Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
I PERUGINI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
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Omicidi di Stato: Aldo Bianzino
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TUTTO SU PERUGIA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I PERUGINI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che i Perugini non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Perugini non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
HOTEL GOMORRA. PERUGIA E' COSCA NOSTRA.
PERUGIA COME SODOMA E GOMORRA?
LIBERTA’ DI PAROLA? AMMAZZATI PER UNA FRASE.
POVERA PERUGIA......
UMBRIA DA CENSURA E DA INSABBIAMENTI.
INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.
LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.
PERUGIA: GLI SCANDALI; LA STRAGE….
CASTA. AFFARI DI FAMIGLIA. L’ATENEO: ROBA NOSTRA!
INGIUSTIZIA A PERUGIA. IL CASO MEREDITH KERCHER
AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.
IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.
AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO: C'E' UN GIUDICE A PERUGIA.
PARLIAMO DI MASSONERIA E DI MAFIA.
PARLIAMO DI MAFIA.
FAVORITISMI E RACCOMANDAZIONI. VOTO DI SCAMBIO: IN ALTRI POSTI E' CONSIDERATA MAFIA.
PERUGIA INSICURA.
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO KERCHER.
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO BIANZINO.
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.
MAGISTROPOLI.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Rinviati a giudizio un cancelliere e un ex giudice di pace in servizio a Perugia, scrive “Il Giornale dell’Umbria”. È la decisione del gup fiorentino (per competenza) dopo che la procura perugina aveva contestato ai due di aver manipolato il sistema di assegnazione automatico dei procedimenti. L’accusa sostiene che il cancelliere avrebbe provveduto «alla illegittima ed immotivata sostituzione, subito dopo l’iscrizione nel registro informatico, del giudici di pace individuato come assegnatario dell’affare con il sistema automatico cosiddetto randomico previsto dal sistema ministeriale Sigp che gestisce il contenzioso civile, otteneva l’assegnazione di rispettivamente 51 fascicoli nel periodo 2007/2008 e di 97 fascicoli nel periodo 2009/2010, con sottrazione al giudice naturale». Secondo la procura perugina tutto ciò sarebbe avvenuto in accordo con un giudice di pace allora in servizio nell’ufficio perugino (ipotesi che il consiglio giudiziario presso al Corte d’appello di Perugia ha respinto, archiviando il procedimento disciplinare). Il cancelliere, difeso dagli avvocati Claudio Lombardi e Doretta Bracci, ha anche spiegato al pubblico ministero il perché delle sue azioni, discolpando il magistrato onorario: «Ho fatto le sostituzioni che mi sono state contestate nell’esclusivo interesse dei cittadini, in riferimento a situazioni di emergenza e di urgenza che mi venivano prospettate da chi veniva allo sportello. Tenevo, infatti, in considerazione la circostanza che mentre gli altri giudici di pace erano presenti in ufficio saltuariamente nel corso della settimana … era presente ogni giorno, è sempre disponibile a rispondere alle esigenze del pubblico, era più spesso in ufficio rispetto agli altri giudici. Ho constatato che talora era presente anche il sabato … è vero che tratta rapidamente le sue pratiche … Per cui era naturale, per rispondere ad un’urgenza, canalizzare la pratica su … che poteva esaminare la pratica in tempi rapidissimi. Escludo che vi fosse un accordo tra me e il giudice di pace in riferimento alle assegnazioni». Il magistrato onorario, difeso dall’avvocato Vittorio Lombardo, ha sempre sostenuto di non aver avuto parte «alla sottrazione dei procedimenti al loro giudice naturale. Soprattutto se le accuse partono da una singola testimonianza a supportare l’idea vaga di un rapporto non solo professionale tra i due … di una complicità forse solo accennata, di uno sguardo d’intesa». Il rapporto tra cancelliere e giudice è riconosciuto da tutti come «solo professionale». Nella ricostruzione che emerge dalle carte, infatti, non sono provati quali «benefici poteva trarre il giudice dalla assegnazione di determinati procedimenti piuttosto che di altri?». Non emergerebbe, infatti, nulla di tutto ciò. Anzi, il magistrato non sapeva neppure che le sostituzioni venivano effettuate. Come confermato da un altro cancelliere e da un funzionario: «Sul fascicolo che arriva sul tavolo del giudice di pace non risultava l’avvenuta sostituzione rispetto al giudice assegnato randomicamente». Il cancelliere imputato, inoltre, ha riconosciuto che se il giudice avesse saputo del comportamento illecito «me lo avrebbe quanto meno limitato». L’indagine era partita da una segnalazione, anzi da voci «secondo cui qualche avvocato aveva chiesto in cancelleria se era possibile l’assegnazione di un giudice diverso da quello individuato dal computer» magari al giudice in questione, il quale aveva un’alta percentuale di accoglimento. L’analisi dettagliata dei ricorsi incriminati, però, dimostra che pur di fronte ad una percentuale di accoglimento di ricorsi abbastanza alta, questa riguarda sia i cittadini sia Comuni, Prefettura ed enti. Non solo, ma «per quanto riguarda i 44 procedimenti relativi al 2009 1 è stato cancellato, 7 sono stati rigettati, 3 sono pendenti, 1 è relativo ad un decreto ingiuntivo; per quanto riguarda i 47 procedimenti relativi al 2010, 3 sono stati rigettati, 13 sono pendenti». Con una percentuale di accoglimento pari al 59,5%. Dato che non si discosta dalla percentuale riscontrata anche negli anni dal 2006 al 2010, pari al 59%. Le spiegazioni arriveranno dal dibattimento in aula.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrigano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere:
«Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro.
Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici.
I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese.
Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.
E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.
Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra.
Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.
Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo.
Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche.
Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti.
Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa.
Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”.
Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato.
Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo.
Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo.
Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza,
“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”.
Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune.
E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato.
Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio.
Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato.
Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia.
Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.
Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire.
Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati.
So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale.
Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.
È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire.
È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente.
Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.
Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.
Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato.
Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.
È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.
Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.
Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi.
Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia.
Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.
Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino.
Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti.
Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.
E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA.
IL DELITTO DI PERUGIA. INNOCENTI? NO. FORTUNATI!
Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.
Che grama vita affidarsi alla fortuna!
La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”.
"E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita".
Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.
Se l'aspettava?
"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".
Hanno avuto coraggio i magistrati?
"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".
Raffaele e Amanda assolti per sempre?
"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".
Ha parlato con Raffaele?
"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".
Cosa le ha detto?
"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".
Raffaele Sollecito si è laureato con una tesi su se stesso. Il giovane, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, ha discusso la tesi in ingegneria informatica. Il tema: innocentisti e colpevolisti sul web. Il voto: 88 su 110, scrive Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. Raffaele Sollecito ha conseguito martedì mattina, 15 luglio 2014, la laurea specialistica in ingegneria informatica all’università di Verona. Il voto: 88 su 110. Il giovane pugliese, condannato con Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher (il 1° novembre del 2007 a Perugia), ha discusso una tesi riguardante l’analisi dei social network in cui ha esaminato i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Sollecito - che ha scritto interamente in inglese la sua tesi di laurea ma poi l’ha discussa in italiano - ha sostenuto per esempio che sul web, nei giorni successivi all’ultimo verdetto (di condanna), il suo nome è stato più spesso associato alla parola innocente che a quella colpevole. Alla cerimonia erano presenti tutti i suoi familiari e anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher. Sulla torta fatta preparare dal padre Francesco c’era una pergamena disegnata con un filo di cioccolato e questa frase: «L’ingegner Raffaele Sollecito raggiunge uno dei più importanti traguardi della sua vita!». «Siamo felici - dice orgoglioso al telefono dall’aeroporto il padre del ragazzo, in attesa dell’aereo per Bari - per noi la meta raggiunta oggi da Raffaele ha un significato grandissimo in questo momento». Per la laurea il signor Sollecito non ha regalato nulla di materiale al figlio: «Il regalo che gli faccio tutti i giorni è il mio amore - spiega - Raffaele è il figlio ideale, quello che tutti i padri vorrebbero avere». Quando venne arrestato, pochi giorni dopo il delitto, Sollecito era iscritto all’Università di Perugia e si laureò infatti in carcere, il 16 febbraio del 2008. Si iscrisse quindi subito alla specialistica a Verona. Raffaele e Amanda sono stati condannati in primo grado, poi assolti in appello. La sentenza è stata però annullata dalla Cassazione che ha disposto un nuovo processo a Firenze al termine del quale i due ex fidanzati sono stati nuovamente condannati. La sentenza è stata però impugnata dalle difese in Cassazione che dovrà pronunciarsi nei prossimi mesi. Sollecito, come la Knox, si è sempre proclamato estraneo al delitto. Così come Rudy Guede, l’ivoriano già condannato in via definitiva per l’omicidio di via della Pergola e che sta scontando 16 anni di reclusione. Intanto Raffaele Sollecito continua a raccogliere fondi sul web per sostenere le spese per la sua lunga battaglia legale. L’ultima donazione, appena un’ora fa, è di John O’Loughlin: 20 dollari e un messaggio in cui si legge «Sei nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere, Raffaele. Siamo con te nella gioia e nei momenti difficili». Ma ieri anche Brigitte Gebhardt ha versato 40 dollari: «Sappiamo tutti che sei completamente innocente». E tre giorni fa un anonimo ha investito nella causa ben 300 dollari. L’obiettivo di Sollecito è quello di riuscire a mettere insieme 500 mila dollari, circa 370 mila euro. In 13 mesi, da quando ha lanciato la colletta, ne ha ricevuti 42.725 (circa 31.500 euro) da parte di 453 persone. Che lui periodicamente ringrazia. L’ha fatto con un messaggio soltanto cinque giorni fa: «Ogni giorno sono grato a Dio per avere avuto la fortuna di incontrare così tante persone che si rendono conto dell’incredibile ingiustizia che devo affrontare da così tanti anni ormai, perché chi accusa non vuole mai ammettere alcun errore - scrive Raffaele -. Vi ringrazio per la giornaliera dimostrazione di vicinanza e supporto. Nonostante tutto, non posso dire di non essere fortunato».
Meredith, otto anni per trovare la verità.
27 marzo 2015. Diario di una giornata. Processo omicidio Meredith «Assolvete Raffaele Sollecito è puro come Forrest Gump», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. E' nella sua abitazione, in Puglia, a Bisceglie, Raffaele Sollecito: è nella casa di famiglia che il 30enne ha deciso di attendere, con il padre e le persone più care, la sentenza della Corte di Cassazione per l'omicidio di Meredith Kercher. È arrivato da Roma a Bisceglie in auto, insieme con il padre e ora è nella villetta, in via Carrara il Vuolo. Davanti all’abitazione c'è un’auto della polizia e un gruppo di giornalisti e cineoperatori assedia l'abitazione, circondata da un alto cancello. E' iniziata, con circa mezzora di ritardo, l’udienza del processo Meredith in Cassazione. Per la difesa di Raffaele Sollecito, ha preso la parola l’avvocato Giulia Bongiorno che ha detto che il suo intervento "si articolerà sugli unici due indizi a carico dell’imputato: il gancetto del reggiseno di Meredith, e l’essere stato fidanzato per 10 giorni con Amanda Knox". Dopo la parola passerà all’avvocato Luca Maori e poi i giudici si chiuderanno in camera di consiglio. "Sollecito non ha mai depistato, anzi ha sempre collaborato alle indagini, durante l’aggressione a Meredith vedeva i cartoni animati: Raffaele Sollecito è un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali, come Forrest Gump, non si rende conto. Assolvetelo!". Con queste parole l’avvocato Giulio Bongiorno ha chiuso la sua arringa in Cassazione al processo Meredith chiedendo ai giudici di scagionare Sollecito. "L'approccio della sentenza fiorentina con le prove genetiche sul gancetto e sul coltellaccio è fuorviante e anacronistico. La sentenza ammette che non vi è la prova certa della presenza del dna di Sollecito sul gancetto. I protocolli internazionali dei prelievi e degli esami, infatti, non sono stati rispettati", ha sottolineato l'avvocato Giulia Bongiorno nella sua arringa in difesa di Raffaele Sollecito. "Contro Raffaele è stato usato un metodo sospettocentrico perchè la prova del dna è stata fatta solo per cercare la sua traccia e non quella delle tante altre persone che frequentavano la casa di via della Pergola, tra le quali Giacomo Silenzi". Bongiorno ha spiegato di non voler dire che Silenzi "è colpevole, dal momento che ha un alibi, ma solo che su quel gancetto potevano essere trovate molte altre tracce genetiche se solo fossero state cercate". Inoltre l’avvocato ha criticato la sentenza dell’appello bis perchè ha dato all’impronta genetica di Raffaele rinvenuta sul gancetto una sorta di "valore di prova genetica a capacità ridotta, una cosa che non esiste in questo campo in quanto una mezza traccia genetica non è una prova, ma una trappola. Il criterio della capacità ridotta non si può applicare alla genetica, ma semmai alla valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, come è avvenuto nel processo Andreotti". "Amanda Knox fu pressata da una stranissima medium nella stanza della polizia di Perugia, e una medium non ci deve stare in una stanza di polizia!", ha aggiunto l'avvocato Bongiorno. L’avvocato ha inoltre detto che, a suo avviso anche Amanda, come Raffaele, "è innocente" e che il delitto di Meredith è avvenuto la sera del primo novembre 2007, tra le ore 21 e le 22 e 13 minuti, quando Rudy Guede manda un mms dal suo cellulare. Secondo Bongiorno, inoltre, Meredith non è stata uccisa dal coltellaccio ma da un’arma non rinvenuta. L'avvocato Giulia Bongiorno ha parlato per circa un’ora e tre quarti nella sua arringa in difesa di Raffaele Sollecito all’udienza del processo Meredith in corso nell’Aula Magna della Cassazione, davanti ai giudici della Quinta Sezione Penale. Al termine della maratona oratoria, il presidente del collegio Gennaro Marasca ha disposto una breve pausa e poi la parola passerà a Luca Maori, l’altro difensore di Sollecito. Poi la Corte si ritirerà in camera di consiglio. "In questo enorme mosaico le tessere fondamentali sono il coltello e il gancetto del reggiseno, tutto il resto è subordinato a queste e se vengono a cadere cade tutto". E’ uno dei passaggi dell’arringa in Cassazione dell’avvocato Luca Maori, che assieme a Giulia Bongiorno, difende Raffaele Sollecito nel processo per l’omicidio di Meredith Kercher. Il legale ha sottolineato che "la Corte di rinvio" di Firenze pur asserendo che l’esame del dna non fosse del tutto regolare l'ha ritenuto forte indizio, ma forte indizio non è prova certa". L’avvocato ha messo in discussione la perizia della Polizia postale sul computer di Sollecito, l’attendibilità dei testimoni, in particolare rispetto all’ora in cui questi dicono di avere udito un urlo provenire dalla villetta in via della Pergola e ha criticato lo "screditamento" della loro perizia di parte compiuta dai giudici fiorentino. Maori ha quindi concluso per l’annullamento della sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Firenze ha condannato il suo assistito a 25 anni di reclusione. Terminata l’udienza in Cassazione per il processo a Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l'omicidio di Meredith Kercher. A breve il collegio della quinta sezione penale della cassazione si riunirà in camera di consiglio Il presidente, Gennaro Marasca, non fornito indicazioni sui tempi, ha solo specificato che un’ora prima della lettura del verdetto i difensori dei due imputati saranno avvertiti.
