafiose nella capitale. Un nodo che, a Roma fino a oggi, anche dalla magistratura giudicante, non è stato ancora sciolto. Negli ultimi dieci anni, infatti, sebbene sia stato più volte contestato il 416 bis, non è stata mai riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Perché? "E' un fatto culturale: se il clima è negazionista, la giurisprudenza si adegua", spiega Otello Lupacchini, ex giudice istruttore che firmò il mandato di cattura per i componenti della Banda della Magliana, poi sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello.
Perché il Tribunale della capitale riconosce difficilmente il 416 bis?
«Perché è luogo comune che le organizzazioni criminali operanti nella capitale non si avvarrebbero della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti».
Come riuscì la Cassazione a derubricare, nell'indagine sulla Banda della Magliana, l'associazione mafiosa da lei formulata?
«Vorrei premettere che tutte le sentenze hanno affermato l'esistenza della consorteria di malfattori descritta nell'imputazione. Nello spezzone di processo celebrato col rito ordinario, si è negata la mafiosità dell'associazione non avendo la Cassazione, in questo unico caso, ritenuto adeguatamente motivato il profilo dell'omertà. Nel giudizio di rinvio, si sarebbe dovuto valorizzare, per dirne una, l'omicidio di Carrozzi, ucciso perché aveva denunciato un'estorsione, ma non lo si fece... ».
Parlava prima di "problema culturale". Cosa significa?
«Mi spiego con un esempio. Nonostante l'abnorme crescita della criminalità; nonostante il cruento riesplodere della faida interna alla Banda della Magliana; nonostante il "preoccupato allarme" della Commissione parlamentare antimafia, gli ambienti polizieschi romani, inspiegabilmente, continuavano a ispirare una sottovalutazione della pericolosità della banda della Magliana e, più in generale, delle infiltrazioni mafiose nel tessuto sociale e nei rapporti con gli apparati amministrativi della capitale. Da allora non molto è cambiato nella percezione del fenomeno».
Con queste premesse siamo quasi tornati a 20 anni fa?
«Con queste premesse, è già un successo che venga talvolta riconosciuta l'esistenza dell'organizzazione criminale. Che poi questa tratti con camorra, 'ndrangheta e mafia russa è assolutamente irrilevante, per riconoscerne la mafiosità».
Ci sono state numerose indagini che hanno dimostrato come gruppi armati si dedicassero allo spaccio, a estorsioni, gambizzazioni e omicidi. Eppure...
«Mentre Claudio Sicilia, storico pentito della banda della Magliana, cadeva sotto il piombo di tutt'ora ignoti assassini, il questore dell'epoca dichiarava: "la droga c'è ed è tanta". E droga significa per lo più microcriminalità. Il piccolo spaccio, il consumo quotidiano trovano alimento proprio nel piccolo reato non in quello grande».
E poi sul blog di Paolo Franceschetti leggi "FRATELLANZA GIURIDICA. I magistrati e la massoneria di Solange Manfredi.
1. Premessa. I giornali riportano la notizia di una inchiesta romana su una associazione a delinquere, denominata nuova loggia P3, che vedrebbe coinvolti politici, faccendieri, criminalità organizzata, e magistrati. I magistrati coinvolti sono persone ai vertici della magistratura, ex Presidenti dell’A.N.M., ex Consiglieri del C.S.M. , avvocati generali della Cassazione, ovvero:
- il dr Arcibaldo Miller, Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia e membro dell’A.N.M;
- il dr Antonio Martone, ex Presidente dell’A.N.M., ex Avvocato Generale della Corte Suprema di Cassazione ed oggi capo di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche;
- il Sottosegretario di Stato Giacomo Caliendo, ex Consigliere del C.S.M ed ex Presidente dell’A.N.M;
- il Presidente della Corte di Appello di Salerno Umberto Marconi, consigliere del CSM ed ex membro dell’ANM;
- il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra;
- il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Vincenzo Carbone.
Niente di nuovo, l’intreccio in odor di massoneria tra magistratura e potere c’è sempre stato. Solo per fare un esempio, da più di un anno si sta celebrando, nel più assoluto silenzio, un processo sulla compravendita di sentenze in Cassazione che, visto il coinvolgimento di personaggi legati dal vincolo massonico, è stato denominato Hiram (figura allegorica della massoneria, nonchè nome della rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia). Ed ancora l’intreccio tra magistratura e potere massonico (di oggi e di ieri) è ben evidenziato nel libro di Gioaccino Genchi “Gioacchino Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato”. Per non parlare degli scandali che negli anni ’80 e ’90 videro coinvolti magistrati iscritti alla loggia P2. Ma, a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché nella maggior parte degli scandali che vede coinvolti magistrati compare sempre anche la massoneria? Come fanno i massoni a poter sempre contattare il magistrato giusto al momento giusto?
2. La "Fratellanza Giuridica". La risposta non è semplice ma forse, in questa sede, si può aggiungere un dato che potrebbe essere importante per capire gli intrecci di “certo” potere. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica" Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L'esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano, univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un'indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all'interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro... avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l'occasione fa l'uomo ladro. La frequentazione, l'amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste "logge" possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l'occasione fa l'uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l'affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia.
3. Lo Statuto. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere "Fratellanze" costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui "deviazioni" potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.
A.G.D.G.A.D.U.
GRAN LOGGIA NAZIONALE DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA
“GRANDE ORIENTE D’ITALIA”
*
STATUTO DELLA “FRATELLANZA GIURIDICA”
(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)
1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.
2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità:
a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria;
b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza;
c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti;
d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici;
e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari;
f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.
3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.
4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:
a) L’Assemblea degli iscritti;
b) Il Consiglio Direttivo;
c) L’Ufficio di Presidenza;
d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.
5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.
6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuiridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.
7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.
8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.
9. L’Ufficio di Presidenza è composto:
a) Dal Gran Maestro;
b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;
c) Da un Vice-Presidente.
Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.
10. L’Ufficio di Segreteria è composto:
a) Dal Gran Segretario;
b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza. Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al difuori del Consiglio Direttivo, nel qualcaso vi partecipano senza diritto di voto.
11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.
12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.
13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:
a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;
b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;
c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;
d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.
14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.
15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.
16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.
Note: come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l'immediata espulsione dalla loggia.
Come ho accennato, con un post su ImolaOggi, scrive Armando Manocchia, c’è una vicenda, innanzitutto umana, che sta scuotendo la coscienza di molti negli ultimi giorni. La via intrapresa per l’annichilimento e distruzione totale di Paolo Ferraro sta’ proseguendo a marce e tappe forzate .
Paolo Ferraro è stato espulso dalla Magistratura con provvedimenti del CSM perché accusato di essersi inventato la presenza di massonerie e sette sataniche. Ora il CSM mediante procedura Legale ha proposto innanzi al Tribunale di Roma la richiesta che Ferraro venga posto sotto ad Amministrazione di Sostegno e cure farmacologiche. In sostanza una richiesta di revoca di capacità giuridica di agire. Se dovesse essere così, non potrà più comperare neanche il pane, o firmare un qualsiasi documento. ”I fratelli, figli, e coniuge separata – dice Paolo Ferraro- già coinvolti in denunce e ritenuti corresponsabili dal dott. Ferraro, questa volta non compaiono come attori diretti , ma la sostanza di un accerchiamento da più lati per bloccare la attività di denuncia e politica del dott. Paolo Ferraro rimane in tutta la sua inquietante valenza “. Io credo che questo caso debba farci riflettere tutti e soprattutto credo sia importante che di questo caso sia portato a conoscenza di tutti attraverso media e stampa. Anche perchè questo non è più un fatto personale, ma un provvedimento che coinvolge tutti gli italiani. La verità deve uscire, qualsiasi essa sia. “Per il 14 marzo 2013 – scrive Paolo Ferraro – sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma ( presidente della sezione Tribunale ) per la “nomina di ” amministratore di sostegno ” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale… ma a me…Chi sà capisce quanto grave sia questa iniziativa e comunque spiego per gli altri che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente .. nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere . Farlo a Paolo Ferraro significa esattamente quello che intuite e non servono parole. Le iniziative relative spettano a voi ma non sono “per me” , sono per la strenua difesa della democrazia e della legalità”. Vi premetto che ritengo la vicenda del Dott. Ferraro, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, attinga e nuoccia i diritti umani – al di là delle valutazioni di verità o meno di quanto lo stesso ritiene stia accadendo (soprattutto a danno della sua persona ma anche della democrazia e della libertà di noi tutti) –.
Il Dott. Paolo Ferraro svolgeva la funzione di sostituto PM presso la Procura di Roma ed era definito anche dai Colleghi: Magistrato preparato, attento, scrupoloso e molto affidabile che ha sempre portato a termine in modo ottimale i suoi compiti.
Il Dott. Ferraro, alla fine del 2008 formalizzava una denuncia in Procura assumendo che nella sua abitazione, nel quartiere romano della Cecchignola, nei tempi in cui lui non era in casa, avvenivano rituali satanici, pratiche sessuali in condizioni di ipnosi e comunque sotto l’effetto di sostanze alteranti, che vedevano coinvolti adulti, bambini e quale vittima posta in stato di incoscienza l’allora sua compagna. “Si tratta - precisa Ferraro- di modalità e tecniche di manipolazione e condizionamento mentale di varia radice ma anche di ascendenza militare meglio note come operativamente ricollegate al progetto CIA Monarch ed MK.ULTRA e il dott. Paolo Ferraro ne ha fatto denuncia pubblica riportata anche in trasmissioni televisive nazionali” La denuncia del Magistrato veniva suffragata da registrazioni audio ambientali (Evidentemente non era nella possibilità di installare la tecnologia necessaria per fare le riprese visive). Il sospetto di quanto potesse accadere a danno della sua donna e dei minori conduceva il Dott. Ferraro ad intraprendere una lunga e tortuosa attività di studio e approfondimento personali che, a suo dire, lo portavano a scoprire trame occulte e deviate tra i poteri istituzionali dello Stato, gli alti gradi militari (che trovavano nel quartiere della Cecchignola abitazione), psicologi, psichiatri e altri professionisti compiacenti, massoneria e sette sataniche.
Il Dott. Ferraro sostiene di essersi addentrato in questo quadro con grande ingenuità e inconsapevolezza, comprendendone i tasselli, legami e ruoli solo molto tempo dopo. Perciò le sue “denunce”, inizialmente passavano per i canali “ufficiali e istituzionali”. Ciò l’avrebbe portato a “scoprirsi” e a divenire obiettivo da neutralizzare per dette istituzioni e poteri deviati. Così si spiegherebbero, dal suo punto di vista, un TSO convertito in ricovero volontario nel maggio/giugno 2009, con forzata assunzione di neurolettici; due procedure di dispensa dalle sue funzioni, avviate presso il CSM nel 2009 e 2010 su segnalazione delle Procure di Roma e Perugia e concluse con l’archiviazione; un’aspettativa per infermità di più di un anno (agosto 2011- dicembre 2012), seguita dalla delibera di dispensa dalle sue funzioni assunta per motivi di salute dal CSM lo scorso 06.12.2012 (che egli preannuncia di voler impugnare al TAR).
Nel frattempo, gli viene notificato lo scorso 07.02.13 il Ricorso del Procuratore Capo di Roma per la nomina di un amministratore di sostegno che dovrà acconsentire in sua vece alla somministrazione a lui di psicofarmaci. Orbene, Paolo Ferraro ha riversato nel web tutta la sua storia e gli atti che – a suo dire – dimostrano il dramma umano di cui è vittima. Egli sostiene che esistano, anche perchè direttamente riscontrato ed oggettivo ” BEN SEI CERTIFICAZIONI DI CUI UNA ADDIRITTURA DI PROVENIENZA PUBBLICA E QUATTRO RELAZIONI PRODOTTE IN RETE DIMOSTRANO CHE IL DOTT: PAOLO FERRARO OLTRE AD ESSERE PERSONA PERFETTAMENTE SANA ED EQUILIBRATA E’ UOMO E MAGISTRATO CON DOTI PERSONALI PECULIARI ”. Io ritengo che vada salvaguardato, al di là della fondatezza o meno della sue tesi, il suo diritto individuale di libertà a decidere del suo stato di salute ed, eventualmente, la sua libertà di curarsi o meno; la nomina di un amministratore di sostegno, in assenza di condizioni di pericolosità alcuna, che sostanzialmente gli imponga gravi e pesanti terapie a base di potentissimi psicofarmaci, è una violenza per lui e violazione dei diritti umani per tutti e non ultimo, un aggiramento delle libertà fondamentali dell’individuo che non può venire tollerato. Non di meno il gravissimo fatto che lo sta coinvolgendo lede la fondamentale libertà di espressione e manifestazione del pensiero. Paolo Ferraro sta chiedendo l’aiuto di molti, di tutti, nella sua battaglia per la libertà. Ho ritenuto opportuno portare il caso su ImolaOggi proprio perché sia portato a conoscenza di tutti, sia per la specifica sensibilità di moltissimi lettori sulle tematiche della libertà individuale, sia per valutare se coinvolgere gli stessi lettori a sostegno di questa inaudita violenza e violazione dei diritti umani.
Giudici affiliati alla massoneria: ecco i nomi elencati da “Il Corriere della Sera” del 2 dicembre 1993. Il Guardasigilli Giovanni Conso ha inviato le carte al Consiglio Superiore della magistratura: chiede provvedimenti disciplinari per 19 magistrati. E propone tre trasferimenti d' ufficio per incompatibilità ambientale. A Palazzo dei Marescialli si precisa che per gli altri 53 nominativi contenuti negli elenchi forniti dalla procura di Palmi, il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto "soluzioni liberatorie": non risultano accertati nei loro confronti legami con logge massoniche. La parola passa ora al procuratore generale della Cassazione Sgroi, cui spetta attivare il "Tribunale dei giudici" del Consiglio per il gruppo dei 19. La prima commissione referente del Csm si occuperà dei tre per i quali Conso chiede il trasferimento. All'elenco dei 19 appartengono:
Angelo Massimo Maestri (giudice del tribunale di La Spezia),
Salvatore Di Blasi (giudice del Tribunale di Milano),
Riccardo Romagnoli (giudice del tribunale di Roma),
Massimo Vitali (pretore di Milano),
Vincenzo Tessa (procuratore della Repubblica di Sanremo),
Mauro Monti (sostituto procuratore di Bologna),
David Monti (sostituto procuratore circondariale di Firenze),
Stefano Scarafoni (giudice del Tribunale di Tolmezzo),
Vincenzo Serianni (presidente di sezione della corte d' appello di Torino),
Nicolò Franciosi (consigliere della corte d'appello di Milano),
Renato La Serra (pretore di Trani),
Giuseppe Armani (consigliere di corte d' appello di Bologna),
Alfredo Arioti (sostituto procuratore generale a Perugia),
Francesco Pinello (presidente del tribunale di sorveglianza di Palermo),
Antonio Spina (pretore dirigente di Sciacca),
Luciano D' Agostino (sostituto procuratore di Lamezia Terme),
Fabio Mondello (giudice del tribunale di Roma),
Salvatore Marino (presidente di sezione del tribunale di Mistretta),
Paolo Nannarone (presidente di sezione del tribunale di Perugia). Paolo Nannarone è anche uno dei tre magistrati per i quali il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto l'avvio di un procedimento per il trasferimento d' ufficio in base all'articolo 2 della legge sulle guarentigie dei giudici. Gli altri due che dovrebbero essere sottoposti a tale procedimento sono Antonino Giubilaro (giudice del tribunale di Pesaro) e Nicola Restivo (procuratore della Repubblica di Perugia). Il consigliere laico del Pds Franco Coccia ha osservato che "la relazione ispettiva licenziata dal ministro fa propria interamente l'impostazione e l'analisi della delibera del Csm e su questa base è stata eseguita una complessa e laboriosa indagine sui magistrati, risultanti dagli elenchi, al fine di accertare la configurazione di concreti indizi di iscrizione di magistrati ad associazioni segrete". Sulla vicenda interviene il Grande Oriente d' Italia. Secondo il "Grande Oriente" Gustavo Raffi la relazione di Conso al Csm sui magistrati massoni "circoscrive la richiesta di provvedimenti disciplinari a quanti sono risultati iscritti a "logge coperte". Viene, pertanto, confermata l'assoluta estraneità di affiliati al Grande Oriente d' Italia, dal momento che simili strutture non solo sono bandite, ma inesistenti nell' ambito della massoneria regolare di Palazzo Giustiniani".
GIUSTIZIA ADDIO.
Giustizia addio. Sette giorni nei gironi del Tribunale di Roma. Roma, Italia. In tempo di elezioni si parla solo di economia: della giustizia son se ne deve mai parlare. Un cronista ha vissuto per una settimana nei corridoi del palazzo di giustizia della capitale. Per raccontarne il disastro. Egli è Fabrizio Paladini di “Panorama”.
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate in un’aula di tribunale. Sarete fortunati non se verrete assolti, se otterrete il giusto compenso richiesto, ma anche se riuscirete a vedere la fine del vostro processo in questa vita. Per arrivare a una sentenza d’appello penale ci vogliono 1.646 giorni, 1.514 per una civile. Più il tempo necessario per ottenere una pronuncia della Cassazione. Complessivamente fanno 7 anni. Venerdì 25 gennaio, come accade da tempo immemorabile, il primo presidente della Corte di cassazione Ernesto Lupo inaugurerà l’anno giudiziario 2013 davanti al presidente della Repubblica. Il giorno successivo toccherà alle singole corti d’appello. Scoppieranno, come sempre, polemiche sui dati del disastro; ancora una volta terranno banco l’estenuante lunghezza dei processi, la loro quantità, le assurde lungaggini burocratiche. Alla data del 31 dicembre 2012 c’erano 3,4 milioni di cause penali pendenti e 5,4 milioni di cause civili. Quasi 9 milioni. E poiché ogni causa coinvolge almeno due persone, si capisce che almeno un terzo della popolazione italiana è interessato alla snervante lentezza della giustizia. Per «prepararsi» alla stanca cerimonia del 25 gennaio, Panorama ha trascorso una settimana nel Tribunale civile di Roma, il più grande d’Europa. I primi 2 giorni sono serviti quasi esclusivamente per orientarsi in questo autentico inferno, e questo nonostante l’assistenza di più di un Virgilio. Avvocati, cancellieri, giudici, commessi, semplici cittadini vittime di una giungla più intricata di quelle del Sud-Est asiatico. E, proprio come accade in ogni giungla, chi ha più spirito di iniziativa, inventiva, risorse economiche e tecnologiche, sopravvive. Gli altri affogano, risucchiati dalle sabbie mobili della burocrazia, dei cartelli incomprensibili, delle indicazioni fuorvianti, del personale impotente (quando ha voglia di lavorare) e indisponente (quando non ne ha). Ricordate l’Alberto Sordi di Un giorno in pretura? Non è cambiato molto da quel 1953. Anzi, nel film il pretore Salomone Del Russo, interpretato dal grande Peppino De Filippo, almeno si presentava in udienza con la toga. Oggi, nel tribunale civile della capitale d’Italia, non è raro vedere un giudice senza la cravatta (la toga proprio non ce l’ha nessuno) e negli uffici del giudice di pace c’è chi ha visto un «togato» addirittura in tuta e scarpe da ginnastica.
SE LA FILA RENDE LIBERI. Ma cominciamo dall’inizio. La fila delle anime dannate costrette ad andare all’ufficio notifiche inizia di notte. In realtà l’ufficio apre alle 8, ma se ti presenti a quell’ora i pochi numeretti disponibili sono già stati distribuiti. E allora al di qua dell’Acheronte, che poi sarebbe la sbarra di viale Giulio Cesare, le macchine dei dannati si dispongono in fila già alle 4 del mattino. Sono i ragazzi delle agenzie: giovani pagati (poco) per bivaccare fuori del tribunale e per mettersi in lista. Qui compare per la prima volta «il foglietto». Il primo che arriva prende una pagina bianca e scrive il suo nome. Poi il secondo. Poi il terzo e così via. Alle 8, rigorosamente nell’ordine del foglietto, si varca l’Acheronte e si va all’ufficio notifiche. Lì c’è la distribuzione dei numeretti, una specie di superenalotto: 120 sono riservati agli avvocati, 70 alle agenzie. In pochi minuti i numeri si esauriscono e inizia una nuova attesa. Quello della fila-fai-da-te è un classico. Davanti a ogni ufficio gli avvocati, i loro praticanti, le segretarie, le agenzie e i semplici cittadini che si illudono con il «faccio tutto da solo» compilano sul foglietto la loro lista. Uno scrive il proprio nome, il numero d’ordine, valuta l’attesa e se ne va a fare un’altra fila. Torna dopo un’ora, appena in tempo per la pratica di turno (l’iscrizione a ruolo, la copia di un decreto ingiuntivo, la copia di una sentenza...). Va detto che fra i disperati, almeno, vige un rispettoso codice etico e nessuno cerca di fare il furbo. In compenso, nell’era in cui se non hai uno smartphone sei un poveraccio, qui tutto funziona solo su carta, con la lista sul foglietto, senza numeretto elimina-coda che, quando c’è, è rotto. Quando hai finito la tua pratica, cancelli dal foglietto il tuo nome e dici al prossimo: «Tocca a te, abbi pazienza che oggi all’impiegata “je rode”».
VANNO BENE 6 MESI? Il «ruolo» invece è un foglio molto più pulito e ordinato: qui sono elencati tutti i processi della mattina di ogni giudice. Si fa udienza dalle 9 alle 12, ma il carico di lavoro individuale è impressionante. Il 15 gennaio, per esempio, il giudice Francesca Girone della IV sezione (esecuzioni mobiliari) ha 76 udienze. Il 17 il giudice Maria Cristina D’Angeli ne ha 71. Il 18 gennaio il giudice Luigi Argan ne ha addirittura 113: tutte regolarmente iscritte a ruolo. Un profano immagina, magari ripensando al film di Steno, il giudice di una volta, con la toga, che discute la causa, con l’imputato. Macché. Pensate al povero dottor Argan che deve esaminare (è, in verità, un verbo assai esagerato) 113 processi in 4 ore: sono 28 ogni ora, cioè 2 minuti e 12 secondi a udienza, altro che Usain Bolt. Pensi: «Non può essere» ed entri nell’aula. Ma il giudice non lo vedi, perché è assediato da decine di avvocati. Sono tutti lì a discutere (anche qui, si fa per dire) le loro cause, e il giudice sembra una dea bendata. Sulla sua scrivania c’è «il mucchio». A Roma viene chiamato così, in gergo, l’insieme dei fascicoli dei processi in discussione quel giorno. L’avvocato sceglie il proprio fascicolo, redige lui il verbale di udienza (il cancelliere non c’è mai) e più o meno ogni volta dice al giudice: «Propongo di fissare una nuova udienza per il prossimo incombente (si chiama così l’udienza istruttoria, ndr), il collega di controparte è d’accordo». E il giudice: «Vanno bene 6 mesi?». E si passa al successivo.
UFFICI APERTI (ANCHE TROPPO). Al tribunale civile l’accesso è libero. Nessun controllo. Ci sarebbero anche alcuni metal detector, però non hanno mai funzionato e sembrano più un monumento al magistrato ignoto. Chiunque può entrare, non solo nei corridoi. Anche in molti uffici, anche in quelli interdetti al pubblico, come le cancellerie. Qui vengono conservati i fascicoli originali di tutti i processi in corso, divisi per sezione e per giudice cui la causa è stata assegnata. Panorama è entrato nella sezione lavoro dove si discutono, in tempi biblici, licenziamenti, indennizzi, mobbing: primo piano, stanza 205, cancelleria dei giudici Bellini, Belli e Magaldi. Toc toc. Silenzio. Il cronista entra: non c’è nessuno e i fascicoli sono tutti lì. Si potrebbe prendere qualsiasi carta, gettarla dalla finestra, bruciarla, o più semplicemente nascondere sotto il cappotto il fascicolo che interessa. Si potrebbe rallentare ulteriormente la giustizia, danneggiare una azienda o un lavoratore. Nessuno si fa vivo. Sarà un caso isolato? Macché: stanza 221 (giudici Leoni e Cerroni), stanza 220 (Emili), stanza 224 (Foscolo), stanza 227 (Valle e Vincenzi). Per 2 ore nessuno disturba il cronista intruso. A Napoli hanno appena arrestato 26 tra avvocati e cancellieri che (in cambio di denaro) facevano opportunamente sparire i fascicoli dagli uffici. Qui a Roma si può fare lo stesso, senza spendere un euro.
LA «STAZIONE DEL DOLORE». In viale Giulio Cesare c’è un posto famoso chiamato «la stazione». È la sala d’attesa della sezione famiglia. Un posto squallidissimo, con il pavimento in linoleum tipo cinema a luci rosse con un po’ di sedie di legno di qualche decennio fa, disposte in fila contro il muro. Qui transitano le coppie in attesa di un’udienza di separazione o divorzio. I coniugi arrivano, ognuno con l’avvocato, pronti a consumare in quei pochi minuti la vendetta, il rancore, la rabbia per la fine di un matrimonio. Alla predominante civiltà fa eccezione, ogni tanto, il risentimento e quindi scoppiano liti, battute pesanti sulla moralità di ex mogli o nuove fidanzate. Gli avvocati di solito tentano la mediazione (a volte anche fisica), ma resta, nella costernazione generale, qualche scena da mercato rionale di cui il pubblico farebbe volentieri a meno.
OPERAZIONE MUCCHIO SELVAGGIO. Parla un cancelliere di una sezione del tribunale (niente nomi): «Qui manca tutto, le penne le portiamo da casa, la carta per le fotocopie pure. Perfino la carta igienica è razionata. La distribuiscono il lunedì e nei bagni è finita già di martedì. Noi ne imboschiamo qualche rotolo per le nostre necessità. Due o tre volte a settimana aspetto le 15 e vado, insieme a qualche collega disperato come me, nelle cancellerie delle altre sezioni, meglio se di un altro piano. Qui scatta l’operazione «mucchio selvaggio». Entriamo e prendiamo quello che ci serve. Ma il vero oggetto del desiderio sono i faldoni, quelle grandi cartelle di cartone dove si archiviano i fascicoli. Li svuotiamo del loro contenuto, lasciamo i fascicoli su un tavolo e ce li portiamo su. Incolliamo un foglio con scritto il nuovo nome della sezione e del giudice e li sistemiamo nei nostri archivi».
INABILE MA ARRUOLATA. In una cancelleria del primo piano serviva un commesso: qualcuno che portasse i fascicoli da un ufficio all’altro. Si dovrebbe fare con un carrello, però i carrelli non ci sono e il trasporto così avviene con le sedie dell’ufficio che almeno hanno le rotelle. Finalmente, dopo lunga attesa, il rinforzo è stato assunto. Ma dopo 2 giorni la ragazza in questione esibisce un certificato medico: lombosciatalgia. Non potrà sollevare pesi, né fascicoli di qualsiasi tipo. La giovane, è ovvio, non può essere licenziata e non può svolgere il lavoro per cui è stata assunta, ma ha una scrivania con un computer. Il suo livello di contratto, però, non le permette di accedere al sistema informatico: il computer è buono solo per andare su Google e giocare al solitario.
RADIO TRIBUNALE. Nel trionfo dell’arte di arrangiarsi c’è una lodevole iniziativa degli avvocati dell’associazione Movimento forense. Si chiama Radio tribunale. Dice Massimiliano Cesali, l’avvocato presidente dell’associazione: «Su Twitter indichiamo la situazione logistica, minuto per minuto, in ogni ufficio: file, pubblicazione delle sentenze... Insomma, cerchiamo di dare una mano ai colleghi (sono 24 mila gli avvocati di Roma, più tantissimi praticanti e segretarie, ndr) e ai cittadini a districarsi in questo inferno che è il tribunale». Radio tribunale ha 2.100 follower, che ogni giorno leggono e scrivono in base a quello che vedono: «Oggi computer rotti, non si riesce ad avere una copia di nulla» avvertivano alle 9 del 18 gennaio. «Ufficio decreti ingiuntivi: è entrato il numero 35 della lista» e così il 36 sa che tra poco tocca a lui. Gli avvocati hanno anche fatto di più: «Quando il presidente dell’Ordine era Antonio Conte, abbiamo assunto sei persone per smaltire le pubblicazioni delle sentenze presso il giudice di pace» continua Cesali. Se oggi stanno pubblicando le sentenze emesse nel giugno 2010, è anche merito loro. Sì, ci sono solo 2 anni e mezzo di ritardo tra l’emissione della sentenza e la sua pubblicazione. Siete ancora vivi?
TOGHE ZOZZE.
Favori in cambio di sesso. Il pm di Roma Roberto Staffa è stato arrestato dai carabinieri per concussione, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. L'ordinanza è stata emessa dal gip di Perugia su richiesta della procura. Staffa, 55 anni, è stato incastrato dalle riprese video che lo mostravano insieme ad alcuni transessuali nel suo ufficio al quarto piano della palazzina B della procura romana. I viados sarebbero stati ricattati: secondo l'accusa, se avessero accettato le avances del pm, avrebbero evitato, almeno in parte, guai con la giustizia. Ma dopo un anno e mezzo di rapporti uno di loro ha raccontato cosa accadeva. Gli accertamenti della magistratura umbra, infatti, sono partiti proprio da una segnalazione della procura di Roma circa comportamenti anomali di Staffa, che recentemente non era stato riconfermato nel pool della Dda. Di tutto rispetto, il curriculum di Staffa, che è approdato alla procura di Roma circa 15 anni fa. La sua prima importante esperienza professionale fu da presidente della corte d'assise di Venezia. In tale veste, nel '97, condannò a 19 anni di reclusione l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per 9 omicidi. Ma una certa notorietà la raggiunse nella capitale con l' inchiesta sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che culminò con numerosi arresti, tra cui quelli del professor Ilio Spallone e del nipote Marcello, figlio di Mario, l'ex medico di Togliatti. Inoltre, come magistrato della Dda distrettuale, il pm si è occupato anche dei reati sulla persona: violenze sessuali, (oggi a lui contestati), maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù e di violazione delle legge sugli stupefacenti.
Una storia di sesso in cambio di favori, ma non in un ufficio qualunque. Il protagonista è Roberto Staffa, 55 anni, napoletano, pubblico ministero di Roma, fino a poco tempo fa inserito nel pool della direzione distrettuale antimafia, scrive “La Stampa”. Concussione, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio i reati contestati al magistrato dalla procura di Perugia, competente a procedere nei confronti degli inquirenti della capitale, che oggi, tramite i carabinieri, ha fatto notificare all’indagato l’ordinanza di custodia cautelare. Staffa è stato trasferito nel carcere di Capanne, nel capoluogo umbro, e quasi certamente venerdì prossimo sarà sottoposto all’interrogatorio di garanzia. Una brutta storia che prende avvio dalle dichiarazioni di un trans, arrestato in una retata antiprostituzione, e che trova la prova in alcune intercettazioni ambientali e video che inchiodano Staffa: gli scambi sessuali, con donne legate a imputati e trans, avvenivano anche nel suo ufficio di Piazzale Clodio. Pesanti le accuse formulate dal procuratore Giacomo Fumu e dal sostituto Angela Avila. In sostanza sesso come baratto: in cambio di informazioni su procedimenti giudiziari al suo vaglio, in cambio di permesso di colloqui con un detenuti e anche di permessi di soggiorno per motivi di giustizia. Gli accertamenti sono partiti proprio su input della procura di Roma. Ad incastrare il pm sono stati, tra l’altro, le dichiarazioni di un trans il quale, interrogato dal pm Barbara Zuin nell’ambito di un procedimento per prostituzione, avrebbe dichiarato di essere ricattato da Staffa, che in cambio della sua `protezione´ pretendeva rapporti sessuali, ed un’intercettazione ambientale, con relativo filmato, del rapporto sessuale consumato con una donna in cambio, appunto, di un colloquio in carcere. A Roma, dove era in servizio da 15 anni, Staffa era arrivato da Venezia dove aveva ricoperto il ruolo di presidente di Corte d’Assise. In questa veste, nel 1997, il magistrato condannò a 19 anni di carcere Felice Maniero, l’ex boss della banda del Brenta accusato di nove omicidi, e processò i componenti del gruppo dei «Serenissimi» protagonista di un clamoroso assalto al campanile di piazza San Marco la notte tra l’8 e il 9 maggio del 1997. Ma a Venezia Staffa era arrivato dopo un trasferimento deciso dal Csm: il magistrato nell’89, in forza a Trieste, aveva firmato una lettera di solidarietà per un imputato, poi condannato, per pedopornografia. A Roma è stato titolare dell’inchiesta sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che sfocio in vari arresti tra cui quello del professor Ilio Spallone. Poi la Dda e ultimamente le inchieste su droga e prostituzione. A piazzale Clodio Staffa era noto anche per aver fatto parte di un gruppo musicale, i Dura Lex, in cui suonavano anche altri magistrati e avvocati. «Staffa - ha dichiarato il suo difensore, Salvatore Volpe - è un galantuomo assoluto, un magistrato che ha sempre anteposto il dovere e gli impegni professionali alle esigenze personali».
Concussione, corruzione e rivelazione del segreto d'ufficio, così scrive Lavinia Di Gianvito e la Redazione Roma Online su “Il Corriere della Sera”. Per queste accuse è finito in carcere il pubblico ministero di Roma Roberto Staffa, nato a Napoli, toga con la passione della musica tanto da far parte di un gruppo di magistrati, avvocati e non solo: «Dura Lex». I reati contestati sarebbero legati a favori in cambio di sesso. L'ordinanza di 93 pagine è stata eseguita dai carabinieri del Nucleo investigativo ed è stata emessa dal gip del tribunale di Perugia Carla Giangamboni, competente quando si tratta di indagini riguardanti magistrati romani. Sarebbero stati filmati, microspie e intercettazioni a incastrare Staffa. Le riprese mostrerebbero il magistrato insieme ad alcuni trans nel suo ufficio al quarto piano della palazzina B della procura della Repubblica. Una storia di sesso e ricatti: secondo l'accusa, i transessuali accettando le avances del pm avrebbero ottenuto informazioni sui procedimenti in cui erano indagati e permessi di soggiorno per motivi di giustizia. Il sostituto una volta avrebbe consumato un rapporto sessuale anche con una donna che, in questo modo, avrebbe ottenuto il permesso per un colloquio con un familiare in carcere. I rapporti a luci rosse sarebbero andati avanti da tempo, finché un anno e mezzo fa un trans - fermato nel corso di un'operazione antiprostituzione - avrebbe raccontato al pm Barbara Zuin cosa gli era capitato nell'ufficio al quarto piano. A quel punto la procura di Roma ha inviato un'informativa a Perugia e i magistrati umbri hanno piazzato telecamere e cimici nell'ufficio del magistrato e hanno dato il via alle intercettazioni. In serata il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dato incarico agli ispettori di via Arenula di chiedere alla procura di Perugia, compatibilmente con il segreto istruttorio, gli atti sul caso Staffa (che in seguito all'arresto è stato automaticamente sospeso dal servizio) per valutare le iniziative disciplinari. L'Anm, pur precisando di essere «nella doverosa attesa dei successivi approfondimenti d'indagine», ha ribadito «la centralità della questione morale», poiché «nella magistratura non possono esistere spazi di impunità». Per otto anni Staffa ha fatto parte del pool della Direzione distrettuale antimafia (occupandosi di violenze sessuali, maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù e droga) e per un periodo di tempo relativamente breve si è anche occupato delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ma il suo nome, a Roma, è legato soprattutto all'inchiesta sugli aborti clandestini Villa Gina, una delle cliniche della famiglia di Mario Spallone, il medico di Togliatti. Inchiesta conclusa nel 2002 con vent'anni di carcere per Ilio e Marcello Spallone, rispettivamente fratello e nipote del capostipite. Prima di approdare nella Capitale, circa 15 anni fa, Staffa è stato pm a Trieste. Città dalla quale il Csm lo aveva trasferito a maggio '89. Un trasloco forzato, perché il pm aveva sottoscritto una lettera di solidarietà a Sandro Moncini, accusato di traffico di materiale pornografico per avere spedito negli Stati Uniti riviste e videocassette per pedofili, con bambini come protagonisti. La lettera era stata inviata ai giudici di Los Angeles prima del processo, in cui poi Moncini era stato condannato a un anno e un giorno di carcere, a una multa di 200 dollari e a due anni di libertà vigilata. L'iniziativa era costata a Staffa un ammonimento e il trasferimento a Venezia. Dove anni dopo (1997), come presidente della corte d'assise, aveva condannato a 19 anni di carcere l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per nove omicidi.