Amanda Knox e Raffaele Sollecito assolti in Cassazione per l'omicidio Meredith. I due erano stati condannati in appello a 25 anni di reclusione il primo e a 28 anni e sei mesi la seconda. Il padre di Sollecito piange lacrime di gioia dopo la decisione della Suprema Corte, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Ci sono volute più di dieci ore in camera di consiglio per mettere la parola fine al processo per l’omicidio di Meredith Kercher, la giovane inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre del 2007. Un'attesa letta come preludio di una svolta, che è arrivata poco dopo le 22.30. La Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox "per non aver commesso il fatto". La 27enne di Seattle è stata condannata a tre anni per calunnia nei confronti di Patrice Lumumba, ma è già stata in carcere per più tempo. Si conclude così dopo 8 anni uno delle vicende più controverse senza aver chiarito molti dubbi. "Finalmente abbiamo avuto giustizia. I giudici hanno capito che Raffaele non avrebbe mai potuto commettere quelle atrocità di cui era accusato", ha commentato a caldo il padre del ragazzo, Francesco. "Ha affrontato tutto a testa alta anche quando ha dovuto andare in prigione. Ha sempre mostrato rispetto per le istituzioni. È la migliore sentenza possibile", ha aggiunto il suo legale Giulia Bongiorno. Il diretto interessato ha parlato di "fine di un incubo, ora mi riprenderò la mia vita". Sentimenti opposti, nella famiglia Kercher "incredula e sgomenta". "La giustizia italiana ha dimostrato di non essere riuscita a trovare alla fine i responsabili. C’è stata un’alternanza di giudizio e ora non si può fare altro che prendere atto di questa assoluzione", ha affermato il legale. L’unico responsabile resta Rudy Guede, il solo degli imputati che ha scelto il rito abbreviato e definitivamente condannato a 16 anni di reclusione per "omicidio in concorso". L’ivoriano ha ammesso la sua presenza nella villetta del delitto, affermando però di essere stato in bagno mentre la Kercher veniva uccisa.
I Supremi giudici della V Sezione Penale si sono ritirati intorno a mezzogiorno e mezza. All’udienza finale, iniziata alle 9.30, ha preso la parola l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha messo in evidenza tutte le incongruenze per cercare almeno di annullare con rinvio la condanna a 25 anni di reclusione inflitta a Sollecito nell’Appello bis davanti alla Corte fiorentina. "Sollecito non ha mai depistato, anzi ha sempre collaborato alle indagini, durante l’aggressione di Meredith lui era a casa sua a vedere i cartoni animati — aveva detto Bongiorno —. È un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali non si rende conto, come Forrest Gump". La sua arringa ha contestato le due perizie che, ad avviso dei giudici fiorentini, inchiodavano Sollecito. Quella sul gancetto del reggiseno di Meredith, e quella sul coltellaccio. Secondo l’avvocato, "è stato fuorviante l’approccio della sentenza dell’Appello bis con le prove genetiche nelle quali i protocolli non sono stati rispettati". Il legale ha spiegato che dopo la prima perquisizione, svoltasi dal 2 al 5 novembre 2007, "l’ambiente della casa non è stato sigillato e poi, quando ormai Sollecito era in carcere da 46 giorni, sono stati fatti altri prelievi". Nella sua requisitoria, invece, il sostituto procuratore della Cassazione Mario Pinelli aveva chiesto di confermare la condanna di Sollecito e quella di Amanda alla quale erano stati inflitti 28 anni.
Stupore e critiche alla giustizia italiana, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ questo il sentimento diffuso nei commenti apparsi sui media britannici dopo l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. L’Independent parla di “atroce errore giudiziario” mentre il Guardian sottolinea che “questa non è certo la conclusione che i Kercher volevano o si aspettavano”, e aggiunge che i familiari della vittima avevano riposto fiducia nel sistema giudiziario italiano. “Non è chiaro se questa fiducia sia rimasta intatta dopo la sentenza della Cassazione”. Il giornale parla anche di “pillola amara” da digerire per i parenti di Mez, mentre il Sun sottolinea come sia iniziata “la nuova agonia per la mamma di Meredith”. L’Independent, in un commento a firma di Peter Popham, si chiede come “il sistema giudiziario di un Paese bello e illuminato” abbia potuto compiere così tanti errori.
In contemporanea con l’Italia, la notizia dell’assoluzione di Amanda Konx e Raffaele Sollecito e apparsa come "Breaking News" sui maggiori media americani, che allo stesso tempo l’hanno diffusa anche tramite i loro account Twitter. La Cnn riferisce con una scritta sul suo sito web che "il verdetto di colpevolezza di Amanda Knox è stato rovesciato", mentre nelle sue trasmissioni in diretta sta trasmettendo aggiornamenti con la sua inviata a Roma Barbie Nadeau. Il Wall Street Journal online scrive "Breaking: la corte d’appello rovescia la condanna di Amanda Knox per omicidio". E la notizia compare anche sul Washington Post, che sottolinea come "la sentenza mette definitivamente fine ad un caso di alto profilo", e sul New York Times, che l’ha immediatamente pubblicata dall’agenzia Ap. "La decisione dei giudici rappresenta l’ultima svolta di un’odissea della giustizia internazionale per Knox, che ha passato quattro anni in una prigione italiana", scrive Nbc News. Abc News afferma che la sentenza stabilisce che "Amanda Knox non sarà rispedita in prigione". Il maggiore spazio è dato però dal Seattle Times, il giornale della città natale di Knox. "La condanna di Amanda Knox rovesciata dall’Alta corte italiana", afferma nel titolo, e a sua volta sottolinea come si tratta di uno sviluppo che mette definitivamente fine alla vicenda.
LE TAPPE DELLA VICENDA.
La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.
2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.
6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.
9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.
11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.
15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.
19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.
20 NOV 2007 - Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.
6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.
27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.
19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.
16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.
18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.
28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.
16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.
18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.
5 DIC 2009 - La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.
22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.
4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".
22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.
15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.
17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.
7 MAG 2010 - la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.
24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.
16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..
18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".
29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.
24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.
3 OTT 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.
15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.
14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.
19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.
25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".
26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.
30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.
26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.
30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.
31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.
29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.
16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.
30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.
25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.
27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher.
Processo di Perugia e omicidio di Meredith, 8 anni di sentenze e ribaltoni: le tappe, scrive “Libero Quotidiano”. Otto anni di polemiche, sentenze, ribaltoni, rinvii. Il giallo di Perugia e l'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto l'1 novembre 2007, si è ufficialmente e definitivamente concluso con l'assoluzione dei due grandi sospettati, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, condannati il 30 gennaio 2014 nell'Appello bis a 28 anni e a 25 anni di carcere. Sentenza annullata in Cassazione perché "il fatto non sussiste": non ci sono insomma sufficienti prove per condannare i due giovani ex fidanzatini. Ecco le tappe che hanno portato a questo verdetto.
L'omicidio - Nella notte del 1° novembre del 2007 in via della Pergola a Perugia viene assassinata Meredith Kercher, una studentessa inglese di 21 anni. Il giorno successivo il corpo viene scoperto dalla coinquilina Amanda Knox e dal suo fidanzato Raffaele Sollecito, che dopo 4 giorni vengono fermati dalla polizia, finendo sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Giacomo Silenzi, fidanzato italiano di Meredith, accusa Amanda di essere insensibile alla vicenda, dal momento che non tradiva la minima emozione all'indomani dell'omicidio. A finire nei guai è anche Patrick Lumumba, proprietario del bar in cui Amanda lavorava ogni tanto, accusato dalla stessa Amanda. Le prove scarcerano poi Lumumba e nello stesso giorno viene accusato Rudy Guede - rintracciato e arrestato in Germania - perché viene trovata sulla scena del crimine l'impronta della sua mano insanguinata.
Il processo - Il 16 settembre 2008 inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, che dispone di procedere col rito abbreviato per Guede - condannandolo a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale - e rinvia a giudizio Amanda e Raffaele. Il loro processo inizierà il 16 gennaio 2009 e a fine anno arriverà la sentenza della Corte di assise di Perugia, che li condanna rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere.
L'appello - Il 18 dicembre 2010 la stessa Corte d'assise riapre il dibattimento del processo per i due ex amanti e dispone una nuova perizia per le tracce genetiche ritrovate sul coltello e sul gancetto del reggiseno trovato nella stanza di Meredith. Sei mesi dopo i periti bocciano il lavoro svolto dalla scientifica definendo gli accertamenti come non attendibili. Il 24 settembre 2011 la procura chiede l'ergastolo per entrambi, ma qualche giorno dopo la sorpresa: arriva l'assoluzione.
La Cassazione - La procura generale e la famiglia della vittima depositano il ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione e il 25 marzo 2013 la cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado. Questo porta a un "nuovo inizio" del processo. Il pg Alessandro Crini aveva chiesto trent'anni di carcere per Amanda Knox e la riformulazione a 4 anni di reclusione per calunnia ("carattere non estemporaneo della calunnia stessa, e tarata per creare depistaggio") e 26 anni per Raffaele Sollecito.
L'Appello bis a Firenze - Il 30 gennaio 2014 arriva la seconda sentenza
d'Appello, con la condanna di Amanda a 28 anni e 6 mesi e 25 anni per Sollecito.
Ora l'ultimo ribaltone della Cassazione, che ha assolto di fatto i due giovani
senza rinviare nuovamente all'Appello. Confermata la condanna di 3 anni per la
Knox per calunnia nei confronti di Lumumba.
Omicidio Meredith: Amanda e Raffaele assolti. Per la corte di Cassazione i due non sono colpevoli del delitto Kercher, a Perugia, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. La corte di Cassazione ha cancellato la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Firenze aveva condannato Amanda Knox e Raffaele Sollecito rispettivamente a 28 e 25 anni di carcere per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera del primo novembre 2007. "Tutte le figure di questa storia sono inserite in una ricostruzione perfetta, come in una foto di Cartier-Bresson, dove ogni particolare trova la sua corrispondenza" ha detto il sostituto procuratore generale Mario Pinelli durante la sua requisitoria-fiume di martedì scorso al termine della quale ha chiesto la conferma del dispositivo di colpevolezza. Sul corpo della ventunenne Meredith Kercher hanno infierito in tre, ha spiegato Pinelli, e dopo l'omicidio la casa di via della Pergola è stata sottoposta a "una estesa attività di ripulitura selettiva". Mai citazione fu più impropria e inopportuna. Cartier-Bresson, il grande fotografo francese che ha inventato il fotogiornalismo, con il suo "occhio del secolo" avrebbe sicuramente focalizzato l'attenzione sui dettagli che mai come in questa indagine fanno emergere lacune e superficialità. Pensate alla telecamera che riprende il momento in cui vengono acquisiti i reperti rimasti sulla scena del delitto. Pensate all'immagine di quegli agenti che maneggiano in modo improprio il reggiseno sul cui gancetto verrà poi ritrovata una traccia di Raffaele alla quale si pretende di attribuire un valore scevro da ogni pericolo di contaminazione. Per non parlare della "ripulitura selettiva" a cui fa riferimento il sostituto procuratore generale. Dopo il delitto, Amanda e Raffaele avrebbero ripulito tutto. Immaginate la scena, le tracce rimaste sul pavimento che parlano: io sono di Amanda. Zac, via. Io sono di Raffaele. Zac, via. Io sono l'impronta di Rudi Guede. No, tu rimani. Surreale? A questo porta la tesi dell'accusa: i due fidanzati assassini avrebbero ripulito le tracce, ma guarda caso dentro la stanza sono state ritrovate solo quelle dell'ivoriano già condannato a 16 anni. La ripulitura selettiva, per l'appunto. Raffaele durante le udienze era a Roma, speranzoso come non mai che i giudici della suprema corte accogliessero i motivi di ricorso illustrati in oltre 600 pagine dai suoi avvocati Luca Maori e Giulia Bongiorno. Amanda non si è mossa invece dalla sua casa di Seattle, dove si appresta a convolare a nozze con il musicista Colin Sutherland.
Omicidio Meredith: assolti Amanda e Raffaele.
Le prove scientifiche. Raffaele Sollecito è rimasto solo davanti ai giudici durante questo ultimo disperato tentativo nel quale i suoi difensori hanno volutamente separato il suo destino da quello dell’ex fidanzata americana. Ancora una volta la partita si è giocata sulle prove scientifiche, che nel corso di questi 7 anni e mezzo di processi sono state oggetto di valutazioni differenti, con un contrasto di giudizio apparso a tratti stupefacente. Vedi la traccia di Raffaele sul reggiseno di Meredith, quella di Amanda sul coltello da cucina indicato come arma del delitto, l’orma di piede di Raffaele sul tappetino del bagno. A ogni perizia si è assistito al ribaltamento del giudizio tecnico a seconda della direzione presa dai giudici.
Il movente. Senza entrare per l’ennesima volta nel merito delle prove scientifiche, un altro elemento fondamentale che nel corso dei vari dibattimenti è stato cambiato più volte è il movente, con il risultato finale di farlo apparire raffazzonato. Perché Amanda e Raffaele avrebbero ucciso Meredith quella sera in concorso con l’ivoriano Rudi Guede? Si era partiti dal gioco erotico: l’omicidio sarebbe maturato durante un’orgia tenuta in quella casa. Peccato che dentro la stanza degli amplessi non ci fossero tracce di Amanda e Raffaele, una circostanza che appariva inverosimile e che veniva giustificata dai giudici con la pulizia successiva fatta dai due fidanzati, che avevano cancellato ogni residuo organico. Però, c’era un però. Rimanevano dentro la stanza le tracce di Rudi Guede, particolare che portava l’avvocato Bongiorno a chiedere alla corte come fosse possibile che i due amanti avessero riconosciuto e distinto le tracce durante l’opera di pulizia per lasciare quelle dell’ivoriano. Il movente erotico ha poi lasciato il campo alla lite tra le due ragazze scatenata a causa delle pulizie, per arrivare alla fine all’omicidio come atto finale di una situazione incancrenita tra Meredith e Amanda, che guarda caso uccide l’amica proprio la sera in cui dentro casa c’è un altro uomo, Rudi Guede. Per il quale a questo punto ci si domanda: cosa ci faceva lì quel 27 novembre?
Il ruolo di Rudi Guede. Proprio l’ivoriano finisce per essere il miracolato di una indagine in cui sono stati commessi svariati e pacchiani errori, a cominciare dalle modalità con le quali sono stati acquisiti e conservati reperti fondamentali come il reggiseno di Meredith. Il paradosso attuale è che mentre Sollecito rischia di rientrare in quel carcere dove ha già trascorso quattro anni della sua vita, tra poco si appresta a uscire Rudi Guede, condannato a 16 anni con rito abbreviato per l’omicidio in concorso.
Ma dove sono le prove? Tornano alla mente le parole di Claudio Patrillo Hellmann, il presidente della Corte d’asside d’appello di Perugia che aveva assolto i due imputati: “Amanda e Raffaele possono anche essere responsabili della morte di Meredith, ma non ci sono le prove. Quelle che abbiamo valutato in dibattimento non le abbiamo ritenuto sufficienti a condannare”. Una presa di posizione netta, onesta e coraggiosa. E tornano alla mente anche le parole di Alessandro Nencini, presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze che ha emesso l’ultima sentenza di condanna. Il giorno dopo aver letto il dispositivo in aula, il giudice si concede ai giornalisti per spiegare come si è arrivati alla sentenza. Un atto irrituale nella forma, considerato in qualche modo anticipatore delle motivazioni, e stonato nella sostanza, visto che Nencini durante l’intervista esprime un giudizio critico sulla scelta di Raffaele Sollecito di non sottoporsi a interrogatorio durante il dibattimento. Un comportamento processuale legittimo che dovrebbe essere del tutto agnostico per i giudici. Senza dimenticare il fatto che la procura e la parte civile non hanno mai chiesto il suo interrogatorio. Ora si è visto chi aveva ragione. Abbiamo capito uquanto possa essere reale il garantismo della nostra legislazione penale. Dove c'è scritto che “nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza”. Se c’è un dubbio, anche minimo, si assolve, recita il nostro codice. E qui di dubbi ce n'erano tanti.
Omicidio Meredith, assoluzione definitiva per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, scrive “la Repubblica”. La sentenza della Cassazione. Dopo le arringhe dei difensori, lunga camera di consiglio dei giudici. Il giovane ha atteso il verdetto a casa sua. L'americana è stata condannata per calunnia nei confronti di Lumumba, è in Usa. L'esultanza in casa del ragazzo, il disappunto dei familiari della giovane uccisa. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Solo la Knox è stata condannata a tre anni per il reato di calunnia, pena già scontata. Da Seattle Amanda Knox si dichiara "Tremendamente sollevata e grata" per la sentenza della Cassazione, in un comunicato inviato ai media statunitensi. Knox ha sottolineato che solo la sua consapevolezza di essere innocente le ha dato "forza nei momenti più bui di questa dura esperienza" e ha ringraziato famiglia, amici e anche sconosciuti per il sostegno avuto in questi anni. "A loro dico: Grazie dal profondo del mio cuore", scrive Amanda. Anche la famiglia della giovane di Seattle ha rilasciato una dichiarazione nella quale si esprime "profonda gratitudine" a tutti coloro che l'ha sostenuta. Dichiarazione poi ribadita ai media presenti davanti alla sua casa: "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto uscendo dal giardino con la madre, la sorella e il fidanzato. "Meredith era una mia amica. Meritava moltissimo nella vita. Io sono quella fortunata", ha aggiunto. "Finalmente è finita": così Vanessa Sollecito, sorella di Raffaele, dopo la sentenza di assoluzione. "E' finita... è finita...": Francesco Sollecito, padre del ragazzo, ha accolto in lacrime la sentenza. "Stiamo piangendo di gioia" è riuscito solo ad aggiungere. Francesco Sollecito ha atteso con il figlio la sentenza. L'uomo ha avuto la notizia dell'assoluzione dalla figlia che gli ha telefonato nella loro casa in Puglia. In sottofondo nell'abitazione si sentono pianti e urla di gioia. "Meredith è la prima e la più grande vittima di tutta questa tragedia perché è colei che ha perso la vita e noi siamo sempre stati vicini alla sua famiglia. Anche loro potranno dire che c'è stata giustizia perché l'unico vero responsabile di quella terribile storia è stato condannato in via definitiva e sta scontando la sua pena", ha detto ancora il padre del giovane assolto. "Un lunghissimo abbraccio e un pianto a dirotto era l'unica cosa che io e Raffaele potevamo dirci". Raffaele Sollecito è scoppiato a piangere non appena ha ricevuto la notizia del verdetto della Cassazione. "Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi ha restituito oggi la dignità e la libertà". "Sono ancora incredulo", ha aggiunto. "Finalmente non dovrò più occuparmi di carte giudiziarie e posso tornare alla normalità". "E' stata una battaglia durissima, era pacifico che Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita": così Giulia Bongiorno, legale di Raffaele Sollecito. "Ho sentito Amanda e le ho appena comunicato la sentenza di assoluzione definitiva. Ovviamente lei è felice. Finalmente l'errore è stato emendato dalla Corte di Cassazione. E' un importante riconoscimento per la giustizia". Lo ha detto l'avvocato Carlo Dalla Vedova, difensore della ragazza americana che attendeva la sentenza da Seattle. chiederemo il risarcimento per ingiusta detenzione". Amanda è stata condannata a tre anni per calunnia, ma ha sofferto una carcerazione preventiva superiore alla pena inflittale. Amanda ha atteso la sentenza partecipando ad una festa a casa sua a Seattle. Alla notizia della decisione della Cassazione in Italia, si sono sentite urla di gioia. Ci sono auto parcheggiate davanti alla villetta, una come tante nel quartiere rigoglioso in questo inizio di primavera: sono gli amici e la famiglia di Amanda Knox che sono rimasti con lei in queste ore di attesa e poi per festeggiare. E alla fine appare lei: "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita" dice Amanda Knox comparendo sulla porta di casa a Seattle insieme con la madre, la sorella e il fidanzato. "E' una verità difficile da digerire per la famiglia, per noi che l'abbiamo difesa e per i giudici che hanno emesso i verdetti di condanna". Lo ha detto l'avvocato Francesco Maresca, difensore della famiglia Kercher, dopo l'assoluzione di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. "E' una sentenza che ci ha sorpresi, non me lo aspettavo, ne prendiamo atto. Dalla lunghezza della camera di Consiglio credo che ci sia stato un grosso dibattito. Non ha un nome chi era con Rudy Guede - ha aggiunto il legale - I giudici hanno ritenuto che le prove non fossero sufficienti". La famiglia Kercher ha dichiarato al Guardian che non manderà oggi, ma probabilmente domani, un comunicato sull'assoluzione. "Siamo allibiti...": Stephanie Kercher ha commentato con poche parole la sentenza sull'omicidio della sorella Meredith. Al suo avvocato ha chiesto se ci sarebbe stato un nuovo appello: "Le ho dovuto rispondere di no...", ha rivelato il legale. Poche parole anche dalla madre di Meredith, Arline Kercher: "Sono sorpresa e molto scioccata". E' quanto riferisce la Bbc. "Sono curioso di leggere la sentenza": il sostituto procuratore generale di Perugia Giancarlo Costagliola commenta così la sentenza della Cassazione su Raffaele Sollecito e Amanda Knox. "Prendo atto della decisione - ha detto il magistrato - e ho il massimo rispetto per le decisioni della Corte". Costagliola aveva rappresentato l'accusa in appello insieme a Giuliano Mignini e Manuela Comodi. "Evidentemente avevamo ragione noi": Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d'assise d'appello di Perugia che nel 2011 assolse Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'omicidio di Meredith Kercher commenta così la decisione della Cassazione. "Non ci speravo, dopo tanti errori giudiziari commessi da altri giudici la Corte di Cassazione ha dimostrato che in Italia c'è ancora una giustizia" ha detto Pratillo Hellmann, giudice ora in pensione. "Sono contento - ha sottolineato l'ex presidente della Corte - perché è stato evitato un errore giudiziario e quei due disgraziati di Amanda e Raffaele ne sono usciti perché innocenti. Non nascondo la mia soddisfazione personale perché la nostra sentenza era stato tanto bistrattata". La decisione della Cassazione ora compare in apertura del sito internet di Cnn, Usa Today, Fox News, Nbc, Cbs. È finito così il giorno della sentenza di Cassazione sull'omicidio di Meredith Kercher. Il lungo rocess, otto anni, per l'uccisione della studentessa inglese, morta a Perugia la notte dell'1 novembre 2007. Era ripreso poco prima delle nove e mezza davanti alla quinta sezione penale della suprema corte. La seconda udienza, dopo il rinvio dell'altro ieri, è iniziata con l'arringa dell'avvocato Giulia Bongiorno, uno dei due difensori di Raffaele Sollecito, imputato insieme ad Amanda Knox per il delitto e presente in aula insieme alla sua fidanzata Greta e il padre Francesco. "Parlerò dei due indizi a carico di Raffaele Sollecito in questo processo: il dna sul gancetto del reggiseno e l'essere stato fidanzato da dieci giorni con Amanda", ha detto la Bongiorno aprendo la sua arringa. "Ho apprezzato lo stile della requisitoria del pg, non i contenuti", ha precisato l'avvocato arrivando in Cassazione. Durante la sua arringa, ha poi aggiunto: "Sollecito non ha mai depistato, ma ha collaborato con gli investigatori, ha preso a spallate la porta dove c'era il corpo di Meredith. Durante l'aggressione stava guardando i cartoni animati. E' un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali, come Forrest Gump, non si rende conto. Assolvetelo!". Secondo la difesa, non c'era prova certa del Dna di Raffaele sui gancetti del reggiseno di Meredith Kercher. Inoltre non è stato accertato "il rispetto dei protocolli internazionali che garantiscono margini di certezza scientifica". "Quindi - ha proseguito - il tema cruciale della prova genetica, ossia gli indizi a carico di Sollecito, hanno un approccio fuorviante e anacronistico". "Contro Raffaele è stato usato un metodo sospettocentrico perché la prova del dna è stata fatta solo per cercare la sua traccia e non quella delle tante altre persone che frequentavano la casa di via della Pergola". Inoltre l'avvocato ha criticato la sentenza dell'appello bis perché ha dato all'impronta genetica di Raffaele rinvenuta sul gancetto una sorta di "valore di prova genetica a capacità ridotta, una cosa che non esiste in questo campo in quanto una mezza traccia genetica non è una prova, ma una trappola. Il criterio della capacità ridotta non si può applicare alla genetica, ma semmai alla valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, come è avvenuto nel processo Andreotti. Se una prova genetica non è valida per la scienza, quella prova genetica va cestinata perché o il dna è di Sollecito o non lo è. Il forse nella scienza non c'è". Bongiorno ha poi cercato di separare la posizione di Sollecito da quella di Amanda Knox: "Sono veramente convinta che Amanda non è entrata nella stanza del delitto, ma se si deve credere alle sue dichiarazioni allora bisogna credere che lei uscì dalla casa di Sollecito e mentì al suo ragazzo dicendogli che andava a lavorare dopo aver ricevuto il messaggio di Patrick Lumumba che invece le aveva detto di non andare al lavoro". "Amanda Knox fu pressata da una stranissima medium nella stanza della polizia di Perugia, e una medium non ci deve stare in una stanza di polizia!", ha detto Bongiorno in uno dei passaggi finali della sua arringa. Bongiorno aveva inoltre detto che, a suo avviso anche Amanda, come Raffaele, "è innocente" e che il delitto di Meredith è avvenuto la sera del primo novembre 2007, tra le ore 21 e le 22 e 13 minuti, quando Rudy Guede mandò un mms dal suo cellulare. Secondo la difesa di Sollecito, inoltre, Meredith non è stata uccisa dal 'coltellaccio' ma da un'arma non rinvenuta. "Io sono convinta che Amanda non sia mai entrata in quella stanza ma non si può pretendere che Sollecito sia colpevole per non aver tirato in ballo quella che per una decina di giorni sarebbe stata la sua fidanzata. Raffaele non era presente nella stanza del delitto e non ci sono neppure tracce riconducibili alla Knox". Davanti ai giudici della V sezione penale della Cassazione, Bongiorno aveva chiesto "l'annullamento della condanna a 25 anni per il ragazzo che insieme ad Amanda Knox è accusato dell'omicidio di Meredith Kercher". L'avvocato Carlo Dalla Vedova, che difendeva Knox, parlando al termine dell'udienza, ha raccontato lo stato d'animo della sua assistita: "Amanda non chiude occhio, non dorme e aspetta sulle spine la decisione della Cassazione. E' a Seattle con i suoi genitori, l'ho appena sentita ed é molto preoccupata". Terminate le arringhe, poco dopo le 12, i giudici sono entrati in camera di consiglio da cui sono usciti dieci ore dopo con la sentenza. Sollecito aveva già comunicato che non sarebbe stato in aula al momento del verdetto: se fosse stata onfermata la sentenza d'appello, per lui sarebbe scattato l'arresto. Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno scontato quattro anni di carcere. Sono stati condannati in primo grado a 26 e 25 anni. Nel 2011, in appello, sono stati assolti e il 25 marzo 2013 la Cassazione ha annullato le assoluzioni rinviando il processo al tribunale di Firenze. La condanna dell'appello bis, 28 anni e 6 mesi per Knox e 25 anni per Sollecito, è scattata il 30 gennaio 2014. Per l'omicidio di Meredith è stato condannato in via definitiva Rudy Guede, processato con rito abbreviato: sta scontando 16 anni di reclusione.