Sesso con trans in cambio di favori, pm a Roma arrestato per corruzione. Roberto Staffa avrebbe avuto rapporti intimi nella sua stanza di piazzale Clodio. "Io ricattata per avere protezione". Ma anche con una donna per concedere un permesso di colloquio con un detenuto. Il magistrato ripreso anche da microspie e telecamere. L'ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Perugia. ll ministero Severino ha chiesto che vengano inviati all'ispettorato gli atti sul caso, scrive “La Repubblica”. E' stato incastrato da una trans il pubblico ministero di Roma Roberto Staffa, arrestato dai carabinieri con le accuse di concussione, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio e sospeso da servizio. Avrebbe consumato alcuni dei rapporti sessuali, oggetto di scambi di favori, proprio nel suo ufficio di piazzale Clodio: alcuni incontri a luci rosse sarebbero avvenuti nella sua stanza al quarto piano della palazzina B della Procura di Roma. I militari si sono recati nella sua abitazione. I reati contestati sarebbero legati a favori fatti dal magistrato in cambio di sesso, fatto anche con una donna, chiuso a chiave nel suo ufficio, per concedere un permesso di colloquio con un detenuto oppure in cambio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Il ministero della Giustizia ha chiesto alla Procura di Perugia che, compatibilmente con il segreto istruttorio, invii all'ispettorato gli atti sul caso di Roberto Staffa. Stando a quanto emerge dalle indagini, l'inchiesta sarebbe partita dalle accuse di una transessuale fermata, circa un anno e mezzo fa, a Roma durante un'operazione antiprostituzione denominata 'Fungo', nel quartiere Eur, in cui era emerso un 'commercio' di transessuali provenienti dalle favelas sudamericane. E' stata la stessa trans, in sede di interrogatorio dopo il fermo, ad affermare che i loro rapporti sessuali venivano consumati dentro l'ufficio del pm. Interrogata dal gip, ha dichiarato di conoscere il pm dal quale era ricattata in cambio della sua protezione. E ancora. Rapporti con la familiare di una persona finita in carcere. C'è anche questa contestazione per il pm Roberto Staffa. E sesso in cambio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia: così almeno un immigrato - probabilmente un viados - avrebbe ottenuto grazie al magistrato il permesso dall'ufficio immigrazione della Procura di Roma, ignaro della vicenda. Molti incontri sono stati filmati da una microspia collocata nell'ufficio del magistrato dopo l'avvio degli accertamenti. Dalla procura di Roma, che non può indagare su magistrati del proprio ufficio, sono stati più di uno gli input inviati alla magistratura di Perugia che ha emesso l'ordinanza. L'inchiesta che ha portato all'arresto è partita da una segnalazione proprio della procura di Roma circa comportamenti anomali di Staffa. Un anno e mezzo di indagini, supportate anche da microspie e telecamere poste all'interno della uffici di Staffa e poi trasferite a Perugia per competenza, avrebbero filmato la presenza della trans. Il pm, recentemente, non era stato riconfermato nel pool della Direzione distrettuale antimafia. Approdato alla procura di Roma circa 15 anni fa, Staffa aveva prima avuto una importante esperienza professionale come presidente della corte d'assise di Venezia. In tale veste, nel '97, condannò a 19 anni di reclusione l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per 9 omicidi. La prima inchiesta importante nella capitale che regalò una certa notorietà a Staffa fu quella sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che culminò con numerosi arresti, tra cui quelli del professor Ilio Spallone e del nipote Marcello, figlio di Mario, l'ex medico di Togliatti. A medici e paramedici, Staffa contestava l'omicidio di feti (tritati o soffocati) giunti anche all'ottavo mese di gestazione. Successivamente il pm si è occupato dei reati sulla persona (violenze sessuali, maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù) e di violazione delle legge sugli stupefacenti, come magistrato della Dda distrettuale. Per un periodo relativamente breve Staffa ha fatto anche parte del 'pool' di magistrati che ha indagato sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la 15enne sparita a Roma, nei pressi del Vaticano, in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. Un anno fa aveva portato avanti un'inchiesta su un traffico di droga che aveva portato in carcere 40 persone del clan dei Casamonica. Una nota di colore: insieme ad altri magistrati e ad alcuni avvocati faceva parte di un gruppo musicale dal nome 'Dura Lex'. Negli anni tra il 1977 e il 1988 Roberto Staffa è stato pm alla Procura di Trieste, coordinando con la squadra Mobile locale, indagini e operazioni sul traffico internazionale di sostanze stupefacenti quando andava delineandosi quella che sarà poi denominata 'rotta balcanica'. Il nome di Staffa, però, divenne noto in città per essere stato tra i circa 30 firmatari del mondo triestino del 'Tennis Club', di un 'affidavit', una lettera di solidarietà nei confronti di un industriale locale, Alessandro Moncini, arrestato all'aeroporto di New York nel 1988 per reati legati alla pedo-pornografia. La lettera fu inviata ai giudici americani prima di processare Moncini, che fu condannato negli Usa a un anno e un giorno di carcere. Il Csm ritenne ''incauto'' il comportamento tenuto da Staffa e ne dispose il trasferimento d'ufficio a Venezia, dove condannò il boss Maniero e si occupò del caso dell'assalto al campanile di Venezia nel 1998. Sconcerto e incredulità negli ambienti del palazzo di Giustizia di piazzale Clodio alla notizia dell'esecuzione della misura cautelare. L'Associazione nazionale magistrati, in una nota, "nella doverosa attesa dei successivi approfondimenti d'indagine, riafferma la centralità della questione morale. La violazione della legge da parte dei magistrati compromette la giurisdizione e la credibilità dell'ordine giudiziario". L'Anm "ribadisce che nella magistratura non possono esistere spazi di impunità; i magistrati sanno trovare gli strumenti necessari per individuare e sanzionare, anche al proprio interno, ogni comportamento contrario alla legge. Nell'auspicare un rapido accertamento dei fatti, l'Anm esprime, quindi, sostegno e apprezzamento per l'azione di quanti sono impegnati nella ricerca della verità". L'ufficio del magistrato è stato perquisito oggi dagli investigatori, alla presenza del procuratore di Perugia, Giacomo Fumu, e del sostituto, Angela Avila. L'avvocato Salvatore Volpe, difensore del magistrato, ha dichiarato di non aver ancora visionato l'ordinanza di custodia cautelare. ''Gli inquirenti - ha precisato - mi hanno informato che è stata secretata. Devo comunque sottolineare che Staffa è un galantuomo assoluto, un magistrato che ha sempre anteposto il dovere e gli impegni professionali alle esigenze personali. Un magistrato eccezionale - ha aggiunto - che fino ad oggi è sempre stato un avversario di incredibile valore. Malgrado ciò ha sempre avuto un cuore d'oro, una grande attenzione verso la persona che aveva di fronte''.
IN CHE MANI SIAMO?
Shock a Cecchina (Roma). Da tutta la stampa e in particolare da “Il Tempo” del 23 giugno 2011. C'è anche una vigilessa figlia di un generale dei carabinieri nel gruppo di fuoco del massacro di via Colle Nasone. L'insospettabile killer di 42 anni - sorella di un ufficiale della Guardia di finanza, con una sorella questore. Clamoroso: la notizia che balza agli occhi non è l’accusa dei gravi reati per la vigilessa, ma il fatto che in quella famiglia vi sia un DNA particolare che li porta a vincere i concorsi pubblici più disparati ed a ricoprire gli incarichi più prestigiosi. Veramente bravi: Generale dei Carabinieri, Ufficiale della Guardia di Finanza, Questore di Pubblica Sicurezza, Vigile urbano.....Quante famiglie come queste in Italia, alla faccia di chi ha partecipato a quei concorsi, risultante non idoneo?!? La notte tra il 29 e 30 maggio, lei e altri bussarono alla villa, dissero «Aprite, polizia» e spararono con pistole calibro 7,65. Fecero due morti e due feriti per un regolamento di conti legato a una partita di droga. Ieri l'insospettabile killer di 42 anni - sorella di un ufficiale della Guardia di finanza, con una sorella questore - e i due complici di 37 e 30 anni sono stati fermati dai carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati del colonnello Marco Aquilio, su disposizione della Direzione distrettuale antimafia coordinata dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Le vittime: Fabio Giorgi, 41 anni, nato a Marino e residente ad Ardea, colpito a un polmone il giorno del suo compleanno, riuscì a fare qualche passo e poi crollò davanti all'abitazione. Il marocchino Rabii Baridi, 34 anni, stabile a Roma nella zona di piazza Dante, fu ferito a morte al volto e al collo. Se la sono cavata il proprietario di casa, Marco Paglia, nato 39 anni fa a Marino, ferito all'addome. E Paolo Paglioni, 37 anni, romano ma residente a Giudonia, anche lui raggiunto al ventre.
Per gli investigatori non è stato facile arrivare ai presunti responsabili. I sopravvissuti non sono stati molto collaborativi. Le loro testimonianze sono state piene di «non ricordo». I militari hanno controllato i tabulati telefonici, verificato i cellulari che erano attivi in quella zona e a quell'ora. Hanno spulciato le chiamate ricevute sui cellulari dei quattro, intestati a prostitute e extracomunitari, e hanno cominciato a tratteggiare i profili dei soggetti che potevano avere qualcosa a che fare col mondo della droga e con le vittime di via Colle Nasone. La killer cocainomane, figlia dell'alto ufficiale in pensione, è di Cecchina, come il suo convivente, con un curriculum criminale ricco di precedenti. Il terzo è residente ad Ardea, come Fabio Giorgi, stramazzato all'esterno della villa. Punti di contatto sui quali sono stati imbastiti i primi sospetti che alla fine hanno portato i carabinieri a fornire alla magistratura sufficienti indizi per procedere col fermo dei tre. L'indagine però è alla prima tappa. Non ci sono dubbi sul motivo che ha scatenato la sparatoria: al centro c'è la droga. Ma parole e fatti di quella sera tragica vanno ancora definiti. Era stupefacente che un gruppo doveva vendere all'altro? Oppure due fazioni di pusher che volevano spartirsi-contendersi il territorio?
Falsi Fallimenti e procedure truccate: a Roma 14 arresti, scrive Rinaldo Frignani su “Il Corriere di Roma”. Quattordici arresti. Blitz della Guardia di Finanza a Roma. In manette sono finiti 6 avvocati, 5 commercialisti e 2 imprenditori, tutti romani, ma anche un faccendiere svizzero riusciti - secondo gli investigatori - ad appropriarsi di milioni di euro, insinuando in alcune procedure fallimentari - in corso presso il Tribunale della capitale - alcuni crediti inesistenti. L'accusa è di peculato e riciclaggio contro la Pubblica Amministrazione: un giro di truffe per almeno 7 milioni. Sequestrato anche un appartamento di lusso in via del Colosseo. I crediti inesistenti sarebbero stati «creati» nei confronti di tre società fallite, ma ancora con ampia disponibilità finanziaria, e trasformati in denaro – circa 7 milioni di euro – da trasferire poi all’estero, su conti correnti in Svizzera a Cipro. Un maxi raggiro che ha coinvolto i professionisti romani e il faccendiere svizzero, insieme ad altri personaggi che hanno recitato il ruolo dei creditori, in realtà inesistenti, e fra questi ultimi anche un presunto sceneggiatore, in realtà tecnico fonico, di 38 anni, di serial tv polizieschi che aveva preteso oltre due milioni di euro. Le indagini del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Roma hanno portato agli arresti - bloccato anche il faccendiere di Lugano - insieme con una ventina di perquisizioni e al sequestro di un immobile a Roma. Le accuse vanno dal peculato al falso fino al riciclaggio, oltre alla simulazione di reato e alle false informazioni al pm. L’inchiesta, coordinata dalla procura di Roma, ha dimostrato come gli indagati abbiano indotto i giudici di un collegio del tribunale fallimentare della Capitale a disporre il pagamento di quei crediti presentando false documentazioni. Ma il gip – come ha spiegato lo stesso procuratore aggiunto Nello Rossi – ha ipotizzato anche un possibile coinvolgimento dello stesso collegio giudicante ancora da accertare. Una vicenda complessa, «aberrante» come l’ha definita uno degli investigatori, che ha alzato il velo su un malfunzionamento dello stesso tribunale per una serie di irregolarità commesse da chi invece avrebbe dovuto garantire il rispetto della legge. Le società fallite sono la Pasqualini (nel 30 novembre 2005), la Domitia Hospital (l’8 giugno 1994) e la Tecnoconsult (il 20 febbraio 1995). Secondo l’accusa il modo d’agire delle persone finite sotto indagine è stato sempre lo stesso per tutte e tre le società fallite, scelte perché erano deceduti sia i legali rappresentanti sia i precedenti curatori fallimentari. A questo punto i professionisti indagati prendevano il loro posto e con i colleghi riuscivano a far ammettere al passivo delle ditte fallite persone inesistenti che vantavano crediti falsi per prestazioni fantasma. Come quella della sceneggiatura per il serial tv in teoria richiesto dalla Pasqualini, che produceva olio.
Quel giudice esoterico che maltrattava la mamma. Un magistrato di Roma, plagiato da una "setta", è sotto processo per abusi. L'accusa dei parenti: la teneva segregata e la usava come cavia. Così scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale” in collaborazione con Simone Di Meo. Che cosa direste se il vostro giudice fosse sotto processo per aver maltrattato e minacciato l'anziana madre, costringendola a dormire d'estate o d'inverno sul divano in sala da pranzo, gettandole addosso oggetti, costringendola ad abbandonare le cure dell'ospedale per assumere farmaci cinesi? E cosa pensereste se quel signore con la toga, per risolvere i suoi problemi esistenziali e terreni, del tipo come corteggiare una donna o subaffittare un immobile, si affidasse a un gruppo spirituale che pratica il karma, l'«avvenuta ritualità luminosa», «la blindatura e pulizia aurica profonda della spiritualità»? Non rispondete. Di questi tempi a scrivere di certe cose personali dei magistrati si rischia la galera. È una questione assai riservata e scottante quella che vede alla sbarra, a Perugia, un giudice proveniente dal vasto distretto giudiziario di Roma, peraltro già noto per l'arretrato record in una sede distaccata. Il magistrato è stato trascinato alla sbarra dai suoi stessi fratelli, che lo hanno denunciato ai carabinieri per aver «segregato» la madre in casa, impedendole di mantenere rapporti con gli altri parenti e impedendole addirittura di fare e ricevere telefonate, e per aver rubato la loro posta. E lui, per par condicio, ha denunciato loro, in un rompicapo giudiziario che sembra il cubo di Rubik, dove le testimonianze non collimano mai e le ricostruzioni si smentiscono a vicenda. Un rompicapo. Nel fascicolo processuale, ci sono i verbali di zii, nipoti, badanti, parenti e amici chiamati a confermare o smentire il terribile sospetto che il Dottore sia o meno uno squilibrato che si sente rifiutato dalla società, che ha usato l'anziana madre come cavia per i suoi esperimenti taumaturgici. L'imputato ha sempre rigettato ogni accusa, motivando l'offensiva dei parenti come una vendetta per il testamento della ricca madre (morta per un male diagnosticato tardi) che lo ha nominato erede universale di una fortuna superiore al milione e trecentomila euro (testamento, peraltro, impugnato dai fratelli). Pure la presunta vittima delle sue vessazioni, a dire il vero, lo ha difeso, bacchettando gli altri figli che - chissà perché - ce l'hanno con lui. Eppure, il materiale investigativo raccolto dai pm di Perugia racconta un'altra storia. Una colf ha ricordato che «da sempre, il figlio ha impedito alla madre di aprire la porta dell'abitazione quando venivano a farle visita gli altri due figli». Pure il cugino del giudice ha ricordato che, di proposito, l'uomo «non ha pagato le ultime bollette telefoniche, facendo così distaccare la linea dal gestore». La paranoia del giudice sarebbe arrivata al punto tale da far «cambiare le serrature della porta d'ingresso per impedire agli altri fratelli di entrare in casa in sua assenza». Una faida familiare in cui è stato trascinato pure il portiere del palazzo dove il giudice viveva con l'anziana madre, costretto a fare da paciere durante una scazzottata tra fratelli: «Sono salito di corsa a casa della signora e ho notato i due fratelli che litigavano animatamente». A preoccupare di più i familiari più che gli scatti d'umore del magistrato, era però la sua passione per le arti magiche. «Mio nipote pretendeva che in sua assenza, mia sorella accendesse delle candele che teneva in bagno alle 23 precise e le spegnesse a mezzanotte», ha ricordato la zia ai carabinieri. E un'altra colf ha confermato che «quando la signora aveva dei dolori allo stomaco, suo figlio le applicava sull'addome un olio da lui indicato come «benedetto»? e oltre all'olio, applicava sull'addome della madre una «piramide di cartone». Il magistrato, al momento dell'interrogatorio, ha detto che la piramide di cartone era uno scherzo con la mamma e che i misteriosi intrugli che le somministravano erano in realtà integratori minerali. Non sono affatto un gioco, invece, le carte, attualmente all'attenzione dei pm di Perugia, che testimoniano i rapporti del giudice con un'organizzazione - confida un investigatore umbro - a metà tra Nostradamus, Scientology e il mago Otelma. Il giudice aveva una così grande fede nei suoi maghi di fiducia, da chiedere loro vere e proprie «indagini spirituali» sulle sue amicizie femminili (inchiesta extrasensoriale dagli esiti non particolarmente felici) e sui suoi affari: dalle vendite di lotti di terreno al subaffitto di una stalla. I «maestri», a un certo punto, gli hanno pure fatto credere di essere la reincarnazione di un guerriero che deve espiare il male fatto nella vita precedente. L'unica cosa che non sono riusciti a predirgli è che sarebbe stato accusato, dai suoi stessi familiari, finanche di estorsione (accusa poi archiviata).
MA IN CHE MANI STIAMO?
24 settembre 2012, Renata Polverini si è dimessa: lo dice lei stessa alla stampa intorno alle otto di sera di lunedì al residence Ripetta con accanto il vicepresidente Ciocchetti dell'Udc. «Ieri l'ho comunicato al presidente Napolitano, poi al premier Monti e oggi ai leader della mia coalizione. Non ritengo questo Consiglio più degno di rappresentare una regione importante come il Lazio». «Ho interrotto il cammino di un consiglio non più degno di rappresentare il Lazio», pieno di «personaggi da operetta» che «hanno fatto cose raccapriccianti». Ma anche con gli esponenti dell'opposizione-quaquaraquà: «Potevano consegnare le dimissioni e non lo hanno fatto e hanno tentato di scaricare la responsabilità sulla giunta». Lei continua a dirsi innocente («Arriviamo qui puliti») e lancia minacce: «Da domani ciò che ho visto lo dirò. Le ostriche viaggiavano comodamente già nella giunta prima di me, quindi non ci sto alle similitudini e nessuno si permetta di dire una parola su me e i miei collaboratori». Collaboratori che alla fine della conferenza avranno un alterco con alcuni giornalisti, definendoli «avvoltoi». «In questi giorni ho mangiato poco e dormito poco, e quindi sono dimagrita, e tutti mi dicono che sto bene». «Con il blocco della mia azione riformatrice ci saranno gravi ripercussioni sul paese: abbiamo fatto 5 miliardi di tagli perché lo volevamo e perché abbiamo avuto come effetto il dimezzamento del disavanzo sanitario portandolo a 700 milioni». «La Regione Lazio di Renata Polverini ha lo stesso rating del governo Monti». Festeggia il centrosinistra: «Un successo delle opposizioni, un segno del fallimento del centrodestra», dice Massimo D'Alema a Otto e Mezzo. «La vittoria della gente onesta», dice il capogruppo dei Verdi Angelo Bonelli. Alla ipocrisia non c'è mai fine. Il peggio è che c'è ancora qualcuno che crede a questi politici. Anzichè mettersi tutti un velo in faccia per non farsi riconoscere....
Le dimissioni di Polverini saranno formalizzate giorni successivi, e il consiglio sarà sciolto. Le elezioni saranno indette nei prossimi 90 giorni e si svolgeranno entro altri 90 giorni, quindi il voto si dovrebbero svolgere entro la fine di marzo 2013, forse in un election day con le elezioni per il Campidoglio. Nel frattempo la giunta Polverini resterà in carica per l'ordinaria amministrazione e i consiglieri al loro posto fino all'insediamento del nuovo consiglio. Altri sei mesi di indennità per tutti: così anche i finti dimissionari del centrosinistra si sono garantiti un supplemento di privilegi. Almeno di questo devono ringraziare Polverini. «Questi signori li mando a casa io. Noi arriviamo qui puliti. Ero a capo di una giunta che ha operato bene ma che va a casa a causa di un consiglio regionale non più degno». Il Lazio, sostiene, è un organismo «a due teste: da un lato c'è la giunta, dall'altro il consiglio. Non potevo mai immaginare che tutti nel consiglio facessero un uso così disinvolto dei fondi pubblici». «Ho intenzione di continuare a testa alta. Con questi malfattori non ho niente a che fare: lo devo alle persone leali come il vicepresidente Cioccetti dell'Udc che mi è stata fedele fino all'ultimo. Questa storia nasce per una faida interna al Pdl. Un partito che non consegnò la lista che ci ha consegnato un dibattito interno coordinato da personaggi ameni che si aggirano in Europa». «ho deciso di lasciare la guida della Regione già lunedì scorso, ma sono andata avanti per smascherare l'opposizione che chiedeva le mie dimissioni. Anche Pd voleva regolare una battaglia interna. Vadano a casa ma non si permettano di parlare di me e dei miei collaboratori. Le ostriche non le ha inventate l'ex capogruppo. Io non hai avuto una carta di credito, nemmeno i miei collaboratori». «Io dico basta, non lo merita la mia storia personale, la mia famiglia, infangata da due anni. Da pochi minuti sono tornata una persona libera e mi sento veramente bene. Due anni e mezzo in questo sistema, me lo sentivo come una gabbia». «Me ne vado senza colpa alcuna... ma lo faccio a testa alta». «Vado a mangiare, con la mai carta da credito».
Gianni Alemanno. «Un Presidente di Regione, eletto dal popolo, senza neppure un avviso di garanzia - prosegue - viene costretto a dimettersi dalle faide interne di partiti e da un'opposizione che, ancora una volta, ha dimostrato tutta la sua ipocrisia nello strumentalizzare una vicenda su cui il Presidente della Regione non ha responsabilità». «Chi pensa di utilizzare queste dimissioni per accaparrare qualche poltrona rimarrà molto deluso perchè non ha compreso che l'abisso che divide i cittadini dalla politica riguarda tutti i partiti indistintamente - conclude Alemanno - A Renata Polverini va tutta la mia solidarietà umana e politica».
L’amministrazione della Polverini, così, non è arrivata neppure a metà mandato ed è stata travolta dallo scandalo-Fiorito, denunciato ad inizio settembre dal Corriere della Sera. La governatrice, soprattutto, difende la sua giunta e scarica tutto sul consiglio, dove siedono "personaggi da operetta che non era accettabile mantenere in un luogo prestigioso come il consiglio regionale" e che "hanno fatto cose raccapriccianti". "Arriviamo qui puliti - ha proseguito - la giunta ha operato bene e ha portato risultati importanti. La giunta interrompe la sua azione a causa di un Consiglio che non considero più degno. Questi signori li mando a casa io senza aspettare ulteriori sceneggiate, con questi malfattori io non ho nulla a che fare". "Arriviamo qui puliti - dice ancora - mai avrei immaginato che con quelle ingenti risorse tutti, nessuno escluso, facessero spese sconsiderate ed esose. Ho aspettato oggi anche per vedere le falsità dell'opposizione. Oggi potevano consegnare le loro dimissioni al segretario generale della Regione Lazio: né Pd, né Idv, né Sel lo hanno fatto, ma hanno tentato di scaricare le responsabilità sulla giunta". "Con il blocco della mia azione riformatrice - avverte poi la governatrice - ci saranno gravi ripercussioni sul paese: abbiamo fatto 5 miliardi di tagli perché lo volevamo e perché abbiamo avuto come effetto il dimezzamento del disavanzo sanitario portandolo a 700 milioni". "Adesso mi sento libera, mi sentivo intrappolata come in una gabbia", prosegue. "Da domani - dice Polverini - ciò che ho visto lo dirò. Le ostriche viaggiavano comodamente già nella giunta prima di me, quindi io non ci sto, non ci sto alle similitudini e nessuno si permetta di dire una parola su me e i miei collaboratori". "Questa storia - si lamenta ancora la presidente - nasce per una faida interna al Pdl che non consegnò la lista alle elezioni e che ci ha consegnato un dibattito interno, oltretutto con personaggi ameni che si aggiravano per l'Europa". "Sono inorridita da quanto avvenuto in consiglio regionale, prendetevela con il signor Mario Abbruzzese", continua.
Dimessa la Polverini, il "cerchio magico" dei suoi più stretti e fidati collaboratori - ex sindacalisti Ugl piazzati ai vertici regionali - resta. Con qualche dubbio, però, sulla legittimità dei loro titoli. Scrive “La Repubblica”. È il caso del segretario generale della Giunta, Salvatore Ronghi, del capo ufficio gabinetto del presidente regionale, Giovanni Zoroddu, e del direttore della direzione regionale personale, demanio e patrimonio, Raffaele Marra. Sui primi due c'è il sospetto - sollevato peraltro da un'interrogazione dalla consigliera idv Giulia Rodano - che non abbiano i titoli. La nomina del terzo è stata addirittura annullata due volte dal Tar. Nonostante la Regione Lazio abbia recepito la legge Brunetta che prevede la pubblicazione online dei curricula dei dirigenti, sul sito del massimo dirigente regionale, Ronghi appunto (quello che dovrebbe dare il buon esempio), si legge "curriculum vitae non disponibile". Leggendolo (Repubblica ne è entrata in possesso), si capisce, forse, il motivo di tanta riservatezza: Ronghi (190 mila euro l'anno, dipendente dell'azienda trasporti di Napoli), non possiede i requisiti previsti dall'articolo 10 del regolamento regionale 1/2002. Non è laureato, ha la "maturità tecnico commerciale". Non ha mai fatto il dirigente nel pubblico o nel privato, ad eccezione di una esperienza da dirigente, quando aveva appena 20 anni, nella società "Ro. An. di Melito" di cui non c'è traccia da nessuna parte. Gli altri suoi titoli sono una lunga militanza nel sindacato Cisnal e Ugl (quello della Polverini), e tre mandati da consigliere regionale in Campania. Inutile dire che sindacato e consiglio regionale non sono né pubblica amministrazione, né settore privato. Alla Regione Lazio è stata assunta anche la sua fidanzata, Gabriella Peluso, 120mila euro l'anno. "Di lei - ha spiegato Ronghi - ho piena fiducia". Discorso simile riguarda Zoroddu: lui è laureato, ma non presenta alcuna esperienza da dirigente, a parte, ovviamente, la carriera Cisnal-Ugl dal 1994. Per Marra, ex ufficiale della gdf, ex capo dipartimento casa della giunta Alemanno, il discorso è più complesso. Nonostante quattro lauree e un curriculum di 12 pagine, secondo la commissione che ha esaminato i titoli dei 22 candidati esterni (i 180 dirigenti regionali erano stati messi fuori gioco da un cavillo del bando), quindici candidati avevano requisiti migliori. Marra non aveva alcuna "capacità specifica relativa alle competenze proprie della struttura da assegnare" (direzione Personale), come "l'esperienza di gestione delle risorse umane". Il Tar ha annullato due volte la sua nomina, ma la Polverini l'ha nominato direttore in regime di prorogatio fino a domani.
A questo punto non può mancare il commento del moralizzatore (un po' filo leghista) Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Bene così», le avrebbe detto «Clementina la comunista», nonna dell'ex marito iscritto alla Cgil. Con le dimissioni date artigliando a destra «i personaggi da operetta» che hanno scatenato la «faida dentro il Pdl» e a sinistra quelli che «avevano annunciato le dimissioni senza però darle», Renata Polverini esce di scena con qualche possibilità, forse, di rientrarci. Fosse rimasta un solo minuto in più, non avrebbe avuto un futuro. Fosse stato per lei, dice, avrebbe sbattuto la porta prima. Al momento in cui lo scoppio dello scandalo delle spese pazze di certi consiglieri pidiellini, le fotografie delle feste con i gladiatori e i maiali, i prelievi dalle pubbliche casse come fossero bancomat personali, i versamenti dei fondi per i gruppi sui conti privati, il montare delle leggende intorno a «Er Batman», l'arroganza da coatti rivestiti di certi colleghi di partito finiti nel mirino dei giudici le avevano reso l'esistenza insostenibile. Era stato solo l'assedio intorno di chi le suggeriva di «resistere, resistere, resistere» per non innescare una reazione a catena catastrofica per il Pdl e per la Lombardia, assicura, a spingerla a dichiarazioni impegnative come quella fatta a Piazzapulita : «Non mi dimetto, non sono stata trovata con le mani nel sacco e non mi ci troveranno mai». Ma lei, ha giurato ieri sera, aveva già deciso: era rimasta solo per smascherare il bluff dei consiglieri di sinistra che ieri sera non avevano ancora presentato ufficialmente le dimissioni. Vero? Falso? Un po' vero e un po' falso? Certo è che, dopo quello che è emerso in questi giorni, la governatrice non aveva scelta. Tanto più dopo che l'emorragia della sua maggioranza, dopo il «basta» di Pier Ferdinando Casini, era ormai incontenibile. Se n'è andata a modo suo. Graffiando quei compagni di partito «che non meritano di stare dove stanno», graffiando Roberto Formigoni che solo dopo 20 anni inchiodato sulla poltrona di governatore ha scoperto che le Regioni hanno bisogno «di un'autoriforma» che regoli meglio i poteri del consiglio e della giunta, graffiando il capogruppo del Pd Esterino Montino che vuole darle lezioni, lui che «è in Regione da 26 anni». «Salda nell'almo, con la fronte altera»: esattamente come aveva reagito in questi anni a tutte le polemiche. A quella col cronista de Il Fatto che le chiedeva come mai fosse arrivata alla «Fiera del peperoncino» di Rieti con l'elicottero anziché con la macchina, elicottero tra l'altro affittato dalla Heliwest, una società che aveva vinto un appalto proprio con la regione Lazio: «No guardi, non troverà nessuna spesa che mi riguarda, nemmeno le cene. Vada a studiare che è meglio». Quella sulla casa in affitto a 130 euro al mese dell'Ater: «L'appartamento di cui trattasi, posto al quarto piano senza ascensore con una metratura di circa 60 mq, senza balconi, è stato assegnato, nei primi anni del Novecento alla nonna di mio marito». Quella con un contestatore a Genzano, dove recuperò un vecchio epiteto neofascista nei confronti dei sinistrorsi: «Con me caschi male. So' della strada come te, le manifestazioni le organizzavo quando tu c'avevi i calzoni corti. Non mi faccio mettere paura da una zecca come te». Che non sia facile mettere paura a Renata Polverini è vero. Se c'è da scazzottare, scazzotta. Basti ricordare, qualche mese fa, la baruffa con Gianni Alemanno, il sindaco di Roma di cui è (era) amica da una vita. Alemanno era schierato contro l'ipotesi di una discarica a Corcolle, a poche centinaia di metri (sopravento) dalla meravigliosa villa Adriana, lei stava invece col prefetto dalla parte di chi riteneva quella la migliore delle soluzioni possibili per sversare in una vecchia cava l'immondizia capitolina dopo la chiusura della storica pattumiera di Malagrotta. Dice l'ex governatrice di essere caduta dalle nuvole alla scoperta di come si comportavano quei personaggi «indegni» che in questi giorni ha attaccato frontalmente. Risponde Franco Fiorito, l'ex capogruppo diventato in pochi giorni (tristamente) celebre, che «Renata non poteva non sapere». E ricorda che molte delle storture che oggi appaiono inaccettabili all'ex sindacalista della Ugl erano state denunciate in varie inchieste giornalistiche senza scatenare allora sfoghi d'indignazione lontanamente paragonabili a quelli di oggi. Due casi tra i tanti: la presenza in Regione (sia chiaro: per responsabilità pesanti anche delle maggioranze precedenti, comprese quelle di sinistra) di 11 dipendenti per ogni parlamentare o i rimborsi di 35 centesimi al chilometro concessi anche ai consiglieri regionali che non risultavano avere una macchina. Ecco, se su alcune cose la governatrice avesse strillato prima ciò che strilla adesso, oggi la sua immagine potrebbe essere meno ammaccata.
Lazio, Italia. Anzi, Palude Italia. Regione per regione, ecco il magna magna, scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è solo il Lazio: ai gruppi consiliari da Nord a Sud arrivano quasi 100 milioni. E un altro miliardo se ne va in vitalizi e indennità. Quasi 100 milioni, 96 per la precisione. È questa la cifra che nel 2011 i contribuenti italiani hanno speso per consentire l’attività politica dei gruppi consiliari delle Regioni. Somma che si va ad aggiungere alle altre centinaia di milioni che le amministrazioni autonome sborsano ogni anno per pagare le indennità, i vitalizi, gli acquisti di beni e servizi e via dicendo. Il malloppo, secondo uno studio della Uil realizzato sulla base dei bilanci preventivi delle Regioni, ammonta complessivamente, senza contare i vitalizi, a qualcosa come 1,15 miliardi di euro, che diviso per ogni contribuente fa 38 euro a testa. Come sono stati utilizzati i quattrini destinati ai partiti nel Lazio lo abbiamo appreso in questi giorni: cene, festini, aperitivi, regalie e, in molti casi, semplice arricchimento personale. Ma i 14 milioni che, stando alle delibere, perché la voce è ben nascosta in altri macrocapitoli di bilancio, sono stati stanziati nel corso dell’anno sotto la giunta Polverini non si discostano molto dalle risorse destinate dalle altre Regioni allo stesso scopo. E anche ammettendo, cosa assai difficile da presumere, che in tutte le altre Regioni italiane nessun gruppo abbia dirottato un euro verso utilizzi non istituzionali, le erogazioni appaiono un tantino generose. In testa alla classifica, secondo i calcoli effettuati dal Sole 24 Ore c’è la solita e costosa Regione Sicilia, che ai gruppi consegna ben 13,7 milioni di euro l’anno. Subito dopo c’è la Lombardia di Roberto Formigoni, anche lui travolto dalle polemiche e dai sospetti, che eroga ben 12,2 milioni di euro ai partiti che siedono in consiglio. Poco sotto c’ è il Veneto, che è a quota 9,1 milioni. Anche l’austero Piemonte, con 7,3 milioni non scherza. Poi, andando in ordine sparso sullo stivale, c’è l’Emilia (6 milioni), la Liguria (5,7), la Sardegna (5,1), la Calabria (4,6), la Campania (4,5 milioni). E via proseguendo, fino alla Basilicata e alle Marche, che hanno speso rispettivamente 575 e 531mila euro.