Amanda dopo la sentenza: "Sollevata e grata di riavere la mia vita". "Shock" della famiglia di Meredith, scrive “La Repubblica”. La ragazza americana: "Meredith era mia amica. Non so cosa farò, ora mi godo questo momento di gioia". I familiari della vittima: "Dateci tempo". Il padre di Raffaele Sollecito: "Il nostro equilibrio messo a dura prova" "Il risarcimento? Impossibile quantificare". Enorme gratitudine. Lo ha ripetuto più volte Amanda Knox, quando alla fine di una lunga giornata, dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Sollecito: "Il nostro equilibrio messo a dura prova". Soddisfazione anche in casa di Raffaele Sollecito. "Sono stati giorni drammatici, nei quali il nostro equilibrio psico-fisico è stato messo a dura prova", ha detto Francesco Sollecito, padre di Raffaele. "Cosa faremo oggi? Andremo a pranzo fuori per passare una splendida giornata. Siamo al settimo cielo, è un sogno. Non potevamo sperare in una conclusione migliore. Finalmente abbiamo trovato magistrati che hanno letto e studiato le carte. Hanno capito come stanno le cose". Sulle difficoltà di questi anni aggiunge: "Risarcimento morale lo possono riconoscere soltanto i giudici di questa Suprema corte che hanno pronunciato questa splendida sentenza. Non c'è possibilità di ricompensare tutta la sofferenza che abbiamo dovuto patire in tutti questi anni". Parole di gioia, mentre i familiari di Meredith Kercher hanno chiesto "tempo" per poter assorbire la notizia dell'assoluzione di Amanda e Raffaele Sollecito e, arrivata "come uno shock". "Le emozioni sono naturalmente forti in questa fase", hanno fatto sapere con una dichiarazione diffusa dall'ambasciata britannica a Roma, "la decisione è arrivata come uno shock ma era un esito che sapevamo che era possibile, anche se non era ciò che ci aspettavamo". La famiglia ha fatto sapere di aver contattato il proprio avvocato, Francesco Maresca, ma di "comprendere che la decisione è ora definitiva e mette fine a quello che è stato un processo lungo e difficile per tutte le parti coinvolte". "Riteniamo che nei prossimi mesi apprenderemo tutto il ragionamento che c'e dietro alla decisione ma per il momento abbiamo bisogno di un pò di tempo per assorbirla e per ricordare Meredith, la vera vittima al centro di tutta questa vicenda", hanno chiesto i familiari. Anche i media americani hanno dato grande risalto alle reazioni di Amanda e della sua famiglia. Parlando ai giornalisti è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita". Amanda Knox alla fine di una lunga giornata dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Amanda è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita".Amanda Knox alla fine di una lunga giornata dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Amanda è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita". Amanda non avrebbe voluto rispondere a domande. Ma su Meredith non si è sottratta. "Meredith era una mia amica. Meritava moltissimo nella vita. Io sono quella fortunata". Non parla subito di futuro Amanda: "Non lo so, sto ancora assorbendo il presente, un momento che è pieno di gioia" ha detto ai giornalisti. E adesso la festa può continuare davvero: per tutto il giorno, nella casa di West Seattle, una villetta apparentemente come tante, è stato un andirinvieni di persone, famigliari, amici, diversi bambini. Sono arrivati portando buste, forse con cibo e bevande. Dall'altra parte della sua staccionata, dal giardino della casa di famiglia, sono arrivate vere e proprie urla di gioia quando è giunta la notizia, nel primo pomeriggio ora locale. E poi risate, chiacchiere, perfino un barbecue allestito all'imbrunire. "Una gran bella giornata", ha commentato con i giornalisti il padre di Amanda. Una vicina di casa, Marsha Lubetkien, passando di lì ha detto "sono così contenta. Meravigliata anche, ma felice. Sono brave persone. E anche io ho figli di quell'età. Mi immedesimo... Amanda ha passato anni di sofferenze, e io da subito ho pensato il sistema italiano avesse fatto pasticci nel modo in cui ha gestito il tutto. Qui per noi è stato molto difficile comprendere, per via delle differenze fra i due sistemi giudiziari". Da questa strada altrimenti silenziosa, comune, riparte il futuro di Amanda. Magari proprio da Seattle, la sua città, dove in queste ore anche i vicini hanno tirato un sospiro di sollievo. E chi lo sa, forse troverà anche un lavoro. Uno ce l'ha già: è giornalista free lance per il West Seattle Herald. "Abbiamo pregato per Meredith - ha raccontato a Bbc Radio Tom Wright, un amico di Amanda Knox che si trovava con lei e la sua famiglia a Seattle quando è arrivata la notizia dell'assoluzione - . I nostri pensieri sono andati a Meredith e la solidarietà alla sua famiglia".
Omicidio Meredith, la Cassazione assolve Amanda e Raffaele. Sollecito: «Sono immensamente felice, finalmente posso riprendermi la mia vita». L’avvocato Bongiorno: «La sentenza di condanna era costellata di errori», scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere Della Sera”. Assolti. Dopo più di sette anni, cinque processi e oltre dieci ore di camera di consiglio, la Cassazione ha annullato la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, il 1° novembre 2007 a Perugia. Cancellate le pene di 28 anni e mezzo (per lei) e 25 anni (per lui) stabilite dalla Corte d’assise d’appello di Firenze a gennaio 2014. L’unico colpevole resta Rudy Guede, che all’epoca scelse il rito abbreviato e sta scontando i 16 anni di carcere che gli erano stati inflitti. Incontenibile la gioia di Raffaele, che al termine dell’udienza ha lasciato Roma e ha atteso a casa sua, a Bari, l’esito del processo. Appena ha saputo come era finita, racconta il padre Francesco, si sono abbracciati e il ragazzo è scoppiato a piangere. «Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi ha restituito la dignità e la libertà - esulta dopo le lacrime -, ora posso riprendermi la mia vita. Finalmente mi hanno creduto, è questa la mia più grande soddisfazione». Esulta anche Amanda che, a Seattle, è stata sulle spine per l’intera giornata. Ma adesso festeggia con parenti e amici: «È la fine di un incubo - si sfoga -, sono tremendamente sollevata e grata a chi mi ha sostenuto». Entrambi chiederanno il risarcimento dei danni per il periodo dietro le sbarre. «Choccata», invece, si definisce la madre di Mez, Arline Kercher, che aggiunge: «Sono stati condannati due volte, quindi è un po’ strano che questo cambi adesso». «Siamo allibiti», aggiunge Stephanie, la sorella della studentessa 21enne uccisa. Il legale della famiglia, Francesco Maresca, osserva: «È una sentenza che ci ha sorpresi, non me lo aspettavo, ne prendiamo atto. Dalla lunghezza della camera di consiglio credo che ci sia stato un grosso dibattito». Infatti la sentenza è una vittoria, forse insperata, per l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’ex studente di Bari con il collega Luca Maori: «È un giorno importantissimo per Sollecito - commenta uscendo dal Palazzaccio - ma anche per coloro che credono nella giustizia. Raffaele è stato quattro anni in carcere: non ha mai protestato, mai imprecato, ha gestito il processo con il massimo rispetto per le istituzioni». Anche «quando gli hanno dato torto» e anche se «la sentenza di Firenze era costellata di errori». La particolarità è che la sentenza è stata annullata senza rinvio, cancellata insomma, e questa è una decisione piuttosto rara in Cassazione. Stando al dispositivo, i giudici della quinta sezione, presieduta da Gennaro Marasca, hanno ritenuto che i due ex studenti «non hanno commesso il fatto»: se fossero giunti alla conclusione contraria, avrebbero confermato il verdetto di Firenze,come aveva chiesto la procura generale; se avessero individuato errori di diritto avrebbero rinviato il processo a un’altra Corte d’assise d’appello. Invece hanno scritto la parola fine sulla vicenda, una delle più tormentate degli ultimi anni: resta solo la condanna a tre anni per calunnia inflitta ad Amanda - questa sì confermata dalla Suprema Corte - per aver accusato del delitto Patrick Lumumba. Ma la Knox ha già scontato la pena, poiché anche lei, come Raffaele, è stata quattro anni in carcere.
Sollecito assolto esulta a Bisceglie: «Sono immensamente felice». L’assoluzione della corte di Cassazione arriva nella villetta gremita di parenti. A casa del padre festa improvvisata. Una voce dal citofono ringrazia i giornalisti, scrive Carmen Carbonara su “Il Corriere della Sera”. Nella villa di contrada Carrara il Vuolo, a Bisceglie, sono rimasti in piedi fino a tardi ieri notte. La gioia della famiglia Sollecito, di tanti amici e anche vicini accorsi per abbracciare Raffaele, finalmente assolto e libero, era incontenibile. Fuori dalla villetta, dove è uscito per parlare alcuni minuti con i giornalisti, il padre di Raffaele, Francesco Sollecito, ha ringraziato tutti, ma in particolare la moglie “che – ha detto - mi hai aiutato in tutte le maniere possibili e anche quelle non immaginabili e ha aiutato soprattutto mio figlio, pur non essendo la sua madre naturale. Lo è diventata di fatto con un comportamento meraviglioso”. «Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi abbia restituito oggi la dignità e la libertà. È finito l’incubo, finalmente è finito tutto, ora posso cominciare a vivere», ha detto il ragazzo parlando al telefono con l’avvocato Francesco Mastro. All’annuncio della notizia un boato dalla casa gremita di parenti. Poi una voce femminile al citofono ha voluto ringraziare anche i giornalisti che attendevano dal pomeriggio: «Grazie a tutti». All’interno della casa è partita una festa improvvisata. Francesco Sollecito, rispondendo ad alcune domane, è entrato anche nel merito delle decisioni assunte in questi anni dai giudici e tradottesi in due condanne a 25 anni per il giovane ingegnere di Giovinazzo. L’ultima volta è stato il 30 gennaio 2014, quando la Corte d’Appello di Firenze confermò la condanna del primo grado, dopo l’assoluzione sancita nel 2011 dai giudici di secondo grado di Perugia, la cui decisione era stata poi annullata dalla Cassazione. “Più si approfondivano gli elementi e più ci si rendeva conto che Raffaele era innocente”, ha detto il dottor Sollecito. “E quindi più si andava avanti e più si commettevano errori su errori pur di trovare una qualche responsabilità. La peggiore sentenza è stata l’ultima: nella disperata ricerca di elementi a carico, sono stati commessi errori grossolani”. Secondo Francesco Sollecito c’è un unico assassino, Rudy Guede, condannato in via definitiva a 16 anni per omicidio in concorso e violenza sessuale, sebbene un “concorso” a questo punto sia difficile da individuare. “Come ha ricordato l’avvocato Giulia Buongiorno, il concorso di più persone – ha proseguito Francesco Sollecito - è stato supposto dagli inquirenti prima e dai giudici poi, semplicemente perché avevano rilevato delle tracce, sia quelle di dna che delle scarpe, che potevano far pensare ad altre persone. Ma effettivamente non è così perché tutte le tracce appartenevano all’unico assassino”. Dunque, il padre di Raffaele non ha esitato a parlare di “errori”, con “cambio di movente” pur di trovare una spiegazione alle ipotesi accusatorie. “Raffaele, invece, quella sera non è uscito di casa e si è trovato – ha concluso - coinvolto in una situazione immane senza aver messo il naso fuori di casa”. Ieri sera hanno festeggiato anche a Giovinazzo, dove abita il resto della famiglia Sollecito, in particolare lo zio Giuseppe Sollecito con sua moglie Sara, anche loro ieri notte a Bisceglie. Chi ha conosciuto Raffaele, già da bambino, dell’assoluzione è davvero felice. E commenta: “Sapevamo che non poteva aver ucciso nessuno”. Antonello Fringuello è allenatore in una palestra di Giovinazzo e ha seguito Raffaele, da quando aveva 14 anni e fino a quando non è andato a studiare a Perugia, negli allenamenti di kick boxing. “L’ultima volta l’ho visto dopo l’assoluzione, nel 2011”, racconta. “Adesso sta a Bisceglie, incontro la sorella Vanessa qualche volta. Era un ragazzo timido e anche molto educato e a modo. Se si allenava con altri ragazzi e li colpiva, chiedeva scusa”, prosegue. “So com’era fatto, per questo quando sentii la notizia del suo arresto, mi dissi che non poteva essere stato lui”. Piange di gioia Teresa Camporeale, parrucchiera in pensione amica della mamma e della nonna di Raffaele, entrambe scomparse da diversi. “Ho ascoltato i tg fino a tardi a serata”, dice. “Abbiamo ringraziato il Signore, conoscevamo la famiglia, anche la mamma e la nonna. Abbiamo sempre pensato che Raffaele si è trovato in un fattaccio più grande di lui. Ormai è diventato un uomo, questa sicuramente è stata le vicissitudine peggiore che poteva capitargli. Secondo me – prosegue - fin dall’inizio bisognava dividere le colpe dei protagonisti. Ma ora l’importante è che sia stato assolto”.
Omicidio Meredith, riscritta la verità. «Guede solo sul luogo del delitto». L’esito delle indagini è stato cancellato. Ora si rischia una battaglia sui risarcimenti Testimoni smentiti Vengono smentiti anche i testimoni che dissero di aver visto i due fuggire dalla casa, scrive
di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere Della Sera”. È il verdetto clamoroso, quello su cui nessuno avrebbe scommesso. Perché la sentenza della Corte di cassazione cancella l’esito delle indagini, ma soprattutto sconfessa la sentenza che due anni fa altri giudici della stessa Corte suprema avevano pronunciato ritenendo che Amanda Knox e Raffaele Sollecito fossero certamente sulla scena del delitto. Assassini, questo era stato stabilito. La scelta di «annullare senza rinvio» quelle condanne inflitte poco più di un anno fa dalla Corte d’assise d’appello di Firenze (28 anni e sei mesi a lei, 25 a lui) smentisce invece in maniera sorprendente l’accusa, consegna alle difese una vittoria schiacciante. E soprattutto nega la validità di un’altra sentenza definitiva che ha ritenuto Rudy Guede colpevole del delitto «in concorso con altri».
I punti oscuri. Il giovane ivoriano, questa è la conclusione, era solo sulla scena del delitto. Uccise Meredith Kercher dopo aver tentato di violentarla in quella villetta di via della Pergola la sera del primo novembre. Cercò di ripulire la stanza, di cancellare le tracce. Nessuno entrò nella casa, come invece lui aveva sostenuto in una ricostruzione certamente fantasiosa e poco credibile. Non c’era un giovane che lo aveva minacciato né una ragazza che lo accompagnava, come aveva messo a verbale pur non facendo mai esplicitamente i nomi di Amanda e Raffaele. Smentiti anche i testimoni che avevano detto di aver visto i due fuggire dalla villetta. Molti punti rimangono oscuri, soltanto leggendo la motivazione si scoprirà come i giudici abbiano superato tutti gli indizi raccolti, per primo il memoriale che Amanda scrisse in una stanza della questura pochi giorni dopo l’omicidio descrivendo i momenti del delitto ma sostituendo Rudy con Patrick Lumumba. Ma già adesso si può dire che non è stata ritenuta «sufficientemente provata» la ricostruzione dell’accusa secondo la quale «entrambi erano gli assassini, insieme a Rudy Guede».
La mancanza di prove. Il quadro disegnato da chi aveva indagato e da chi li aveva poi condannati «non è sorretto da indizi sufficienti», questo hanno detto venerdì 27 marzo i giudici della quinta sezione penale presieduti da Gennaro Marasca. Ingiusta, secondo loro, è stata la sentenza di colpevolezza, evidentemente ancor più ingiusta la detenzione preventiva. E anche su questo adesso si discuterà a lungo perché è vero che dopo la lettura del dispositivo l’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Sollecito insieme al collega Luca Maori assicura che «non ci sarà alcun atteggiamento vendicativo», ma una richiesta di risarcimento allo Stato appare quasi scontata.
Caso chiuso. Finito, chiuso, il processo termina qui. Molti punti rimangono oscuri, molti interrogativi non avranno mai risposta, ma sembra impossibile che le indagini possano essere riaperte. Interrogatori, perizie, accertamenti: tutto annullato, cancellato, non valido. Nullo anche il verdetto di un’altra sezione della Cassazione che il 26 marzo del 2013 aveva dichiarato non valida la sentenza di assoluzione emessa in appello a Perugia ordinando un nuovo processo a Firenze. Allora i supremi giudici avevano scritto che bisognava «porre rimedio a una decisione segnata da molteplici profili di manchevolezza, contraddittorietà e illogicità» delineando «la posizione soggettiva dei concorrenti di Rudy Guede».
Meredith senza giustizia. Questo erano dunque per il collegio di Cassazione che per primo si è pronunciato, Amanda e Raffaele: «Concorrenti nell’omicidio». Altri giudici hanno ora stabilito che non è così. Hanno cancellato la ricostruzione del delitto che vedeva Meredith «aggredita contestualmente da tutti e tre, per immobilizzarla e usarle violenza». Rudy ha tentato di violentarla, ma non è vero che Amanda e Raffaele hanno infierito su di lei con due coltelli, non è provato che fossero lì e volessero «prevaricarla e umiliarla». Questa è la sentenza definitiva, questa è la verità parziale che arriva otto anni dopo il delitto. Perché la decisione di assolvere per mancanza di prove è comunque la sconfitta per la famiglia di Meredith che continua a non avere giustizia.
Sollecito in hotel a Bari: "Felicissimo per la sentenza". Il padre: "Il risarcimento? Impossibile da quantificare". Il giovane: "Lunedì conferenza stampa con il mio avvocato a Roma": La famiglia: "Siamo stati messi alla gogna, in questo momento l'ultimo mio pensiero è pensare a questioni economiche", scrive Francesca Russi su "La Repubblica". "Ovviamente sono felicissimo per la sentenza, lunedì terrò una conferenza stampa a Roma con il mio avvocato". Sono queste le sole parole che Raffaele Sollecito dice il giorno dopo la sentenza di assoluzione, all'uscita dell'hotel di Bari dove ha trascorso la notte con la fidanzata. Il giovane ha trascorso la prima notte da innocente in un albergo nei pressi dell'aeroporto di Bari-Palese in compagnia della fidanzata Greta. Ha fatto colazione in camera e poi ha lasciato la camera per andare a pranzo con la sua famiglia. Sollecito è di casa nell'hotel il Parco dei Principi, perché è solitamente frequentato dalla sua fidanzata che è una hostess di Volotea. E' un giorno speciale per tutta la famiglia Sollecito. "L'alba di un nuovo giorno", dice sorridente il papà Francesco che esce di casa alle 10.30. "Abbiamo festeggiato fino alle 3-4 di notte, dopo tante nottate in bianco e questa tensione". Parla davanti al cancello del residence di villette a Bisceglie. "Adesso si ricomincia, Raffaele ha fatto tanti progetti, ma viveva in sospeso, adesso potrà finalmente approfondirli e concretizzarli". Il padre di Raffaele fa sapere che il figlio ieri sera si è sentito con Amanda Knox, anche lei accusata di omicidio e assolta ieri dai giudici della Cassazione. "Amanda era felice e piangeva al telefono con lui". Oggi e domani per Sollecito saranno giornate di riposo e lunedì invece ci sarà l'incontro con gli avvocati e con la stampa. "Finalmente Raffaele potrà ritornare ad andare all'estero adesso, potrà ritornare a vivere" dice ancora Francesco Sollecito. Quanto a eventuali richieste di risarcimento. "Risarcimenti per questa terribile storia non si potrebbero neanche quantizzare, noi siamo stati messi alla gogna, in questo momento l'ultimo mio pensiero è pensare a questioni economiche".
Raffaele Sollecito si è laureato, nella tesi anche il caso Kercher. Della tesi presentata ha spiegato che si è trattato di un'analisi strutturale dei social network e di "prossimità semantica". "Un esame - ha detto - del significato sul web delle parole, degli interessi alle quali sono accostate e del tempo di interazione. Tenendo conto di diversi parametri". Di qui l'idea di condurre quello che definisce "un esperimento su me stesso", esaminando attraverso un motore di ricerca quante volte il suo nome sia accostato alla parola innocente e quante a colpevole. "L'interesse generale per il processo - ha spiegato Sollecito - è aumentato in occasione della sentenza di Firenze (che ha nuovamente condannato lui e Amanda Knox, ndr). Ma soprattutto è raddoppiato l'accostamento tra il mio nome e 'innocente'. Dato che è rimasto elevato anche quando l'attenzione su Internet per il processo è scemata".
Ha conseguito il titolo di dottore magistrale in Ingegneria e scienze informatiche. Esaminati i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sull’omicidio di Perugia. Nei prossimi mesi la sentenza della Cassazione, scrive Anna Martellato su “La Stampa”. “Con i poteri conferitemi dalla Legge la proclamo dottore magistrale in Ingegneria e scienze informatiche, valutazione di 88 su 110”. Applausi, flash dei parenti, strette di mano, espressione – finalmente – distesa in un sorriso. E la voglia di essere almeno per una mattina semplicemente un “normale” studente che ha concluso il suo percorso di studi. Raffaele Sollecito si è laureato, stamattina al Dipartimento di Scienze Informatiche a Verona: la sua tesi studiava l’analisi dei social network, in cui Sollecito ha esaminato anche i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Normale il suo viso rosso dall’emozione, normale il “Ehi, Raffa!” dei suoi amici e compagni di corso, che lo abbracciano e gli stringono la mano. Un’altra vita, lontana anni luce da quella delle prime pagine dei giornali, concentrata per dovere di cronaca in quelle aule di tribunale dove si è a lungo dibattuto su chi avesse ucciso la giovane studentessa inglese Meredith Kercher. Completo nero, camicia bianca, tocco di colore nella cravatta verde acido. È protetto dalle schiere di amici e di parenti e dalla sua nuova ragazza, Raffaele: tutti lo tengono al riparo dai flash e telecamere, assiepati fuori dall’aula in cui ha discusso la tesi. Suo padre, emozionato quanto lui (o forse di più?), lo abbraccia, lo stringe. C’è anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher, come già scrivono i portali dei quotidiani locali, tutti con gli occhi puntati su di lui. Ma oggi è, deve essere, un giorno sereno per Sollecito. “È una giornata felice – commenta un po’ spaesato: forse per la tensione, forse per le telecamere – ci sono i miei amici, i miei parenti… ero molto teso”, si lascia sfuggire subito dopo la discussione, avvenuta a porte chiuse. Ancora qualche candidato, giusto il tempo di sbollire l’ansia nei corridoi accaldati della facoltà veronese, e poi la proclamazione, nell’aula “Gino Tessari”. Lì i giornalisti gli danno un attimo di tregua; non possono entrare: “è per tutelare lui e gli altri”, spiega l’efficiente ufficio stampa dell’Università scaligera. Sollecito è stato assolto con Amanda Knox per l’omicidio della studentessa Meredith Kercher, ma la sentenza è stata annullata in Cassazione, che ha fissato un nuovo processo a Firenze, al termine del quale i due ex fidanzati sono stati condannati. Sentenza subito impugnata dalla difesa: la Cassazione dovrà quindi pronunciarsi nei prossimi mesi. Ma oggi, è tempo di festeggiare. Per una giornata, forse, il resto si può dimenticare.
Raffaele Sollecito si è laureato con una tesi su se stesso. Il giovane, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, ha discusso la tesi in ingegneria informatica. Il tema: innocentisti e colpevolisti sul web. Il voto: 88 su 110, scrive Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. Raffaele Sollecito ha conseguito martedì mattina la laurea specialistica in ingegneria informatica all’università di Verona. Il voto: 88 su 110. Il giovane pugliese, condannato con Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher (il 1° novembre del 2007 a Perugia), ha discusso una tesi riguardante l’analisi dei social network in cui ha esaminato i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Sollecito - che ha scritto interamente in inglese la sua tesi di laurea ma poi l’ha discussa in italiano - ha sostenuto per esempio che sul web, nei giorni successivi all’ultimo verdetto (di condanna), il suo nome è stato più spesso associato alla parola innocente che a quella colpevole. Alla cerimonia erano presenti tutti i suoi familiari e anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher. Sulla torta fatta preparare dal padre Francesco c’era una pergamena disegnata con un filo di cioccolato e questa frase: «L’ingegner Raffaele Sollecito raggiunge uno dei più importanti traguardi della sua vita!». «Siamo felici - dice orgoglioso al telefono dall’aeroporto il padre del ragazzo, in attesa dell’aereo per Bari - per noi la meta raggiunta oggi da Raffaele ha un significato grandissimo in questo momento». Per la laurea il signor Sollecito non ha regalato nulla di materiale al figlio: «Il regalo che gli faccio tutti i giorni è il mio amore - spiega - Raffaele è il figlio ideale, quello che tutti i padri vorrebbero avere». Quando venne arrestato, pochi giorni dopo il delitto, Sollecito era iscritto all’Università di Perugia e si laureò infatti in carcere, il 16 febbraio del 2008. Si iscrisse quindi subito alla specialistica a Verona. Raffaele e Amanda sono stati condannati in primo grado, poi assolti in appello. La sentenza è stata però annullata dalla Cassazione che ha disposto un nuovo processo a Firenze al termine del quale i due ex fidanzati sono stati nuovamente condannati. La sentenza è stata però impugnata dalle difese in Cassazione che dovrà pronunciarsi nei prossimi mesi. Sollecito, come la Knox, si è sempre proclamato estraneo al delitto. Così come Rudy Guede, l’ivoriano già condannato in via definitiva per l’omicidio di via della Pergola e che sta scontando 16 anni di reclusione.
Caso Meredith, Sollecito non ritratta: “Il memoriale di Amanda mi scagiona”. Il giovane ribadisce la sua posizione durante la conferenza stampa sul ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte di Assise d’Appello di Firenze che lo ha ritenuto colpevole con la Knox dell’omicidio dell’amica, scrive “La Stampa”. «Amanda è innocente», anche se è evidente che «ci sono anomalie» nel racconto che lei fa di quanto accade la sera in cui fu uccisa Meredith. Raffaele Sollecito non scarica l’ex fidanzata di cui, parole sue, «sono stato innamoratissimo»: ma forse per la prima volta, in maniera chiara, cerca di separare il suo destino da quello dell’americana di Seattle. Giacca bianca e capello lungo, una laurea specialistica in realtà virtuale che discuterà il prossimo 15 luglio, Raffaele si presenta con i suoi avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori davanti ai giornalisti per spiegare perché con il ricorso presentato in Cassazione chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Firenze che ha condannato lui a 25 anni e Amanda a 28 anni e sei mesi. E la prima cosa che afferma è che lui, in tutti questi sette anni, non ha mai cambiato versione. Né, dunque, intende farlo ora: «Mi sono state messe in bocca parole che non ho mai detto, ho sentito tutto e il contrario di tutto su questa tragedia, che è una tragedia vera. Solo un pazzo o un criminale cambierebbe versione. E io non sono né un pazzo né un criminale ma solo una persona che da sette anni grida la sua innocenza». Dunque nessuna ritrattazione. Anzi: «io e la mia famiglia crediamo profondamente all’innocenza di Amanda». Però, ammette Raffaele, rispetto al passato ci sono delle novità e quelle novità sono contenute nella sentenza di Firenze. Che, sostengono i legali, si basa tutta sul memoriale scritto dall’americana nel quale la ragazza si colloca nella casa di via della Pergola, dice di aver sentito le urla di Meredith, ammette che c’era un altra persona che lei identifica in Patrick Lumumba e che invece è Rudy Guede, l’ivoriano condannato in via definitiva per l’omicidio. «In quel memoriale - afferma Sollecito - è lei stessa che mi scagiona e mi fornisce un alibi, dichiarandomi estraneo da tutto ciò che per i giudici è verità». E allora, «scusate signori giudici - dice il giovane - se è vero quel che dice il memoriale, che per me contiene allucinazioni ma per i giudici la verità, mi spiegate cosa c’entro io e qual è la mia responsabilità?». Versione che l’avvocato dei familiari di Meredith, Francesco Maresca, smonta così: «il fatto che Sollecito non vi fosse menzionato non elimina la sussistenza degli altri elementi a suo carico». Ma non solo: secondo i Sollecito, in quella sentenza c’è anche una «bugia» detta da Amanda che scagionerebbe Raffaele; una bugia, sostiene la difesa, che ha a che fare con l’sms che l’americana spedì a Lumumba alle 20.35 del giorno in cui fu uccisa Meredith. Amanda ha sostenuto di aver inviato quel messaggio da casa di Raffaele mentre per la sentenza quell’sms partì quando era già fuori, perché il cellulare aggancia una cella diversa da quella della via dove abitava Sollecito. «È la sentenza che afferma che l’sms è stato inviato fuori da casa mia, non io». Quel che Raffaele non dice è che questo prova le cose fino ad un certo punto, perché anche se fosse vero che l’americana non era più a casa di Sollecito, ciò non esclude che anche il giovane fosse fuori. O che l’abbia raggiunta poco dopo. Raffaele su questo punto non aggiunge nulla alla versione precedente, ribadendo di aver passato «la notte» con Amanda e di non poter «ricordare esattamente» cosa avvenne prima. La conclusione è una sola: «ho sempre detto che con Amanda vivevamo momenti felici e ho sempre creduto alla sua innocenza. Ma devo prendere atto di quel che c’è in sentenza. Per quella che è stata la mia esperienza con lei non posso pensare che possa aver fatto una cosa del genere, ma leggendo la sentenza scopro che ci sono alcune anomalie nel suo racconto». Al di là del racconto di Raffaele, la strategia della difesa davanti alla Cassazione è chiara: chiedere in primo luogo l’annullamento della sentenza di Firenze - «non è mai esistito nella storia che nella stanza di un delitto non ci sia una traccia degli assassini» sottolinea l’avvocato Bongiorno - o, in subordine, che venga rivista la posizione di Raffaele. «Mi pare evidente - dice non a caso Maresca - il tentativo di separare processualmente le posizioni nella ricostruzione di quella tragica notte». Conferma l’avvocato Bongiorno: «abbiamo sempre detto che non sono gemelli siamesi. E siccome la sentenza insiste sulle anomalie nel comportamento di Amanda, allora si prendano decisioni coerenti e conseguenti senza estendere per automatismo a Sollecito». Perché «se Amanda dice la verità nel memoriale, come sostiene la sentenza, allora Raffaele non c’entra. Quel memoriale lo scagiona, è la prima prova a suo favore». «Che sta succedendo?»: Amanda Knox lo ha chiesto ai suoi difensori negli ultimi giorni dopo le notizie sulle nuove dichiarazioni di Raffaele Sollecito. «Nulla di nuovo» l’hanno tranquillizzata gli avvocati Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova. «Nessuna polemica con la difesa di Raffaele Sollecito, che tra l’altro ha ribadito l’innocenza di Amanda Knox», commenta quanto detto oggi dal giovane e dai suoi penalisti. «Quanto scrive la difesa Sollecito nel ricorso in Cassazione - sottolinea l’avvocato Ghirga - era già emerso nel dibattimento di Firenze. Le strade non si dividono e noi continueremo a difendere Amanda Knox. La nostra posizione è che i due non erano nella casa di via della Pergola quando Meredith Kercher venne uccisa ma a casa di Sollecito. Comunque - conclude l’avvocato Ghirga - simul stabunt, simul cadent».
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
HOTEL GOMORRA. PERUGIA E' COSCA NOSTRA.