Fermiamo il saccheggio. Regionopoli, viaggio negli sprechi Dall'Emilia alla Campania: così divorano i nostri soldi. Così continua “Libero Quotidiano”. Non solo Lazio. Nella regione rossa bonus a tutti, a Napoli bruciano miliardi per i rifiuti. Poi la Calabria, la Puglia e la Sicilia dei record (negativi). "Poi è ovvio, non è che si possono mettere tutte le Regioni sullo stesso piano. Prendiamo l’Emilia-Romagna: in quanto a servizi resi ai cittadini i parametri restano alti, peraltro è l’unica assemblea regionale - insieme con la provincia autonoma di Bolzano - a pubblicare in rete i conti dei gruppi consiliari. Non che i gruppi stessi costino poco nemmeno in zona Bologna: nel 2011 sono stati stanziati 4.976.000 euro - 2.326.000 per il «funzionamento» e altri 2.640.000 per il «personale». Era proprio da questi fondi che gli esponenti dei partiti - Movimento 5 Stelle incluso - attingevano per pagarsi interviste o comparsate sulle tivù locali: la Procura indaga per peculato. D’altro canto, le maggiori critiche rivolte all’amministrazione di Vasco Errani riguardano un sistema di potere andato cristallizzandosi nei decenni intorno al partitone progressista e alle aziende “amiche” - ogni riferimento alle cosiddette coop rosse non è casuale", spiega Andrea Scaglia su Libero in edicola oggi. Già, perché, ovvio, in questi giorni tutti gli occhi sono puntati sul Lazio dello scandalo. Ma non si possono dimenticare altri casi, come quello dell'Emilia dei bonus e dei rimborsi. Anche nel feudo rosso, infatti, tra "premi di risultato" e spese di viaggio i dirigenti e i consiglieri riescono ad arrotondare i lauti stipendi. I finanziamenti vengono concessi a pioggia, mentre gli ospedali vengono progettati sulle paludi. Il tutto mentre il governatore Vasco Errani attende di sapere se sarà processato. Passiamo poi al capitolo Campania: "Inutile dire che non è stata la prima volta - racconta Peppe Rinaldi su Libero in edicola oggi -. Il blitz dei finanzieri in consiglio regionale a caccia di fondi nella disponibilità dei gruppi politici utilizzati per fini personali, è l’ultimo di una serie che parte da lontano. A raccontarli tutti servirebbe un giornale ad hoc. Si consideri che le magagne giudiziarie che corrodono il consiglio campano si sono spesso intrecciate con quelle del comune, oltre ad essersi diffuse in una marea di enti collegati, società municipalizzate e Asl. La ragione è semplice: per circa 15 anni il potere si fermava dinanzi al moloch incarnato da Antonio Bassolino. Ed è proprio da qui che bisogna partire per sintetizzare le tempeste abbattutesi sulla Campania". Anche se la sintesi di tutti questi sprechi è un esercizio difficile. Si passa dai disastri del "Rinascimento" bassoliniano alla tragedia della munnezza: per i rifiuti è stato buttato via un miliardo di euro. Insomma, la recentissima inchiesta delle Fiamme Gialle sulla Regione è soltanto l'ultima di una serie infinta, che ovviamente non ha frenato gli sprechi. Poi c'è il caso della Calabria, che spende, per esempio, la bellezza di 300mila euro per l'affitto di un ufficio che non usa più. E sempre in Calabria, le spese per il solo funzionamento dell'ente (stipendi locali e burocrazia) sono pari al 6,7% di quel che la Regione spende complessivamente in un anno. Vale a dire il triplo della Lombardia e più del doppio della Puglia. E parliamo proprio della Puglia, governata da quel Nichi Vendola che sogna di diventare leader della sinistra, magri premier: nella Regione si sprecano gli scandali legati alla sanità. Ma non è tutto. Una delle ultime determinazioni dirigenziali prevede, tra le altre, per i consiglieri l'utilizzo di Telepass e tessere Viacard, oltre ad altri benefit: iPad, computer portatile, telefoni, parcheggi gratis. La Puglia: terra di donne, tangenti e spese folli. Ultimo ma non ultimo il caso emblematico della Sicilia, dove la torta da spartirsi è enorme: ogni anno ammonta a 13 milioni di euro, una cifra mostruosa. Nella Regione - recentemente lasciata da Raffaele Lombardo che l'ha portata sull'orlo del default, della bancarotta - la vera casta siede sui banchi dell'assemblea regionale. Un esempio: il già citato Lombardo prendeva uno stipendio da 15.683 euro netti al mese. Era il presidente più ricco di tutti. Anche gli onorevoli non se la passavano male, con un doppio rimborso e trattamenti "super-lusso" per gli spostamenti e i trasporti (anch'essi rimborsati a cifre assurde). Per concludere, soltanto un'altra cifra (le altre le troverete sul quotidiano in edicola): in quattro anni i partiti rappresentati all'Ars (Assemblea regionale siciliana) ci sono costati 52,9 milioni di euro.
Doppiopesismo, scrive ancora “Libero Quotidiano”. La Polverini si dimette, la sinistra applaude. E gli indagati Errani e Vendola restano al loro posto. La governatrice del Lazio, non indagata, lascia e attacca: "Adesso gli smaschero io gli ipocriti". Chi sono? I democratici, che non dicono una parola sui loro imbarazzi. Penati e i governatori di Emilia Romagna e Puglia non si toccano. "Adesso li smaschero io". La governatrice del Lazio Renata Polverini dà le dimissioni, travolta dallo scandalo dei rimborsi spese dei consiglieri regionali. "La giunta è pulita, è il Consiglio ad essere indegno", sottolinea combattiva l'esponente del Pdl, che annuncia battaglia. Quelli da "smascherare" non sono solo Fiorito & Co., i "personaggi da operetta" del Pdl che le hanno fatto saltare la poltrona, ma pure i consiglieri di Pd e Idv e "le loro ipocrisie". "Volevano scaricare tutte le colpe - attacca l'ex governatrice - su una giunta che ha lavorato bene, allora li mando a casa io". Li rimprovera di non aver rassegnato le dimissioni annunciate: "Potevano farlo oggi, ma non l'hanno fatto. Perché?". Già, perche? Forse perché Pd, Idv e sinistra in genere è molto lesta ad additare il reprobo, il responsabile, l'immorale, ma assai meno a invocare atti di moralità quando servirebbero nel prorio campo. In fondo le dimissioni della Polverini per uno scandalo che per ora non vede nessun indagato nella sua giunta e nemmeno in Consiglio (Franco Fiorito è semplicemente sospettato di peculato dai pm di Viterbo) è caso esemplare. Migliore anche di quello del governatore della Lombardia Robert Formigoni, indagato a Milano per corruzione. "Polverini, dimettiti!" gridavano i democratici come in tutti questi mesi hanno continuato a gridare "Formigoni, dimettiti!". Guarda caso, sono entrambi del Pdl. Non una parola sul democratico Filippo Penati, indagato per corruzione e concussione: mollata la poltrona di vicepresidente del Consiglio regionale, l'ex presidente della Provincia di Milano si è però ben guardato dal lasciare il Pirellone (e il conseguente stipendio da consigliere) e quando qualcuno come l'assessore all'Expo di Milano Boeri ha provato a incalzarlo è rimasta voce assai isolata. Penati, in fondo, è nulla rispetto a Vasco Errani e Nichi Vendola. Il governatore dell'Emilia Romagna rossa è nei guai per un'inchiesta sulle Coop: è accusato di aver "concesso" un milione di euro alla cooperativa Terremerse del fratello Giovanni: a fine luglio la Procura di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per il potentissimo governatore per falso ideologico. Mica noccioline, in ballo c'è tutta la questione delicatissima legata ai rapporti tra politica e coop. Eppure nessuno, nel Pd, si scandalizza. Stessa sorte per Nichi Vendola, indagato in Puglia per lo scandalo sulla sanità locale. Il leader di Sel e lady Asl Lea Cosentino sono stati accusati di "concorso in abuso di ufficio" per il concorso da primario di chirurgia toracica vinto dal professor Paolo Sardelli all’ospedale San Paolo di Bari. Vendola indagato eppure né Bersani né l'amico Tonino Di Pietro si sono sognati di chiedere la testa del compagno di lotta. Forse perché gli atti di moralità sono obbligatori ma solo dall'altra parte della barricata.
Foto, giornali e tv, milioni, bruciati per l’immagine, scrive Grazia Longo su “La Stampa”. L’ossessione di molti politici, Polverini compresa: per lei stanziati nel 2012 un milione e 287 mila euro. Che i consiglieri regionali Pdl fossero ossessionati dall’immagine lo abbiamo scoperto dalla lettura del conto corrente gestito - si fa per dire - dall’ex tesoriere Franco Fiorito. Fiumi di denaro per interviste a pagamento. Un’abitudine gradita però anche agli altri consiglieri regionali, presidente in testa. È stato proprio lui, Mario Abbruzzese sempre in quota Pdl, ad autorizzare la bellezza di 1 milione e 212 mila euro alla voce informazione su giornali, radio e tv. Già nota è del resto, la sua sensibilità ai privilegi. Il presidente del consiglio regionale del Lazio (oramai ex con le dimissioni della Polverini) ha uno stipendio d’oro: quasi 21 mila euro lordi al mese, ovvero 251 mila euro all’anno. Insomma, Abbruzzese guadagna poco meno del presidente americano Barack Obama (275mila euro). Altrettanto conosciuta è la disinvoltura con cui usufruisce di due auto blu, una a Roma e l’altra a Cassino sua città d’origine, «perché sono mi diritto». Ma torniamo alle spese per la comunicazione. Nell’allegato alla Delibera del 13 giugno 2010, Abbruzzese firma di suo pugno l’elenco di tutte le emittenti radiotelevisive e dei giornali che devono ricevere soldi dalla Regione. Attività legittima per promuovere l’immagine del Consiglio regionale. Innegabile però l’effetto che produce questa pioggia di soldi pubblici in epoche di crisi come quella che stiamo attraversando negli ultimi anni. L’importo milionario è destinato a sostenere tutto l’arco consigliare, ma non si può tuttavia non notare che su 32 tv locali ce ne sono 9 dell’area che coincide con il bacino elettorale di Abbruzzese e anche di Fiorito: la Ciociaria. Terra che è talmente nel cuore del presidente da richiedere una considerevole attenzione. Una passione, per carità condivisa anche con gli altri consiglieri (e non solo del Pdl), ma che non si può comunque non evidenziare. Ecco allora 120 mila euro a Telesia, 90 mila a Media work e 20 mila alla Gazzetta di Cassino. Poi ovviamente ci sono anche le arre del Viterbese (terra di Battistoni, succeduto alla guida del gruppo Pdl dopo l’avviso di garanzia a Fiorito) (10 mila euro a Tuscia web), Latina e via discorrendo. Si registrano anche 10 mila euro a una tv di Rieti (Telecentro Lazio), tanto cara a Lidia Nobili. La consigliera Pdl con la passione di Scientology e la mania di protagonismo in interviste a pagamento tanto da aver fatto confluire a due tv rietine 111 mila euro dai fondi per le spese elettorali. L’unica nota positiva dell’allegato sulle spese per l’informazione è il risparmio di quasi 600 mila euro - 595 mila per l’esattezza - dovuto al fatto che a fronte di una richiesta di 1 milione e 807 mila euro di spesa, ne siano stati poi concessi 1 milione e 212 mila euro. E comunque non va tanto meglio neppure alla giunta regionale guidata fino a ieri da Renata Polverini. Partita con un occhio al risparmio, anche la Polverini poi ha ingranato la marcia sul fronte comunicazione. Ecco allora che per il 2011 ai «Contratti con i mezzi di informazione» sono stati stanziati 396 mila e 400 euro. Che subiscono però un’impennata l’anno successivo. Basta dare un’occhiata al resoconto della «Vigilanza sulla comunicazione istituzionale della giunta regionale», redatto il 28 giugno scorso: nel 2012 la spesa stanziata è salita a 1 milione e 287 mila euro. Anche in questo caso, come per il consiglio regionale, tutto rendicontato. La domanda tuttavia si impone: è tutto a norma? Si è forse verificato qualche spreco? Già l’altro ieri il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino e il procuratore regionale della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, sono intervenuti per ribadire che verificheranno ogni spesa esagerata. «Lavoreremo con intensità sulle questioni illecite che discendono dai recenti fatti di cronaca» hanno dichiarato. Ed è probabile che le dimissioni della governatrice Renata Polverini contribuiranno ad accelerare le verifiche.
Sprechi, tagli sui servizi, disservizi e solita partigianeria. Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia. «Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. - I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic). Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i giorni vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.» (http://www.youtube.com/watch?v=qu35x1cc6o0)
MALAROMA
Le foto che Panorama.it ha scattato probabilmente non rendono l’idea. Saremmo infatti dovuti salire più in alto per riprendere la reale dimensione del più grande parcheggio abusivo della Capitale, quello del Tribunale di Roma. 15.600 metri quadrati stipati di auto. E’ qui, infatti, che ogni giorno parcheggiano giudici, avvocati, imputati, parenti degli imputati, testimoni, semplici dipendenti. Ma non solo. A pochi metri di distanza da Piazzale Clodio, c’è anche la sede del La7 e della Rai di via Teulada. Nonché una caserma dei carabinieri. Un enorme giro d’affari per i parcheggiatori che incassano ogni giorno l’obolo di 1 euro. Molto meno di quanto si sarebbe costretti a sborsare lasciando la macchina per ore nelle strisce blu: una media di 8 euro a giornata. “Guai a chiudere questo parcheggio”, sbotta uno degli “utenti” appena lo avviciniamo. “Anche se è illegale, è l’unica possibilità che abbiamo per non svenarci e girare per ore alla ricerca di un buco”. Una donna accetta di farsi riprendere ma senza apparire in volto. Lavora in Tribunale e confessa “parcheggio qui da almeno dieci anni”. Nel frattempo un nordafricano sbuca da una siepe. Gli chiediamo se lavora là. Risponde che ha l’obbligo di firma e che sta andando in caserma. Capisce che siamo venuti a documentare quello che succede in un’area che, secondo il piano regolatore del 2008, doveva diventare uno spazio di verde da tutelare, l’ingresso del Parco di Monte Mario. Capisce e si mette ai inveire, “Vai a cercare quelli che spacciano eroina, non noi”. Un collega del Bangladesh è più collaborativo. Riusciamo a registrare di nascosto ciò che dice. Giura di non chiedere un soldo, accetta quello che la gente gli offre spontaneamente. Lo conoscono tutti. Saluta tutti. Compresi due poliziotti che ricambiano. Un’anziana ha appena lasciato la sua macchina, si avvicina e gli porge una moneta. “Meglio a loro che a quelli che chiedono la carità per strada”. Le facciamo notare il paradosso di un abuso perpetrato per anni a due passi da un tribunale e da una caserma dei carabinieri e sotto gli occhi di giudici e tutori della legge che ne sono i principali autori. Lei annuisce, alza le spalle e se ne va. L’uomo del Bangladesh invece continua a ripetere, “Io non chiedo nulla. Solo quello che mi danno”.
Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.
Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
Roma a mano armata, parole di Riccardo Bocca. Omicidi, aggressioni, furti. La capitale del governo e della politica è sempre più violenta. Perchè? indagine su un fenomeno in crescita.
La violenza esplode per strada prima di mezzanotte. Non in un angolo degradato della capitale ma a Porta Pia: un passo da via Veneto, da Villa Borghese. Accanto al museo d'arte contemporanea Macro e alla palazzina dove, fino a pochi giorni prima, ha abitato la compagna del ministro della Giustizia Nitto Palma, spesso presente con relativa scorta. All'improvviso decine di peruviani iniziano a picchiarsi a sangue: ubriachi, a torso nudo, tra urla e pianti delle donne che tentano di arginarli e che a loro volta si azzuffano. Pugni, calci, inseguimenti sgangherati. Botte selvagge che generano il panico, con la gente di passaggio a piedi o in automobile che si trova dentro un Far West assurdo: "Non è la prima volta che capita e non sarà l'ultima", scuote la testa uno dei residenti. Perché in questa città fragile, in cui è possibile massacrarsi mezz'ora in centro, prima che le volanti siano chiamate e intervengano, può accadere di tutto. Anche che i balordi in questione provengano da un imprevedibile locale con l'insegna: Circolo ricreativo affiliato Enal, Ente nazionale assistenza lavoratori, ingresso riservato ai soci. Attività già chiusa in passato, e che a ventiquattrore dalla rissa è di nuovo a serrande sollevate. "Roma feroce", la chiamano i poliziotti. E ingestibile, di fronte a un'onda di reati che sta investendo tutte le fasce territoriali e sociali. L'esatto opposto dell'urbe solare e rassicurante promessa da Gianni Alemanno nel 2008, durante la sua corsa a sindaco. I numeri non lasciano scampo: nei primi otto mesi e mezzo del 2011, città e provincia sono state scosse da 30 omicidi, l'ultimo il 10 settembre in un gioco erotico di soffocamenti e bondage dentro ai garage dell'Agenzia delle entrate. Un numero che spaventa, calcolando che nell'intero 2010 non si è oltrepassata quota 25. Stesso discorso per i furti, ossessione che tra gennaio e agosto ha colpito i romani 72 mila volte, con stime della Questura che fissano a 123 mila il record di fine anno. Per non parlare delle rapine, 1.900 da gennaio, o dell'indagine dell'Osservatorio sicurezza e legalità della Regione Lazio, che confrontando il 2010 con il 2009 mostra una capitale impiccata al +5,6 per cento delle lesioni dolose, al +1,5 delle percosse e +2,2 delle minacce. Fino al +8,8 dei danneggiamenti, quanto mai attuale dopo il danno alla fontana del Moro in piazza Navona. "La città è in ginocchio", denuncia il responsabile romano Pd per la sicurezza Alberto Mancinelli. "Nell'angoscia della crisi, propulsore ideale di illegalità, il crimine organizzato s'impone silenzioso, la microdelinquenza degenera, e il risultato si chiama insicurezza generale; un senso di frustrazione indegno di una metropoli europea". Frasi che possono suonare come un attacco di parte, strumentale nello scontro con l'amministrazione comunale destrorsa. Ma le stesse considerazioni, tra amarezza e rabbia, rimbalzano ovunque nella capitale: dai quartieri bene come Prati, dove il 5 luglio 2011 due killer in odore di 'ndrangheta hanno ucciso il trentenne Flavio Simmi, fino all'Ottavo municipio, periferia in cui regna la malavita multitasking (dalla ricettazione alla droga, dal riciclaggio agli scippi) di quartieri come Tor Bella Monaca, Borghesiana e Torre Angela. Una superficie di 113 chilometri quadrati, pari quasi al comune di Napoli, controllata da un unico e fatiscente commissariato. Che alla soglia del collasso, invoca rinforzi: "Al massimo", dice un agente, "giriamo su due volanti a turno, con le quali dovremmo tutelare oltre 200 mila abitanti, dei quali circa 400 agli arresti domiciliari o con obbligo della firma". Di prassi, i poliziotti circolano su Fiat Marea con 300 mila chilometri alle spalle, inadeguate ai Suv blindati della delinquenza romena o albanese, ma anche nostrana: "Ecco lo schifo con cui deve convivere tanta gente perbene", si fa scappare un poliziotto in borghese guidando lungo via dell'Archeologia, santuario storico dello spaccio a Tor Bella Monaca. E mentre ai lati della strada pascolano spacciatori minorenni, indifferenti agli sguardi delle forze dell'ordine, mentre sulle facciate grigie delle torri popolari brillano le inferriate apposte per evitare perquisizioni lampo, arriva la telefonata di un altro agente: appena tamponato, sempre in zona, da un'auto "guidata da un peruviano, intestata a un romeno e senza assicurazione". "Il rispetto della legge, da queste parti, è una barzelletta", riconosce il leader del sindacato Siap (Sindacato italiano appartenenti polizia) Maurizio Germanò, "il 2 settembre 2011, per dire, l'Ottavo municipio ha subìto quattro rapine a supermercati e uffici postali tra le 18 e le 18,30". Considerando anche il sabato, si è arrivati a sette. "E il dettaglio sul quale riflettere", annota Germanò, "è che per nessuna di queste azioni sono stati individuati i colpevoli: questione non di incapacità, sia chiaro, ma di forze e mezzi mancanti". Certo, va riconosciuto, nel tentativo di disinnescare la polveriera romana, il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano aveva previsto lo sbarco nella capitale di 300 carabinieri e 60 poliziotti. Ed è innegabile che Alemanno abbia affrontato con il numero uno del Viminale, Roberto Maroni, snodi cruciali come il controllo delle gang giovanili e la gestione dei patrimoni mafiosi. "Ma ciò che conta, insiste l'opposizione, "è il rapporto tra quello che è stato promesso nero su bianco per la sicurezza, e gli impegni inevasi: che sono tanti, troppi". Il riferimento è al Patto per Roma sicura, sottoscritto il 29 luglio 2008 dal sindaco Alemanno con il prefetto della capitale, il presidente della Provincia e il collega della Regione. Undici pagine di buoni propositi per "ridurre il degrado", sottolineano dal centrodestra, rafforzando "l'azione di contrasto al crimine organizzato" e stroncando "aree di degrado e illegalità che vanno dallo sfruttamento della prostituzione al caporalato, dallo spaccio di droga all'abusivismo commerciale". Un'encomiabile agenda che, nel tempo, è diventata fonte di qualche imbarazzo. Basta per esempio chiedere a Giorgio Ciardi, delegato alla sicurezza del sindaco, che fine ha fatto il numero verde "Sos degrado e sicurezza", previsto appunto dal Patto, e la risposta è che "non è partito". Perché i costi del servizio erano "inaccessibili", e in ogni caso "serviva personale adeguato". Altro passaggio determinante, nel Patto, era "l'addestramento alle armi del personale della polizia municipale". Ma anche qui è finita piuttosto male, con il segretario dell'Arvu (Associazione romana vigili urbani) che a luglio si è sfogato così: "Ci hanno dato la pistola ma non ci insegnano a usarla... In queste condizioni, i vigili armati sono un pericolo per se stessi e gli altri". Dopodiché non può stupire che, anche la voce "sportelli di sicurezza", pensati per un dialogo più efficace con i cittadini, sia un'alternanza di luci e ombre: "In certi Municipi ci sono e funzionano", spiega Ciardi, "in altri ci sono e procedono così e così, in altri ancora non ci sono per niente". Ed è un peccato, concordano gli addetti ai lavori, che il Patto del 2008 non sia sbocciato al 100 per cento in realtà. "Nelle carte", spiega il leader romano del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori di polizia) Saturno Carbone, "si legge che il Comune doveva investire in sicurezza 10 milioni di euro". Per cui la domanda, adesso, è la seguente: "Come hanno investito quel denaro?". Tanto più, dice Carbone, "che nell'ultimo decennio i mezzi a disposizione del reparto volanti sono calati da 130 a 49, e il personale in un ventennio è sceso da 680 a 350". Va bene che tra luglio e agosto, spinto dai titoli di cronaca nera, il questore Francesco Tagliente ha messo in campo ogni forza a disposizione (rispetto allo stesso periodo del 2010, +369 pattuglie in strada e +212 volanti dei commissariati), "ma rimangono nozze con i fichi secchi", commenta Carbone. E il miglior modo per capirlo, "è leggere il diario di bordo di una volante, ossia l'incubo in tempo reale di colleghi che guadagnano 1.200 euro al mese". Per farsi un'idea, prendendo un giorno a caso, tra la mezzanotte del 2 settembre e quella del 3, nella capitale sono state arrestate 12 persone, altre 26 hanno ricevuto denunce in stato di libertà, sono stati svolti 86 posti di blocco, 184 multe sono state compilate e 2.401 cittadini sono stati identificati, sequestrando tra l'altro cinque veicoli e recuperandone altri cinque rubati. "Un disastro di fatica", lamenta un poliziotto a fine turno. E dargli torto è ostico, dopo che alle tre di notte le volanti sono dovute accorrere nella semiperiferia del quartiere San Paolo per un cittadino "aggredito da tre soggetti, tra i quali una donna, che lo hanno trascinato a terra asportandogli 600 euro dal marsupio". Poi gli agenti si sono precipitati, alle quattro, verso una tabaccheria al Tuscolano per il furto di 5 mila euro in sigari e sigarette. Poi ancora, in un crescendo di chiamate più o meno urgenti al 113, si è intervenuti dietro alla Nomentana per una lite furibonda tra coniugi, con mobilia sfasciata e "marito privo di conoscenza". Fino alla rissa mattutina in un ufficio postale di Porta Maggiore, i calci e pugni assestati sulla via Boccea da uno sconosciuto a una donna romena, il fermo su una fuoriserie di "un uomo sottoposto a sorveglianza speciale", e ancora furti, segnalazioni di violenze, rinvenimenti di armi e cadaveri dei quali ricostruire la storia. "E' la cronaca di una città dolente, sfibrata dalle tensioni sociali, dove non si esita a pestare al rione Monti un musicista per futili motivi", dice il leader della Confesercenti a Roma Valter Giammaria. Il dato di fatto, statistiche alla mano, è che nella capitale non ha lavoro un giovane su tre tra i 25 e i 34 anni; che il 4 per cento circa della popolazione, al momento, è in condizioni di povertà assoluta; che l'usura, nel Lazio, coinvolge 70 mila vittime. "E in questo inferno umano", spiega Giammaria, "la violenza sale di livello diventando incontenibile". In altre parole, se "anni fa rapinavano a raffica banche e gioiellerie, oggi si spara e uccide per pochi euro, nei supermercati come dai benzinai (vedi il 9 agosto 2011 la rapina con morto sulla via Aurelia)". Una "giungla cittadina", per citare le parole del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, che "da una parte vede protagonista la piccola criminalità, strillata nei titoli dei giornali, e dall'altra patisce l'avanzata finanziaria dei clan mafiosi, di cui si parla poco e che dovrebbe allarmare di più". Da qui, ritengono gli investigatori, deriva la pioggia di gambizzazioni, omicidi e avvertimenti degli ultimi tempi. "Ci fosse un'unica cupola, non si sparerebbe tanto", riflette il delegato alla sicurezza Ciardi. Per cui l'ipotesi, in questa fase, è quella di grandi cosche e capitali che circolano sottotraccia, arrivando a conquistare nel centro di Roma il Café de Paris o l'Antico caffè Chigi (sequestrato alla 'ndrangheta in luglio 2011) dov'erano di casa ministri e sottosegretari; il tutto, mentre a margine di questi affari "lottano pistole in pugno le nuove bande", dice Ciardi, "giovani delinquenti disposti al peggio pur di affermarsi". Il sospetto, insomma, è che nella Roma di Alemanno stia tornando la malavita in stile banda della Magliana, con giovani di quartiere pronti allo scontro e al sangue. E il sommo esperto in materia, Giancarlo De Cataldo, ex magistrato e autore di "Romanzo criminale", per certi versi concorda: "Il legame tra le famiglie di allora e quelle di oggi è palese". Lo scopo è quello di "seminare criminalità anche dove non c'è, approfittando dell'incombente depressione urbana". "Un fenomeno", afferma Mancinelli del Pd romano, "che potremmo arginare con il recupero sociale della città, magari studiando meglio la malavita". Il che non viene affatto escluso, dallo staff di Alemanno. Anche se in apparenza, il pezzo forte della lotta alla criminalità restano i pattuglioni contro la prostituzione in strada: "Un problema che riguarda 400 o 500 tra ragazze e trans", secondo Ciardi, mentre Oria Gargano della cooperativa sociale Be Free ragiona su "4, 5 mila persone tra la strada e le abitazioni". "Gli agenti piombano qui di continuo e ci portano via", dice in via Salaria una prostituta romena. "La questione, però, è che sono cittadina europea, come la maggior parte delle mie colleghe in zona, e quindi dopo terminato il fermo torno sulla solita Salaria". Vero è, interviene una compagna di strada, "che i clienti hanno paura delle multe comunali, ma la fame di trasgressione resta mille volte più forte". Un senso dello spreco, di tempo e forze pubbliche, che pare chiaro anche ai tre poliziotti con i quali, pochi minuti dopo, deve fare i conti la prostituta romena. "Eseguiamo quello che ci ordinano", dice uno di loro. E se domandi esplicitamente quanto abbia senso, a suo avviso, inseguire notte dopo notte lucciole in questa Roma calpestata dalla violenza, dagli omicidi, dall'aggressività sociale, la risposta è ironica: "Giudicate voi...". Attorno, lo circonda l'eterno spettacolo di ragazze in vendita e clienti a caccia.
Cinquemila ristoranti proprietà dei boss. A Roma e Milano un locale su 5 è della mafia. Se ci fosse una contabilità unica, si scoprirebbe che i clan possiedono una holding dal 16 mila addetti. Pagamento in contanti, pochi tavoli occupati: è la formula che permette di evitare i controlli. La 'ndrina dei Gallico di Palmi è arrivata fino al centro della città politica: 18 aziende del lusso in varie zone centrali, tra questo dieci i locali celebri. Insieme al Café de Paris, che ha un valore commerciale vicino a 55 milioni di euro, sono stati sequestrati altri nove locali nella capitale, tra i quali il "George's Restaurant" in via Marche. Poi società, tabaccherie, magazzini, autorimesse, abitazioni e auto di lusso per un valore complessivo di oltre 200 milioni di euro: il Time Out Cafè, il Gran Caffè Cellini, il bar caffè Clementi, il ristorante Astrofood, il ristorante Federico I°, il bar caffè Cami, il bar California, il Bar Chigi a piazza Colonna. Da “La Repubblica” uno spicchio di verità.
Nuova Magliana contro vecchi boss. La capitale rivive il suo romanzo criminale. La sfida a camorra e calabresi alle origini della guerra di mala. Il procuratore Capaldo: "In città si ridisegnano equilibri e poteri criminali". Sono 21 gli omicidi da inizio anno. Il giudice Lupacchini: "Si ammazza con enorme facilità". C'è omicidio e omicidio. E quello di Flavio Simmi, per dirla con le parole di un investigatore della Mobile che di cadaveri a terra ne ha raccolti in questi anni, "è roba seria. Brutta e seria". Cinque mesi fa, un calibro 22 gli aveva portato via un testicolo in piazza del Monte di Pietà. Punito davanti al "negozio dei sordi", come qualcuno a Roma ancora chiama il Banco dei Pegni, mentre chiudeva la bottega "compro oro" del padre Roberto, "Robbertone", un passato di usura, un transito nelle gabbie della Banda della Magliana (nel maxi-processo che segue l'operazione "Colosseo" viene assolto), un presente da oste e gioielliere. Poi, una rosa di calibro 9 lo ha spedito all'altro mondo. Esplosi, verosimilmente, dalla stessa mano. Per un identico movente. In pieno giorno, nel quartiere Delle Vittorie, a neppure un chilometro di distanza dal Tribunale. Perché tutti vedano, capiscano e mandino a mente la lezione. Roma non è Reggio Calabria e neppure Napoli. Ma l'omicidio numero 21 (di cui 17 collegati alla criminalità organizzata o alla malavita in genere) dall'inizio dell'anno, a dispetto delle statistiche (si muore di morte violenta allo stesso ritmo dei dodici mesi precedenti) dice che a Roma sta succedendo qualcosa. Perché in città per trovare un'esecuzione così bisogna tornare al febbraio del 2008, al colpo alla nuca con cui viene "giustiziato" Umberto Morzilli (omicidio tuttora irrisolto). Giancarlo Capaldo, procuratore distrettuale antimafia, la mette così: "Questo regolamento di conti ci dice che in città si stanno ridisegnando gli equilibri e i poteri delle organizzazioni criminali". Che dunque una quiete durata un decennio forse si è rotta. Che nel piatto di in un'economia criminale storicamente grassa, governata dalle 'ndrine e dalla Camorra, ha deciso di mangiare una nuova generazione di banditi. Rapaci, violenti, che per comodità, o talvolta per continuità generazionale, qualcuno chiama "la Nuova Magliana". Ma che di quella storia hanno ereditato talvolta parentele lontane e sbiadite, più spesso solo il lessico passatista. Come raccontano centinaia di ore di intercettazioni telefoniche del Ros dei carabinieri ("Operazione Orfeo") sugli uomini del giro di Giuseppe Molisso, un tipo cresciuto all'ombra dei Senese (Camorra) e che ha deciso di prendersi Cinecittà e il mercato della cocaina, che nel quartiere scorre a fiumi. "M'accavallo pè annà a dà due botte a quello", dicono, spiegando che si stanno armando per andare a sparare a un disgraziato in odore di "infamità". "Bravo, tienite li sordi che così li usi pè la carozzella", avvertono con un sms la vittima di uno strozzinaggio. E nel giro si fanno chiamare con quell'argot nero e greve da "Romanzo Criminale": "er Pischello", "er Biscotto", "Piccione", "Romolo lo zingaro", "er Patata", "er Cinese", "Gargamella", "Mollica", "er Caccola". Otello Lupacchini, ex giudice istruttore del processo agli assassini della Magliana, poi alla Procura Generale, dove ha sostenuto con successo l'accusa nei confronti di Enrico Nicoletti, ex cassiere della Banda e prova vivente di un passato che non passa, dice: "'Ndrangheta e Camorra si muovono da tempo nello spazio silenzioso e rarefatto dei grandi affari, del riciclaggio, del narcotraffico e non hanno più uomini in grado di garantire un controllo capillare del territorio. O, probabilmente, non ritengono di doverne impiegare, come un tempo accadeva. Dunque, a un livello più basso del mercato criminale si sono aperti grandi spazi, dove la lotta si è fatta sanguinosa. Dove si ammazza o si progetta di ammazzare con impressionante facilità e con altrettanto impressionante sproporzione rispetto al risultato che si vuole ottenere". È un fatto che Casamonica (storici esattori di Enrico Nicoletti) è cognome che è tornato a incutere paura e rispetto da Tor Bella Monaca, all'Anagnina, all'Appio Tuscolano. Tra i cavallini che spacciano hashish, tra gli strozzini di quartiere, nel giro dei videopoker e dei concessionari d'auto. Che il clan Fasciani dei fratelli Giuseppe e Carmine, controlli da anni il traffico di stupefacenti sul litorale di Ostia e in quella fetta di periferia della città che sta tra il mare e la Magliana (appena un anno e mezzo fa, gli arresti furono 26). È un fatto che quel nome così evocativo, "Magliana", torni a fiorire come uno spettro sulle labbra di chi deve dare un nome a pistole che tornano a sparare in pieno giorno. Un equilibrio si è rotto, dunque, e qualcosa sta succedendo. Ma forse perché qualcosa è già accaduto. "Perché - come spiega una fonte investigativa qualificata dell'Arma - un equilibrio si rompe se ai pesci comincia a mancare l'acqua". È storia l'operazione della Dia sui beni dei Gallico, 'ndrina di Palmi (20 milioni di euro, custoditi nella pancia di 18 società, investiti in immobili, yacht, ville, persino nell'antico "caffè Chigi", affacciato su piazza Montecitorio). E sono storia i sequestri per 500 milioni di euro che hanno improvvisamente fatto "scoprire" che pezzi interi di Roma se li sono mangiati le 'ndrine. Solo il Ros dei carabinieri, porta via duecento milioni di euro a Vincenzo Alvaro e Damiano Villari (luglio 2009). Salvo ritrovarli, neppure due anni dopo, di nuovo in sella. Con nuovi investimenti, sempre in quadranti di pregio della città. Vedremo dove porterà la caccia agli assassini di Flavio Simmi. Se la verità di quest'omicidio è davvero "piccola", "folle", come ancora ieri ripeteva il padre Roberto in Questura, sostenendo che chi gli ha portato via un figlio è solo la vendetta di un "tossico" per una vecchia storia di corna. O, al contrario, se la verità sta altrove. Se, come disse la madre di Simmi dopo quel primo agguato in piazza del Monte di Pietà, "i figli non si toccano", lasciando intuire una vendetta trasversale con radici in storie più antiche. Anche perché una cosa è certa. Chi ha sparato deve aver messo in conto che, di qui in avanti, saranno settimane e mesi difficili a Roma. E anche questo fa venire cattivi pensieri. Perché dimostra che non ha paura. Che della quiete non sa che far. Dai bulli alla Banda della Magliana. La Malaroma fra Strada e Palazzo Quando negli anni Cinquanta Pasolini racconta "i ragazzi di vita", si sta estinguendo la razza dei malavitosi "da coltello". Poi i Marsigliesi, la fiammata del Freddo e del Dandy, su su fino ai clan delle diverse mafie.