Umbria, la nuova isola felice della 'Ndrangheta Tra minacce, usura, droga e business. I clan calabresi parlano umbro. L'operazione del Ros dei carabinieri ha smantellato un cosca con base in provincia di Perugia che ha seminato il panico tra gli imprenditori. Alcuni di questi hanno parlato. E raccontato delle minacce. Anche pizzo e prostituzione tra le attività dei boss, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. L'Umbria si è svegliata con il rumore degli elicotteri tipico delle grandi retate. Il risveglio ha il sapore della 'ndrangheta. Il Ros dei carabinieri hanno eseguito 61 arresti nell'inchiesta "Quarto passo" coordinata dalla procura antimafia di Perugia. Sotto scacco una "filiale" del clan di Cirò e Cirò Marina, paesi di origine delle persone finite in manette. Il gruppo umbro ruota attorno a Cataldo Ceravolo, Salvatore Facente e Mario Campiso. Questi sono i tre indagati ritenuti i capi del clan umbro. Si vantavano di conoscere i capi delle 'ndrine di Cirò, in particolare la famiglia di 'ndrangheta Farao-Marincola. Associazione mafiosa, usura, estorsioni, traffico di droga, incendi, truffe, prostituzione, sono i reati contestati. Molte le vittime locali. Chi non si allineava alle loro richieste avrebbe fatto una brutta fine: «Perché in Calabria è consuetudine murarli nelle gettate di cemento». È stata scoperta inoltre l'alleanza con un gruppo criminale di origine albanese per la gestione del traffico di eroina e cocaina. Nel 2008 c'è stata l'indagine “Neos” che ha riguardato gli affari della cosca Morabito di Africo, provincia di Reggio Calabria, nell'isola felice. Sei anni fa gli arresti furono 57. La storia si ripete. Nell'ultima operazione sono stati sequestrati beni per oltre 30 milioni di euro. «Un'associazione - scrivono gli investigatori - autonoma, radicata». Che manteneva i contatti con la casa madre, ma con un certo grado di autonomia. «L'inchiesta - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare - ha documentato le modalità tipicamente mafiose di acquisizione e condizionamento delle attività imprenditoriali, in particolare nel settore delle costruzioni, con incendi e intimidazioni con finalità estorsive». Usura e estorsioni spesso erano l'anticamera dell'acquisizione dell'azienda pulita. I carabinieri di Perugia hanno inoltre documento diversi incontri tra la cellula umbra con gli emissari dei reggenti della cosca di Cirò, Silvio Farao e Giuseppe Farao. Il lessico, il metodo, le azioni sono tipici della mafia calabrese. «Siamo della 'ndrangheta, siamo calabresi». Così si presentavano gli affiliati che ormai da quindici anni vivevano nella tranquilla provincia perugina. E qui lavoravano nei cantieri con le proprie società: «Ai calabresi ho assegnato i lavori di scavo, di carpenteria, cemento armato e tamponature esterne. Sempre in quell'anno ho assegnato ai calabresi i lavori di carpenteria, acquistando a loro favore il relativo materiale, per la costruzione di quattro villette in località San Marino di Monte La Guardia» racconta un testimone. Nell'inchiesta ci sono tantissimi testimoni che hanno denunciato agli inquirenti le minacce, che si concludevano tutte con l'offerta di “protezione” da loro stessi. Incendi e danneggiamento delle macchine delle aziende. Ma anche teste mozzate di agnello e benzina lasciati davanti agli uffici della ditta, come è capitato a una piccola imprenditrice di Perugia. Non solo. Gli indagati si vantavano pure di saper sparare. Una delle vittime lo spiega ai detective :«Mi ha più volte rivolto le medesime minacce dicendomi che avrei dovuto consegnargli oggi 6 mila euro ed i restanti 5 mila o 6 mila entro il mese di gennaio-febbraio; mi ha anche detto che il garante di tutta questa operazione era lui e che se avessi pagato non avrei più avuto problemi, perché lui era uno che "sparava"». Un altro imprenditore ha raccontato: «Mi hanno costretto a fare ciò a seguito di continue pressioni e minacce, mi dicevano che era meglio per me aderire alle loro richieste per evitare con loro problemi e guai. lo avevo paura di loro e quindi aderivo alle loro richieste». Insomma, in Umbria la 'ndrangheta si sente a casa.
Perugia è cosca nostra. Imprese di costruzione. Ma anche estorsioni e traffico di droga. Così la camorra e la 'ndrangheta hanno esportato i metodi criminali in Umbria, scrive Marco Lillo su “L’Espresso”. C'è un ristoratore minacciato da un poco raccomandabile Carminiello di Gioia Tauro. Non sa come respingere l'assedio ma non vuole pagare. Invece di chiedere aiuto ai carabinieri si rivolge a un amico legato al clan campano dei casalesi. Se ne pentirà. Il calabrese sparisce ma i suoi nuovi protettori diventano in breve tempo i peggiori aguzzini. Al ristorante si comportano come padroni e chiedono anche il compenso per la protezione: 300 euro al mese. Lui non ce la fa e a un certo punto sbotta al telefono: "Vi ho fatto mangiare gratis a te e ai tuoi amici, ora basta, quello che è stato è stato, ma da questo momento tutte le volte che si viene al ristorante io devo incassare!". A quel punto l'amico tira giù la maschera: "Ste' allora non hai capito. Io vengo stasera e tu mi dai i trecento euro. Anche quell'altro non c'aveva i soldi e gli ho fatto fare le cambiali, a me non me ne fotte proprio. Ci vediamo dopo Ste'. Stasera le fai pure tu le cambiali". Il ristoratore abbozza una replica: "Vieni, vieni che ti faccio trovare i carabinieri e ti arrestano", ma non tiene fede alla promessa. I carabinieri che ascoltano in diretta scrivono nel loro rapporto: "Il ristoratore non ha formalizzato alcuna denuncia e, sentito dal pm, ha persino negato la conoscenza del Costanzo". Storie come questa non sono rare in Calabria o in Campania. Il fatto è che il ristorante in questione si trova a Ponte San Giovanni, frazione di Perugia. Strangozzi al tartufo e pizzo alla calabrese è un menù sempre più diffuso sulle tavole umbre. L'indagine Naos del Ros dei carabinieri ribalta tutti i luoghi comuni sulla regione più tranquilla, verde, serena e mistica d'Italia. Il cuore verde sta diventando un cuore di tenebra. L'inchiesta condotta dal pm Antonella Duchini ha portato a 57 arresti e si è guadagnata le prime pagine dei giornali per la reclusione dell'assessore calabrese Udeur Pasquale Tripodi e per i mega progetti delle cosche sull'energia e sul turismo nella loro terra natia. Ma a inquietare è lo scenario di una criminalità che replica il modello nel centro Italia senza trovare opposizione nella società. Una parte dell'imprenditoria umbra accetta l'abbraccio dei clan e quando scopre di essere finita in una tenaglia mortale è troppo tardi. L'ordinanza di arresto racconta la storia di un imprenditore perugino che comincia a usare i campani e i calabresi per i subappalti. Perché hanno liquidità e convengono. Magari non rispettano le leggi, usano poco ferro, ma costano poco e i lavoratori non si lamentano. Li accetta persino come soci per costruire un lotto del grande villaggio che sta realizzando in Sardegna. Salvo scoprire che con i clan non si tratta: o tutto o niente. Vogliono fare l'intero villaggio e quando rifiuta di allargare la joint venture gli bruciano la sua Mercedes e quella della fidanzata. "Lo so perfettamente chi è stato", dice terrorizzato a un amico, "è quel carpentiere che si spaccia per mio socio. Come te lo devo dire che mi stanno facendo un'estorsione in tutti i modi. M'hanno bruciato le macchine, mi stanno a mettere le capocce dei pollastri dentro alla cassetta, mi stanno a mettere la benzina sui davanzali dei capannoni. Sono 20 giorni che sono chiuso in casa a pigliarmi le gocce e le pasticche. Non so come uscirne, me stanno opprimendo e la polizia non fa un cazzo. Hai capito? Vogliono che faccio le denunce, ma io le denunce non le faccio per 'chiappare una revolverata". Il fenomeno è impressionante ma, per gli addetti ai lavori, non è nuovo. L'operazione Naos è solo l'ultima di una lunga serie. Il Ros ha arrestato negli ultimi nove anni qualcosa come 400 persone coinvolte in traffici di droga che transitavano su Perugia. La prima grande operazione, denominata Windshear, illustra bene perché la 'ndrangheta preferisce Perugia a Locri per i traffici di cocaina tra le due sponde dell'oceano. I calabresi allora avevano avuto l'idea geniale di creare un'offerta di pacchetti turistici con decollo da Perugia e atterraggio direttamente ai Caraibi. Una volta sbarcati i villeggianti umbri, felici per i prezzi davvero scontati, il pilota proseguiva per Barranquilla o Medellin e tornava con quintali di cocaina nella pancia dell'aereo. All'aeroporto di Perugia i controlli erano blandi e in Umbria era anche più facile riciclare i proventi in investimenti immobiliari. I calabresi fanno affari con la polvere bianca, ma non disdegnano quella grigia: il cemento. Negli anni magici della ricostruzione dopo il terremoto c'era bisogno di ruspe e betoniere e i calabresi si sono lanciati sui subappalti in un'alleanza anomala con i casalesi che perdura ancora oggi. L'operazione Naos ha coinvolto cinque imprese di costruzione e al vertice dell'organizzazione troviamo Giuseppe Benincasa, detto Pino il calabrese, un imprenditore edile nato nel crotonese, ma emigrato a Perugia nel 1972, e Ciro Zampella, legato per il tramite degli Iovine ai casalesi. Chi traffica in cocaina alla sera spesso firma contratti di appalto al mattino. Come dimostra l'uccisione nel 2004 di un muratore calabrese freddato nel suo appartamento di Perugia perché non aveva saldato il conto di una partita di droga. In questo magma, che mescola etnie e ambienti come accade tra i giovani gaudenti della Perugia by night, non ci sono confini né monopoli criminali. L'Umbria è terra di nessuno e quindi di tutti. Campani e calabresi gestiscono i traffici più importanti, ma c'è spazio anche per gli stranieri. Le partite di cocaina intercettate dal Ros seguono questo viaggio multiculturale: i nigeriani la portano in Umbria. I campani e i calabresi la distribuiscono all'ingrosso, con grande guadagno e minimo sforzo. Mentre gli albanesi si occupano dello spaccio in strada davanti ai locali più frequentati dai giovani come il Gradisca, il Red Zone, il Lido Tevere e il Country. L'Umbria da tempo non è più solo una base logistica delle rotte del narcotraffico, ma anche un mercato fiorente. I giovani della borghesia perugina consumano molta cocaina e anche gli studenti universitari spesso non si tirano indietro di fronte a una pista bianca, ai prezzi popolari che ha raggiunto oggi la neve. Così anche i colombiani si sono lanciati sul mercato e nel 2005 il Ros ha arrestato ben 51 persone che facevano capo al cartello del Nord della Valle. Il clan Montoya gestiva il traffico in proprio dal produttore al consumatore. Anche i calabresi arrestati la scorsa settimana talvolta si rifornivano da soli a Milano. Erano le donne del clan a partire da Perugia per caricare ogni volta un panetto da due chili. Usavano automobili noleggiate da un'agenzia amica, anche perché quelle dei boss di Perugia non passano certo inosservate: si va dalla Jaguar alla Ferrari cabrio gialla fino alla più banale Porsche Cayenne. Pino il calabrese e i suoi amici però erano molto ambiziosi. Puntavano a espandere le loro attività dai settori tradizionali a quelli più innovativi: turismo, energia e chimica. Con grande sorpresa i carabinieri hanno seguito la trattativa con la padrona di uno dei ristoranti più famosi di Milano che voleva vendere ai calabresi la sua fabbrica di plastica. La trattativa era avanzata e i nuovi entranti stavano per aprire una sede a Perugia quando i boss hanno scoperto che la società stava fallendo e hanno rispedito l'offerta al mittente. Pino il calabrese guardava al Nord, ma non perdeva di vista la sua terra. A Brancaleone voleva realizzare un grande centro commerciale da 18 mila metri cubi con uno dei maggiori gruppi del Mezzogiorno: la Sisa. Aveva già fatto il preliminare per comprare ettari di terreno sul quale voleva costruire un centro residenziale sulla costa dei Gelsomini. Voleva riaprire la più antica centrale idroelettrica calabrese a Bivongi e farne una nuova. Per le autorizzazioni non c'era problema, ci pensava l'amico assessore dell'Udeur: "Pasquale Tripodi di Bova: l'altra sera abbiamo mangiato con lui. È lui che firmerà le concessioni delle centrali idroelettriche, i fondi perduti per lo sviluppo del turismo per la Costa dei Gelsomini". Però alla fine la Calabria lo delude. La centrale dovrebbe sorgere al confine con la zona di influenza di un'altra cosca rivale. I summit si susseguono ma non si trova l'accordo. Gli 'ndranghetisti scesi dal Nord sono delusi dai loro cugini locali: "Troppa rozzitudine, lo vedi perché non si fa mai nulla in Calabria. Questi preferiscono fare i sequestri che gli affari. Non meritano la ricchezza", dice il boss sconsolato. Meglio tornare in Umbria dove l'attende il progetto di un residence e di un campeggio da costruire sulla collina più bella di Norcia. La proprietaria del terreno chiede 600 mila euro, ma i boss sono tranquilli: "Quella è matta. Non ti preoccupare però, lei sa chi siamo noi. Non venderà a nessun altro".
«Hotel Gomorra», 'ndrangheta, camorra e mafia alla conquista dell'Umbria perbene. L'infiltrazione dei clan che approfittano della crisi economica, scrive Amalia De Simone su “Il Corriere della Sera”. Hotel Gomorra. In questa frase c'è tutto il disprezzo della gente perbene di Perugia. La scritta apparve in cima ad uno dei palazzi in costruzione di un enorme cantiere posto sotto sequestro da parte del Gico della Guardia di Finanza su richiesta della Dda. L'intero complesso era finito nelle mani, secondo le indagini, di un gruppo di colletti bianchi ritenuti collegati al cartello camorristico dei Casalesi che si sarebbero approfittati di un momento di difficoltà dell'azienda costruttrice, infiltrandosi nel business. E così poco dopo il sequestro, che a Perugia fece molto scalpore, la gente decise di ribellarsi a modo suo con la scritta Hotel Gomorra. L'Umbria da alcuni anni e soprattutto con la crisi che ha colpito tutti i settori economici, è stata presa di mira dai clan di camorra, 'ndrangheta e mafia che hanno avviato una sorta di colonizzazione del territorio attraverso l'acquisizione di attività commerciali, aziende edili, locali, hotel, terreni. Ci sono personaggi che acquisiscono informazioni su aziende in difficoltà e le passano ad altri luogotenenti dei clan che si attivano per entrare in contatto con gli imprenditori locali. Le cosche non controllano il territorio come avviene nelle zone di origine ma cercano di insinuarsi nel tessuto economico per poter riciclare denaro. «Arrivano con le loro valigette piene di soldi e diventano una buona soluzione per quegli imprenditori che hanno problemi di liquidità o hanno necessità di rinverdite l'attività. L'Umbria è una regione tranquilla con una vocazione produttiva interessante – spiega il magistrato Simona Di Monte - e soprattutto accoglie due penitenziari di massima sicurezza: Spoleto e Terni. Quindi spesso familiari di boss, pur di stare vicino al loro parente detenuto, si trasferiscono alcuni mesi lì. Abbiamo trovato infiltrazioni camorristiche in molti settori, perfino in quello dell'educazione, che è quanto di più lontano possa esserci rispetto alla mafia». Finanziarie, società create solo per emettere fatture false, operazioni inesistenti: i meccanismi per riciclare soldi sono ormai noti. «Noi cerchiamo di seguire il flusso dei soldi - spiega il comandante del Gico della guardia di finanza di Perugia Marco Marricchi -. Monitoriamo personaggi che possono sembrarci interessanti e se notiamo una sproporzione tra dichiarazione dei redditi e investimenti o tenore di vita, interveniamo. Dal 2009 ad oggi abbiamo effettuato sequestri per 90 milioni di euro. Aggredirne i patrimoni è il colpo più grave che si riesce a dare ai mafiosi. Ci capitano però anche vicende paradossali come il caso di una signora che gestiva i fondi antiusura per conto della Fondazione Umbria Antiusura, di cui tutti si fidavano e a cui le persone colpite si affidavano e che invece, quei soldi destinati alle vittime, li faceva sparire e li teneva per sé. A lei abbiamo sequestrato beni per 3 milioni e mezzo di euro». Andiamo a vedere una delle proprietà della signora in questione a bordo di una delle vetture a lei sequestrata, un auto molto costosa. La villetta si trova in una zona verde vicino a Perugia ed è attrezzata anche con una piscina. Spesso gli imprenditori che cadono nella rete dei clan sono inconsapevoli di ciò che sta avvenendo. E così è accaduto anche per Roberto Tassi, imprenditore noto nel panorama nazionale che ha accettato di raccontare la sua storia a volto scoperto. «Voglio dire come è andata perché così, magari, apro gli occhi a qualcuno», spiega e ci riceve nel suo hotel Domi, la struttura finita nel mirino della camorra, un bellissimo albergo immerso nel verde a pochi passi dal centro di Perugia. «Ho perso tutto ma sto salvando questo hotel e mi sento più ricco dentro. Facevo l'amministratore delegato di alcune importanti società ed ero partner di personaggi dell'alta finanza italiana. Avevo alcune case e vivevo in una villa con la mia famiglia. Ad un certo punto decisi di vendere questo hotel perché non riuscivo ad occuparmene. Una conoscente mi presentò un imprenditore che mi sembrò affidabile. Aveva cantieri e affari in tutta Italia, sembrava sicuro di sé e dopo vari giri di avvocati accettai la sua proposta: cedergli l'albergo in cambio di appartamenti in costruzione. Fino alla consegna dell'immobile l'hotel sarebbe rimasto mio ma l'avrebbe gestito lui. Il capo si presentava bene, talmente bene che decisi di introdurlo nel gotha della finanza milanese. Invece era un camorrista». Tassi se ne rese conto quando passavano i mesi e i pagamenti venivano rimandati di continuo. Un bel giorno decise che sarebbe rientrato nel suo albergo e li avrebbe cacciati via. Così fu, ma Roberto trovò un buco da oltre un milione di euro tra mutui, conti non pagati, dipendenti non pagati e così via. In più cominciò a capire che dietro quell'organizzazione c'erano clan della camorra. Si rimboccò le maniche, vendette le sue società, vendette la sua casa e cominciò a lavorare in albergo facendo di tutto, anche le pulizie. Nel frattempo venne a galla anche la vicenda giudiziaria, fu interrogato dal pm, chiarì tutto ma l'hotel restò sequestrato alcuni mesi. «Mi cadde il mondo addosso. Continuare l'attività era l'unico modo che avevo per provare a risanarla e non mandare tutto in fallimento. - spiega - Andai avanti senza poter usare carte di credito e continuando a pagare i debiti che spuntavano di continuo e con tante tasse sulle spalle. Si, perché quando ti capita una cosa del genere il sistema non ti aiuta: non hai agevolazioni fiscali, né altri sostegni. Poi con la costituzione di parte civile e l'inserimento nel processo si attivano una serie di meccanismi di aiuto... ma fino ad allora devi anche provvedere alle spese legali e non è semplice riuscire a spuntarla. Io sono stato fortunato ma ci sono tantissimi imprenditori che si sono inconsapevolmente messi nelle mani della criminalità organizzata e ora rischiamo di fallire. Ormai l'Umbria è diventata terra di conquista».
PERUGIA COME SODOMA E GOMORRA?
Perugia è la nuova Sodoma? Sui giornali viene dipinta come la città della perdizione, ma in realtà i suoi problemi non sono gli studenti stranieri. Che non sono sempre ubriachi, scrive Alice T. su “Giovani.it”. “Quello che sentiamo sui telegiornali non è vero. Tutte esagerazioni. Questa città non c’entra niente con quello che si legge e si vede in tv”. Gli studenti, i residenti e i cittadini di Perugia sono stanchi. Dopo l’assassinio di Meredith Kercher che ancora tiene banco sui tg e sui maggiori quotidiani nazionali, il nuovo ‘mostro’ da additare è diventata la città di Perugia. O meglio, il centro storico di Perugia, teatro di chissà quali festini, spedizioni punitive, criminalità. Se proprio si vuole essere precisi, il nuovo mostro sono gli studenti. Quelli che animano le strade del centro, non da due settimane, ma da decine di anni, e che si sentono presi in giro. Il problema di Perugia non sono certo gli studenti, che, come si legge in alcuni quotidiani, sembrerebbero aver preso d’assedio la città. Decine di servizi dipingono questa categoria, a Perugia molto esigua rispetto a metropoli come Roma, Milano o Bologna, come una sorta di branco senza scrupoli. Gli studenti fumano canne, si drogano e soprattutto, sono sempre ubriachi. Ma sarà davvero così o è il solito modo per distogliere il pubblico dal vero problema, cioè un assassinio senza un vero movente? “Io esco tutte le sere, ma non torno sempre ubriaco – dice Andrea, studente di Scienze della Comunicazione, la facoltà ritenuta ‘peggiore’ – se ho lezione la mattina dopo torno presto, altrimenti faccio anche l’una di notte. C’è qualcosa di male? I miei voti sono ottimi e non porto a casa una ragazza ogni sera”. Infatti, un altro luogo comune sarebbero i cosiddetti festini. Come se invitare a cena cinque persone e bere una bottiglia di vino possa essere ritenuto immorale, perché fatto da gente che studia. A Perugia, tra l’altro, l’Università ha parecchie lacune. Come a Roma, dove si fa lezione nei teatri, a Perugia ci sono pochi spazi e capita di seguire lezioni in aule colme, ad orari indecenti, perfino il sabato. Per non parlare degli affitti, spesso in nero, che i proprietari degli appartamenti del centro storico gonfiano da anni. Questi sono i problemi degli studenti perugini, stranieri e non. Se si parla di vita notturna, le discoteche perugine, mai menzionate dai tg, si trovano tutte in periferia. “La tana dell’Orso? Dovrebbero fare un giro in certe discoteche – dice Mariagrazia – dove circola droga in abbondanza e nessuno dice nulla”. Invece, l’attenzione generale è sui pub del centro storico. Pochi e molto controllati, da quando c’è il divieto di servire alcolici dopo le due e soprattutto di far uscire dai locali bottiglie di vetro. Piuttosto, c’è poco controllo sugli immigrati che spacciano in alcune vie del centro storico. Le forze dell’ordine non presidiano alcuni spazi chiave della città, divenuti ormai off limits dopo una certa ora e non solo per le ragazze. “Gli studenti stranieri si divertono un po’ di più, questo è sicuro – dice Chiara, commessa - Lo farei anche io se fossi in un altro paese. Eppure, la mia coinquilina polacca che frequenta l’Università per Stranieri è bravissima e si sta impegnando molto per imparare l’italiano”. L’unica pecca sta nell’integrazione tra studenti stranieri e italiani. Per quanto possano abitare insieme, in genere gli stranieri, anche quelli in Italia per scambi Erasmus, preferiscono stare con altri stranieri. Con gli studenti perugini c’è poco scambio, con i residenti meno che mai, causato anche dalla natura fondamentalmente chiusa di Perugia e dei suoi abitanti. Insomma, gli studenti sono il nuovo capro espiatorio, mentre la mancanza di sicurezza e di lavoro non viene presa in considerazione. Perugia come Sodoma e Gomorra?
LIBERTA’ DI PAROLA? AMMAZZATI PER UNA FRASE.
Il re è nudo……C'era una volta (e solo una) molti anni fa, così tanti che il passaggio del tempo non era neppure iniziato, un Re che amava così tanto i vestiti nuovi che spendeva in essi tutto quello che aveva….". Così inizia la favola per i bambini (Eventyr Fortalte for Bom) scritta nel 1837 da Hans Christian Andersen che si era ispirato ad una novella spagnola del 13° secolo. Come le nostre lettrici ed i nostri lettori sanno, i cattivi consiglieri – sull'orlo della disperazione – confezionarono al Re "un bel nulla" convincendolo che si trattava di uno splendido vestito cangiante con la magnifica proprietà di essere invisibile agli stolti, agli ignoranti ed agli stupidi. Da allora, l'espressione "il Re è nudo" ha assunto un preciso significato simbolico quando si mettono….a nudo le debolezze delle pubbliche autorità. Espressioni come "i nuovi vestiti dell'imperatore", "l'imperatore (o il re) è nudo" e così via sono spesso usate in molti contesti con riferimento alla fiaba di Andersen. Solitamente, lo scopo è quello di denunciare una situazione in cui una maggioranza di osservatori sceglie volontariamente di non far parola di un fatto ovvio a tutti, fingendo di non vederlo. Una metafora simile, del XX secolo, è quella dell'elefante nella stanza. Uno dei contesti in cui la frase ricorre in modo più frequente è quello politico, in cui la corrispondenza con il contenuto della storia di Andersen è spesso rinforzata dal fatto che una certa verità venga taciuta per compiacere il potere politico. La storia è anche usata per riferirsi al concetto della "verità vista attraverso gli occhi di un bambino", ovvero al fatto che spesso la verità viene proclamata da una persona troppo ingenua per comprendere le pressioni esercitate all'interno di un gruppo affinché essa venga taciuta. Nell'opera di Andersen il tema della "purezza degli innocenti" ricorre anche in molte altre fiabe.
La frase deriva da una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen il cui titolo originale è "Keiserens Nye Klæder", ma che in italiano diventa "I vestiti nuovi dell'imperatore". Di seguito la trama della fiaba: La fiaba parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Alcuni imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché; come i suoi cortigiani prima di lui, anch'egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida: "ma non ha niente addosso!"; da questa frase deriverà la famosa frase fatta « Il re è nudo! » Quindi espressioni come "i nuovi vestiti dell'imperatore", "il re è nudo" e così via sono spesso usate in molti contesti con riferimento a questa fiaba. Solitamente,con lo scopo di denunciare una situazione in cui una maggioranza di osservatori sceglie volontariamente di non far parola di un fatto ovvio a tutti, fingendo di non vederlo. Inoltre questa fiaba è stata ripresa in una canzone degli Articolo 31 "Sputate al re" contenuta nell'album "Italiano Medio" (2003) e nella canzone di forte contenuto politico "Il re è nudo" dei Nomadi contenuta nell'album "Amore che dai amore che prendi", oltre che utilizzata anche per fare dei film tra cui "Gli abiti nuovi del granduca" (2005) di Alessandro Paci.