La Capitale - come un secolo fa scrivevano i lombrosiani Niceforo e Sighele - è città di "suprema indifferenza e di infinita tolleranza" Per una singolare coincidenza, “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, i primi capolavori di Pierpaolo Pasolini, vengono alla luce proprio in quegli anni Cinquanta nei quali si spengono, vecchi e carichi di ferite, gli ultimi “bulli” di Roma. Eredi di una tradizione fatta di spavalderia e arroganza, ineguagliabili nell'arte di maneggiare il coltello, prepotenti, rissosi, fastidiosi ma tutto sommato innocui, Negri Augusto detto “er Manciola”, e compagnia, passano la mano a una nuova generazione di padroni della Strada. Ci vorrà ancora qualche anno perché l'assestamento sia completo, ma le avvisaglie ci sono già tutte: d'altronde, a ogni società i suoi criminali. Pasolini, per primo, racconta una gioventù frutto dell'impetuosa avanzata sociale dell'Italia del dopoguerra, disvela il mondo, allora sconosciuto, delle borgate e, forse inconsapevolmente, segnala l'imminente mutazione genetica che sta per abbattersi sulla “mala” romana. Si incaricheranno di spiegarcela, questa mutazione, i fratelli minori dei “Riccetto” e dei Tommasino Puzzilli: quelli che fonderanno la Banda della Magliana e inonderanno Roma di droga e di piombo. Sino alla Magliana, possiamo considerare la malavita come una scelta esistenziale obbligata per chi appartiene alle classi “pericolose” (poveri, sovversivi), e come una caduta imputabile a insopprimibili impulsi per i ricchi e i borghesi. Ma anche per loro, è pur sempre una scelta. L'unico tratto comune fra la miseria e la nobiltà, fra il Palazzo e la Strada, è il delitto nudo e crudo. A Roma (ce lo ricorda Cerami) lo chiamano “fattaccio”: tanto più cruento e morbosamente avvincente quanto più prossimo alle alte sfere. “Malavita” è, dunque, una duplice linea d'ombra. Da un lato separa senza possibilità di redenzione chi ha impugnato il coltello e la pistola da tutti noi che, magari, abbiamo sognato di farlo, ma senza trovare il coraggio. Dall'altro demarca con estrema e lucida nettezza i confini fra il Palazzo e la Strada: si può aderire alla malavita nell'uno e nell'altro campo, ma non sarà mai la stessa cosa. Ricchi e poveri commettono crimini per le stesse ragioni: la passione, l'avidità. Ma il triangolo erotico del marchese Casati e la “puncicata” dello stracciarolo ingelosito appartengono, per giudizio comune, a due mondi inconciliabili. Roma aggiunge a questo schema tutto sommato condivisibile una caratteristica che affonda radici nella sua millenaria tradizione: è, prima fra tante, città di grandi delitti politici. E' nel delitto politico che si sviluppa inizialmente una singolare contiguità fra i signori e i lazzaroni: magari occasionale e non programmatica, ma comunque tipicamente “romana”. A Roma spesso delitto e potere vanno a braccetto. Il Potere è cosa ben nota, ai romani. Ci convivono dai tempi di Romolo e Remo, sono nati e cresciuti all'ombra di San Pietro. E Potere è sinonimo di Palazzo. Il più grande delitto dell'Italia postunitaria, lo scandalo della Banca Romana, è un delitto di Palazzo, ed è un delitto romano. Il più grande scandalo criminale del Fascismo, il caso Matteotti, è un delitto di Palazzo, ed è un delitto romano. Non c'è città al mondo dove, quando ci si approssima ai santuari, Strada e Palazzo siano più contigui e mescolati. Ci sarà sempre bisogno di un falsario, per realizzare un'abile truffa; e il signore che decide di passare all'azione avrà necessità di procurarsi un'arma non rintracciabile. Anche se questo non significa pienamente che malavita e mala politica siano alleate, tuttavia ogni delitto di un certo peso, a Roma, volenti o nolenti i suoi volontari o inconsapevoli protagonisti, è, nello stesso tempo, “fattaccio”, ma anche delitto che odora, profuma, puzza (ciascuno scelga la variante olfattiva che predilige) di Palazzo. Dunque, di politica. Da qui la passione romana per il “complotto”. C'è un momento-cardine nel quale questa consapevolezza del nesso indissolubile che, in questa città, avvince la sfera individuale del crimine a quella, per così dire, “sociale”, diventa patrimonio di tutta l'Italia. Accade, non a caso, negli anni Cinquanta. Accade quando, la mattina dell'11 aprile 1953, sul litorale di Torvajanica, fra Ostia e Anzio, viene rinvenuto il corpo senza vita di una giovane donna. Si chiamava Wilma Montesi ed era, come precisano scrupolosamente le cronache dell'epoca ad onta di accertamenti medico-legali a dir poco frettolosi, "illibata". L'episodio in sé, sulle prime, non presenta nessun interesse. Scarse o nulle le tracce di violenza sul corpo, niente che faccia pensare a uno stupro, nessun esame tossicologico che riveli l'uso di stupefacenti. Archiviato ripetutamente come "disgrazia", il caso Montesi diviene "l'affare Montesi" quando si affacciano alla ribalta due supertestimoni. Sono due ragazze, Adriana Bisaccia e Anna Maria Moneta Caglio: per la "nera" del tempo, l'esistenzialista e la figlia perduta di una solida famiglia milanese. Che cosa le accomuna? La frequentazione con un "giro" altolocato uso a organizzare droga-parties e orge in zona Capocotta: da qui il poco lusinghiero soprannome di "capocottari". L'ipotesi delittuosa, costruita soprattutto sulle rivelazioni della Moneta Caglio, raccolte e divulgate da un giovane giornalista, Silvano Muto, è di omicidio colposo: il marchese Montagna, amministratore della tenuta di Capocotta, e il musicista Piero Piccioni avrebbero "scaricato" la povera Montesi, colta da malore durante un festino, sulla spiaggia, abbandonandola per evitare guai. E lei sarebbe morta per "lento annegamento". Viene rinviato a giudizio, per favoreggiamento, anche il questore di Roma. Tre complotti s'intrecciano sullo sfondo della vicenda: secondo la stampa d'opposizione, quello posto in essere dai soliti potentati per difendere dallo scandalo la "jeunesse dorée" capitolina; secondo gli innocentisti, quello ordito dai comunisti, magari con complicità interne alla Dc, per sbarazzarsi del papà del principale imputato, il ministro Attilio Piccioni, capo "in pectore" del maggior partito italiano. Quanto al terzo complotto, ne sarebbe stato vittima un prestigioso principe del Foro, togliattiano doc e difensore del denunciante Muto, accusato di condotte (all'epoca) moralmente censurabili. La vicenda, dal sapore americano per la pruderie puritana che vi aleggia, si risolve nel modo più italiano possibile. Il giovane Piccioni sfodera un alibi di ferro grazie alla diva Alida Valli, e il processo si conclude con un'assoluzione generale. Quanto alla povera Wilma, unica vittima insieme al ministro, costretto alle dimissioni, sarebbe ufficialmente deceduta in seguito a un imprudente pediluvio post-mestruale. Ad onta della sua conclusione, o forse proprio perché tutti la giudicarono insoddisfacente, l'"affare" Montesi resta l'archetipo di tutti i complotti che, da allora in avanti, avrebbero intasato la cronaca e le aule di giustizia. E che, non a caso, avrebbero trovato proprio in delitti romani l'epicentro. Accadrà con l'omicidio di Maria Martirano, il celebre caso Ghiani-Fenaroli (delitto d'interesse o antipasto della strategia della tensione, con tanto di sfumature della Gladio?), e accadrà con l'uccisione della fotomodella tedesca Christa Wanninger (escort d'antan, agente segreto della “Odessa” o infiltrata nella rete nazista clandestina per sgominarla?). E tuttavia, se fattaccio, politica, strada e palazzo sono già presenti, tutti insieme, nella Roma degli anni Settanta, si tratta pur sempre di elementi che scorrono, affiancati, nelle vene della città, come un fiume sotterraneo che cerca il punto di rottura per erompere. Manca ancora qualcuno che li colleghi. E qui entra in campo la Banda della Magliana. Già per tutti gli anni Sessanta Roma conosce, come il resto d'Italia, un'escalation di rapine. E l'eroina, droga di strada dagli effetti devastanti, prende lentamente il posto della cocaina, droga di ricchi viziosi, di artisti debosciati, e, prima ancora, di gerarchi e ninfette di regime. A Roma spadroneggiano i Marsigliesi: amano la bella vita e il soldo facile, organizzano sequestri e cercano di prendere il controllo dello spaccio. Sono gangster da film, bellocci, violenti, dissoluti, scialacquatori. Le inchieste li spazzano via, aprendo un vuoto di potere che i giovani, ambiziosi, spregiudicati e spietati ragazzi della Magliana si affrettano a colmare. Da un lato, si prendono la strada con feroce determinazione. Dall'altra, mettono tutti e due i piedi nel Palazzo. Stringono legami con insospettabili settori dei Servizi di sicurezza, con il terrorismo neofascista (spesso alimentato da figli della borghesia), con logge massoniche deviate. I “ragazzi di vita” sono cresciuti: se i “bulli” conoscevano perfettamente i confini del proprio mondo, e sapevano come rispettare l'invisibile linea d'ombra fra Strada e Palazzo, per quelli della Magliana non esistono né limiti né confini. E' una stagione breve e intensa, che si conclude in modo molto italiano: con la repressione dell'ala militare e l'inabissamento del comparto finanziario. Sopravvive, come eredità, un modello di accumulazione selvaggia del capitale destinato, purtroppo, a fare scuola. C'è, a proposito di Roma, un giudizio tanto lapidario quanto illuminante, quasi profetico, pronunciato oltre cent'anni or sono dai lombrosiani Niceforo e Sighele. I quali, dopo aver condotto un'inchiesta sul crimine a Roma, così concludevano: Roma è “città di suprema indifferenza ed infinita tolleranza”. Da sempre vi convivono “le più grandi antitesi morali ed intellettuali”, e si avvicendano delitti moderni, “quasi scintille del fuoco latente della mala vita delle alte e basse classi sociali” e crimini “medioevali e selvaggi”. Che l'abbiano inventata loro, la Banda, con la sua perfetta sintesi di ferocia e modernità? E anche sull'ambiguità di fondo del rapporto di Roma con i “suoi” criminali gli antichi studiosi centrano il bersaglio: ancora oggi a Roma continuano a convivere “le più grandi antitesi morali e intellettuali”: per esempio, quelli che coi banditi ci fanno affari e quelli che si dannano l'anima per sconfiggerli.
POLITICOPOLI
Roma. Boom di pratiche di condono da smaltire nella capitale. Boom di milioni di euro di oneri concessori non riscossi da anni. Boom di responsabilità impunite da dividersi tra le varie amministrazioni comunali di vari colori. Nell’illegalità son tutti uguali, solo che i giornali di sinistra affondano le lame solo quando ad amministrare c’è il centro destra.
A Roma nel 2012 ci sono ancora da definire le domande di condono del 1985 relative a 180-200 mila interventi abusivi sui 500mila totali (la sanatoria del 1985 permetteva di utilizzare un'unica istanza per regolarizzare più abusi). Magari gli uffici hanno cominciato l’esame, ma sono passati gli anni, sono cambiati i proprietari e col tempo, dopo tre o quattro trasferimenti, è diventato difficile rintracciarli e, a volte, il loro interesse a definire la situazione è venuto meno. Nella capitale le pratiche inevase sono circa 240mila: l’arretrato però si concentra nel 1985 e nel 2003, mentre l’esame delle 88mila istanze del´94 è praticamente concluso. Nel 2003 invece le domande sono state circa 50mila e per quasi tutte l'esame deve ancora cominciare.
Nel resto d'Italia la situazione è variegata: si va infatti da capoluoghi dove l'arretrato non esiste ad altri dove, come a Roma, si fanno ancora i conti con le domande del 1985.
Secondo “Oggi” dodicimila trecento quindici abusi: tanti ne documenta un libro nero degli abusi edilizi compiuti a Roma e documentati in due cd, rimasti in fondo a un cassetto da marzo del 2010 e saltati fuori grazie a un’inchiesta del quotidiano «La Repubblica». I due cd contengono la documentazione necessaria a valutare una parte delle 85 mila domande di condono presentate al Comune di Roma nel quadro del terzo condono edilizio concesso dallo Stato Italiano, quello del 2003, varato dal Governo Berlusconi.
IN QUEI FASCICOLI NON C’È SOLO LA ROMA BENE - Deputati, imprenditori, calciatori, soubrette: da Barbara d’Urso all’industriale Luigi Cremonini, dal calciatore Dejan Stankovic (ex della Lazio, poi all’Inter) al deputato del Pdl Antonio Angelucci, a Federica Bonifaci, figlia di Domenico Bonifaci, editore del quotidiano Il Tempo. Ci sono le istituzioni religiose e benefiche: le Suore Ospedaliere della Misericordia, la Procura Generalizia delle Suore del Sacro Cuore, le missionarie di Madre Teresa di Calcutta e la Famiglia dei Discepoli della diocesi romana.
GLI ABUSI DELLE AZIENDE MUNICIPALIZZATE - Non mancano sporting club (Parco dè Medici), country club (Gianicolo), il Tennis Club Castel di Decimo, la discoteca Chalet Europa nel parco di Monte Mario, e poi società immobiliari, distributori di carburante… e persino alcuni enti che non dovrebbero mai comparire in un elenco di «furbi», come le aziende Comunali di servizio: Ama, Acea e addirittura Risorse Roma, la municipalizzata incaricata di occuparsi proprio delle pratiche di condono!
ANCHE IL COMUNE CHIEDE IL CONDONO - L’assurdo assoluto? C’è anche quello: con la pratica n. 577264 trovata nel faldone «Sanatorie nei Parchi», chiede il condono anche il Comune di Roma, che ha violato le sue stesse regole, poi ha chiesto il condono a se stesso, sapendo di non poterlo, per legge, concedere: «Gli abusi realizzati nei parchi», dice la legge regionale n. 12 del 2004, «e nelle aree naturali protette, non sono sanabili».
GEMMA SPA, LA SOCIETA’ CHE HA VALUTATO GLI ABUSI - L’incarico di raccogliere la documentazione degli abusi era stato affidato dal Comune di Roma alla società Gemma Spa, di Renzo Rubeo. La società ha cominciato a svolgere il suo lavoro con l’ausilio di un sistema di fotografia aerea e ha fotografato il territorio della capitale metro per metro. Gemma consegna al sindaco Alemanno a marzo 2010 la lista documentata delle prime «reiezioni», più di 12 mila manufatti non condonabili. Poco dopo il Comune revoca a Gemma Spa il mandato, ufficialmente perché la società sarebbe incapace di smaltire i fascicoli nei tempi concordati.
Secondo “La Repubblica” Roma è la capitale, anche, degli abusi edilizi: mattone alla mano, un residente su 4 ha consumato un illecito. Gli abusi insanabili accertati sono 12.315, quanti le pratiche respinte perché i rilievi aerei hanno svelato le incongruenze tra domande e stato dei luoghi. Ma gli illeciti non condonabili sono molti di più tra le 260mila domande di condono da esaminare (370mila quelle accolte). Le ruspe però sono ferme da 2 anni. "Al Comune", sostiene l'ex direttore dell'Ufficio condono, "le sanatorie non convengono".
Roma, città illegale: è la capitale degli abusi edilizi con 630mila richieste di condono. Mattone e calcestruzzo alla mano, un romano su quattro ha consumato un illecito. Illegalità edilizie. Ma anche amministrative e penali: sono 12.315 le pratiche di condono respinte perché i rilievi aerei hanno svelato falsità per le contraddizioni tra la domanda e lo stato dei luoghi. Migliaia di manufatti sarebbero da abbattere perché realizzati dopo il condono, denunciati ma inesistenti, o tirati su in aree non edificabili. I quadranti più assediati sono nei Municipi XX, VII, XII, XI, XIX, IV, XIII, IX e XV. È accertata, insomma, l'esistenza di un paesino spuntato tra illeciti e speculazione. Ma l'area degli abusi insanabili è assai più vasta annidandosi tra le 260mila domande di condono da esaminare (370mila quelle accolte).
Ma nei tre anni e mezzo di giunta Alemanno, gli abbattimenti si contano sulle dita, un po' di baracche, tettoie, qualche stalla.
"Lo certificano i numeri", attacca il consigliere Massimiliano Valeriani (Pd). "Sotto la giunta di centrodestra", spiega, "sono stati spesi 798mila euro nel capitolo "Sgomberi e demolizioni"". Dove la parte del leone l'hanno fatta gli sgomberi dei campi nomadi con la demolizione delle relative baracche. "Solo nel 2007", spiega Valeriani, "il centrosinistra spese un milione 199mila 520 euro e nel 2008 stanziò un milione 199mila 700 euro che, ereditati dal centrodestra, non sono mai stati spesi". "Nel 2011", ancora Valeriani, "non è stato toccato un centesimo dei 500mila euro impegnati e poi ridotti a 120mila dall'assessore al Bilancio". Con Veltroni sindaco e Massimo Miglio all'Ufficio antiabusi, volumi per un milione e mezzo di metri cubi sono stati rasi al suolo. Dopo, le ruspe hanno lavorato a passo ridotto e solo per il primo anno della giunta Alemanno.
Da due anni in qua, niente, mentre sono cresciute come funghi le "case fantasma" che hanno spinto l'abusivismo al suo massimo storico. A censirle è stata l'Agenzia del territorio diretta da Gabriella Alemanno, sorella del sindaco: 68.764 immobili illegali. Così dal 2008 a oggi, nella classifica degli abusi, Roma è salita nella vetta della lista, seconda solo a Salerno che di case fantasma ne conta 105.228. Dopo la capitale ecco Palermo (62.868), Cosenza (61.672) e Napoli (59.859). Con il primo condono (legge 47 del 1985) e con il secondo (l. 724/1995) sono state 550mila le domande presentate. Alla boa del terzo (l. 326/2003) ne sono arrivate 80mila, per un totale di 630mila, appunto. Certo è che delle 12.315 rigettate, 3.713 sono state presentate fuori termine; 8.602 riguardano abusi insanabili, realizzati nei parchi (2.099) e in altre aree vincolate (6.503). I falsi più consistenti? Quelli del terzo condono. L'esperienza dei primi due ha fatto scuola affilando le unghie agli speculatori.
Nel 1985 sono stati sanati per lo più abusi di necessità, baracche, case tirate su con materiali poveri, in aree periferiche, tra nuclei di insediamento spontaneo. È stato con il secondo condono e, ancor più con il terzo, che hanno fatto irruzione dichiarazioni mendaci in quantità industriale. E per legittimare anche interi palazzi. Le foto aeree, finché sono state utilizzate, hanno dato conto degli scempi. Poi, con la giunta di centrodestra, è arrivato lo stallo. Un colpo di spugna con quattro mosse: la soppressione dell'Ufficio avamposto contro gli illeciti, la rimozione forzata del suo protagonista, Massimo Miglio, l'azzeramento dei fondi per gli abbattimenti e la cancellazione del sistema delle foto aeree (condiviso con il pool urbanistico della procura) per il controllo del territorio.
Per “Il Corriere della Sera” Una lista infinita, con dentro di tutto: calciatori, professionisti, politici, istituti religiosi, cliniche private, attrici. L'abusivismo edilizio, a Roma, è veramente trasversale: basta dire che, nel fittissimo elenco di coloro che hanno fatto domanda del condono (e che sono tra le 12 mila richieste «fuori termine» oppure in «zone vincolate»), c'è pure «Risorse per Roma», l'azienda municipalizzata che adesso - dopo la rescissione del contratto di Gemma - si dovrà occupare proprio delle domande di sanatoria. Una vicenda di qualche anno fa: «RxR» chiese il condono per la sede di via Flaminia, davanti al centro commerciale «Euclide». Un palazzo che ha una storia: nel 2007 la società lo vende all'immobiliarista Domenico Bonifaci che poi, a giugno 2009 l'ha affittato (a 650 mila euro l'anno) al XX Municipio, che ha trasferito lì la sua sede. Dalle foto aree, nel 2000 il palazzo aveva solo una torretta centrale. Nel 2004, invece, spunta un manufatto quadrato di colore scuro.
Naturalmente, il caso di «Risorse per Roma» non è l'unico. Anzi, la municipalizzata è in buona compagnia. A cominciare dall'Ama, che doveva condonare degli interventi sulla sede di rimessaggio di via Pontina (due capannoni che non c'erano). Alcuni casi, come l'appartamento di Lory Del Santo vicino al Colosseo, sono noti alle cronache. In pieno centro, a via di San Vincenzo, ecco la Cremonini spa: la veranda che nel 2004 - ben oltre la scadenza del condono del 2003 - non esisteva, compare diversi anni più tardi.
Altri sono meno conosciuti, come quello di Janusz Gawronski, nipote di Jas, che ha chiesto il condono per una proprietà sulla Cassia bis. E poi Ugo Sodano, ex consigliere regionale dell'Udc, dalle parti della Braccianese. In zona Roma nord, precisamente all'Olgiata, spunta Dejan Stankovic, quando giocava nella Lazio: nella villa con piscina, riparato dagli alberi, compare un fabbricato che nella foto scattata a giugno/luglio 2003 non esisteva. E ci sono altri imprenditori famosi. Come Carlo Degli Esposti, presidente di «Palomar-Endemol», produttore del «Commissario Montalbano»: «È una stupidaggine, una tettoia in legno per le auto: sto aspettando risposte, ma se è così la butto giù in un giorno». Ai Parioli, spunta Federica Bonifaci, della famiglia dell'editore de «Il Tempo», alla Magliana c'è l'Hotel Parco de' Medici, sull'Aurelia il «Roma camping srl», sulla via del Mare la «Cialone tour».
Ma condonano tutti, laici e religiosi. Tanto che, a scorrere l'elenco, si trovano le «Suore dell'assunzione», la «Famiglia dei discepoli», l'Istituto «Figlie del sacro cuore di Gesù». Cattolici, ma anche di altre confessioni. A Roma sud, ad esempio, c'è il caso di monsignor Barnaba El Soryany, il vescovo copto ortodosso. Nella chiesa di via Laurentina, dopo la strage di Capodanno in Egitto, sono andate tutte le autorità cittadine, da Gianni Alemanno alla governatrice Renata Polverini: ma proprio quella sede è da condonare. Attorno alla struttura centrale, infatti, solo nel 2005 spuntano due capannoni.
A via Appia Nuova c'è il condono chiesto dalla Giunone srl, società proprietaria della clinica privata Villa Fulvia, ma moltissimi abusi sono nei parchi: Veio, Appia Antica, Bracciano/Martignano, Decima Malafede. Col record dell'abusivismo che spetta al territorio del XX Municipio, uno dei più ambiti per gli speculatori edilizi: è Roma, e spesso non distante dal centro, ma diventa immediatamente aperta campagna. E lì, al riparo degli alberi o della vegetazione, costruire una «dependance» oppure un capannone, può diventare anche più semplice.
In Parlamento, in Consiglio comunale, in Procura e ora la Condonopoli romana arriva anche alla Corte dei conti: "Presenteremo un esposto per accertare se ci sia stato un danno erariale per la "dimenticanza" degli oltre 12mila abusi edilizi da abbattere e sui quali già indaga la Procura", annuncia il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli. "È già un fatto grave in sé", commenta, "ma se si inserisse nel quadro disegnato dal Piano casa della Regione produrrebbe effetti devastanti perché molti degli abusi insanabili potrebbero essere condonati". "Come mai", chiede Bonelli, "di fronte a una sentenza della Corte di cassazione secondo la quale la bocciatura della domanda di condono riattiva il procedimento penale, il Comune, con migliaia di domande bocciate, non avvia le demolizioni o l'acquisizione al patrimonio pubblico degli immobili?". Dal Campidoglio gli fa eco il consigliere Athos De Luca (Pd): "L'inerzia dell'Amministrazione comporta un danno rilevantissimo all'erario e all'ambiente". E anche lui annuncia la presentazione di un esposto ai magistrati contabili.
"Di fronte a inchieste giornalistiche, esposti e interrogazioni parlamentari", aggiunge il senatore Stefano Pedica (Idv), che con Bonelli ha presentato un esposto in Procura, "la giunta comunale resta indifferente e gli abusi edilizi nella capitale non conoscono contrasti". E annuncia: "Presenterò un'interrogazione al governo Monti, perché si faccia chiarezza sull'operato dei vertici del Campidoglio". "Dopo tre anni e mezzo di giunta Alemanno", denuncia il consigliere regionale Enzo Foschi (Pd), "l'abusivismo a Roma è al suo massimo storico dopo che il centrodestra come suo primo atto amministrativo ha demolito l'Ufficio antiabusi diretto da Massimo Miglio, un avamposto contro gli illeciti edilizi, che era un modello per il resto del Paese".
"È clamoroso quanto sta emergendo grazie alle inchieste di Repubblica sull'abusivismo edilizio a Roma", per Massimiliano Valeriani, presidente della commissione comunale di Controllo e Garanzia, "e sono assordanti il silenzio del sindaco Alemanno e l'inerzia della sua giunta: da mesi, con interrogazioni e riunioni, ho segnalato questa mancanza gravissima senza risposta alcuna". E la sua collega Gemma Azuni (Sel) rilancia: "Le notizie di stampa su connivenze, inerzia e dolo che gli uffici potrebbero aver messo in atto non possono passare sotto silenzio avvantaggiando ancora una volta i furbi e gli speculatori". "Nel nostro Municipio", spiega Andrea Catarci, minisindaco dell'XI, "decine e decine di interventi di demolizione non possono essere eseguiti per la mancata comunicazione dal Campidoglio delle pratiche bocciate e per l'azzeramento dei fondi voluto da Alemanno".
A Roma non solo abusi edilizi. La rivolta degli indignati romani contro la mafia dei poster abusivi. Secondo l’inchiesta di “La Repubblica”. Ce ne sono 50mila contro i 32mila registrati nella banca dati del Campidoglio. In quella forbice si nasconde la giungla dei cartelloni fuorilegge, disseminati nelle zone più pregiate o lungo le arterie di grande traffico della capitale. Ma adesso gruppi di cittadini si sono organizzati: segano i tralicci fuori norma, riempiono di cemento le buche scavate per erigerli, denunciano lo scempio con foto sui blog, raccolgono firme. Spuntano come i Gremlins. Oscurano il profilo postmoderno del Maxxi di Zaha Hadid e perfino San Pietro. Devastano Prati, l'Appia, occupano le isole pedonali, oltraggiano il verde di Villa Ada, coprono monumenti. Non solo. Uccidono anche. Lungo la Tuscolana uno era stato alzato su uno spartitraffico, dove si è schiantata una moto e sono morti due giovani. È la carica dei cartelloni abusivi, un campo dove Roma vanta il primato. A oggi, secondo i comitati che li combattono, 404 aziende hanno installato almeno 40-50mila impianti, contro i 32mila registrati nella banca dati ufficiale. Una devastazione. Gli operai si muovono di notte o alle prime luci dell'alba, sulle strade di grande scorrimento, nelle piazze più blasonate. E, al massimo in un'ora, bucano il terreno con le macchine, alzano le strutture in ferro, fanno apparire metri quadrati di pubblicità fuorilegge pronta per farsi guardare dai pendolari che la mattina attraversano la città per andare al lavoro.
Ma la rivolta è in atto. Mentre gli addetti del Campidoglio cercano di smontarne il più possibile con dubbi risultati, i comitati hanno già raccolto diecimila firme in calce a una proposta di legge, bocciata dalla giunta, ma che dovrà essere discussa in consiglio comunale, che può fermare la giungla pubblicitaria. E sono anche pronti a ricorrere al Tar. Non solo. I cittadini scendono in piazza a segare le basi degli impianti, in Prati attaccano dei fiocchi neri sui manifesti senza permessi e sui loro siti si moltiplicano le fotografie che denunciano gli abusi. Filippo Guardascione, del comitato "Basta cartelloni", accusa: "Il danno è stato fatto dal nuovo regolamento del Comune del 2009, che permetteva l'installazione libera dopo aver pagato una somma ed essere stati inseriti nella banca dati, rinviando a dopo i controlli. Così ha dato il via all'assedio degli impianti. Un altro problema è il numero delle ditte, più di quattrocento. A Parigi sono solo cinque a dividersi e tutelare il territorio dopo aver vinto bandi pubblici, e regalano anche il servizio di bike sharing. A Milano sono sette. Pensate al business: nella Capitale il costo medio di una pubblicità è di 150 euro al metro quadrato al mese. E infine le distanze: quelli superiori a un metro quadrato dovrebbero stare distanti l'uno dall'altro almeno 25 metri e quelli inferiori a un metro quadrato 15 metri. A Roma non sono mai rispettate".
La giunta Alemanno vara un piano regolatore e multe più poderose, ma aspetta a far discutere la nuova legge. I comitati lanciano su Repubblica "Dieci domande all'assessore Bordoni", che risponde: "Abbiamo rimosso 3.700 impianti illegali, siamo pronti a eliminarne altri 1.700 e vareremo il nuovo piano regolatore delle affissioni". Il problema è anche un altro. A Roma oggi nessun inserzionista è sicuro al cento per cento che i suoi manifesti saranno affissi su un impianto in regola e non su uno che violi normative esistenti e quindi possa andare incontro a sanzioni. Spesso succede anche a quelli del Comune, della Regione e di altre istituzioni o enti pubblici. Un esempio clamoroso? Molti dei manifesti della campagna di Roma Capitale contro l'abbandono dei cani sono stati affissi su impianti irregolari. Il colmo è che, in tempi di crisi, il fenomeno sta così tracimando che ci sarebbe bisogno di almeno una decina di milioni di euro per buttare giù tutti i poster irregolari della città. E interviene perfino il potente Franco Bernabé, presidente di Telecom Italia: "Roma in questo campo è la peggiore città al mondo. Non vengono tutelati il decoro e l'importanza storica e archeologica della metropoli. La nostra azienda non farà più pubblicità sugli impianti stradali".
Il Campidoglio che fa? Le ditte che deturpano la città con impianti pubblicitari oltre misura riceveranno stangate fino a 13mila euro. Il provvedimento, inserito nella finanziaria su richiesta del Pd, è in vigore da poco. Le multe sono passate dalla vecchia tariffa, compresa fra i 148 e i 594 euro, alla nuova che va dai 1.376 euro fino a un massimo di 13.765. "Ora - afferma Athos De Luca, vicepresidente della commissione comunale Ambiente - il sindaco Alemanno deve emanare una direttiva precisa ai comandanti dei vigili urbani, perché si impegnino in modo serio e capillare per la repressione dei cartelloni abusivi".
Altre volte il decoro di Roma è offeso da episodi bizzarri. Sembrano fioriere ma, al posto dei ciclamini o delle rose, nella terra dei vasi sono piantati pali che sorreggono cartelloni pubblicitari. Dopo i maxi impianti, ecco le affissioni mobili. Hanno campeggiato nelle piazze storiche: da piazza di Spagna a campo dè Fiori, da largo Chigi a ponte Risorgimento, fino alla zona di Belle Arti. Sul vaso in granito era attaccata una targhetta con su scritto, a mano e a pennarello, la zona di collocazione e un codice, "0149", che però non era inserito nell'elenco delle ditte pubblicitarie sul sito web del Comune. Sono stati proprio i "vasi pubblicitari" a scatenare la rivolta. "Ci avevano assicurato la rimozione - spiega Roberto Tomassi del comitato Cartellopoli - ma alcuni sono stati spostati dal centro storico alla zona dei Parioli, mentre altri sono ancora nelle vie più prestigiose di Roma".
Ma vediamo il nuovo piano regolatore dei cartelloni messo nero su bianco dal Campidoglio. La prima novità è quella di far diventare il centro storico, tutta l'area dentro le Mura Aureliane, off-limit per i poster. "Ce lo hanno chiesto le sovrintendenze - spiega l'assessore al Commercio Davide Bordoni - dunque procederemo immediatamente con le rimozioni di ciò che non è consentito dal piano". Nell'area centrale di Roma, intorno al complesso di San Paolo Fuori le Mura e nelle zone extraterritoriali del Vaticano, tutte patrimonio dell'Unesco, saranno permessi solo impianti definiti di pubblica utilità, vale a dire orologi, che però verranno ridotti di numero, e affissioni Spqr. I cosiddetti parapedonali, cioè le pubblicità "1x1" attaccate sulle transenne metalliche lungo i marciapiedi, verranno rimossi. "Per eliminare completamente la piaga di cartellone selvaggio serve un'attività di intelligence - afferma il sindaco Gianni Alemanno -. Per questo abbiamo chiesto aiuto alla Guardia di Finanza". Secondo il sindaco si prefigurano due diversi reati: l'evasione fiscale per la mancanza di fatturazione e quello, più grave, di truffa: "Se un'azienda raccoglie pubblicità e ne mette una parte su cartelloni abusivi, allora questa è una vera e propria truffa".
Altre regole del nuovo piano. Viene confermato il "4x3" come formato massimo consentito, ma adesso l'installazione sarà possibile solo fuori dell'anello ferroviario. Proibito l'uso di strutture scadenti, ad esempio di vetroresina, obbligo di utilizzo di materiali ecocompatibili. Inoltre le tipologie di cartellone consentite vengono ridotte da 27 a 7, mentre l'estensione massima della pubblicità a Roma passa da 320mila metri quadrati a 162mila, con una riduzione del 49 per cento, anche se adesso la banca dati del Comune ne ha censiti 220mila. La Capitale viene divisa in due parti: la zona A, con 82mila ettari di territorio non urbanizzato e 11.700 di urbanizzato, dove vige il divieto di installazione; la zona B, pari a 45.300 ettari di territorio urbanizzato, dove l'installazione è permessa ma regolamentata. Divieto assoluto, oltre che nelle aree regionali protette, nella riserva statale del litorale, nella tenuta di Castelporziano, nell'Agro romano, lungo i muraglioni e le rive del Tevere, sugli arenili, nei parchi e nelle ville storiche, lungo le mura e gli acquedotti storici. I municipi di centrosinistra sono contro. La definiscono "un'operazione di facciata", il cui risultato "sarà l'approvazione finale di un nuovo complesso di regole, codicilli, tipologie, zonizzazioni e ambiti senza alcun effetto pratico", come spiega Antonella De Giusti, presidente del municipio XVII, uno dei più colpiti dal fenomeno dei cartelloni abusivi. E aggiunge: "Una volta ci siamo ritrovati perfino nove enormi cartelloni installati sui marciapiedi appena rifatti davanti alle Mura Vaticane, uno scempio".
Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, denuncia: "Ormai invadono le aree più belle e quindi più redditizie, l'Appia Antica, le consolari, il parco della Marcigliana, la zona Flaminia-Grottarossa. L'allarme lo lanciò anche l'ex soprintendente archeologico Adriano La Regina. La legge per cui abbiamo raccolto le firme con i comitati di Cartellopoli li vieta nelle aree vincolate e in quelle pericolose per il traffico. Il piano regolatore del Comune li vieta in centro, ma in periferia, con l'indice di massima occupabilità, i metri quadrati di pubblicità addirittura aumentano". Non manca il racconto drammatico di Daniela Valentini, oggi consigliere regionale del Pd ed ex assessore al Commercio e alle Affissioni della giunta Veltroni: "Ho fatto rimuovere 25mila cartelloni abusivi, facendo una guerra aperta a questo fenomeno e ho ricevuto denunce e minacce. Anche Veltroni è stato minacciato di morte".
Ora il piano, dopo le osservazioni dei municipi, è tornato in commissione, dove verrà modificato prima di arrivare all'approvazione del consiglio comunale. Dopo la stesura finale i risultati, oltre quelli già detti, secondo il Campidoglio, dovrebbero essere questi: oggi sono censiti in banca dati 220mila metri quadrati di impianti pubblicitari. Il piano approvato ne prevede solo 162mila: il 27 per cento in meno di quelli esistenti e il 49 per cento in meno rispetto a quanto consentito adesso. Ancora. Secondo i dati del Comune, fino al 30 settembre 2011 sono state eseguite 3.700 rimozioni di impianti abusivi. E per quanto riguarda le multe, 3.300 sono state fatte per i cartelloni fuorilegge e 2.500 per i manifesti. Nel frattempo prosegue l'assalto. Vergognoso lo scenario sulla circonvallazione Gianicolense: sei mega manifesti sono attaccati al muro modello "poster" sopra l'ingresso della stazione Trastevere, accompagnati da altri quattro cartelloni installati sul marciapiede. Da qui fino all'incrocio con via Ottavio Gasparri, 57 strutture occupano i marciapiedi vicino alle fermate del tram. Sei maxi affissioni deturpano piazzale Enrico Dunant e altre sette riempiono il primo tratto di via Quirino Majorana. Ma l'apice si tocca a piazza San Giovanni di Dio: una muraglia di nove impianti nasconde i banchi del mercato rionale. Nelle immagini di Google Street del 2008 se ne contavano solo tre. Però non si fermano nemmeno i blitz di chi combatte gli impianti fuorilegge: c'è chi attacca stencil con la scritta "abusivo" e chi con macchina fotografica alla mano denuncia sui blog lo scempio. E ci sono gli "holebuster", i "tappabuchi", ovvero cittadini che riempiono di cemento i buchi fatti di nascosto dalle ditte per installare impianti irregolari.
Ma Cartellopoli finisce anche in Parlamento. Dopo l'invio delle cartoline "Saluti da Roma", con le immagini dei monumenti deturpati dai maxi-impianti, al presidente della Repubblica, ai ministri e a tutti i deputati, ora sono pronte due interrogazioni parlamentari. Una è rivolta dalla deputata del Pd Giovanna Melandri al ministro dei Beni culturali per chiedere se "vista la grave situazione romana", abbia sollecitato le Soprintendenze a intervenire. L'altra è diretta al ministro dei Trasporti perché "il settore delle affissioni determina rischi per la sicurezza stradale e l'incolumità pubblica".
E alla fine arriva l'altolà di Alemanno: «Dietro le affissioni illegali a Roma esiste un mercato clandestino, una struttura mafiosa e parallela alle istituzioni che va estirpata con una vera e propria inchiesta». Va giù duro il sindaco di Roma Gianni Alemanno durante la presentazione della prima Giornata del decoro urbano che ha toccato anche il tema dei cartelloni abusivi. «Non basta rimuovere le affissioni, visto che se ne togliamo una il giorno dopo ne spuntano due; bisogna sradicare il fenomeno alla radice. La prossima settimana – continua il sindaco – presenteremo una nuova struttura della Polizia Municipale che vedrà l’arrivo di un terzo vicecomandante, Antonio Di Maggio. A lui sarà affidato il compito di contrastare questo fenomeno: bisogna rompere le mani a chi fa questi giochetti». Un fenomeno che Roma Capitale ha provato ad arginare anche in passato con l’aiuto di altre forze, a quanto pare senza risultati apprezzabili, forse dovuti alla sottovalutazione del problema. «Abbiamo tentato una collaborazione con la Guardia di Finanza, ma senza trovare sponde utili ad approfondire e a reprimere. In mancanza di aiuti validi, si è deciso di fare da soli, e di condurre questa campagna con le nostre forze. Dobbiamo sradicare il fenomeno dei cartelloni abusivi a Roma e per questo ho dato mandato al vicecomandante della Polizia Municipale, Antonio Di Maggio, di svolgere una grande inchiesta contro la cartellonistica abusiva, dietro la quale c'è una vera e propria mafia. Il fenomeno che dobbiamo sradicare non riguarda solo qualche piccolo imprenditore abusivo ma qualcosa di più vasto, un mercato parallelo che rappresenta una vera e propria organizzazione mafiosa. Un problema per il quale pensavo che, affidandolo alle forze dell'ordine dello Stato, si riuscisse a trovare una soluzione. Invece dobbiamo fare da soli: la polizia municipale avrà questo compito preciso perché il meccanismo ripetitivo e costante con cui appaiono i cartelloni abusivi è davvero inquietante. Romperemo le mani a chi fa questi giochetti».
"SINDACO COMPLICE": Ad accusare il Primo cittadino di essere complice di chi sta dietro al fenomeno delle affissioni abusive sono i Radicali. «Alemanno e l'assessore Bordoni, dopo tre anni di governo, hanno fatto un atto da sceriffi staccando i manifesti. Ma questo mi fa sorridere, perché nel 2009 io stesso inviai un atto di diffida e di messa in mora proprio in riferimento al problema delle affissioni - dice il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, nel corso della conferenza stampa sui danni da affissione abusiva a Roma. - Da parte del sindaco e dell'assessore - ha aggiunto - c'é una complicità e una collaborazione oggettiva e consapevole, è un'associazione a delinquere che vede coinvolti gruppi consiliari ed associazioni di attacchinaggio, le stesse che deturpano la città in periodo elettorale». Staderini e il segretario romano del partito, Riccardo Magi, hanno annunciato due denunce alla magistratura: una alla Procura per omissione di atti d'ufficio e per eventuali abusi d'ufficio da parte del sindaco Gianni Alemanno, poiché, come sottolineato da Staderini, tra le affissioni irregolari ve ne sono alcune di personalità istituzionali, tra cui il sindaco stesso. La seconda denuncia è alla Corte dei Conti e vi si ipotizza un danno erariale da mancati introiti. "Sono spazi - ha detto ancora Staderini - che riguardano le attività commerciali, ma è anche un furto di democrazia, perché si toglie a noi radicali, che non facciamo affisioni abusive, la possibilità di rendere note le nostre idee. Tutti i partiti sono coinvolti in questo furto di democrazia e da oggi i radicali sono in mobilitazione permanente per ripristinare la legalità". Staderini, mostrando un dossier fotografico, ha voluto sottolineare alcuni casi: quello del consigliere comunale Francesco De Micheli (Pdl), che ha "tappezzato Roma con i suoi poster a favore di Berlusconi e al quale chiediamo di andare in Comune a pagare almeno 10 mila euro e la sanzione". Ma non sono da meno alcuni espondenti dell'area opposta. C'è un manifesto di Marroni, Miccoli e Gasbarra del Pd: "Ci facciano sapere quanto hanno pagato".
"SOTTRATTI MILIONI DI EURO AL COMUNE": Il segretario romano dei Radicali, Riccardo Magi, ha anche spiegato come a Roma «ci sono 2.674 spazi pubblicitari gestiti dal Comune tramite il dipartimento Attività economiche e produttive-Uo affissioni e pubblicità. L'affissione è a cura del Comune di Roma, cui vanno depositati i manifesti e pagati i diritti, tra i 3,5 e i cinque euro a spazio per 10 giorni. Il Comune timbra i manifesti regolari. Ma, a quanto risulta dai registri cronologici dell'ufficio Affissioni per gli anni 2010-2011, negli ultimi due anni non risulterebbero acquisti di spazi da parte dei partiti politici, salvo rarissime eccezioni. "La perdita di incasso, abbiamo calcolato - ha detto ancora Magi - è tra i 30 e i 40 mila euro al mese, tra i 330 e i 470 mila euro».
Basta prenderci in giro.
Tra le nuove regole per il decoro in città, come si sa, c'è anche l'inasprimento dei controlli e delle multe per chi affigge manifesti abusivi. Un modo per evitare l'invasione di manifesti selvaggi durante la campagna elettorale, peccato però che arrivi il condono preventivo. Lega Nord e Pdl hanno infatti presentato un emendamento al cosiddetto decreto milleproroghe. Si tratta della ormai tradizionale sanatoria che arriva proprio in piena campagna elettorale e che consentirà a chi affigge manifesti abusivi di chiudere la partita pagando 1000 euro per ogni provincia in cui è stata commessa l'infrazione. Un provvedimento simile era stato già varato negli anni scorsi e non è certo una novità. L'affissione abusiva, prima reato penale poi, nel 1994, declassata a semplice sanzione amministrativa, è da anni soggetta a diversi condoni, tutti ovviamente bipartisan. Il primo arrivò nel '96 sotto il governo di centrosinistra ma con l'appoggio dell'opposizione, poi fu la volta - era il 2001 - del centro destra di governo e un altro ancora arrivò nel 2005. Nel 2007 è arrivata l'idea di far pagare almeno le spese di defissone a chi attaccava dove non doveva. Ma, anche per questo provvedimento, immancabile, è arrivata la sanatoria. Stavolta il condono è preventivo e, a parte quella dei radicali, nessuna voce si è levata contro il nuovo sconto per chi imbratta. Oltre a danneggiare l'immagine e il decoro della nostra città chi attacca manifesti abusivi, cavandosela con un migliaio di euro di sanzione, reca un danno anche alle casse dei comuni che non solo devono spendere soldi per staccare la carta dai muri ma non possono nemmeno contare sulle entrate ricavate dalle sanzioni.
«Dossieraggio», «macchina del fango berlusconiana», «bufala colossale». Di fronte allo scandalo della nuova Affittopoli romana, il Partito democratico cerca di parare il colpo accusando gli altri, il centrodestra. Sono loro i fabbricatori del fango: Tg1, Tg5, stampa nemica, è l’accusa. Peccato che la notizia delle case low cost della Capitale fosse di dominio pubblico. Fa niente: è sempre colpa di Berlusconi. Conferenza stampa convocata in gran fretta nel quartier generale del Pd. Walter Veltroni, sindaco di Roma fino al 2008, cioè negli anni in cui è avvenuta la grande svendita, non c’è. Impegni inderogabili fuori città. Ma i suoi fedelissimi, il deputato ed ex capo segreteria Walter Verini, gli ex assessori al Bilancio, Marco Causi, all’Urbanistica, Roberto Morassut, alla Casa, Claudio Minelli, sono lì a spiegare che «abbiamo fatto tutto secondo le norme e sfidiamo chiunque a trovare irregolarità». Verini attacca: «È la solita campagna mediatica». Sedi di associazioni a sezioni del Pd e di Sel? «Sì, è vero», ammette il segretario romano Marco Miccoli, «però su 150 circoli, solo 7 sono ospitati negli spazi riservati alle associazioni». Affittati con lo scontone dell’80% assicurato alle strutture con finalità sociali. Ad esempio, Pd e Anpi convivono a via dei Giubbonari, pieno centro, e il canone è low. Sull’Affittopoli e la Svendopoli capitolina dal 2007 ad oggi, comunque, parlerà l’indagine della procura, oltre a una commissione d’inchiesta ordinata dal sindaco, con al vertice Claudio De Rose, ex procuratore generale presso la Corte dei Conti. «Dovrà verificare», spiega l’assessore al Patrimonio, Alfredo Antoniozzi, «tutte le procedure messe in atto nella cessione del patrimonio. Soprattutto se le locazioni dei 1346 beni disponibili siano corrispondenti al valore degli immobili, tenuto conto, però, delle fasce deboli». In tribunale, intanto, è già aperto un fascicolo per abuso d’ufficio, per ora a carico di ignoti. Si indaga per truffa alla pubblica amministrazione. Alle forze dell’ordine gli elenchi completi di Comune e Regione. In 94 casi si è ricorsi ad asta pubblica. E qui il nome che ha destato più clamore è quello di Gabriele Visco, figlio dell’ex ministro delle Finanze. Visco jr è riuscito a prendere una signora casa (154 metri quadrati più cantina) in via Monte della Farina, posto super chic di Roma, a soli 910mila euro, un quarto del prezzo di mercato. «Ho presentato l’offerta migliore per una casa che era perfino occupata», ha tagliato corto. E continua a difendersi, attaccando Libero, autore di quest’articolo, anche la senatrice Anna Finocchiaro, che pur non essendo notaio si è aggiudicata un appartamento riservato solo ai notai, per di più pagando il 30 per cento in meno del valore di mercato.
Non Basta. Una parentopoli non si nega a nessuno, scrive Laura Serafini su "Il Sole 24ore". Ciò risulta da tutti i giornali. E così, all'indomani della bufera che ha investito la giunta di Gianni Alemanno per le duemila assunzioni di parenti e amici fatte in Ama e in Atac, emergono i primi nomi anche in Acea. Il fenomeno è più contenuto rispetto alle altre municipalizzate, perché la società è quotata e ci sono i soci privati Gdf-Suez e Francesco Gaetano Caltagirone a vigilare. Ma è presente anche lì. Nel frattempo in Atac si lavora per allontanare il rischio del default e si guarda a una nuova bomba che potrebbe scoppiare: quella degli affidamenti senza gara, come l'esternalizzazione della manutenzione e dei pezzi di ricambio degli autobus (del valore di decine di milioni di euro) decisi nell'ultimo biennio, ma che hanno fatto solo lievitare i costi. Ma andiamo per gradi.
Anche in Acea le assunzioni funzionano a chiamata diretta. I primi nominativi che emergono fotografano un fenomeno già visto in Ama e Atac – sulle quali, oltre alla procura di Roma, ha avviato un'inchiesta anche la Corte dei Conti – che vede i rappresentati sindacali sistemare il parentado: il segretario Uilcem Giancarlo Balla, dipendente della società, ha visto assumere in azienda la figlia, Venere Balla, ma anche la moglie del figlio, la rumena Georgeta Mihalcea, entrata in Ato2. Un esponente della segreteria Uilcem ha visto arruolare il figlio, Piero Lupi; stessa cosa ha ottenuto un ex segretario Uilcem, Luigi Brattanelli (ora in pensione e militante di An), con il figlio Pierluigi Brattanelli. E ancora: assunto è anche il figlio dell'ex presidente del dopolavoro Acea (di area Cisl), Marco Carlini. C'è il caso più celebre di Camillo Toro, figlio dell'ex pm della procura di Roma Achille Toro, entrambi finiti nell'inchiesta sulla "cricca". Poi c'è un filone più familiare: Annunziata Bauco, che lavora presso la direzione del personale, ha perorato la causa dell'assunzione della sorella Antonella Bauco. Nel call center Acea 800 lavora anche Alessia Petrangeli, nipote di Adolfo Spaziani, responsabile di Acea Energia nonché direttore generale di Federutility. Rita Bizzoni, moglie del segretario nazionale del Sunia, Luigi Pallotta, è dirigente di Acea 800: qui sono stati assunti la segretaria di Pallotta e suo marito. Lucia Pitzurra, già impiegata nell'area legale di Acea, era stata chiamata dalla giunta Storace a fare il garante regionale del servizio idrico: ora è ritornata in Acea, ma con l'incarico di quadro ed è nello staff del presidente Giancarlo Cremonesi.
Torniamo all'Atac. Il nuovo ad, Maurizio Basile, si è concentrato sinora sulle misure per evitare il default, perché le perdite a fine ottobre, pari a 120 milioni, hanno superato un terzo del capitale: il cda ha delegato il presidente a convocare un'assemblea per ricostituire il capitale. L'ipotesi più accreditata è che il Comune conferisca nella società gli immobili di Atac Patrimonio. Il cda ha deliberato la cessione pro-solvendo di circa 350 milioni di crediti verso Regione e Comune: l'acquirente è Unicredit, che ha rilevato a sconto quel credito, anticipando cassa per 200-300 milioni all'Atac. I problemi sulla strada del rilancio, comunque, non sono legati alle assunzioni facili. Nel mirino ci sono gli affidamenti diretti, due in particolare, sulla manutenzione e sui pezzi di ricambio degli autobus. «Ogni giorno 380 mezzi escono dal deposito e si fermano quasi subito per guasti» denuncia il consigliere comunale del Pd, Athos De Luca. La manutenzione è stata esternalizzata per risparmiare ma, fatto inspiegabile, gli addetti sono rimasti in carico all'Atac. Il fornitore (in affidamento) dei pezzi di ricambio non fornisce ricambi originali, ufficialmente per ridurre i costi: in realtà quei pezzi mal si adattano agli automezzi che si guastano in continuazione garantendo lavoro all'affidatario delle manutenzione.
"Mi ero dimenticato di essere stato al matrimonio della figlia del mio ex caposcorta. Mi capita anche questo". Gianni Alemanno punta tutto sul "vuoto di memoria", scrive Mauro Favale su "La Repubblica". Una difesa che arriva mentre sulla sua testa infuria la polemica, con il vice capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, che chiede le sue "dimissioni" o almeno "l'impeachment". In occasione delle dimissioni di Giancarlo Marinelli, per otto anni caposcorta di Alemanno, il sindaco aveva specificato: "Non mi occupo di assunzioni e poi non ricordavo neanche che quell'agente di polizia avesse una figlia". Ilaria, nello specifico, assunta in Ama per chiamata diretta. Al cui matrimonio, invece, Alemanno ha partecipato con la moglie Isabella Rauti, come testimoniano alcune foto sul profilo Facebook di Giorgio Marinelli, figlio dell'ex caposcorta del sindaco. "Negli Usa, se il responsabile di fatti di questa natura non si dimette scatta l'impeachment", attacca Zanda. Gli fa eco Vannino Chiti, coordinatore dei democratici in regione: "Alemanno ha il dovere di rendere conto di atti gravi che riguardano la sua amministrazione, non solo ai romani, ma a tutti gli italiani". Alle accuse il sindaco replica così: "Tutto questo affare mi sembra una montatura eccessiva. Si sta cercando di montare un caso che diventa un vero e proprio attacco politico". Poi annuncia "altre inchieste all'interno delle altre municipalizzate" perché "non abbiamo nulla da nascondere e vogliamo la massima chiarezza". Ma sulle altre aziende da Acea a Ater, il senatore dell'Idv Stefano Pedica accusa: "È una vera tangentopoli: ci sono dentro favori, voti di scambio, di tutto. E non solo ad Ama e Atac, ma anche Acea e Ater. Tutte le società di Comune, Provincia e Regione sono in qualche modo legate a questo sistema".
Ma non è il solo scandalo politico che a scosso Roma.
Piero Marrazzo, governatore dimissionario del Lazio del PD, è un cocainomane. Lo ammette, nel suo secondo interrogatorio, correggendo quel che ha detto nel primo. La cocaina sul tavolo, ripresa in segreto dal cellulare di carabinieri furfanti, era sua, scrive Giuseppe D'Avanzo su "La Repubblica".
L'aveva comprata e non è vero che quella polvere bianca era stata sistemata dai militari che si erano introdotti nell'appartamento con la forza. Un altro frammento di verità. Un'altra ammissione. Viene da chiedersi: ci sono altre confessioni? Marrazzo ha davvero e finalmente detto tutto? Perché a tornare indietro con la memoria, del governatore si ricordano soltanto omissioni, mezze verità, frottole. E' già nota la notizia dei carabinieri ricattatori, dell'esistenza di un video compromettente: Marrazzo si presenta davanti alle telecamere per dire che è tutta "una bufala", che "il video non esiste" e, se esiste, "è manipolato".
Una "verità" che regge per poche ore. Il video c'è, lo ritrae con un viado, dinanzi al tavolo con cocaina e denaro. Nuova versione. È vero, ero in quell'appartamento con Natalì (il viado), ma non c'era droga. La droga ce l'hanno messa quelle canaglie dei carabinieri per rovinarlo, per estorcergli del denaro. È il 22 novembre. In quelle ore appare chiaro, come osserva Repubblica, che sono necessarie e improrogabili le dimissioni del governatore e non per le sue debolezze private, ma per quel suo comportamento di chi non dice e sembra non voler dire quel che è accaduto.
Riprendiamo qualche argomento di allora. "Il governatore del Lazio non ha detto di essere stato ricattato né tantomeno ha denunciato l'estorsione, come avrebbe dovuto fare. Non ha detto di aver firmato assegni - ai carabinieri che lo minacciavano - per evitare che scoppiasse uno scandalo. Ora che lo scandalo è esploso, non dice che cosa è accaduto e non sembra disposto ad ammettere le sue responsabilità. Marrazzo sembra non comprendere che gli scandali sono lotte per il potere proprio perché mettono in gioco la reputazione personale di chi governa e la fiducia di chi è governato.
Marrazzo si protegge da ogni interrogativo agitando le ragioni della privacy. Come se questa formula magica - la mia privacy - potesse evitargli quella che, altrove, chiamano "valutazione di vulnerabilità": quanto le sue decisioni possono essere libere dalle pressioni o dai ricatti ai quali lo espone la sua scapestrata vita privata? Nel pasticcio in cui si è cacciato, il governatore ha solo una strada davanti a sé. Obbligata ed esclusiva: assumersi la responsabilità della verità. Non c'è e non può essercene un'altra, meno che mai il farfuglio di mezze verità e menzogne intere che Marrazzo ha sfoggiato".
Siamo, più o meno, ancora a questo punto. Purtroppo. Il governatore sostiene di non aver nemmeno compreso di essere vittima di un ricatto. Giovedì scorso, ha raccontato - in via privata - qualcosa in più: quei due carabinieri mi hanno sbattuto contro un muro; mi hanno costretto a calare i pantaloni; poi mi hanno portato via il denaro, ho pensato a una rapina; sì, ho firmato gli assegni, ma poi li ho fatti bloccare dalla banca, quelli non si sono fatti più vivi, così non ho più pensato alla "cosa".
Se quel che si sa a quest'ora è corretto, è una ricostruzione che ha molte, troppe smagliature. Nel video, anche se confusamente, si ascolta Marrazzo implorare i carabinieri di "non rovinarlo", promette loro denaro e favori. Ora che accade, secondo il governatore? Quelli arraffano 5.000 euro in contati dal tavolo (denaro per la cocaina e per il sesso) e tre assegni per 20 mila euro (che non incasseranno mai) e vanno via senza farsi più vedere e sentire. Seguiamo ora i carabinieri. Sono convinti di fare un po' di grana vendendo il video girato segretamente. Quanto? 40/50 mila euro da spillare nell'industria editoriale degli scandali. E perché non chiederli a Marrazzo, senza complicarsi tanto la vita o affidare il proprio destino professionale a gente che non conoscono?
Questo per i carabinieri: più che canaglie appaiono degli idioti degni di un film di Joel ed Ethan Coen.
Marrazzo non è da meno. Subisce un'aggressione, lo sorprendono con il naso incipriato in casa di un viado e pensa di essersela cavata con 5.000 euro e la furbata degli assegni firmati e poi bloccati. E tuttavia, ammettiamo per un attimo che le cose stiano così, che cosa pensa, dice e fa Marrazzo quando il 19 ottobre gli telefona Berlusconi? Che cosa gli dice il capo del governo? È vero, che gli consiglia di rivolgersi ad Alfonso Signorini e - come riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai". In quel momento, chiunque, al posto di Marrazzo, avrebbe capito che la sua carriera politica era al capolinea. Come può pensare un governatore di continuare il suo lavoro correttamente dopo che deve la salvezza al maggior imprenditore della sanità? Come è evidente, ci sono ancora angoli di questo affaire da chiarire.
Il suo nome è Gianguarino Cafasso, Rino per gli amici. Nato a Salerno nel ´73, di professione pusher dei vip di Roma Nord, frequentatore abituale di transessuali. È lui la figura-chiave dell´inchiesta a base di ricatti e video hard che ha travolto Piero Marrazzo. Lui il principio di tutto, scrive Giovanna Vitale su "La Repubblica".
Lo spacciatore che il 3 luglio 2009 portò la droga a casa di Natalì prima del rendez-vous con il governatore e la famosa irruzione dei carabinieri infedeli. Il primo che, neppure quindici giorni più tardi, tentò di vendere il «filmato che è una bomba» a Libero per 500mila euro. Custode dei segreti ancora inconfessati di un'indagine con troppe ombre e altrettante contraddizioni. Che però Cafasso non potrà più raccontare. Il 12 settembre - due mesi e mezzo dopo il blitz in via Gradoli - è stato trovato morto in un motel sulla Salaria.
«Arresto cardiaco» è stata la diagnosi, decesso subito archiviato come uno dei tanti tossicomani stroncati da overdose. Eppure Cafasso sapeva di essere al centro di tutto, motore di una macchina del fango che aveva preso a girare più veloce di lui, e aveva paura. Lo aveva confessato alle due croniste contattate per l'acquisto del video su Marrazzo, il trans e la polvere bianca: «Io incasso i soldi e poi vado via, ho già pronti i documenti per scappare, perché se sto qui mi fanno fuori (...) Ho in mano mezza Roma, so delle cose che... io li posso rovinare, c'ho dei clienti fra i politici che se ve lo dico...». Una dichiarazione sibillina e tuttavia chiarissima.
In questa oscura vicenda muore anche il trans “Brenda”.
«È un fatto inquietante, un fatto veramente inquietante. Non posso pensare che la settimana scorsa questa persona è stata aggredita e rapinata e da poche ore è morta bruciata». Così ha detto l’avvocato Luca Petrucci, legale di Piero Marrazzo, rispetto al decesso avvenuto il 20 novembre 2009 del trans Brenda. «Vanno approfondite le cause, capire cosa c’è dietro. Anche se non ho nessun elemento per aggiungere qualcosa in più, se non quello che apprendo dai media, dico che forse le indagini stanno scoperchiando un sistema simile a quello della Uno bianca, dove si mettevano tra l’altro a tacere i testimoni. In questo senso ritengo giusto mettere sotto protezione Natalì», l’altro transessuale testimone del blitz di cui è stato vittima Marrazzo.
«L’hanno ammazzata, non so chi. Stava male psicologicamente, voleva tornare in Brasile: ora devono trovare chi ha fatto tutto questo» scrive "La Repubblica" ed "Il Corriere della Sera". E' visibilmente scossa, Barbara, un transessuale brasiliano amico di Brenda. «Ieri con Brenda ci siamo incontrati in un parcheggio, - prosegue- abbiamo bevuto un bicchiere di Ballantynès, poi lo abbiamo lasciato in casa a vedere la televisione», dice Barbara. Il trans brasiliano ha affermato inoltre che «nè Polizia nè Carabinieri hanno fatto nulla» spiegando che «tutti i trans che abitano in questa zona sono a rischio di morte, abbiamo molta paura dei romeni».
L’ex presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, nel corso della sua testimonianza il 2 novembre 2009, spiegò agli inquirenti della Procura di Roma di aver avuto pochi incontri con Brenda, forse due. In un passaggio dell’audizione Marrazzo ha spiegato di non essere a conoscenza «di video o foto scattate da Brenda in occasione di questi incontri, ma il mio stato confusionale negli stessi, dovuto all’assunzione occasionale della cocaina, non mi mette nelle condizioni di saperlo». E comunque l’ex governatore chiarì: «Nè Brenda nè Natalie mi hanno mai chiesto del denaro o ricattato in relazione a foto o video che mi ritraevano».
Secondo Imma Battaglia, presidente di Gay Project, «nella morte di Brenda c'è molto di più della transfobia. Qui c'è la commistione di vicende criminali, di marginalità sociale, di sfruttamento, di corruzione, di ipocrisia della politica. Questa è una brutta e oscura storia che ha oggi il volto di una vittima sulla cui morte occorre fare rapidamente chiarezza ed evitare manipolazioni o strumentalizzazioni».
Anche Vladimir Luxuria non crede all'ipotesi del suicidio: «Brenda non si è suicidata, poteva essere vista come una persona troppo scomoda. Confido nelle indagini, tuttavia so in cuor mio che di suicidio non si è trattato, perché sono successe troppe cose che mi lasciano perplessa sulla casualità. Pochi giorni fa era stata picchiata e le hanno sottratto il cellulare con tutti i numeri e i messaggi. Mi viene il sospetto che probabilmente qualcuno sapeva che Brenda sapeva. Forse c'era qualche altro nome di politico importante che frequentava. Chi ha vissuto e visto come è stato trattato Marrazzo poteva temere molto per sé e la sua carriera».
Sulla vicenda è intervenuto anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «Evidentemente qualcuno le ha voluto tappare la bocca per evitare che dicesse tutto quello che sapeva. Evidentemente non solo Marrazzo aveva frequentato via Gradoli. Questa seconda repubblica è marcia e con essa parte della sua classe dirigente: i mandanti vanno cercati in alto».
PUBBLICA INSICUREZZA
ROMA: IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI
UNA STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA:
Le vittime dell'omicidio Simonetta Cesaroni.
Raniero Busco è innocente. Oggi, venerdì 27 aprile 2012, la prima Corte d’assise d’appello di Roma lo ha assolto dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, la sua ex fidanzata. Lacrime in aula. Applausi fuori dal tribunale. È stata così ribaltata la sentenza di corte d’assise che soltanto il 26 gennaio 2011 aveva condannato l’imputato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. Questa è la giustizia italiana: aspetta 22 anni (il delitto di via Poma risale al 7 agosto 1990) per accusare e condannare un presunto colpevole, ma poi è capace di assolverlo appena 13 mesi dopo. E meno male!! Merito dei media e degli avvocati di chiara fama e elevata stima giudiziaria. Oneri ed onori che però non valgono per tutti. In mezzo, il sospettato ha trascorso oltre 8 mila giorni d’inferno, spesso alla gogna. E ora si vedrà se ci sarà un terzo grado di giudizio, e a che cosa mai potrà portare.
Questa incoerenza è una caratteristica purtroppo sempre più frequente della cronaca nera italiana. Perché, insieme a quella di Simonetta Cesaroni, troppe altre vicende giudiziarie restano senza un colpevole certificato. Per media e magistratura basta trovare un colpevole, non il colpevole. Fa niente se sono persone, quelle da triturare, e non semplici fascicoli giudiziaria. Troppi omicidi restano senza nemmeno un indagato. Il caso di Yara Gambirasio è aperto dal 26 novembre 2010, quando la ragazza è scomparsa per poi essere ritrovata cadavere in un campo, e da allora lo stillicidio di notizie spesso contraddittorie è insopportabile: ora si sarebbe scoperto (?) del liquido seminale sugli slip della povera ragazza. Chissà. Ma restano senza alcuna giustizia anche Chiara Poggi e, in parte, Meredith Kercher. Colpa di inquirenti inadeguati? E di chi, sennò?
La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia. L’intervista a Raniero Busco rilasciata il 29 aprile 2012 a Maurizio Gallo e pubblicata su “Il Tempo” di Roma: l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni racconta la tortura di un innocente.
C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato.
Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...».
Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento».
Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiacchierare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori».
Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli».
Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodio gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro».
Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?».
Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi addosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...».
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.
La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.
Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.
Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.
All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».
Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.
Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.
Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.
IL FALLIMENTO DELLO STATO DI DIRITTO
Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato. Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi. LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo. Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.
Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».
Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -. Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?
Innocente in cella per 11 mesi. Tre colpi al supermarket in un mese, ma il colpevole non era Manolo Zioni. Il vero rapinatore ha già confessato da mesi, eppure il giovane è stato assolto, con formula piena, dopo mesi. Da “La Repubblica”.
Quasi un anno dietro le sbarre, urlando la propria innocenza. Undici mesi di galera, ma non era lui il rapinatore. Quello dei tre colpi al supermarket in un solo mese, protagonista di un video ribattezzato dal web "Tre rapine con affetto". Non era Manolo Zioni, il ragazzo con il casco, immortalato dalle telecamere a circuito chiuso della Sma intorno a via Mattia Battistini, mentre saluta con una pacca affettuosa il cassiere che gli ha appena consegnato i soldi. Il vero colpevole ha già confessato da mesi, eppure il giovane, un 23enne di Primavalle, è stato assolto, con formula piena, soltanto il 26 settembre 2011. Finito a processo per colpa di una perizia sbagliata e finalmente scagionato grazie a una seconda relazione dei carabinieri del Ris. Questi gli ingredienti di una follia giudiziaria che ha tenuto in cella per 350 giorni un innocente. Ad inchiodare il ragazzo, finito in manette il 21 settembre del 2010 e tornato libero il 6 settembre 2011, le immagini video girate nel supermercato dove una semplice ombra sarebbe stata scambiata con il tatuaggio che il giovane ha sul collo. A nulla sono valse le testimonianze rese dalle vittime che lo hanno indicato come innocente. Contro di lui anche le analisi dei tabulati telefonici nei tre giorni delle rapine: il suo telefonino si agganciava proprio alla cella che serve la zona del supermercato. "Il nostro assistito abita in quel quartiere", hanno chiarito gli avvocati Alberto De Luca e Fabio Menichetti. "Siamo contenti per l'esito del processo - hanno dichiarato - ma siamo rimasti meravigliati da una certa superficialità della Scientifica".
Omicidi di Stato e di Stampa.
La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.
IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.
"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.
''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.
''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.
Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.
Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.
"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."
Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.
LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.
Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.
Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.
NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.
Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.
Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.
Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.
A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.
A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.
Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.
Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.
Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.
A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.
SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA , E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.
Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.
Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.
Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.
Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
laria Cucchi querelata. E, purtroppo, poco sorprendentemente, a sporgere denuncia per diffamazione è stato il Coisp, il piccolo sindacato di polizia finito agli onori delle cronache già l'anno scorso, quando organizzò una manifestazione in solidarietà agli agenti di Ferrara che uccisero Federico Aldrovandi proprio sotto gli uffici della madre della vittima. Ora, il sindacato, se la prende con la sorella del giovane Stefano Cucchi, il geometra romano morto in circostanze poco chiare qualche giorno dopo l'arresto. Un mese fa, anche i tre agenti assolti in primo grado per la morte del ragazzo avevano deciso di querelare Ilaria per alcune sue dichiarazioni. Così che adesso la donna si trova a dover rispondere dalle accuse mossegli dalla stessa Procura da lei più volte criticata. Interpellata riguardo la querela, comunque, la trentottenne non mostra segni di cedimento. "Lo considero un vero e proprio atto intimidatorio", ha infatti commentato al Fatto Quotidiano. "Se pensano che questo possa in qualche modo fermarmi nella mia battaglia di verità e per il rispetto dei diritti civili si sbagliano di grosso. Spero che la giustizia faccia il suo corso, ma che lo faccia in fretta. Credo di avere il diritto di chiederlo come cittadina e come tutti i cittadini”.
«Ebbene si! Sono sono sottoposta ad indagini dalla procura della Repubblica di Roma. Mi ha querelato il signor Maccari del sindacato della polizia di Stato COISP». Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi. «Sono indagata per aver offeso l'onore della Polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte - si legge -. Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato. Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello. Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia. Io voglio confessare tutto, ogni cosa. Queste morti offendono la Polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti». «Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Federico Perna, Gabriele Sandri e tanti tanti altri non dovevano morire. No. È colpa loro se è stato offeso lo Stato. Stefano Cucchi è morto per essere stato portato nel Tribunale di piazzale Clodio, a Roma e poi all'ospedale Pertini. Stefano Cucchi non doveva morire. La colpa è sua se la polizia si sente offesa. È colpa mia. Voglio essere processata per questo. Questi padri figli fratelli non dovevano morire. E siccome sono morti noi famigliari dovevamo stare zitti. Il dolore e le tremende sofferenze alle quali sono stati sottoposti non sono importanti. No. Loro non dovevano morire e se sono morti è colpa loro. Tutta colpa loro. E noi tutti, soprattutto, dovevamo e dobbiamo stare zitti. Zitti. E ringraziare» conclude amareggiata Ilaria Cucchi. «Sono stata denunciata dal Coisp, dal signor Franco Maccari che oltre me hanno denunciato anche Lucia Uva e Ilaria Cucchi. Non so ancora per Quale reato sono stata denunciata, domani il mio avvocato Fabio Anselmo si recherà in procura a Roma per ritirare il fascicolo a mio carico. Questa per me è la prima denuncia se dire la verità costituisce reato, io andrò avanti a commettere reati, tanti reati, continuerò a dire la verità che tutti conosciamo. In Italia funziona così chi ammazza i nostri cari rivestendo una divisa, negando spudoratamente anche d'avanti ai giudici, dopo aver fatto un giuramento continua a lavorare e chi dice la verità viene denunciato. Non mi fermerò continuerò a dire la verità, non sono spaventata, vogliono condannarmi per aver detto la verità?, io mi assumo le mie responsabilità, non ho nulla da temere chi ha qualcosa da temere e chi indossa una divisa sporca di sangue. La divisa è sacra rappresenta lo stato,chi ha ucciso non è degno di indossare una divisa, deve essere butto fuori dalle istituzioni». Così in una nota Domenica Ferrulli, figlia di Michele,l'uomo di 51 anni morto il 30 giugno 2011 a Milano durante un arresto. "Conosco da anni Lucia Uva, Ilaria Cucchi e Domenica Ferrulli: da quando i loro familiari sono rimasti vittime di violenze da parte di membri di apparati dello Stato. Come so e come posso ne sostengo le richieste di accertamento della verità e la domanda di giustizia. In tutto questo tempo ho avuto modo di conoscere quanto sia esemplare la loro coscienza di cittadine che, nonostante le mille delusioni e le frequenti umiliazioni patite, continuano a credere nello stato democratico e nelle sue istituzioni. Dopo tanti anni di attese frustrate, queste tre "donne coraggio" si rivolgono ancora con fiducia ostinata ai tribunali della Repubblica. Contro di loro, un sindacatino fellone ha l'improntitudine di promuovere un'azione giudiziaria, cercando uno straccio di notorietà nell'infangare la memoria di tre vittime dello Stato e dei loro familiari. È proprio questo simil-sindacato a "vilipendere" la dignità delle istituzioni dello Stato democratico e a macchiare la divisa e i valori dei quali dovrebbe essere simbolo". Così il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, presidente della Commisisone Diritti Umani a Palazzo Madama.
Vergogna di Stato. Caso Uva, il pm è sotto inchiesta: "Aggressivo con l'unico testimone", scrive “La Repubblica”. L'operaio di Varese morì in ospedale dopo essere stato trattenuto per ore in caserma. A più di cinque anni di distanza il magistrato sente l'unico testimone. E il senatore Manconi, presidente dell'associazione "A buon diritto" lo accusa: "Ha avuto un atteggiamento intimidatorio". Ora la vicenda è al vaglio del Csm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare: Alberto Biggiogero. Il video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste. Il confronto tra Abate e Biggiogero è durato più di quattro ore, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere sé stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione. La convocazione di Biggiogero in Procura, lo scorso 26 novembre 2013, arriva proprio dopo che i due autonomi procedimenti. Il tribunale di Varese, nella sentenza con cui aveva assolto il medico del pronto soccorso dall'accusa di omicidio colposo, aveva chiesto di indagare su quanto accaduto in caserma "perché - scriveva - tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri". Indagini che secondo la Procura generale della Cassazione non sono state mai compiute dal pm Abate, che nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione per otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali in relazione alla morte di Uva. Ciò nonostante il gip varesino Giuseppe Battarino aveva configurato come sussistenti i reati di arresto abusivo e lesioni dolose in capo agli agenti, chiedendo al pm se c'erano anche altri reati. "Questo interrogatorio è stato fatto solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto', anche lui convocato in Procura per rendere conto delle sue dichiarazioni sui media in cui accusava il pm di indagini lacunose e parziali. Adesso il Csm si occuperà nuovamente del caso Uva. L'assemblea dovrà pronunciarsi su un altro esposto nei confronti del pm Abate. La denuncia riguarda l'iniziativa del pm che ha messo sotto indagine l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, per "poter acquisire informazioni sull'attività difensiva di quest'ultimo in favore dei propri assistiti". A presentarla sono state Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara nel 2005 durante un controllo di polizia, e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato per droga e morto una settimana dopo in ospedale. La prima commissione del Csm aveva chiesto al plenum di archiviare l'esposto con la motivazione che non ci sono provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto che si tratta di "censure ad attività giurisdizionale". Ma grazie a un intervento di Giovanna Di Rosa, togata di Unicost, la proposta è stata stralciata e messa all'ordine del giorno del plenum.
Da Cucchi ad Aldrovandi: l’onore non ha divise, scrive Giulia D’Argenio su “OrticaLab”. Il marciume che il Coisp vorrebbe celare va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Accusano Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Domenica Ferrulli, figlia di Michele, Lucia Uva, sorella di Giuseppe, di avere offeso l’onore della Polizia di Stato. Figlie e sorelle di uomini uccisi da uomini in divisa. La querela a carico delle tre donne è stata depositata dal signor Franco Maccari in nome e per conto del Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia, il Coisp. Insieme a loro, querelato anche Leonardo Fiorentini, consigliere di circoscrizione ferrarese, colpevole di essersi schierato al fianco Patrizia Moretti Aldrovandi, mamma di Federico, all’epoca della farsa posta in essere da un manipolo di iscritti al medesimo sindacato. Nel mese di marzo del 2013, infatti, un gruppo di aderenti al Coisp organizzò un sit-in sotto la finestra dell’ufficio comunale dove lavora Patrizia Moretti, una madre colpevole di avere chiesto verità e giustizia per il figlio. Una verità scomoda, perché ha coperto di vergogna, come in tanti altri casi di morti di Stato accertate, gli organi di Polizia. Con le sue azioni provocatorie, il coordinamento sindacale non ha certo contribuito alla causa né riabilitato quei corpi di polizia nell’interesse dei quali dichiara di agire. Perché, come ha scritto Ilaria Cucchi in risposta alla notizia del fascicolo aperto, a suo carico come di altri e per i medesimi motivi, presso la Procura della Repubblica di Roma, è “colpa loro se è stato offeso lo Stato”. E se la verità processuale ha assolto gli uomini in divisa sotto accusa per la morte di Stefano Cucchi e di Stefano Brunetti, il cui nome non ricorre in questa grottesca vicenda, mentre sono state archiviate le indagini sul caso Uva, a riprova di quell’offesa restano le morti violente di Aldrovandi, Ferrulli e di Riccardo Rasman, omone il cui nome Maccari ha scelto di lasciare in pace. Sono i responsabili di quei fatti ad aver disonorato le divise che portavano, in quanto tutori dell’ordine, perché sono stati loro, volontariamente e deliberatamente, a sporcarle di sangue, sentendosi titolari di un potere di vita o di morte su chi avevano di fronte. Quelle divise rappresentano il fondamento stesso della legittimità dello Stato, volendo fare un po’ di teoria politica spicciola. Oltraggiandole con la loro condotta hanno portato uno smacco alle stesse istituzioni che erano chiamati a tutelare, riempiendo di vergogna i loro colleghi. Senza voler celebrare eroi, perché un lavoro è un lavoro e lo si sceglie, accettandone tutti i rischi e i pericoli che lo connotano, senza voler giustificare né cercare alibi, è pur vero che quelle stesse uniformi sono portate anche da uomini e donne non avvezzi a un utilizzo gratuito della violenza. Persone che fanno quello stesso lavoro con correttezza, credendo nei principi che sono chiamati a tutelare e che le loro divise dovrebbero rappresentare. Perché ci sono anche agenti di polizia che hanno provato vergogna di fronte alle immagini della Diaz e ai quali si sono drizzati i peli della barba ad apprendere delle morti di Stato, come giornalisticamente si usa chiamarle. Se il Coisp con questa nuova farsa pensa di fare l’interesse della Polizia di Stato o di qualsiasi altro corpo si sbaglia. Perché è innegabile la presenza di mele marce al loro interno e, tanto quanto i criminali, i violenti, i facinorosi che caricano durante le manifestazioni, senza alcun rispetto per le regole, questo marciume va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Perché un agente di polizia non è certo immune dalla legge che dovrebbe far rispettare. Anzi. I tanti, troppi casi come quello di Cucchi, Aldrovandi, Ferrulli, Uva sono la prova di quanto urgente sia garantire il rispetto dell’elementare principio secondo il quale la “legge è uguale per tutti”, senza cedere a facili e inutili strumentalizzazioni, da nessuna parte. Il rispetto lo si guadagna sul campo. E ciò vale in ogni caso. Ostinarsi a coprire o negare simili vergogne è uno smacco per lo Stato stesso e per la sua legittimità.
Caso Cucchi: la Cassazione ordina un nuovo processo per l'agente assolto. La Suprema corte annulla l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane romano morto 4 anni fa, scrive Anna Maria Greco La Cassazione riapre il caso Cucchi: forse non furono solo i medici i responsabili della sua morte. Ma tornano nel mirino gli agenti delle forze dell'ordine. Succede che la Suprema corte annulli l'assoluzione in appello di Claudio Marchiandi, dirigente dell'amministrazione penitenziaria accusato di aver coperto il presunto pestaggio del giovane geometra romano morto 4 anni fa. E questo, facendolo ricoverare nel reparto «protetto» dell'ospedale Pertini (simile in tutto ad un carcere)e non in uno normale dove le sue lesioni sarebbero state forse curate meglio, ma sarebbero state anche più evidenti a tutti. La sentenza depositata in questi giorni alla Suprema Corte potrebbe pesare, nei prossimi mesi, sul processo d'appello conclusosi a giugno in Corte d'assise con la condanna per omicidio colposo di 5 dei 6 medici imputati (un altro fu condannato per falso ideologico) e l'assoluzione di tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. A fare ricorso in Cassazione è stato Eugenio Rubolino, per la procura generale presso la Corte d'appello di Roma. Non ha accettato la sentenza dell'aprile 2012 che riguarda solo il dirigente penitenziario Marchiandi, assolto dalle accuse di concorso in falsità ideologica in atto pubblico, abuso d'ufficio e favoreggiamento personale, con un ribaltamento della condanna del gup nel corso del giudizio abbreviato. Le tesi di Rubolino sono state completamente accolte dagli ermellini della quinta sezione penale, che hanno ordinato un nuovo processo d'appello, in una sezione diversa dalla precedente, che dovrà esprimersi « in piena libertà decisionale», scrivono nella sentenza. Motivo dell'annullamento i troppi «vizi» nel verdetto che faceva uscire di scena il funzionario del Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria (Prap). Vizi, si legge nella motivazione, «che inficiano alcuni passi di rilevante momento nel tessuto argomentativo della sentenza impugnata». In sostanza, per la Cassazione le carte dicono che Marchiandi avrebbe fatto pressioni sui medici del Pertini per far ricoverare Cucchi in un reparto il cui protocollo riguardava invece pazienti con patologie lievi, escludendo quelle più gravi, cioè «in situazioni cliniche di acuzie». Che interesse aveva a intervenire in questo modo, in un orario anche extralavorativo? Forse, quella di «far apparire soddisfatte le condizioni necessarie a giustificare il suo ricovero nella struttura protetta», quindi di minimizzare il vero stato di salute del paziente. E anche quella di assicurarsi che fosse assegnato alla struttura «protetta» e piantonato da agenti penitenziari e dove potevano non essere evidenti all'esterno i segni di un pestaggio? Per i giudici di secondo grado, Marchiandi non aveva interesse a sostenere il falso, perchè nulla sapeva delle reali condizioni di Cucchi , non avendolo neppure visto. Ma la Cassazione demolisce questo che è il secondo dei capisaldi della sentenza, affermando che in realtà tutte le notizie necessarie sulla salute di Cucchi gli erano state fornite dal direttore di Regina Coeli, a sua volta informato dal medico del carcere che le aveva ritenute « tanto gravi da richiederne il ricovero con urgenza». Viene contestato decisamente dalla Suprema Corte anche il terzo caposaldo, quello per cui far ricoverare Cucchi nella struttura protetta del Pertini non voleva dire isolarlo per impedire indagini sui responsabili delle sue condizioni. In realtà, per la Cassazione, l'isolamento nel reparto protetto c'era, eccome. «Corre l'obbligo di osservare come, alla stregua della normativa vigente, non sia conforme a logica sostenere - conclude la sentenza - che il ricovero in una struttura protetta comporti un'attenuazione dello stato di isolamento del detenuto che è proprio del regime carcerario». C'è da chiedersi a questo punto che conseguenze avrà questa sentenza sul processo d'appello che si celebrerà nei prossimi mesi. Nella prima sentenza nessuno è stato considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi, infatti le condanne ai medici si riferiscono al mancato soccorso, dopo l'entrata in ospedale. Per i 12 imputati le accuse erano, a seconda dei casi, abbandono di incapace (reato più grave, con pena massima 8 anni), abuso d'ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Marchiandi aveva chiesto il rito abbreviato e la sua posizione aveva seguito una via diversa, con la condanna del 2011 a 2 anni per favoreggiamento, falso e abuso in atti d'ufficio e poi l'assoluzione in secondo grado ad aprile 2012. A novembre scorso, poi, la famiglia Cucchi ha trovato un accordo con l'ospedale Pertini, per un risarcimento di un miliardo e 340 milioni di euro.
Cucchi, i medici pagano, ma il processo continua, scrive Salvatore Maria Righi, sull’Unità. Quattro anni dopo l’omicidio di Stefano, un altro anniversario da barrare con la penna, non era esattamente dei soldi che volevano parlare. Invece tocca farlo, alla famiglia Cucchi tocca anche questo, mentre aspettano di parlare del bel libro che Duccio Facchini ha dedicato ad una delle morti bianche più dolorose di tutte. Il volume si chiama “Mi cercarono l’anima - Storia di Stefano Cucchi” ed è stato pubblicato da Altreconomia. Ne hanno parlato ieri sera alla Garbatella, una sera gentile di tardo autunno come quella in cui i carabinieri portarono via Stefano dicendo «per tanto poco, domani sta a casa». Non è andata così, come ripetevano quei militari nella casa di Torpignattara e come ricorda perfettamente la signora Rita, perché le mamme sono fatte così, tengono strette le cose che contano, anche quelle piccole. Rita ricorda i suoi 40 anni da insegnante statale in una materna e sorride con amarezza, pensando che a lei toccavano tre verbali da compilare, ogni volta che c’era un problema: «Per Stefano, ridotto in quelle condizioni, non ce n’è nemmeno uno, eppure era con altri dipendenti dello Stato per cui ho lavorato io». Si gira attorno al palo, in questo processo, come in quello per la morte di Giuseppe Uva e come in tanti altri. «Una battaglia per l’ovvio», lo definisce l’avvocato Fabio Anselmo che ha convinto la famiglia, il padre Giovanni e la sorella Ilaria, ad accettare un parziale risarcimento offerto per togliere di mezzo la responsabilità civile dei medici, condannati per aver dimenticato Stefano nel suo letto del reparto dei ristretti al Pertini. Anche perché, spiega, con l’ipotesi di amnistia dietro l’angolo, l’alternativa potrebbe essere un bel colpo di spugna su responsabilità accertate in primo grado. «Non fatemi parlare di cifre, le smentirei tutte. Di sicuro c’è che non si tratta di una pietra tombale su questa vicenda. La famiglia ha accettato l’accordo, per poter continuare la sua battaglia legale, con la condizione che si possa continuare a perseguire la responsabilità degli agenti». Si va avanti, in corte d’Appello, ripartendo dalla sentenza che assolve gli agenti di polizia penitenziaria e condanna i medici della struttura romana. La famiglia Cucchi ritira la costituzione di parte civile e il secondo grado di questo processo che Anselmo ha definito «un massacro», finora, tra i migliori avvocati di Roma e la Procura schierati contro le ragioni di chi vorrebbe far valere le ragioni dell’evidenza. Nella sala Abracadabra del piccolo teatro, peccato che non basti una magia per cambiare le cose, si susseguono le voci di chi ha vissuto questi anni come un viaggio al contrario. «Cinque professori venuti da Milano per dimostrare come si possa morire di fame e sete dopo quattro giorni, l’ultimo caso del genere è roba che risale al 1917. Le prime volte, lo confesso, uscivo dall’aula, perché non riuscivo a sopportare questo ribaltamento della realtà». Giovanni Cucchi non avrebbe nemmeno bisogno di una platea, quando racconta di questi anni di «dolore, tormenti, rievocazioni e udienze dove se ne sono viste di cotte e di crude», perché sono le memorie del sottosuolo di un padre a cui lo Stato ha strappato senza motivo e con molti sotterfugi un figlio che è entrato in carcere dopo una giornata come tante altre, lavoro, palestra, al tapis-roulant, perché ai pugili tocca anche fare fiato, non basta il sacco e la corda. Quindi, a ben vedere, un prodigio, per un «anoressico, drogato e sieropositivo», come lo ha definito un senatore della Repubblica, Carlo Giovanardi, in una delle sue imperdibili riflessioni. Mamma Rita ricorda ancora una volta che i giudici hanno ignorato quello che ha visto e sentito Yaya Samura, il detenuto che era seduto nella cella del tribunale di piazzale Clodio a fianco di quella dove, secondo il suo racconto, gli agenti hanno picchiato Stefano Cucchi. «Si ricordava tutto, ha dato particolari precisi, come il colore delle divise o le striature che ha visto sulla gamba di mio figlio, quando Stefano si è alzato i jeans per mostrargli le percosse». Non si dà pace, Rita, non si dà pace nemmeno il senatore Luigi Manconi che interviene e racconta della seconda e terza morte di Stefano, così come quella di Giuseppe Uva o di Federico Aldrovandi. Di tutti quelli, in una parola, che vengono uccisi anche dopo essere morti, con aggettivi e pensieri che non hanno molto di umano e giusto: «Il piccolo-spacciatore di Tor Pignattara, così è stato definito Stefano per settimane dal principale quotidiano della città», ricorda Manconi, con molta più amarezza che rabbia. C’è anche un po’ di rassegnazione, o meglio pessimismo, perché l’avvocato Anselmo spiega che ci sono «motivate preoccupazioni sul fatto che in appello non si possa e non si voglia dar torto alla Procura di Roma, anche se ormai tutti, anche il ministro che ho incontrato l’altro giorno, hanno capito che abbiamo ragione noi».
Stefano Cucchi, le motivazioni della sentenza: "Morì di malnutrizione", scrive L'Huffington Post. Stefano Cucchi è morto di malnutrizione: lo scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di condanna dei medici. Il giovane romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale, è stato ucciso da una "sindrome da inanizione". La terza Corte d'assise di Roma ha fatto proprie le conclusioni dei periti. Le motivazioni arrivano a quasi tre mesi dalla sentenza con la quale sono stati condannati per omicidio colposo il primario del 'Sandro Pertini' Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La corte ha ritenuto "di dover condividere le conclusioni cui è giunto il collegio peritale, fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d'indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore". La "sindrome da inanizione", è "l'unica in grado di fornire una spiegazione dell'elemento più appariscente e singolare del caso, e cioè l'impressionante dimagrimento cui è andato incontro Stefano Cucchi nel corso del suo ricovero". I giudici affermano che non possono essere condivise le tesi delle difese, secondo le quali il giovane sarebbe stato condotto alla morte da un'improvvisa crisi cardiaca. Ancor meno posso essere condivise le conclusioni dei consulenti delle parti civili, secondo cui il decesso si sarebbe verificato per le lesioni vertebrali. "Anche questa tesi - si evidenzia nella sentenza - presta il fianco all'insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali abbiano interessato terminazioni nervose". Per la sentenza "è legittimo il dubbio che (Stefano) Cucchi, arrestato con gli occhi lividi (perché molto magro e tossicodipendente) e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri" prima del suo arrivo in tribunale. "Non è certamente compito della Corte indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui - scrivono i giudici della Corte d'Assise di Roma -, e tuttavia sono le stesse dichiarazioni dei carabinieri che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da Samura Yaya". Si tratta di un immigrato del Gambia, che in qualità di testimone riferì di aver sentito di un pestaggio nelle celle del tribunale di Roma. Per i giudici "è indubitabile che nulla di anomalo si era verificato al momento dell'arresto e fino alla perquisizione domiciliare. Se qualcosa di anomalo si è verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare e l'arrivo della pattuglia" in caserma. "In via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che il Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare, atteso l'esito negativo della stessa".
Giudici di Cucchi, avete letto questo articolo? Se si ha la pazienza di rileggere gli atti del processo Cucchi, se ne comprende l'esito sconvolgente. La sentenza della terza Corte di Assise che derubrica le responsabilità della morte di Stefano alla sola negligenza dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, elidendo come irrilevante quanto accaduto nei sotterranei del palazzo di giustizia, è figlia infatti della decisione del collegio di assumere in toto le conclusioni della perizia di ufficio. Un lavoro che ha richiesto sei mesi, che ha riscritto la "verità" sull'agonia e la morte di un ragazzo di trent'anni, accompagnandola su un binario cieco. Una "verità" che, all'osso, suona così. Stefano Cucchi muore per «una sola causa». Per «sindrome di inanizione», vale a dire di fame e di sete. È vero - concedono i periti - la sua colonna vertebrale presentava una frattura al coccige. Ma solo quella e non invalidante. È vero - aggiungono - il suo corpo mostrava segni di traumi recenti. Ma in nessun modo collegabili in un rapporto di causa-effetto al precipitare del suo quadro clinico e comunque «compatibili» con «una caduta dalle scale», piuttosto che con un pestaggio. Dunque, se responsabili ci sono in questa storia, sono due. I medici del Pertini che non si sono accorti che stavano perdendo un paziente per auto-consunzione. Nonché il fisico fragile e minato da un passato di tossicodipendenza della vittima. Detta altrimenti: Cucchi sarebbe potuto morire anche da solo se sottoposto a un regime alimentare simile a quello che ebbe nei suoi cinque giorni di ricovero. Ebbene, almeno quattro circostanze accertate processualmente raccontano un'altra storia. LESIONI DA PESTAGGIO. Che Stefano Cucchi sia stato pestato prima dell'udienza di convalida a palazzo di Giustizia è una circostanza che appare pacifica. Ne riferisce ai pm un testimone oculare (Samura Yaya), che lo vede e lo sente gemere sotto una gragnuola di pugni, prima, e di calci, poi. Sferrati alla schiena, quando è già in terra. Ne riferiscono ai pm, gli agenti della penitenziaria che lo traducono a Regina Coeli e che qui lo accolgono (ricorda La Rosa: «Ho 30 anni di servizio. Ho visto tante persone pestate. Cucchi era pestato». Dice l'agente Mastrogiacomo: «Quando lo vidi alla matricola, dissi al ragazzo: "Che hai fatto, un frontale contro un treno?" »). Lo comprende da subito il dottor Ferri, il medico che visita Cucchi al palazzo di Giustizia: «Mi riferì in modo evasivo di essere caduto dalle scale. E io guardando come era conciato gli risposi: "Dovevano essere strane scale" ». Le lesioni riportate da Cucchi interessano la zona lombo-sacrale. E anche qui i ricordi dei medici che lo visitano il 16 e 17 ottobre al Fatebenefratelli sono tetragoni. Le ecchimosi e il dolore lancinante che provocano consigliano infatti non solo radiografie, ma anche un immediato ricovero. Stefano, infatti, non può più camminare, né urinare spontaneamente, tanto che gli viene applicato un catetere. Di più, quando la salma di Stefano sarà riesumata per la perizia di ufficio, lungo il tratto vertebrale verranno ritrovate copiose tracce di sangue nella zona lombare, indice di quei traumi che non si vogliono vedere. Anche qui, la risposta dei periti è singolare. Si tratta di sangue che, sfidando la legge di gravità, è «risalito dal basso verso l'alto» a causa del trauma nella zona del coccige. Quella interessata dalla "caduta" sulle scale. PANTALONI MACCHIATI. Per i periti di ufficio quelle lesioni non esistono. I testi che ne riferiscono - argomentano - sono "suggestionati". Le cartelle cliniche non ne forniscono la prova. In realtà, le cartelle cliniche ne riferiscono eccome. Non solo: esiste una prova regina, che conferma il pestaggio ma che i periti non prendono in considerazione. I pantaloni che Stefano indossa al momento del pestaggio presentano striature di sangue all'interno. Una circostanza formidabile che conferma i ricordi di Samura Yaya, il testimone oculare. Una circostanza, va aggiunto, che dimostra l'impossibilità che le lesioni siano l'esito di una caduta sulle scale. Come è possibile infatti cadere di sedere su dei gradini e ferirsi gli stinchi? Anche qui, i periti della Corte pattinano. Le ferite agli stinchi sono risalenti nel tempo, dicono. Ma perché, allora, se sono così antiche hanno lasciato tracce di sangue sui pantaloni che Stefano indossava nei sotterranei del palazzo di giustizia? INDICE DI MASSA CORPOREA. Cancellata ogni rilevanza delle lesioni, i periti concludono che la morte per fame e sete di Cucchi è facilitata dal suo basso indice di massa corporea. L'indice BMI di Stefano al momento dell'arresto (il rapporto tra l'altezza, 1 metro e 65, e il peso, 50 kg) è di 18,4. Il che, a loro dire, lo rende «un uomo sull'orlo del precipizio». La Parte civile obietterà che Zou Chiming, pugile medaglia d'oro alle Olimpiadi di Londra del 2012, ha un indice BMI di 17,64. «Anche lui - chiede l'avvocato Fabio Anselmo - è caduto nel baratro senza saperlo?». VESCICA. Del resto, c'è un dato non confutato da nessuna letteratura scientifica che rende la causa di morte per fame e sete singolare. Un corpo che si spegne non restituisce più nulla. Come si spiegano allora i 1.400 centimetri cubi di urina di cui era gonfia la vescica al momento della morte? Come si spiega che, al momento dell'autopsia, nessuno degli organi interni presentasse segni tipici di quel tipo di decesso? di Carlo Bonini, La Repubblica del 7 giugno 2013.
Intanto sul Caso di Stefano cucchi, via al processo. In 12 sul banco degli imputati per la morte del giovane nel reparto penitenziario dell'Ospedale Pertini.
«C'è in noi enorme tensione per quello che ci aspetta» ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi «Da oggi in avanti sarà ancora una sofferenza, perchè tutto ci riporterà alla mente quanto accaduto». È iniziato giovedì 24 marzo 2011 il processo davanti alla terza Corte d'assise del Tribunale di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato il 16 ottobre del 2009 e poi deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Sul palco degli imputati tre agenti carcerari, 6 medici dell'ospedale Sandro Pertini in servizio presso il reparto detenuti e tre infermieri dello stesso reparto. In tutto dodici persone. «Ci sono diversi coni d'ombra in questa vicenda - ha detto l'avvocato di parte civile Fabio Anselmo - Ricostruiremo l'ultimo mese di vita di Stefano». Tra le richieste preliminari all'inizio del dibattimento c'è stata quella che ha sollecitato una delle difese, relativa all'effettuazione di un sopralluogo nella cella del tribunale di Roma dove fu tenuto il giovane in attesa dell'interrogatorio successivo al suo arresto.
LE ACCUSE - I tre agenti di Polizia penitenziaria - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici - devono rispondere del reato di lesioni personali aggravate per aver abusato dei loro poteri. In pratica avrebbero picchiato Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, quando questo era in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Ma l'accusa più grave è quella contestata ai quattro medici ed ai tre infermieri che prestavano all'epoca dei fatti servizio al Sandro Pertini. Il reato è quello di abbandono di persona incapace, aggravato dalla morte, la condanna prevista dal Codice va dai tre agli otto anni. Ne devono rispondere i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi Preite e Silvia Di Carlo; e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Un altro dottore, Rosita Caponetti, è accusata di falso e abuso d'ufficio in relazione alle condizioni di Cucchi ed al suo ricovero. È già stato condannato a due anni il dirigente del Prap - Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria -, Claudio Marchiandi, a cui è stata data una pena di due anni.
Il padre: rivendicava i suoi diritti "Stefano prima di morire rivendicava solo i suoi diritti. E' vero, ha fatto il digiuno ma solo perché voleva che venissero rispettati i suoi diritti come quello di nominare un suo avvocato. E' morto in maniera civile, e' stato ammazzato in maniera incivile". Così Giovanni, padre di Cucchi, ripercorre gli ultimi momenti di vita del figlio.
La storia Cucchi fu arrestato il 15 ottobre di due anni fa alle 23.30. Una pattuglia di carabinieri lo trovò in possesso di stupefacenti. Fu portato in carcere e, il giorno dopo, fu portato davanti al giudice monocratico per la convalida dell’arresto. Alle 13.30, dopo la convalida, Cucchi fu affidato alla polizia penitenziaria e qualche tempo dopo il medico del tribunale si accorse che aveva alcune ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni. Alle 15.45 arrivò a Regina Coeli ma, tre ore più tardi, fu trasportato al Fatebenefratelli dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Alle 23 venne riportato in carcere ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato all'ospedale al Pertini. La mattina del 22 ottobre Stefano morì e da lì è iniziò il procedimento penale che ha portato al rinvio a giudizio di chi, tra guardie carcerarie, medici e infermieri, era stato coinvolto.
Ferite che assomigliano a bruciature di sigarette. Croste sulle mani. Un doppio livido trasversale all’altezza dell’osso sacro, forse dovuto a un calcio. Volto tumefatto. Sono «terribili», dicono gli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, le foto dell’autopsia di Stefano Cucchi conservate nel fascicolo della procura. Le prime due mostrano il giovane vestito «come nel giorno dell’arresto, non gli hanno mai dato un cambio».
Nelle altre il geometra è spogliato e allora saltano agli occhi «le tremende condizioni di deperimento» del suo corpo esile. E non possono non notarsi «le escoriazioni profonde, ovali o circolari», come se qualcuno gli avesse spento dei mozziconi addosso: «Su un pollice, sui gomiti, sul dorso delle mani e all’attaccatura dei capelli». Le foto avvalorano l’ipotesi del pestaggio formulata dai pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy. Una «pista» basata sulla deposizione del supertestimone che, sabato, sarà sottoposto a incidente probatorio davanti al gip Luigi Fiasconaro. Il suo racconto è contenuto in un verbale di 30 pagine piuttosto confuso, in cui i magistrati sono costretti a chiedere più volte di che colore fossero le divise dei «picchiatori ».
«L’hanno colpito a calci», ha riferito il giovane ai pm descrivendo la scena che sarebbe avvenuta nel corridoio delle celle di sicurezza del tribunale. Finita l’udienza di convalida Cucchi sarebbe stato rinchiuso con lui: «Dopo che l’hanno messo in cella — ha detto il supertestimone — ho visto che lo spingevano». E Cucchi si sarebbe confidato: «M’hanno menato quegli stronzi». Il Dap, senza aver ancora concluso l’inchiesta interna, ha spostato i tre agenti della penitenziaria indagati a Fiumicino, a Rebibbia e al carcere minorile di Casal del Marmo.
MALAGIUSTIZIA
Sei giorni, sei palazzi di giustizia. Per una settimana "L'espresso" si è infiltrato dentro il tribunale penale, la Cassazione, il Tar, il Consiglio di Stato, il tribunale civile e il giudice di pace. Dove un perfetto estraneo può "bucare" non solo gli archivi, ma le cancellerie con le carte di processi in corso, i cassetti dei pm e gli uffici dei dirigenti. Dove chiunque può spadroneggiare tra corridoi e stanze private, tra sottoscala e armadi con lucchetti rigorosamente aperti. Scoprendo che la giustizia è peggio di un formaggio groviera, un sistema insicuro dove stanze che dovrebbero essere supervigilate sono peggio di un self service all'ora di punta. Già. Nella capitale si può rubare e saccheggiare, distruggere verbali di udienza, fare sparire notifiche e bloccare così qualsiasi provvedimento. Piccole diatribe o cause miliardarie, è uguale: prendendo le carte giuste si possono mandare all'aria anni di lavoro di magistrati, e vanificare le indagini della polizia giudiziaria.
Non ci credete? Eppure si può entrare nelle camere di consiglio dei magistrati a meno di un'ora dalla seduta, trovando sulla tavola i faldoni in disordine e pezzi di pizza ancora caldi. Per infilarsi in una borsa verbali di udienza ci vogliono 30 secondi, nessuno si accorge di nulla. Un normale cittadino può penetrare nella cancelleria e nell'archivio della corte d'appello e rovistare tra i fascicoli dei giudici, mentre segretarie gentili passano salutando. "Buongiorno". "Buongiorno a lei". Nessuno ferma gli sconosciuti, nessuno chiede niente. "Se in sede civile scompare un verbale d'udienza", spiega un magistrato, "il procedimento deve ripartire da zero, se porti via una notifica e il processo è vicino la prescrizione, c'è il rischio che i tempi per ricostruire il fascicolo siano troppo stretti. Il lavoro di anni può andare bruciato. C'è persino la possibilità che sicuri colpevoli la facciano franca". Nulla è cambiato dai tempi della causa Imi-Sir, quando la scomparsa di una semplice procura stava per far saltare un ricorso da mille miliardi di lire: i processi sono ancora di "carta", l'informatizzazione resta un miraggio. Per non parlare del rispetto della privacy: nei tribunali si può fotografare e filmare atti coperti da segreto istruttorio, leggere carte che raccontano le gesta di assassini e stupratori, annotare ogni dettaglio di cause da decine di milioni di euro o i fatti intimi di cittadini qualunque.
È un lunedì di ottobre, primo giorno. Tocca al Tribunale amministrativo del Lazio, il più grande l'Italia. I suoi giudici decidono il primo grado di ogni ricorso contro tutte le decisioni della pubblica amministrazione. Le sue sentenze sono fondamentali: solo negli ultimi giorni il Tar ha deliberato su business a sei zeri come il concorso del Gratta e Vinci, sulle graduatorie della scuola, su temi sensibili come il biotestamento e le cellule embrionali. Oltre ai processi che riguardano ogni cittadino, tipo quelle sui concorsi pubblici o il mobbing del capo. All'ingresso c'è un piantone, ma è come non ci fosse. È giorno d'udienza, la sala degli avvocati al secondo piano è piena di gente. A dieci metri ci sono gli archivi: la stanza 326, la stanza 307 della Seconda sezione. Le porte sono aperte: dentro vengono conservate sentenze di primo grado. Nei corridoi del terzo piano il cronista può leggere memorie difensive che riguardano vecchie contese tra Banca d'Italia, Holmo e Banco di Bilbao, può aprire armadietti con le chiavi attaccate alla serratura che traboccano di "ricorsi in attesa di rinuncia". Poi sfoglia una domanda di fissazione di un'udienza per una professoressa bocciata a un concorso, atti della sezione terza quater buttati in corridoio, un ricorso di una grossa azienda contro l'authority sulla vigilanza dei concorsi pubblici. Nella stanza 203, sembra quella di un giudice, oltre ai fascicoli c'è persino un'agenda personale. Anche la sala di consiglio è deserta: sul tavolo ci sono le carte di cinque consiglieri. Un dipendente sorride. Il cronista continua a scartabellare. Ha accesso a migliaia di fascicoli. Ne prende uno dove c'è scritto a penna che l'avvocato verrà a leggerlo, lo prende, si infila nel bagno, mette i fogli in uno zainetto, scende tre piani e va via. Si tratta di copie originali: se non avesse rimesso a posto il faldone prima di uscire, avrebbe bloccato il ricorso.
Martedi è il turno della Corte d'appello penale. Entrare da via Romeo Romei è facile, i controlli fanno ridere. Passando davanti ai carabinieri basta mostrare un tesserino qualunque. Di metal detector neanche l'ombra. Il palazzo è nuovissimo, i corridoi lindi, non c'è una carta in giro. Al piano terra c'è udienza, l'aula è piena come un uovo. Inutile provare a curiosare nelle stanze riservate ai testimoni, sono chiuse a chiave. Al primo piano, però, la cancelleria della sezione lavoro e previdenza e l'ufficio pubblicazioni sentenze sembrano una libreria Feltrinelli. Il via vai è impressionate. Ci sono carte (di primo grado) per cause che verranno discusse l'anno successivo, i fascicoli aperti del "presidente", quelli "in attesa di pubblicazione" del 4° e 5° collegio. Liti, diatribe tra società e dipendenti, abusi, c'è l'imbarazzo della scelta. Anche l'archivio è peggio del deserto dei tartari: l'infiltrato può far finta di rubarsi la sentenza penale contro un ragazzo di 17 anni, oltre a fogli originali del Tribunale dei minori.
Mercoledì l'agenda prevede un salto al Palazzaccio, la Cassazione. Il luogo dove nel 1992 si volatilizzò la procura dell'Imi. Un tipo scaltro può accedere dall'entrata secondaria sul Lungotevere: la guardia è distratta. Se va male, l'alternativa è passare per l'ingresso al pubblico, consegnare la carta d'identità dicendo che si vuole far visita alla biblioteca. Una volta entrati, è fatta. Il palazzo è enorme, si macinano chilometri tra scaloni e corridoi, ma ne vale la pena: in cinque ore si riesce facilmente a guardare le carte dalla cancelleria civile al primo piano, far scomparire ricorsi ancora caldi, bersi un buon caffè nel bar interno, entrare negli archivi più svariati, persino spulciare fascicoli lasciati nell'anticamera dell'ufficio procedimenti disciplinari. Un dirigente ha lasciato le chiavi della segreteria penale attaccate alla porta ed è andato a mangiare, aprire gli armadi pieni di documenti è un giochetto. Le sorprese non mancano nemmeno visitando i seminterrati: sotto la Cassazione tra motorini di magistrati e dipendenti c'è un enorme deposito di rifiuti speciali, migliaia di stampanti, computer, monitor e schede madri fatte a pezzi e gettate alla rinfusa nel corridoio.
Anche al tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, i cancellieri si contano sul lumicino. È giovedì. L'edificio è stato visitato due anni fa da "Repubblica". Nulla è cambiato rispetto all'inchiesta di Attilio Bolzoni. Anzi. Fregarsi il verbale di udienza, il cuore di un processo civile, è più semplice del previsto. Dentro le stanze delle cancellerie nessuno fa domande, si arraffa a piacimento, si può rubare indisturbati. Senza quel verbale (che si può facilmente far volatilizzare) la causa tra due parenti per un affare immobiliare andrebbe rifatta daccapo. Anche la stanza 114 è aperta al pubblico: dentro il guardiano non c'è, sulla scrivania giace una diatriba tra due fratelli e le vicende segrete di un ingegnere che non paga gli alimenti ai figli. Mentre il cronista aspetta che arrivi qualcuno a redarguirlo, ammazza il tempo aprendo fascicoli a caso.
Venerdì, si prova il doppio colpo. Prima si va a via Teulada, dai giudici di pace. L'inferno sceso in terra. Un flusso compatto di persone urlanti e sudate che quasi ti spinge nelle camere di giudici oberati e dentro cancellerie abbandonate, dove tutti possono fare il comodo loro. "Entrare uno alla volta", c'è scritto sulla porta. Come no. Liti condominiali, ricorsi alle multe, piccole cause civili, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Dopo un'oretta di pirateria della privacy, si tenta un'ultima tappa, il Consiglio di Stato. Dalle stalle, alle stelle. In teoria Palazzo Spada, uno dei più belli di Roma, dovrebbe essere protetto come Fort Knox. Qui 120 magistrati strapagati decidono le controversie che riguardano la pubblica amministrazione. Affari miliardari, o ricorsi contro le sentenze del Tar depositate da semplici cittadini. "L'espresso" ha fatto un sopralluogo qualche settimana prima: anche oggi i custodi e i carabinieri sembrano messi lì per bellezza. L'ascensore, piano meno uno, porta dritti all'archivio: non c'è anima viva, chiunque può leggere con calma i dettagli di cause di Vodafone, Consob, ministeri vari, Assitalia, Ferrovie e decine di altre piccole aziende. Su una porta gialla c'è scritto: "Si fa presente che per accedere ai locali dell'archivio generale occorre chiedere le chiavi di accesso al personale o ai carabinieri". Sarà un caso, ma la porta è aperta, le chiavi sono inserite nella toppa. Al primo piano, tra affreschi e mobili antichi, c'è la camera di consiglio dei magistrati della quarta sezione: sul tavolo decine di fascicoli appena dibattuti o da dibattere a breve, toghe spiegazzate, armadietti personali pieni di documenti. Sono spalancati. In giro non si sente volare una mosca. È mezzogiorno, il weekend si avvicina. All'uscita, ineffabile, il custode parla con il carabiniere. "Arrivederci ". "Buona giornata a lei".
MAGISTROPOLI
Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Da “La Repubblica”. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. La sentenza è stata firmata dal giudice Beatrice Cristiani che ha condannato anche a 2 anni il commercialista Luciano Quadrini in relazione al crac appunto dell' Immobiliare Europa. Sotto processo oltre a Pierluigi Baccarini e Luciano Quadrini era finito anche Ercole Pugliese ( condannato a 3 anni), arrestati alla fine del 2004 e poi tornati in libertà. Tra gli imputati anche la moglie del magistrato, Luisa Fasoli (condannata a 2 anni e 4 mesi) e l'avvocato Oreste Fasano che è stato assolto. L' inchiesta, per corruzione anche in atti giudiziari è stata coordinata dai pm Sergio Sottani, Roberto Rossi e Andrea Claudiani. Secondo l' accusa il giudice Baccarini per cinque anni, dal ' 99 al 2004, il giudice avrebbe «ricevuto ingenti somme di denaro» per agevolare le procedure assegnate con «artifici» al suo ufficio. Nella distribuzione delle consulenze avrebbe «favorito costantemente» Pugliese e Quadrini e a quest' ultimo avrebbe assicurato una gestione del crack dell' Immobiliare Europa, ex immobili Dc, «atta a garantire gli interessi» curati dal commercialista. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l'attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.
"Adesso basta, siamo stanchi di passare per insabbiatori, qualche mela marcia nel nostro Corpo c'è, ma la stragrande maggioranza di noi rispetta il giuramento fatto allo Stato. Il libro mastro di Anemone, quella lista con i 412 nomi, era stato consegnato nel 2008 in Procura a Roma". Come dire: è lì che la lista si è fermata, riposta in qualche cassetto e dimenticata, scrive Francesco Viviano su "La Repubblica". E così, dal fitto riserbo della Guardia di finanza trapela un'accusa pesante, che sarà verificata dai pm di Perugia e Firenze, pronti a interrogare generali ed ufficiali delle Fiamme Gialle: ad insabbiare quell'elenco che ha provocato un vero e proprio terremoto politico-giudiziario, sarebbe stata la procura di Roma.
Quell'elenco sarebbe stato consegnato nel 2008 al procuratore aggiunto della capitale, Achille Toro. Il magistrato si è dimesso dall'ordine giudiziario nel febbraio 2010 dopo essere stato indagato con l'accusa di essere la talpa del gruppo di cui facevano parte i funzionari pubblici Angelo Balducci, Fabio De Santis, Mauro Della Giovampaola e l'imprenditore Diego Anemone.
È a lui, secondo quanto trapela dall'interno della Guardia di finanza, che l'elenco fu consegnato. Le Fiamme Gialle lo avevano appena ritrovato tra il materiale sequestrato negli uffici di Anemone. Dentro, 412 nomi di vip che avrebbero ricevuto omaggi e favori, per ristrutturare case (anche se molti hanno dimostrato di avere pagato regolarmente) o addirittura per comprarle (vedi i 900mila euro girati da Anemone a Scajola per l'acquisto della casa con vista sul Colosseo). Solo che quell'elenco poi è sparito: i pm romani coordinati da Achille Toro, così hanno sostenuto in un recente interrogatorio a Perugia, non lo hanno mai visto.
"Controllo operato il giorno 14 ottobre 2008 nei confronti delle imprese di Anemone Diego e del fratello Daniele" è scritto nel lungo rapporto dei Ros di Firenze che hanno indagato sui Grandi eventi, dal G8 ai Mondiali di nuoto alla Scuola dei marescialli di Firenze. Quel giorno, alle ore 10,33, annotano i carabinieri del Ros, Daniele Anemone informa il fratello Diego che si trovava alla Maddalena per seguire da vicino i lavori per il G8, che la Guardia di finanza era negli uffici romani del gruppo Anemone ed anche in quelli del commercialista Stefano Gazzani.
"C'abbiamo la Guardia di Finanza in ufficio, stanno a fare un controllo sul 2006" dice preoccupato Daniele Anemone al fratello. Diego Anemone entra in agitazione, cerca e trova un aereo e fa subito ritorno a Roma. Per tentare di aggiustare la situazione chiama alcuni amici per intervenire in tempo sulla Guardia di finanza ed evitare il peggio: "Ci puoi fare un passaggio - dice a un collaboratore riferendosi a persone amiche all'interno della Guardia di finanza - che mo' io prendo il primo volo e rientro immediatamente".
Un'ora dopo Stefano Gazzani, il commercialista del gruppo, informa Diego Anemone che il maggiore della Guardia di finanza che dirige il controllo è presso il suo ufficio. Gazzani fa intendere che la Finanza sia già in possesso di documenti scottanti sull'imprenditore. Anche la segretaria di Diego Anemone conferma al suo datore di lavoro che i finanzieri hanno aperto il computer e la cassaforte dove c'erano nomi e dati particolarmente importanti. "Hanno aperto il computer di Daniele. Il computer è il computer... Daniele ha detto: c'è questo mondo e quell'altro".
Diego Anemone va su tutte le furie, sa che quell'elenco è una vera e propria Santa Barbara che potrebbe esplodere coinvolgendo politici, funzionari pubblici e amici degli amici. E subito dopo telefona ad Angelo Balducci per avvertirlo del controllo delle Fiamme Gialle: "Apposta son ritornato, però è una cazzata proprio, già diciamo in corso di chiusura, prò sono rotture...". Anche Balducci è preoccupato e chiede ad Anemone se quel controllo è connesso a qualcos'altro che però non specifica.
Il fatto che la Guardia di finanza abbia clonato il suo computer scoprendo il libro mastro dell'azienda, gela Daniele Anemone che col fratello si lascia scappare: "M'hanno aperto il computer mio... c'ho i conti... c'ho tutti i cazzi...". Si trattava proprio dell'elenco con i 412 nomi di Diego Anemone, poi finito a quanto pare nei cassetti di Achille Toro. Fino a quando, qualcuno ha fatto tornare alla luce il documento.
La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia.
Usava una "falsa" identità, grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali", scrive "La Repubblica". Con questa accusa la sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura, con un provvedimento cautelare, cioè con una misura adottata in via d'urgenza, Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma.
Per la stessa vicenda, come emerge dal provvedimento adottato dal "tribunale delle toghe", il magistrato è sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia - titolare con il collega Sergio Sottani è Giuliano Mignini, uno dei pm del processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher - in cui i reati ipotizzati sono quelli di falsità materiale (e ideologica) commessi dal pubblico ufficiale in atti pubblici e dal privato.
A chiedere la sospensione e ad avviare l'azione disciplinare Per Schettini era stato il 5 novembre 2009 il Pg della Cassazione Vitaliano Esposito, con un pesantissimo atto di accusa: il giudice romano - si legge- non solo ha "falsificato" la tessera in questione; ma con una "condotta preordinata e organizzata" e rientrante in un "medesimo disegno criminoso", ha usato "in atti pubblici soggetti e registrazione o a trascrizione e a iscrizione, false generalità e un falso numero di codice fiscale" (tra l'altro in occasione di un contratto di mutuo di 800mila euro per l'acquisto di un appartamento); tutto questo per "costruirsi una sorta di doppia identità e sottrarsi in questo modo , almeno potenzialmente , alle proprie obbligazioni e ai controlli di legge". Sì, perchè come scrive il Csm, il magistrato era "al centro di cospicue contrattazioni"; una "congerie di attività commerciali", anche "intrecciate a quelle della madre", "quotista di riferimento", come lei, di una "società di capitali operante nel settore immobiliare". E l'uso della falsa identità non solo le permetteva di "apparire titolare di patrimonio incapiente a fronte di possibili richieste o esecuzioni", cioè in sostanza nullatenente, ma "nell'immediato rendeva oggettivamente difficili ordinarie operazioni di notifica".
Proprio la circostanza nota che si trattava di un giudice, consentiva a Schettini di adoperare il documento "senza che venissero attivati ulteriori controlli", nota il Csm, che alla luce di tutto questo ha ritenuto vi fosse un' "assoluta incompatibilità " tra la permanenza del magistrato in servizio "e il decoro della funzione giudiziaria a lei affidata". La diretta interessata non ci sta: e ha già chiesto la revisione del provvedimento, in considerazione del suo stato interessante e in nome della tutela che spetta alle lavoratrici madri.
Fallimentopoli. Usava falsa identità. Sospeso magistrato. Su “La Repubblica”. La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia. Usava una "falsa" identità, grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali". Con questa accusa la sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura, con un provvedimento cautelare, cioè con una misura adottata in via d'urgenza, Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Per la stessa vicenda, come emerge dal provvedimento adottato dal "tribunale delle toghe", il magistrato è sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia - titolare con il collega Sergio Sottani è Giuliano Mignini, uno dei pm del processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher - in cui i reati ipotizzati sono quelli di falsità materiale (e ideologica) commessi dal pubblico ufficiale in atti pubblici e dal privato. A chiedere la sospensione e ad avviare l'azione disciplinare per Schettini era stato il Pg della Cassazione Vitaliano Esposito, con un pesantissimo atto di accusa: il giudice romano - si legge - non solo ha "falsificato" la tessera in questione; ma con una "condotta preordinata e organizzata" e rientrante in un "medesimo disegno criminoso", ha usato "in atti pubblici soggetti e registrazione o a trascrizione e a iscrizione, false generalità e un falso numero di codice fiscale" (tra l'altro in occasione di un contratto di mutuo di 800mila euro per l'acquisto di un appartamento); tutto questo per "costruirsi una sorta di doppia identità e sottrarsi in questo modo, almeno potenzialmente , alle proprie obbligazioni e ai controlli di legge". Sì, perchè come scrive il Csm, il magistrato era "al centro di cospicue contrattazioni"; una "congerie di attività commerciali" , anche "intrecciate a quelle della madre", "quotista di riferimento", come lei, di una "società di capitali operante nel settore immobiliare". E l'uso della falsa identità non solo le permetteva di "apparire titolare di patrimonio incapiente a fronte di possibili richieste o esecuzioni", cioè in sostanza nullatenente, ma "nell'immediato rendeva oggettivamente difficili ordinarie operazioni di notifica". Proprio la circostanza nota che si trattava di un giudice, consentiva a Schettini di adoperare il documento "senza che venissero attivati ulteriori controlli", nota il Csm, che alla luce di tutto questo ha ritenuto vi fosse un' "assoluta incompatibilità " tra la permanenza del magistrato in servizio "e il decoro della funzione giudiziaria a lei affidata". La diretta interessata non ci sta: e ha già chiesto la revisione del provvedimento, in considerazione del suo stato interessante e in nome della tutela che spetta alle lavoratrici madri.
E ancora. Fallimenti, azione disciplinare per sei giudici a firma di Sarzanini Fiorenza sul “Corriere della Sera”. Il ministro interviene sul caso del Tribunale di Roma. Il Guardasigilli ha deciso di dar seguito al dossier che gli è stato consegnato al termine dell' indagine amministrativa. Per questo chiederà di esercitare l'azione disciplinare nei confronti dei giudici sospettati di commesso irregolarità nell'assegnazione e nella gestione dei fascicoli. E chiederà anche di trasmettere copia del rapporto al Csm, competente a valutare le eventuali incompatibilità ambientali e funzionali dei responsabili dell'ufficio giudiziario della capitale. Davanti alla prima commissione dell'organo di autogoverno è già stata aperta una pratica nei confronti del presidente Giovanni Briasco, sospettato di aver favorito lo studio legale dove suo figlio fa pratica per diventare avvocato, quando si trattava di scegliere curatori e consulenti e di non aver rispettato i criteri di nomina dei giudici. LE IMPUTAZIONI - Sono sei i magistrati finiti sotto inchiesta. Oltre a Briasco e al suo vice Anacleto Grimaldi, le imputazioni riguardano Pierluigi Baccarini, Vincenzo Vitalone, Pierluigi Bonato e Raffaello Capozzi. Gli ispettori li accusano di essere riusciti a farsi assegnare le pratiche più importanti aggirando le disposizioni sulla rotazione degli incarichi. E soprattutto di aver affidato la gestione dei fallimenti a commercialisti e avvocati di propria fiducia. Quale fosse la contropartita dovranno accertarlo le inchieste penali, ma il sospetto è evidente. I consulenti nominati ottengono infatti un compenso percentuale rispetto all' entità del fallimento e gestiscono i beni delle società in dissesto. Due di loro sono stati indagati per peculato dai magistrati romani che hanno poi trasmesso gli atti ai colleghi di Perugia competenti a indagare sulle toghe capitoline. IL MECCANISMO - Uno dei cardini del sistema era rappresentato dai cancellieri che in alcuni casi avrebbero ritardato l' iscrizione delle pratiche in modo da farle assegnare ai giudici ritenuti maggiormente affidabili. Il presidente del Tribunale di Roma Luigi Scotti ne ha trasferiti quattro ad altro incarico, mentre la procura ha disposto accertamenti sul loro operato. Un provvedimento che ha provocato malumore tra il personale amministrativo, anche perché nessuno dei giudici finiti sotto ispezione ha subito lo stesso trattamento. In realtà durante l'ultima assemblea convocata da Scotti, i magistrati sono stati invitati a cambiare sede «per motivi di opportunità», ma nessuno di loro ha ritenuto di dover accogliere la sollecitazione. IL PRESIDENTE - «Questa - si difende il presidente Giovanni Briasco - è un'inchiesta mirata. Non conosco il contenuto dell'ispezione, ma per quanto ne so non è vero niente. Abbiamo subito un'indagine a partire dall'inizio di settembre con mezzi che non qualifico, mirata a colpire una sezione che funziona in pieno. In 45 anni di servizio ho ricevuto attacchi e non ho mai querelato, ma questa è molto grossa. Non conosco le accuse nei confronti dei miei collaboratori, ma sono disposto a mettere la mano sul fuoco sulla base della conoscenza personale». Non nega il magistrato che il Csm stia facendo accertamenti sul suo conto, ma giura che la pratica è stata aperta su sua sollecitazione. «Nella prima comunicazione - dice - spiegavo che mio figlio studiava per diventare avvocato, nella seconda ho indicato lo studio dove collaborava». La prima commissione del Csm ha acquisito l'elenco delle curatele assegnate e ha scoperto che il giovane si è iscritto al foro di Tivoli, forse proprio per evitare l'incompatibilità con la funzione esercitata da suo padre. LE INCHIESTE - L' obiettivo degli accertamenti penali è quello di stabilire se le irregolarità commesse nella gestione dei fallimenti abbiano portato ad arricchimenti illeciti. E quali siano i destinatari di questi favori. L' indagine amministrativa ha accertato che alcune aziende hanno spostato a Roma la propria sede legale prima di dichiarare l'insolvenza e che in numerosi casi sono state autorizzate trasferte dei consulenti senza che ce ne fosse la necessità. Viaggi che hanno gravato in maniera considerevole sul capitolato di spesa.
MALASANITA'
MALASANITA', IL CASO. Da “La Repubblica”. In coma, legata alla barella", blitz al Policlinico di Roma. I senatori Marino e Gramazio hanno fatto una verifica-lampo nelle corsie del pronto soccorso. "Aveva solo la flebo con l'acqua fisiologica, i sanitari erano in attesa di poterla trasferire in un reparto, ma è rimasta per giorni sul letto senza sponde legata con delle lenzuola per evitare cadute". Il direttore del Dea: "Capita spesso, a causa della mancanza di posti letto". In coma dopo un trauma cranico, legata alla barella con delle lenzuola e senza nutrizione da quattro giorni, in attesa di essere ricoverata "da un minuto all'altro". E' la condizione in cui i senatori Marino e Gramazio hanno trovato una signora di 59 anni, in un 'blitz' effettuato al pronto soccorso del Policlinico Umberto I di Roma. "E' una cosa che capita spesso, il problema della mancanza di posti per il ricovero non è una novità" è il commento a caldo, agghiacciante, di Claudio Modini, direttore del Dea, dipartimento di emergenza del Policlinico. La signora, hanno riferito Domenico Gramazio del Pdl e Ignazio Marino del Pd dopo aver effettuato questa mattina una visita all'ospedale come senatori eletti nel Lazio, "aveva solo la flebo con l'acqua fisiologica" e "i sanitari ci hanno spiegato che erano in attesa, da un minuto all'altro, di poterla trasferire in un altro reparto per darle assistenza". Nel frattempo, per 4 giorni, la signora è rimasta in barella nella cosiddetta 'piazzetta', l'area del pronto soccorso dove vengono lasciati i pazienti in mancanza di posti letto per i ricoveri. La signora, sedata dopo una brutta caduta in casa che le aveva provocato un trauma cranico, ha raccontato Marino, "era stata legata con delle lenzuola mani e piedi alla barella" per evitare cadute, visto che il letto è senza sponde. ''L'abbiamo trovata lì - riferisce Gramazio - senza supporti per l'alimentazione, incosciente, legata a un letto senza sponde per evitare che cadesse. Ci hanno detto che doveva essere trasferita in un'altra struttura, ma non si sa quando. Un fatto sconcertante''. Il dg del Policlinico, racconta Gramazio, ''ci ha assicurato che si stanno identificando tutte le persone ancora al Pronto Soccorso, per trasferirle in strutture adeguate. E per fortuna il presidente Polverini ha chiesto di sospendere i ricoveri ordinari per permettere di sistemare chi è 'parcheggiato' da giorni al pronto soccorso nei reparti''. Claudio Modini, direttore del Dea del Policlinico Umberto I di Roma, ammette: "E' una cosa che capita spesso, del resto il problema della mancanza di posti per il ricovero non è una novità. Bisogna risolvere queste situazioni''.
CAOS AL SAN CAMILLO, MALATI CURATI A TERRA. Proprio al Policlinico è stata accertata la situazione peggiore, mentre al San Camillo le condizioni risultavano positive, forse anche per le attenzioni di questi giorni dopo le foto shock che mostravano alcuni pazienti curati a terra. La Procura di Roma ha aperto un'inchiesta su tutti i pronto soccorsi della capitale. I due parlamentari hanno visitato il Policlinico Umberto I, San Giovanni e San Camillo. E intanto prime durissime reazioni: negli ospedali si arriverà a "una strisciante eutanasia di Stato", afferma Livia Turco, "casi come quello accaduto oggi a Roma dimostrano che gli scellerati tagli alla spesa pubblica stanno infliggendo ferite mortali al sistema sanitario nazionale. Ed è ormai sempre più chiara la strumentalizzazione che è stata fatta di alcuni casi eclatanti e dolorosi di persone in fin di vita sulle quali, proprio chi ha tagliato i fondi al Ssn, ha avuto il cinismo di montare campagne etiche a difesa della vita. Questi presunti paladini della vita dovrebbero avere oggi il coraggio di ammettere che, per colpa di quei tagli, negli ospedali, con medici e infermieri impotenti e privi di mezzi, si arriverà a praticare una strisciante eutanasia di Stato".
Il resoconto. E mentre il senatore Marino annuncia che presenterà una denuncia alla procura della Repubblica, un comunicato dell'ospedale informa che la paziente, in attesa di un posto letto, era assicurata alle sbarre della barella per evitare il pericolo di una caduta.
Ore 14.23 del 20 febbraio 2012. Il blitz. In coma dopo un trauma cranico, legata alla barella con delle lenzuola e senza nutrizione da quattro giorni, in attesa di essere ricoverata "da un minuto all'altro". E' la condizione in cui i senatori Ignazio Marino (Pd) e Domenico Gramazio (Pdl) hanno trovato una signora di 59 anni, in un 'blitz' effettuato al pronto soccorso del Policlinico Umberto I di Roma.
Ore 14.43. Venti barelle. Al pronto soccorso del Policlinico Umberto I "la situazione è intollerabile, totalmente indecente" affermano ancora Gramazio e Marino dopo avere effettuato questa mattina un 'blitz' in tre Pronto Soccorso di Roma (anche al San Camillo e al San Giovanni). Nella cosiddetta "piazzetta, dove ci sarebbe posto per 8 malati - hanno riferito - c'erano almeno 20 persone, con le barelle una accanto all'altra senza corridoi e persone in attesa di trasferimento anche da venerdì".
Ore 15.17. "Intollerabile". Situazione in parte "ancora congestionata e di evidente sofferenza" ma "un chiaro tentativo di reagire" con nuovi posti letto che aspettano solo l'arrivo del personale per essere messi in funzione. E' la fotografia scattata nei pronto soccorso degli ospedali San Camillo e San Giovanni da Gramazio e Marino, che questa mattina hanno effettuato dei 'blitz', "nell'orario di cambio turno" nelle due strutture della Capitale oltre che al pronto Soccorso del Policlinico Umberto I dove la situazione è invece "non tollerabile". "L'area del San Camillo che la settimana scorsa ospitava 40 barelle era completamente sgombra - raccontano i due senatori - e abbiamo registrato una volontà di reagire da parte del personale a partire dal direttore generale". Un aiuto è arrivato "dal blocco dei ricoveri ordinari" che permette "di diminuire la pressione eccessiva sui Pronto Soccorso". Al San Camillo poi è stata "subito svuotata un'area che prima ospitava uffici amministrativi e sono stati attrezzati 19 nuovi posti letto". Idem al Pronto Soccorso del San Giovanni, dove dal primo marzo dovrebbe diventare operativo un reparto nuovo, che al momento è però inutilizzato per mancanza di personale. Aggiungono i senatori: "Al San Camillo abbiamo trovato un'area sovraffollata, e un corridoio pieno di barelle, con pazienti, soprattutto anziani, in situazioni di difficoltà e in mancanza totale di privacy" mentre il nuovo reparto "con i letti preparati con tanto di coperte e lenzuola è vuoto perché non ci sono abbastanza sanitari per gestirlo".
Ore 15.35. "Capita spesso". "E' una cosa che capita spesso, del resto il problema della mancanza di posti per il ricovero non è una novità. Bisogna risolvere queste situazioni". Così Claudio Modini, direttore del Dea del Policlinico Umberto I di Roma, dove due senatori hanno trovato una donna in coma legata alla barella in Pronto soccorso.
Ore 15.50. "Assistita 24 h su 24". "La donna, di circa 50 anni, è in coma da tre giorni e viene assistita al meglio, con terapia idrica". Ad affermarlo il direttore del Dea del Policlinico Umberto I di Roma Claudio Modini. "Non è nei miei poteri - ha proseguito - trovare il posto dove dovrebbe essere ricoverata, cosa che auspico, ma si cerca comunque di curarla al meglio. E' un fatto che capita spesso, ma in questi casi l'ammalato è comunque assistito. E' assistita al meglio dalle migliori professionalità medico-infermieristiche, 24 ore su 24. Certo, non dal punto di vista 'alberghiero': come comfort starebbe meglio se fosse ricoverata. Ma questo non dipende da noi del pronto soccorso". "I due senatori - conclude - hanno verificato un fenomeno noto da anni, quello dei grandi ospedali in cui i pazienti aspettano per ore, o per giorni, un ricovero".
Ore 15.57. "Noi non possiamo respingere i malati". "Noi li curiamo tutti, ma se poi non si possono ricoverare è perché non ci sono posti letto. Ma questa è una condizione nota a tutti, alla direzione generale, alla direzione sanitaria". Così Claudio Modini, direttore del Dea del Policlinico Umberto I. A chi gli chiede se il suo reparto abbia bisogno di più personale, Modini risponde: "Certo, perché il mio personale, il cui lavoro difenderò sempre, oltre a occuparsi delle emergenze si deve prendere cura anche di chi è in attesa. Questo crea una grave carenza di personale, che è nota a tutti, e da tempo". Il dirigente ha detto di "prendere atto che le necessità economiche debbano portare alla rivoluzione dei posti letto" ma si deve mettere il malato "in condizioni dignitose in attesa di un ricovero. Il mio timore, e l'ho spiegato anche ai due senatori, è che se si mettono a disposizione altri ambienti e altri posti, la richiesta farà sì che il disagio si vada ad accumulare negli ospedali più grandi. Non è una questione facile, nè facilmente risolvibile. Servono idee - ha proseguito - Roma è grande, ha 2,7 milioni di abitanti. E' difficile pensare che non riducendo gli accessi, e diminuendo i posti letto, non ci si trovi in questa situazione. La gente aspetta perchè non si trova la possibilità di ricoverare questi malati. Noi li curiamo al meglio, ma bisogna mettersi tutti intorno a un tavolo e cercare una soluzione" ha concluso Modini.
Ore 16.10. "Non coma, ma Alzheimer". La donna trovata al pronto soccorso legata al letto "non era in coma". E' una "malata di Alzheimer, seguita dal dipartimento di neurologia dell'Umberto I". Lo afferma Giuliano Bertazzoni, dirigente del Dipartimento di emergenza del Policlinico Umberto I di Roma. "Quanto scritto in queste ore - aggiunge Bertazzoni - è assolutamente falso. La signora in realtà è stata portata in ambulatorio al pronto soccorso per il peggioramento delle sue condizioni. La paziente, che non sta bene, è stata assicurata alla barella per fare una terapia infusionale".
Ore 16.35. "Sospendere i ricoveri". "Sospendere i ricoveri in elezione (quelli per gli interventi chirurgici programmati) per favorire il ricovero delle persone che affluiscono ai pronto soccorso". A dare la disposizione ai direttori degli ospedali, riferisce il senatore Pdl Domenico Gramazio, membro della commissione d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, è stato il presidente della Regione Renata Polverini. L'obiettivo, rimandando gli interventi in elezione meno urgenti, è liberare posti negli ospedali e "svuotare" i pronto soccorso.
Ore 16.40. Il comunicato dell'ospedale. La donna in coma su una barella era "seguita ambulatorialmente presso la Neurologia" e poi, "per un ulteriore decadimento delle sue condizioni è stata mandata al pronto soccorso, dove era in attesa di un posto letto". Lo precisa una nota della direzione generale del Policlinico romano. "La paziente, con un ematoma subdurale di 9 mm, che non è stato giudicato di competenza neurochirurgica, è sottoposta a terapia infusionale e per evitare azioni autolesive e pericolo di cadute è assicurata alle sbarre della barella. I familiari della paziente erano sin dall'inizio informati della grave situazione e del trattamento assistenziale a cui veniva sottoposta la paziente". Il direttore generale, "preso atto della situazione e presente nella circostanza, ha disposto immediatamente di procedere con tutte le cure necessarie nel caso di specie. Si riserva, all'esito delle relazioni, ogni successivo provvedimento".
Ore 16.45. Marino: "Andrò in Procura". Ignazio Marino del Pd annuncia che denuncerà la situazione verificata al Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I di Roma alla Procura della Repubblica. "Ognuno di noi potrebbe essere quella donna - spiega - non si può andare avanti così. E il nome del reparto dove abbiamo trovato la donna è agghiacciante: 'la piazzetta'. Potrebbe accogliere massimo 8 persone e noi ce ne abbiamo trovate 21". Anche Domenico Gramazio (Pdl), dopo il blitz di stamattina, spiega di dover ancora parlare con Marino dell'ipotesi di presentare una denuncia ma intanto si dice contrario all'idea che la commissione parlamentare sul servizio sanitario apra una seconda inchiesta sul 'caso' perché potrebbe sovrapporsi a quella della magistratura. Su una cosa sono d'accordo i due senatori: "La sanità - dice Gramazio - non può essere gestita da ragionieri". "Bisogna investire sulla sanità - aggiunge Marino - non si può considerare solo un costo". "E basta con questa storia della 'piazzetta'. Dura da 20 anni...".
Secondo “Il Corriere della Sera”: In coma dopo un trauma cranico, legata alla barella con delle lenzuola - mani e piedi «per evitare cadute» - e senza nutrizione da quattro giorni, in attesa di essere ricoverata «da un minuto all'altro». È la condizione in cui i senatori Ignazio Marino e Domenico Gramazio hanno trovato una signora di 59 anni. La scoperta dei due parlamentari è avvenuta durante una loro visita senza preavviso al Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I di Roma, lunedì 20 febbraio. «La donna, di circa 50 anni, è in coma da tre giorni e viene assistita al meglio, con terapia idrica». Ad affermarlo il direttore del Dea del Policlinico Umberto I che aggiunge: «Non è nei miei poteri trovare il posto dove dovrebbe essere ricoverata, cosa che auspico, ma si cerca comunque di curarla al meglio. È un fatto che capita spesso, ma in questi casi l'ammalato è comunque assistito. È assistita al meglio dalle migliori professionalità medico-infermieristiche, 24 ore su 24. Certo, non dal punto di vista "alberghiero": come comfort starebbe meglio se fosse ricoverata. Ma questo non dipende da noi del pronto soccorso». «I due senatori - conclude - hanno verificato un fenomeno noto da anni, quello dei grandi ospedali in cui i pazienti aspettano per ore, o per giorni, un ricovero». Al Pronto soccorso del Policlinico Umberto I «la situazione è intollerabile, totalmente indecente», hanno commentato i senatori Gramazio (Pdl) e Marino (Pd) dopo il blitz effettuato in tre Pronto Soccorso di Roma: oltre al Policlinico, i due si erano recati al San Camillo e al San Giovanni. Nella cosiddetta «piazzetta», dove ci sarebbe posto per 8 malati - hanno riferito - «c'erano almeno 20 persone, con le barelle una accanto all'altra senza corridoi e persone in attesa di trasferimento anche da venerdì». Il Policlinico Umberto I è soltanto uno dei numerosi ospedali oggetto di indagini della magistratura nella Capitale, dopo la scoperta circa una settimana fa, di pazienti curati a terra nel pronto soccorso dell'ospedale San Camillo. La Procura della Repubblica ha aperto giovedì 16 febbraio un fascicolo sulle presunte carenze negli ospedali della città. Disposte ispezioni a tappeto dei Nas per verificare le situazioni e il rischio che corrono i pazienti in relazione ai disservizi nelle strutture ospedaliere. I Pm, che venerdì hanno sentito la presidente della Regione Lazio Renata Polverini, hanno convocato i direttori generali delle aziende sanitarie. Sul caso dei pronto soccorso affollati si è tenuto domenica sera alla Regione Lazio un vertice con tutti i direttori generali e i dirigenti dell'assessorato alla Sanità. Si è discusso anche del Policlinico Umberto I, già sotto i riflettori dopo che giornalisti di La7 avevano filmato con una telecamera nascosta decine di pazienti ammassati nella stanza d'attesa del pronto soccorso. Intanto i medici denunciano situazioni drammatiche in tutti i nosocomi di Roma: dall'Umberto I a Tor Vergata, dal San Filippo Neri al San Camillo: ore di attesa nei pronto soccorso della Capitale; si calcola che ogni giorno ci siano almeno 300 pazienti in barella in attesa di essere ricoverati. Al di là dell'emergenza degli ultimi giorni, il Tribunale dei diritti del malato con un'indagine su 27 pronto soccorso del Lazio ha rivelato che l'attesa per un ricovero varia da 24 ore a 4 giorni e in 6 strutture su 10 curarsi per uno straniero è molto difficile perché mancano i mediatori culturali. «In alcuni casi - aggiunge Giuseppe Scaramuzza, segretario regionale di Cittadinanzattiva - abbiamo trovato i pazienti in attesa di essere visitati, in piedi». Le emergenze dei pronto soccorso. Niente di nuovo al San Camillo, si potrebbe tristemente dire. Un anno fa eravamo noi del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva gli “ispettori” del pronto soccorso. Lì come in altri 111 ospedali in tutta Italia, per promuovere una grande campagna nazionale sul tema dell’emergenza. Ed è così che abbiamo trovato ambulanze che sostano all’ingresso e non ripartono finché non restituiscono la lettiga, letti e barelle aggiunte nei corridoi, persone in attesa per giorni di un posto letto, come in un reparto ospedaliero, e ancora attese lunghe per un codice giallo, senza un servizio di mediazione per gli immigrati. Ci ha colpito molto la professionalità di medici e infermieri, che lamentavano di essere pochi e stanchi per soddisfare tutti. E di non poter ricoverare subito chi ne avrebbe avuto bisogno, per mancanza di posti letto. Dopo quasi un anno da questa esperienza, la situazione non poteva che peggiorare, non avendo integrato il personale e avendo continuato a tagliare posti letto. Qualcuno ricorderà che il Ministro Fazio aveva fatto una proposta, separare i codici bianchi e verdi dagli altri e assegnarli a servizi territoriali di emergenza. Una trovata originale in quel momento, ma difficile da realizzare. Nel frattempo altri ospedali sono stati chiusi, e migliaia di persone si sono riversate nei DEA dei grandi ospedali. E’ successo questo ad esempio al Cardarelli di Napoli, che viveva già una situazione drammatica. Per anni hanno provato a convincerci che siamo tutti irresponsabili se al primo malore corriamo al pronto soccorso, ma abbiamo continuato a farlo non avendo, in situazioni che percepiamo di pericolo, fiducia in nient’altro. Dove trovi, nonostante tutto, un triage che funziona come al pronto soccorso? Perché perdere tempo a contattare una guardia medica che non ci rassicura affatto quando il medico di famiglia non è disponibile? Temo che le cose resteranno così per molto tempo ancora, almeno fino a quando non avremo la certezza di servizi territoriali adeguati alle reali esigenze di salute delle persone, disponibili 24 ore su 24, come un pronto soccorso.
Da “Il Messaggero” si scopre che ad agosto 2011 una signora di 82 anni morì al pronto soccorso dell’ospedale San Camillo dopo dodici ore di attesa su una barella. Un mese prima un uomo di 52 anni morì dopo essere stato respinto da quattro pronto soccorso. L’altro giorno il direttore dell’Ares 118 ha scritto l’ennesima lettera al prefetto per avvertire: le nostre ambulanze restano a lungo bloccate nei pronto soccorso, perdiamo anche un terzo dei mezzi. Cittadinanzattiva-Tribunale del malato a dicembre fece un’indagine nei pronto soccorso e rilevò risultati molto negativi: «Sedie a rotelle per i malati spesso insufficienti o rotte», «barelle libere insufficienti», «ambulanze ferme in attesa della restituzione della barella nel 22,9 per cento dei casi», «un codice giallo viene preso in carico anche dopo 5 ore, un codice verde pure dopo 12». Altri dati: il pronto soccorso del Cto ora si è specializzato solo in ortopedia, il Sant’Eugenio, causa lavori in corso, riceve solo codici rossi e gialli dal 118. Eccola, la fotografia dell’emergenza dei pronto soccorso romani, raccontata anche da telecamere e fotocamere nascoste che hanno documentato il degrado di decine di barelle ammassate con pazienti in attesa; o dalle immagini diffuse al San Camillo con un paziente a cui viene fatto un massaggio cardiaco per terra. Come si è arrivati a tutto questo? Massimo Magnanti, presidente dello Spes (sindacato dell’emergenza sanitaria) e medico dell’Ospedale San Giovanni, tre anni fa inventò il «barella day» per denunciare lo scandalo dei pronto soccorso «depositi» di pazienti sulle lettighe: «Le cause sono molteplici, dal 2000 ad oggi nel Lazio si sono persi 10 mila posti letto». Uno scollamento del ruolo dei medici di famiglia e le carenze in organico a causa del blocco del turnover hanno contribuito a peggiorare la situazione. Quali sono gli ospedali più in difficoltà? Soprattutto quelli dell’area est, come il Policlinico Tor Vergata, che ha raggiunto anche il numero record di 70 pazienti sulle barelle. Secondo i sindacati mancano almeno 4 medici in pianta organica al pronto soccorso. Gli accessi in totale a Tor Vergata nel 2010 sono stati 56.461. Ieri il direttore generale Enrico Bollero ha spiegato: «Sono tranquillo dell’operato del personale dell’ospedale, ma è giusto che la Procura faccia le sue indagini. La situazione di criticità però non è solo per Tor Vergata o il San Camillo, perché l’80 per cento degli accessi ai pronto soccorso è composto da persone che arrivano con la propria macchina e non con l’ambulanza. Qualcosa nel sistema non funziona bene. C’è una forte inadeguatezza nell’utilizzo dei dipartimenti d’emergenza che causa molti problemi». In sintesi: nei pronto soccorso le emergenze sono una parte minoritaria: i dati dell’Asp (agenzia regionale per la sanità) confermano che nel 2010 su 2.080.472 accessi nei pronto soccorso di Roma e del Lazio solo l’1,47 per cento erano in codice rosso, e solo in 18,96 in codice giallo: circa il 20 per cento. Tutti gli altri erano codici verdi o bianchi, problemi per i quali un tempo si sarebbe andati dal medico di famiglia. Un altro dei grandi ospedali in difficoltà, in cui - come a Tor Vergata - sono andati i Nas è il San Camillo. Qui nel 2011, spiegava ieri Ignazio Marino (Pd, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta) «al pronto soccorso ci sono stati 63 mila accessi per 900 posti letto». «Ci hanno raddoppiato il bacino di utenza - hanno denunciato i sindacati - senza le forze necessarie». La chiusura del San Giacomo non ha aiutato l’Umberto I, dove nel 2010 si è superata quota 70 mila accessi e dove i pazienti sono spesso distribuiti nei corridoi o nella stessa stanza, barella vicino a barella, uomini insieme a donne. Altri casi difficili: il Pertini, sempre quadrante est, che come ricorda Marino ha 78 mila accessi con 382 posti letto, e il San Giovanni (uno degli ospedali più importanti per i quartieri centrali) che deve farsi carico di 68 mila accessi con 659 posti letto.
OSPEDALE UMBERTO I DI ROMA: Incustoditi i laboratori contagiosi e radioattivi, sporcizia e sigarette ovunque.
Il viaggio choc nell'ospedale più grande d'Italia dell'inviato de 'L'espresso', Fabrizio Gatti. Per un mese, travestito da uomo delle pulizie.
Quaggiù in pediatria una pausa sigaretta vale più di un bambino. Bisogna camminare fino in fondo al reparto per trovarne la prova. Si arriva davanti a una porta scorrevole con un citofono. Il cartello 'Terapia intensiva' rivela le sofferenze che il vetro smerigliato nasconde. Si sente il pianto dei piccoli pazienti. A volte piangono anche i genitori seduti su una panca di fronte. Ma il corridoio prosegue. Nove passi. Soltanto nove passi dalla porta scorrevole. E si finisce su un pavimento di mozziconi, cicche lasciate a metà, filtri consumati fino all'ultimo tiro di tabacco. Un corridoio è un corridoio. Non ha sbocchi all'aperto. Non ha finestre. Il fumo ristagna. Volteggia. Si affida alla corrente d'aria e lentamente torna indietro attirato dalla temperatura più calda nel reparto. L'odore di nicotina lo senti tra le stanze con i lettini a sbarre e i poster di Topolino, Biancaneve e la Carica dei 101. Lo annusi all'ingresso della grande camera sterile. Forse scivola fin là dentro ogni volta che la porta scorrevole si apre. Fumare in un ospedale con bimbi in pericolo di vita non solo è vietato: è da criminali. Ma in un mese, nessun trasgressore è mai stato rimproverato. Il perché lo si scopre fermandosi qualche ora ad osservare. Chi fuma sono quelli che dovrebbero far rispettare il divieto. Uomini o donne con il camice bianco. Oppure personale sanitario con il completo e la cuffia azzurri, o strumentisti con la mascherina e l'uniforme verde delle sale operatorie. Sanno che non si può e non si deve. Ma chissenefrega. Qualcuno l'ha dichiarato con un pennarello nero sul muro bianco: 'Stiamo in pausa... e si fuma'. E ha pure aggiunto quattro punti esclamativi.
È sorprendente lavorare un mese in ospedale. Questo poi non è un ospedale qualunque. È il Policlinico Umberto I di Roma, il più grande d'Italia, uno dei più grandi al mondo. L'ospedale modello dell'Università La Sapienza che con i suoi professori, assistenti, ricercatori, medici, infermieri, allievi è, o dovrebbe essere, l'eccellenza dello Stato. Invece è l'esempio di come la sanità pubblica si stia suicidando. Non solo per la sporcizia e la carenza di manutenzione grazie ad appalti che nessuno controlla. Ma anche per l'abitudine al degrado che sta inesorabilmente contagiando le persone. A cominciare dagli studenti, il futuro della medicina, costretti a formarsi in una realtà nella quale o ci si rassegna o si scappa.
Con la carenza cronica di personale, non occorre essere assunti per lavorare al Policlinico. Basta indossare una tuta blu e presentarsi vestito come un addetto alle manutenzioni. Oppure come un uomo delle pulizie. In tasca: un metro da falegname, una macchina fotografica digitale e una piccola telecamera nascosta per documentare l'inchiesta. Tutti i giorni, per un mese intero. Con turni dalle 8 alle 15 o dalle 14 alle 21. Nessuno si accorge di nulla, nessuno domanda nulla. Nel 2006 la giunta del governatore Piero Marrazzo chiede informazioni sull'organico a tutti gli ospedali del Lazio per il buco da 10 miliardi lasciato da Francesco Storace. E tra contratti a termine, precari usati oltre ogni limite, cooperative e imprese esterne, l'amministrazione dell'Umberto I deve confessare alla Regione di non conoscere il numero esatto dei dipendenti.
L'elenco delle negligenze fotografate e filmate è impressionante. Dal 4 al 29 dicembre il laboratorio di Fisica sanitaria resta più volte incustodito con i frigo e gli armadi aperti nonostante la presenza di sostanze radioattive. Il deposito di colture batteriche e virali del Dipartimento di malattie infettive e tropicali non ha serratura: senza sorveglianza, il congelatore con le provette a rischio contagio è sempre accessibile a chiunque. Per tre giorni nessuno pulisce gli escrementi che la notte di Santo Stefano un cane randagio ha lasciato nel corridoio sfruttato per trasferire i pazienti da un reparto all'altro. Infermieri e portantini spesso fumano anche quando spingono gli infermi su lettighe e carrozzelle. Ogni volta che salgono o scendono dalla rianimazione o dal pronto soccorso o dalle sale operatorie, i ricoverati, anche quelli più gravi, nudi sotto le lenzuola, intubati o con l'ossigeno, seguono lo stesso percorso dell'immondizia. Finiscono così in mezzo ai sacchi neri e agli scatoloni gialli ammassati nel sotterraneo, o in coda ai carrelli della rimozione. E quando gli addetti lavano con getti d'acqua i depositi dei rifiuti, le ruote dei lettini si inzuppano di liquami e trascinano tutto lo sporco in reparto. Verrebbe da sorridere se si pensa che, per legge, perfino le mozzarelle di una pizzeria vanno tenute sempre lontane dalla spazzatura. Basterebbe forse cambiare orario. Almeno rimuovere i rifiuti la sera e non la mattina, quando l'ospedale è in piena attività. Ma questi corridoi sono terra di nessuno. E nessuno decide.
La competenza di professori e direttori si ferma al proprio reparto. La maggior parte di loro non ha nemmeno il tempo di guardar fuori. Impegnati come sono a dividere le giornate tra Policlinico e cliniche private. Perché mai dovrebbero battersi per il datore di lavoro che dà loro sì prestigio, ma con il quale guadagnano meno? Dopo tutto, proprio queste condizioni favoriscono l'esodo dei pazienti verso la sanità privata, o no? Così nessun nome che conta si accorge del disastro. Anche perché i nomi che contano a Roma di solito non si fanno curare al Policlinico. Silvio Berlusconi in persona l'ha dimostrato poche settimane fa volando negli Stati Uniti per un'aritmia cardiaca. Al Policlinico ci va la gente comune. Ed è quella che rischia di più. Ogni anno in Italia la mancanza di igiene in corsia provoca un'ecatombe: tra i 4.500 e i 7 mila morti per infezioni prese durante il ricovero. Per altri 21 mila decessi le infezioni ospedaliere sono una concausa. I pazienti italiani che si ammalano in ospedale oscillano tra i 450 mila e i 700 mila all'anno. E nel 30 per cento dei casi si tratta di contagi sicuramente evitabili. Sono stime molto variabili di anno in anno, raccolte dall'Istituto superiore di sanità.
Le infezioni ospedaliere in Italia nel 2005 riguardavano il 6,7 per cento dei ricoveri. Percentuale in linea con la Francia, superiore alla Germania e inferiore a Svizzera e Regno Unito. In Lombardia nel 2000 erano state il 4,9 per cento. Ma, secondo una ricerca dell'Università La Sapienza e dell'azienda ospedaliera San Camillo di Roma, nel 1999 il Policlinico Umberto I aveva raggiunto il record: 15,2 per cento di infezioni sul totale dei ricoveri. Due volte e mezzo in più della media tra tutti gli ospedali romani. E nessuno ha osato calcolare quante morti abbia provocato tutto questo.
Il primo giorno di lavoro non si passa dall'ingresso principale. Da lì entrano pazienti e familiari. Un appalto da qualche milione di euro prevede la sorveglianza di guardie private, una sbarra per fermare le auto, un segnale rotondo rosso, bianco e nero con l'avvertimento 'alt-controllo'. Sembra un posto di frontiera talmente gli agenti sono meticolosi nel loro compito. Meglio fare il giro dell'isolato. Camminare fino all'incrocio tra viale Policlinico e viale Regina Elena. C'è una vecchia porta al numero 330 sotto la scritta in rilievo 'Ambulatorio'. Sembra chiusa. Invece da mattina a sera è soltanto accostata. Si apre scricchiolando su una scalinata. In cima, un corridoio buio. Poi un corridoio illuminato. A pochi passa dalla strada, senza nessun controllo, ci si ritrova tra i laboratori del Servizio di fisica sanitaria. Sulle porte blindate il simbolo internazionale giallo e nero del pericolo radioattivo con l'indicazione: 'Dipartimento malattie infettive - laboratorio ricerca - zona sorvegliata'. Per buona parte del pomeriggio però le porte sono aperte e nessuno sorveglia.
Più volte è possibile entrare, girare nei laboratori, guardare nei frigoriferi, richiudere e uscire in strada. Senza mai essere visti. Come il 21 dicembre nel laboratorio di Batteriologia. E il 27 dicembre nel laboratorio di Radioimmunologia e in quello accanto. La porta blindata e il cancello di protezione sono spalancati. Le riprese con la telecamera richiedono una buona mezz'ora. Non passa nessuno.
A saper rovistare, un ladro potrebbe andarsene con flaconi di sostanze usate per le ricerche. Come gli isotopi di iodio, la cui radioattività dura tra gli otto e i 60 giorni. Il lungo corridoio dei laboratori di Fisica sanitaria arriva a una porta tagliafuoco. Al di là il passaggio prosegue verso il centro del Policlinico. Sopra ci sono le camere del Dipartimento malattie infettive. È intitolato a Paolo Tesio, medico assistente morto a 29 anni il 20 gennaio 1911 per 'difterite contratta in reparto', spiega la lapide. Un po' quello che le norme di igiene oggi dovrebbero evitare. Ma qui sotto, anche se è il corridoio centrale dell'ospedale, due dipendenti hanno pensato di usare lo spazio come garage. I loro grossi scooter restano parcheggiati tutto il tempo del turno di lavoro. E quando ripartono, i due accendono il motore e affumicano il locale fino alla rampa che porta in cortile. Sarà per questo che un avviso della direzione del Policlinico vieta a medici e infermieri di passare di qui con i pazienti. Ma questa è anche la via più breve. Così, la mattina e buona parte del pomeriggio, il viavai di carrozzelle e lettighe è continuo. Da questo incrocio di corridoi si scopre presto la propensione di molti a fottersene delle norme di igiene. Anche se riguardano la salute delle persone che accudiscono.
L'elenco delle infrazioni è lungo. Un caso tra i tanti ripreso dalla telecamera, la mattina del 29 dicembre: due infermieri portano un'anziana a uno degli ambulatori di Chirurgia e le fumano addosso per alcune centinaia di metri passando davanti ad almeno una decina di cartelli di divieto.
Lo chiamano tunnel anche se non tutto questo corridoio è sotterraneo. I muri sono scrostati dall'umidità. In mezzo scritte e graffiti, qualcuno poco incline al giuramento di Ippocrate invita a 'gasare gli handicappati'. È qui che la mattina del 27 dicembre il pavimento è ricoperto da due grossi escrementi, sembra di cane. Il pomeriggio del 29, ultimo giorno dell'inchiesta, sono ancora lì nonostante il passaggio quotidiano di decine di persone tra medici, infermieri e pazienti. Nessuno segnala o tanto meno protesta con l'impresa di pulizie.
I frigoriferi con le colture di virus e batteri sono più o meno a metà del corridoio successivo, oltre l'indicazione 'malattie tropicali'. Sulla porta del deposito l'insegna internazionale avverte chi entra del 'rischio biologico - pericolo di infezione'. Ma la serratura della porta è scassinata. Dentro, tra i congelatori, quello a 80 gradi sotto zero non è mai chiuso a chiave. Gli altri a volte sì, a volte no. Una sigla identifica ogni provetta. Ce ne sono migliaia. Potrebbero contenere colture di Stafilococco aureo o di Pseudomonas aeruginosa, i ceppi batterici resistenti agli antibiotici e responsabili di metà delle infezioni ospedaliere. Oppure campioni di germi di malattie infettive e tropicali studiate dal Dipartimento. Anche qui, soprattutto di pomeriggio, qualunque malintenzionato potrebbe venire a rubare provette senza essere fermato. La visita a questi congelatori è un appuntamento quotidiano per tutto il mese di lavoro al Policlinico. Un giorno una foto. Un altro giorno una ripresa con la telecamera. Mai un controllo. Tra i pochi infermieri di passaggio, mai nessuno ha avuto l'idea di chiedere chi fossi.
Fuori dal locale frigoriferi, a destra, davanti agli ambulatori del Dipartimento di malattie tropicali, un esempio di come non andrebbero fatte le pulizie in un ospedale. L'addetto, terminato il turno, ha abbandonato il carrello con il sacco mezzo pieno di sporcizia. La scopa non tocca l'acqua da almeno qualche settimana. È ricoperta da uno strato di lanugine, peli, capelli e incrostazioni di polvere. Gli stracci sono stati lasciati a bagno in un liquame nero. E sul pavimento, in un angolo poco visibile, è rimasta una sventagliata di mozziconi di sigaretta. Non è l'episodio di una volta. È così tutti i giorni. Eppure, secondo banalissime ricerche nel Regno Unito, proprio la mancata pulizia dei pavimenti e degli attrezzi per le pulizie è la concausa principale della diffusione di infezioni ospedaliere.
Sotto i reparti centrali del grande ospedale universitario l'igiene peggiora. Dal soffitto gocciola un vecchio tubo caldo e corroso. I tecnici della manutenzione l'hanno ovviamente riparato. Ma non hanno sostituito la sezione rotta. Il sistema scelto è molto più creativo. Una canalina lunga una ventina di metri raccoglie l'acqua tiepida e attraverso un'apertura nel muro la porta in cortile sopra un tombino. A valutare dalla quantità di muschio e di cicche di sigarette, il ruscello termale è lì da mesi. Certo, la direzione tecnica del Policlinico non poteva pretendere di più. In fondo questa è l'università di medicina, non di ingegneria idraulica. Per verificare la sensibilità del personale sanitario al rischio di infezioni ospedaliere, basta seguire un infermiere o un portantino mentre spinge una lettiga con qualche malato grave. Tra i più recenti, un caso del 20 dicembre, alle sette di sera. Un dipendente in divisa bianca deve riportare una donna in uno dei padiglioni di Chirurgia.
Lei è coperta da un lenzuolo e da una spalla appare un catetere infilato nella vena succlavia. L'uomo, invece di accompagnarla direttamente in reparto, le fa fare un lungo giro fino a uno dei depositi dell'immondizia con sbalzi di temperatura che, secondo un approssimativo termometro tascabile, passano dai 23 ai 15 gradi in poche decine di metri. Lui va lì perché deve buttare un sacco pieno di flaconi da flebo vuoti. Non si preoccupa che, in questo modo, non solo la paziente respira aria infetta, ma sia le ruote della lettiga sia i suoi zoccoli si impregnano del liquame che ricopre il pavimento. I pericoli di contagio per la sporcizia sotto le suole non sono per niente considerati. Il pomeriggio del 27 dicembre quattro tra infermieri e strumentisti della rianimazione portano in Radiologia un paziente con barella, cateteri e bombola d'ossigeno.
Nel lungo percorso sotterraneo passano davanti a due depositi di rifiuti e a un filare di sacchi neri addossati a un muro. Il pavimento è lurido. Mezz'ora dopo riaccompagnano il malato nel reparto di Terapia intensiva. E due di loro si appartano per fumare una sigaretta. Attenti ai divieti, non lo fanno in corridoio. Si nascondo in un locale abbandonato trasformato in discarica abusiva, dietro un deposito di rifiuti ospedalieri. La discarica è tra il laboratorio di Medicina iperbarica e il 'nuovo complesso operatorio della seconda clinica chirurgica', di fronte al corridoio che dovrebbe rimanere sempre pulito perché porta all'ascensore della rianimazione. Lì dentro ci sono scatoloni di rifiuti ospedalieri rotti, macerie, rottami, immondizia che qualcuno avrebbe dovuto portare altrove. La possibilità di incendio per le cicche di sigaretta è soltanto il più remoto dei mali. Per entrare e uscire dal nascondiglio, i due strumentisti mettono gli zoccoli da reparto dentro il liquido viscido che ricopre il pavimento e sta macerando la pila di scatoloni gialli con la scritta 'Rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo'. Spenta la sigaretta, tornano in rianimazione passando accanto ai bancali di legno abbandonati di fronte all'ascensore. E all'ingresso del reparto asettico, non c'è nemmeno il tappeto di carta adesiva per trattenere lo sporco più grossolano.
Proprio qui la mattina i percorsi di immondizia e pazienti gravi si intrecciano pericolosamente. A momenti, il corridoio è una lunga coda di lettighe, carrozzine, muletti elettrici, lampeggianti gialli, sacchi neri e dottori che prendono la rincorsa per non sporcarsi i mocassini dentro i rivoli di acqua sporca. A pranzo e a cena al traffico si aggiungono i carrelli con i vassoi di plastica e i pasti preriscaldati che troppo spesso arrivano nelle stanze freddi. Scene così fanno dimenticare i successi nella ricerca conquistati dall'università e le fatiche quotidiane di tutto il personale, sanitario e non.
A pochi metri dalla targa che indica il 'nuovo complesso operatorio della seconda clinica chirurgica', un altro cartello sulla parete è perentorio e lapalissiano davanti all'ingresso di un blocco operatorio. 'È assolutamente vietato', dice, 'lasciare abbandonati rifiuti urbani o assimilabili (vedi sacchi neri e cartoni) in questo spazio'. Provate a indovinare com'è andata durante tutto il mese: nei giorni migliori i sacchi abbandonati proprio sotto il cartello sono uno o due. In altri, anche quattro. Per non contare assi e pezzi di legno. Stesse scene davanti agli ambulatori di Geriatria, dove una porta tagliafuoco nasconde un'altra discarica abusiva con macerie, immondizia e una carrozzella arrugginita.
Alle 17,49 del 21 dicembre due infermiere fumano nella rampa di scale sotto l'astanteria del Pronto soccorso. Tentiamo di far osservare il divieto in ospedale, filmandole con la telecamera nascosta: "Non si potrebbe fumare qua sotto". Loro rispondono candide: "Eh lo sappiamo, ma son le sei". E continuano ad ammorbare l'aria fino all'ultimo millimetro di tabacco.
La sera tardi capita di parlare con qualche clochard al riparo dal freddo nelle sale d'attesa deserte. Tre quelli incontrati in un mese. Uno dorme nella palazzina dell'amministrazione. Il secondo cambia spesso luogo per non essere sorpreso. Il terzo si ripara in uno sgabuzzino sotto uno dei padiglioni di Medicina. Le luci restano sempre accese e i locali accessibili anche nei settori non più utilizzati. Come davanti all'ambulatorio di Plasmaferesi terapeutica. Il trasloco, appaltato alla solita ditta esterna, l'hanno fatto talmente in fretta che si sono dimenticati in corridoio qualche migliaio di cartelle cliniche. Arrivano fino al 2002. Ci sono radiografie, ecografie, esami del sangue. Basta andare lì e spulciare. Nomi, cognomi, indirizzi, diagnosi, anamnesi. Si può sapere tutto sulla salute e le abitudini di vita di migliaia di cittadini. L'archivio delle cartelle è incustodito anche negli ambulatori di Clinica oculistica. Non ci sono armadi chiusi a chiave. Le buste con gli esami arrivano fino al 2006 e sono infilate in scatoloni riciclati dalle forniture per l'ospedale. Per consultarle o rubarle, basta aspettare che i medici e gli infermieri finiscano il turno di visite.
Secondo i contratti a disposizione delle organizzazioni sindacali, l'appalto con la società esterna Pultra sas prevede che i quattro piani di Oculistica siano puliti da due persone. Dal 6 novembre, però, uno dei due addetti è in malattia. E nelle stesse ore la collega deve garantire il doppio del lavoro. Tutto a mano. Niente aspirapolvere. Niente macchine. Perché per guadagnare di più le imprese assumono al livello più basso di stipendio e per usare una lucidatrice industriale uno dev'essere promosso almeno operaio specializzato. Il risultato, in questo e in altri reparti, sono scope e stracci che fanno chilometri ogni giorno. Senza mai essere cambiati o lavati tra una stanza e l'altra o tra un ambulatorio e l'altro. In un mese di lavoro non c'è mai stato tempo per spolverare scrivanie, strumenti, scaffali, porte, termosifoni, piastrelle, davanzali. E spesso nemmeno per lavare il pavimento. La sera del 21 dicembre l'addetta alle pulizie ignara di avere di fronte un finto collega trasmette le indicazioni di un caposquadra. La domanda è: "Ce la facciamo a lavare tutto il pavimento prima di finire?". Lei risponde: "No, soltanto per spazzare. Io faccio in bagno". E qui non laviamo? "No, no". Una passata con una scopa piuttosto sporca che ha già fatto il giro di tutti i piani. Soltanto questo per tre sale d'attesa, tre ambulatori e la segreteria aperti tutto il giorno a centinaia di pazienti. Un tocco al battiscopa fa cadere un pezzo di intonaco fradicio di umidità. L'addetta alle pulizie ripete le indicazioni del caposquadra: "Se non è tanto sporco, non si lava sempre". Poi si accorge dell'intonaco caduto: "Mo' lì c'è da lavare perché hai levato la polvere". "Facciamo tutti i pavimenti?". "No, no, va be', tutti no. Ma lì quelle macchiette è meglio che le levi.
Poi dev'essere tutto in ordine", dice segnalando le sedie nell'ambulatorio, "per far vedere..., hai capito?". Da sola da due mesi non può fare di più. Anche se il Policlinico ha pagato il servizio di pulizie per avere qui due addetti. Un appalto che nel 2005 è costato 8 milioni 687 mila 681 euro. Eppure il reparto di Oculistica meriterebbe più attenzione. Perché gli occhi sono tra gli organi più esposti alle infezioni ospedaliere. Nel 1998 alcuni pazienti del Policlinico perdono la vista dopo una semplice operazione di cataratta. L'estate del '99 un contagio forse da pseudomonas in una sala parto, in una sala travaglio e nell'unità neonatale provoca 15 casi di enterite necrotizzante tra i neonati. La perizia, ordinata dalla Procura, denuncerà le condizioni che "non garantivano una adeguata igiene": come l'esistenza di "polvere massiva e non rimossa da tempo, pareti imbrattate, pedane sporche, presenza di ruggine e polvere nelle bocchette di areazione".
È il 29 dicembre, ultimo giorno di lavoro al Policlinico. Qualcuno finalmente ha scopato le decine di mozziconi fumati e gettati a ridosso della terapia intensiva di Pediatria. Ma non li ha portati via: li ha semplicemente spinti verso l'angolo del muro insieme con un pacchetto vuoto di Marlboro, cartacce, polvere, un pezzo di legno. Stasera la sala d'attesa del Pronto soccorso è piena di gente, come sempre. Sono costretti ad aspettare i ritmi della sanità pubblica. E ad avere fiducia. Non si chiamano Silvio Berlusconi e nessuno di loro può permettersi un ricovero negli Stati Uniti.
CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI
L'ateneo di Roma in bassa classifica internazionale. Il declino della Sapienza all'ombra di Parentopoli: è al 430° posto nel mondo. Nell'università dopo moglie e figlia, anche il figlio del Rettore. Così scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
«Parentopoli? Ma perché non parlate di "Ignorantopoli"? Questo è il vero problema dell'università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore!», sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d'accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze. E sull'arrivo dell'ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere. Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all'intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L'Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario. Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un'eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà. Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l'aula Grande di Patologia Generale». Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene , quella volta, a guastare un po' la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell'aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come "crazi" che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c'è qui mia moglie...». Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è "la moglie di", sono io che sono "il marito di"».
Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report : discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo. «Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l'inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io... Non parliamo di cuore o di fegato, però...». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d'igiene potevano adeguatamente...». «Forse no però questo non è un problema mio...». Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell'entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione. Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica , sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po' di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l'Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell'ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell'uomo che lo aveva appena promosso. Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell'inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?
Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l'ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall'Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.
Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?
Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.
Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli, scrive Claudio Marincola su "Il Messaggero". Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.
Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».
In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni. Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».
Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni, scrive Nino Luca su "Il Corriere della Sera". Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.
SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.
TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.
I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.
La
mattina del 12 aprile 2006, il professor Tommaso Gastaldi, docente di seconda
fascia in Scienze statistiche all’università romana
Pur senza
visceri di uccelli da «leggere» come gli antichi aruspici, né sfere di
cristallo da mago Otelma in cui scrutare, nelle sue lettere il professor
Gastaldi (anche lui intenzionato a partecipare a quel concorso, iniziato poi il
20 ottobre 2006) le aveva azzeccate tutte: dai requisiti curriculari che
sarebbero stati chiesti al nome del vincitore. Anzi, della vincitrice: la
professoressa Mary Fraire, «docente per affidamento interno» della stessa
facoltà il cui preside, Luciano Benadusi, aveva bandito il concorso nominandone
presidente l’amico e collega professor Alfredo Rizzi. Il quale Rizzi è
coautore a firma congiunta, proprio con
Per la cronaca, Gastaldi aveva fatto poi seguire la prima lettera da una seconda, il 21 giugno 2006, ai già citati indirizzi: il suo e quello del suo avvocato, nonché fratello, Davide Gastaldi del Foro di Roma. Rispetto alla prima missiva, nella seconda c’era in più soltanto un rafforzamento nei toni provocato da sgradevoli episodi avvenuti in ateneo (con circostanze ben documentate e riferibili da testimoni) e legati proprio allo svolgimento del concorso di là da venire: dalle scontate e abituali piogge di telefonate ed e-mail per indirizzare i voti su alcuni candidati alla Commissione, fino ai palesi suggerimenti verbali, alla luce del sole, nei corridoi dell’ateneo. Entrambe le missive sono in luogo sicuro, sigillate e recanti leggibili affrancature postali.
Su di esse, con richiesta di acquisizione delle stesse, si basa l’atto di denuncia con richiesta di sequestro di tutti gli originali dei documenti riguardanti il concorso, depositato dall’avvocato Davide Gastaldi alla Procura della Repubblica di Roma il 23 febbraio 2007 e affidato al pm Francesco Dall’Oglio. Denuncia che adombra sia sospetti di «gravi irregolarità legate a un’imminente Procedura di valutazione comparativa» (il concorso), sia di «manipolazione del procedimento di formazione della Commissione, volto al conseguimento di un risultato deciso a priori». Con il corollario, scrive sempre il legale, della «assegnazione della cattedra a una professoressa “assai debole” scientificamente», facendo così ritenere «che il risultato del concorso fosse di “pubblico dominio” nell’ambiente universitario già al momento stesso dell’emissione del bando».
L’avvocato,
che in base all’obbligatorietà dell’azione penale chiede l’avvio di
un’indagine per abuso d’ufficio, interesse privato in atti di ufficio e
falso ideologico, chiama in causa cinque persone. Tre sono altrettanti membri
(su cinque) della Commissione d’esame: Alfredo Rizzi, docente di statistica
alla Sapienza; Tonino Sclocco, direttore del Dipartimento metodi quantitativi
dell’università D’Annunzio di Chieti-Pescara; e Roberta Siciliano, docente
presso
A
proposito di quest’ultima, gli altri due componenti di Commissione, i
professori Giancarlo Diana e Lorenzo Fattorini, hanno preteso che fosse messa a
verbale sia la loro valutazione comparativa assolutamente negativa, sia il fatto
che, a loro avviso,
Il
professor Gastaldi, per fare un confronto, ha al suo attivo oltre 30
pubblicazioni, tutte recenti e indexate su riviste internazionali. L’ultima,
per di più, dà la soluzione a un problema che era aperto, e irrisolto, da
circa mezzo secolo. Ma Gastaldi, come gli altri candidati in lizza, non è stato
considerato idoneo. Curioso anche questo. Così come lo è il fatto che il «Profilo
didattico» inserito caparbiamente nel bando, nonostante per legge sia
considerato un elemento ininfluente ai fini di una valutazione comparativa,
parrebbe essere il ritratto perfetto della vincitrice. Disegnato a sua immagine
e somiglianza. E soprattutto prima del concorso.