Il Cav sfida i giudici in aula: "Magistrati irresponsabili". Berlusconi sentito come testimone in tribunale al processo Panama-Impregilo. Risponde a tutte le domande e contrattacca: "Godete dell’immunità piena", scrive Carmine SpadaforaIl Giornale”. «La magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l'immunità piena». A un certo punto il testimone Silvio Berlusconi sbotta e replica così a una domanda di Giovanna Ceppaluni, presidente della sesta sezione del Tribunale di Napoli, dove si sta celebrando il processo a carico di Valter Lavitola, imputato per tentata estorsione. Duello e sfida con la Corte, terminato solo quando l'udienza si è conclusa. Berlusconi, mentre l'aula stava per svuotarsi, si è avvicinato alla presidente Ceppaluni e le ha donato l'attestato del giuramento dei testimoni, chiuso in una cornice e coperto da un vetro. «Affinché il decoro della giustizia italiana sia tutelato» le ha detto l'ex premier. Poi è andato via dopo più di tre ore trascorse nell'aula 219. Da palazzo di giustizia è trapelato che la Procura starebbe per inviare gli atti dell'udienza alla Procura generale di Milano per valutare se Berlusconi sia venuto meno agli obblighi imposti dall'affidamento in prova ai servizi sociali. Prima, la Corte si era riunita per decidere se interrogarlo in qualità di testimone, oppure, come volevano i legali Niccolò Ghedini e Michele Cerabona, in veste di indagato per reato connesso o collegato. I tre giudici della sesta sezione si sono riuniti in camera di consiglio e hanno stabilito che Berlusconi fosse ascoltato in qualità di «teste puro». Nell'aula 219 c'era anche l'imputato Lavitola (detenuto nel carcere di Poggioreale), difeso dall'avvocato Paniz, imputato per una tentata estorsione a Impregilo per degli appalti a Panama. Gli inquirenti sostengono che Impregilo per aggiudicarsi l'appalto da un miliardo e mezzo di dollari per la costruzione di un canale avrebbe dovuto anche realizzare l'ospedale, la cui costruzione sarebbe stata affidata a una azienda vicina al presidente Roberto Martinelli. Lavitola avrebbe avuto il ruolo di mediatore in considerazione dei suoi rapporti con la politica panamense. «Sapevo della costruzione di un ospedale di Impregilo, mi parve una iniziativa buona e lodevole - ha detto Berlusconi - Lo appresi nel corso di una cena ufficiale a Panama. Dissi che ai mobili e agli arredi potevo provvedere io. Chi dona è più fortunato di chi riceve. La mia famiglia destina il 10% alle opere di beneficenza». I pm sostengono che proprio sulla edificazione dell'ospedale ci sarebbe stato il tentativo di estorsione di Lavitola. L'ex giornalista avrebbe prospettato a Impregilo l'ipotesi che senza la realizzazione dell'ospedale, Martinelli poteva bloccare i lavori del canale. Berlusconi (che non si è sottratto ad alcuna delle domande che gli sono state poste dalla Corte e dai pm) ha riferito di non avere «mai saputo che rapporto c'era tra il canale e l'ospedale» e di essere stato contattato da Lavitola, che gli aveva prospettato dei problemi insorti a Panama e di riferirli a Impregilo. «Sono stato ambasciatore che non porta pena» ha detto l'ex premier, che si è poi detto «orgoglioso» di avere telefonato a Massimo Ponzellini di Impregilo «per il bene delle aziende italiane». E proprio all'ennesima domanda della presidente, sulla telefonata tra l'ex premier e Ponzellini, che Berlusconi ha perso la pazienza. «Chiedo scusa, ma non riesco a capire il senso di queste domande». Replica immediata del giudice: «Non c'è alcun bisogno che lei capisca». A quel punto, controreplica del teste: «La magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l'immunità piena» ha detto il leader di Fi. «Ed è ancora tutelata dal codice penale» ha detto la presidente mentre, dal suo banco è scattato il procuratore aggiunto, Vincenzo Piscitelli, che rivolgendosi alla Ceppaluni ha detto «questo non lo posso accettare». Al termine dell'udienza, Berlusconi si è concesso un pranzo da Mattozzi, a pochi passi dal porto. Sulla tavola apparecchiata per cinque, (oltre a Berlusconi e i legali, il presidente della Provincia, Antonio Pentangelo e Luigi Cesaro) pizza margherita, mozzarella con pomodorini e babà. All'uscita, una gran folla lo attendeva per incitarlo ad «andare avanti per l'Italia». Il leader del centrodestra è salito sul predellino dell'auto e ha salutato i suoi fan, mandando baci e regalando sorrisi. “
Magistrati, una casta intoccabile che vuole Silvio in galera. Berlusconi rischia grosso. Potrebbe finire in cella, nonostante i suoi 77 anni e nonostante il fatto che è il capo di uno dei tre grandi partiti italiani. E se così fosse, sarebbe il primo leader politico di tutta la storia della Repubblica ad andare in prigione per un reato d’opinione. L’ultima volta fu prima del 25 luglio del 194, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. E’ successo, come avete letto ieri su questo giornale, che giovedì 19 giugno 2014 al Tribunale di Napoli si è verificato, in aula, uno scontro verbale tra l’ex primo ministro e il Presidente della Corte. Ora la Procura di Napoli sta valutando l’ipotesi che nel corso di quell’incidente, Berlusconi, con le sue parole aggressive verso la magistratura, abbia nientepopodimenoché commesso il reato di oltraggio all’ordine giudiziario. Deciderà lunedì se aprire o no un procedimento e se trasmettere le carte al tribunale di sorveglianza di Milano perché possa decidere se revocare il beneficio dei servizi sociali e spedirlo in galera. La scelta tra archiviare o procedere è affidata al Procuratore Giovanni Colangelo e a due Pm: Vincenzo Piscitelli e…Henry John Woodcock. C’è bisogno di scrivere qualche riga su Henry John Woodcock? È un giovane magistrato molto noto e del quale tutto si può dire ma non che non abbia qualche inimicizia verso Berlusconi. Naturalmente questa evidente incompatibilità potrebbe persino giovare a Berlusconi: Woodcock, sentendosi troppo esposto, potrebbe finire per evitare lo scontro frontale. Woodcock però non è un tipo che evita gli scontri frontali. Gli sono sempre piaciuti, li ha sempre cercati, generalmente senza un grande successo visto che moltissime delle sue inchieste più spettacolari, contro imputati famosi, si sono risolte con un flop. Cosa potrebbero decidere i giudici di Napoli? Di aprire un procedimento per oltraggio, e le voci di corridoio dicono che si stanno orientando in quel senso. E poi potrebbero decidere di trasmettere la registrazione dello scontro tra Berlusconi e la dottoressa Ceppaluni al tribunale di sorveglianza di Milano. A quel punto Berlusconi si troverebbe sotto due fuochi: a Napoli dovrebbe affrontare un nuovo processo per un nuovo reato (di opinione, ma che prevede pene severe); a Milano potrebbe aspettarsi che il tribunale gli revochi l’affidamento ai servizi e lo mandi in cella. Il Tribunale di sorveglianza, quando decise di assegnare Berlusconi ai servizi sociali ( e precisamente all’assistenza ai malati di Alzheimer) lo aveva ammonito: non parlare male della magistratura o ti sbattiamo dentro. Berlusconi si è fatto tutta la campagna elettorale tappandosi la bocca per evitare che gli sfuggisse qualche sciabolata contro i giudici. L’altra sera però non ha retto. Ci sono stati due minuti di scintille. La presidente della Corte, la dottoressa Ceppaluni, gli ha chiesto qualcosa sui suoi rapporti con il finanziere Ponzellini. Lui ha risposto: «Non capisco il senso di queste domande». E lei, gelida, ha replicato: «Non c’è nessun bisogno che lei capisca». A quel punto Berlusconi è sbottato e ha parlato di irresponsabilità e impunibilità della magistratura. Che un capo politico definisca irresponsabile e impunibile la magistratura, è un’offesa o è critica politica? Se avesse definito irresponsabile Grillo, o Renzi, o Obama nessuno avrebbe avuto niente da dire. La magistratura in Italia è un luogo sacro? Può criticare e anche condannare ma non può essere criticata né tantomeno giudicata? Eppure in qualunque paese libero è legittimo criticare la magistratura. Forse è meno legittimo che un giudice, in tribunale, sbeffeggi e cerchi di umiliare un imputato. E affermi con protervia e arroganza la sua superiorità quasi divina.«Non c’è bisogno che lei capisca», che significa? Significa: qui c’è una sola persona che deve capire e comandare: io. Lei si sottoponga a me e obbedisca. Siamo sicuri che il Consiglio superiore della magistratura non debba valutare se l’atteggiamento assunto in aula dalla dottoressa Ceppaluni non fosse offensivo e violasse l’etica della magistratura? Se io ascoltassi un giudice rivolgersi con quella arroganza a un povero cristo (e temo che succeda molto spesso) mi indignerei parecchio. Per Berlusconi invece non bisogna indignarsi? La verità è che uno può anche indignarsi, ma poi non gli resta altro che abbozzare. La potenza assoluta e incontrollabile della magistratura è ormai fuori discussione e sembra inarrestabile. Il governo ha annunciato che giovedì presenterà la riforma della Giustizia. C’è da scommettere che in questa riforma non ci sarà di niente di sgradito ai magistrati: né la separazione delle carriere, né la responsabilità civile, né la riforma del carcere preventivo, né la limitazione delle intercettazioni, nè la riforma del processo.
Nell'esercitare la libertà di espressione è andata peggio al Prefetto di Perugia. Non sono cessate le polemiche intorno al servizio trasmesso il 29 maggio 2014 su La 7, ad Announo, che fotografava il capoluogo umbro come “capitale dell’eroina”. A distanza di alcune settimane dalla messa in onda della puntata incriminata, si è svolto un incontro chiarificatore con la stampa da parte delle istituzioni, non arrivato prima - spiega il prefetto di Perugia Antonio Reppucci - «per non essere strumentalizzati in campagna elettorale». Perugia e l'eroina tornano in tv, ancora su la7. E scoppia di nuovo la polemica dopo le dichiarazioni dell'ex ministro Carlo Giovanardi: «Perugia è una città persa, per fortuna non tutte sono così». Su la7, nel corso della trasmissione di Michele Santoro AnnoUno, infatti, è andato in onda un reportage di Giulia Cerino che racconta di Perugia come uno «dei crocevia della droga in Italia, tanto da essersi guadagnata il soprannome poco lusinghiero di “capitale dell’eroina” e il record per morti dovute a overdose». «In via Pellini, nel parco alle porte della città - prosegue la giornalista -, c’è un vero e fortino dei tossicodipendenti mente nel centro, qualche chilometro più in là, va in scena la movida del sabato sera. A sorvegliare piazza IV novembre c’è un gruppo di pusher tunisini, che controllano il racket. “Perugia è fatta così, c’è gente che vende, pippa, si droga e nessuno li arresta” raccontano due giovani», riassume Cerino. E sui social network riesplode la polemica, tra chi parla di attacco alla città e chi dice che Perugia meriti altro. Duro l'attacco di Giovanardi che l'ha definita «città persa». «È l'ennesima pioggia di fango sulla città - commentano il rettore Franco Moriconi e il prorettore Fabrizio Figorilli, raggiunti da decine di telefonate durante la messa in onda - che non rispecchia la realtà, soprattutto dopo tutti gli sforzi fatti».
A Perugia il problema della droga "esiste come nel resto d'Italia, da nord a sud, ma non con le dimensioni apocalittiche che vengono rappresentate": a sottolinearlo con un accorato appello in difesa della città è stato il prefetto del capoluogo umbro Antonio Repucci. Che il 19 giugno 2014 ha incontrato la stampa insieme al procuratore generale Giovanni Galati e ai vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Secondo Reppucci, nel capoluogo umbro "vengono usati toni sensazionalistici che invece non si sentono altrove". "Anche l'atteggiamento della società civile - ha aggiunto - è cambiato. Con tante più segnalazioni che giungono alle forze di polizia. Dobbiamo lavorare e sudare tutti insieme, io per primo. Tutti insieme possiamo farcela". "Bisogna dire basta con forza alla sistematica denigrazione di Perugia" l'invito del procuratore generale Galati. "La città - ha proseguito - non è minimamente toccata dal narcotraffico e nel processo per l'omicidio di Meredith Kercher del quale tanto si parla ci sono al massimo due spinelli. Dobbiamo ricordare Perugia - ha concluso il magistrato - non per questo maledetto processo ma per la sua arte, la sua storia e la sua cultura".
Bando al fioretto, si passa alla scimitarra. Il Prefetto Antonio Reppucci rompe gli schemi e parla come chi si arrotola le maniche della camicia per tuffarsi nel lavoro e non per il caldo: “Noi siamo in guerra con chi spaccia, scrive Sara Minciaroni in collaborazione con Carlo Vantaggioli su “Tuttoggi”. Il prefetto ha riferito di aver già stabilito, insieme al nuovo sindaco di Perugia, incontri in tutte le scuole cittadine per parlare di sicurezza e che la guardia contro lo spaccio è sempre più alta. “Rovescia” il tavolo, tralascia l’etichetta e si esprime in modo durissimo e a tratti in forma inusuale per il ruolo ricoperto. Ha convocato i giornalisti questa mattina al super vertice in prefettura con il chiaro scopo di difendere la sua città, presenti il procuratore generale Giovanni Galati e i vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza. “Non l’abbiamo fatto prima – spiega il Prefetto – perché in clima campagna elettorale si correva il rischio di strumentalizzazioni”. Ma lo scopo è fare chiarezza dopo la tanto criticata trasmissione AnnoUno trasmessa da La7 e dedicata al problema della droga a Perugia. “Perugia non è la capitale della droga. La droga è un male di vivere – spiega- della società contemporanea, trasversale, che colpisce tutte le classi sociali. Ma le famiglie dove sono?”. E il prefetto tira in ballo il ruolo delle famiglie, soprattutto quelle di quasi 500 assuntori che vengono segnalati ogni anno e di cui solo un 20% sono cittadini stranieri e la cui prevalenza ha un’età compresa tra i 18 e i 27 anni: “Mio padre mi avrebbe tagliato la testa – sentenzia il Prefetto – e invece sento genitori dire ‘ma che vuole che sia uno spinello?‘. E’ tempo che le famiglie guardino negli occhi i loro figli. Una madre che ha un figlio drogato è una madre che ha fallito. Una mamma, un genitore che non si accorge che il proprio figlio fa uso di droga è una fallita, si deve solo suicidare”. E ancora “Le forze di polizia non possono fare da badante o da tutore laddove la famiglia ha fallito”. Concetti duri che mirano alla pancia della società, per togliere quel marchio che tanto pesa sulla città. “La famiglia deve riprendere il suo ruolo nella logica di uno Stato /Comunità e non di Stato/Apparato”. E’ tempo che dalle parole si passi ai fatti sottolinea il prefetto usando un’efficace metafora “Diarrea di parole e stitichezza di fatti”. Sottolinea anche che le forze dell’ordine fanno il loro lavoro al massimo e i risultati iniziano a vedersi con il drastico calo delle morti per overdose. Perché “non esistono città a consumo droga zero il problema della droga esiste a Perugia come nel resto d’Italia, da nord a sud, ma non con le dimensioni apocalittiche che vengono rappresentate”. “Sono orgoglioso di sentirmi perugino – spiega il procuratore generale – e dico basta a questa denigrazione. Una trasmissione che definiscono impegnata, ma il cui impegno ho visto solo nell’offendere Perugia. Mi chiedo se l’illuminata giornalista sappia cosa sia il narcotraffico o lo confonda con lo spaccio al minuto”. Toni diversi certo quelli del procuratore ma con la stessa forte intensità tanto da spingerlo alla similitudine pascoliana; “Avete presente – dice rivolgendosi alla stampa - il frullo dei bofonchi parea parole questo l’effetto del deputato che in trasmissione ha parlato dell’omicidio Meredith (Giovanardi ndr). In quel processo, di cui tanto si parla, ci sono al massimo due spinelli”, per spiegare come invece l’impatto mediatico lo abbia trasformato, per chi non conosce i fatti, nell’emblema della droga a Perugia. E poi ancora sul programma “Il parco con siringhe messe in fila, un ubriaco che barcolla, lo sbandato che urina sul muro, le ragazzine eccitate per la ripresa. Un film dalla scenografia e dalla sceneggiatura squallida, creato ad arte con luoghi e oggetti come le siringhe in primo piano che si troverebbero facilmente in ogni città”. E poi l’appello ai giornalisti “che hanno più potere dei politici” affinché venga restituita la giusta immagine di Perugia perché: “Il fenomeno della droga esiste ma le statistiche sono ingannevoli – ha affermato il prefetto – altrove molte morti sono classificate come naturali, qui voi con l’efficienza della vostra sanità risalite sempre alle cause e allora il dato delle overdose sembra maggiore che altrove. Introdurre metodologie uniformi di rilevazione soprattutto dei decessi per overdose eviterebbe molte distorsioni”. E rispetto al tipo di criminalità “a Perugia prende piede quella straniera perché a differenza di altre città non ve ne era una autoctona” prefetto e procuratore hanno anche negato che in Umbria ci siano infiltrazioni della criminalità organizzata e rimarcano il fatto che “Ci sono dei tentativi di infiltrazione – ha sottolineato il procuratore Galati – ma le operazioni dimostrano che vengono bloccate sul nascere, le stronchiamo prima. Vengono individuate e bloccate”. Anche Reppucci ammette di avvertire dei tentativi: “La crisi ha provocato anche questo, la criminalità che ha soldi da investire trova terreno facile nelle aziende in difficoltà, dobbiamo fare attenzione”. E sul consumo indigeno il prefetto punta molto. Per far capire una volta per tutte che gran parte dei consumatori della droga in circolazione “sono i nostri figli, i nostri vicini di casa, i professionisti a cui quotidianamente ci rivolgiamo”. Conclusione: Il nemico non viene da fuori, ma è al servizio di un bisogno interno e da questo bisogna partire per risolvere il problema, per la legge della domanda offerta. Non una frittata rigirata, piuttosto un punto di vista sul problema che vorrebbe spingere ad una diversa presa di coscienza e la minor facilità di scrollarselo di dosso come se provenisse dall’esterno. Il problema è endogeno e chiedendo alle famiglie di guardare negli occhi i propri figli il prefetto ha fatto molto più che una provocazione. Certo è che se il ruolo ricoperto dalla figura istituzionale, di solito, prevede un linguaggio politicamente corretto, in questo caso quello usato a Perugia ha il sapore della vera e propria Crociata, o se volete, una “Sfida all’O.K. Corral”. Difficile che dichiarazioni del genere non suscitino reazioni.
Bene. Da questa difesa della città, la stampa additata come responsabile dell’infamia, si è gettata a capofitto sull’indifeso Prefetto e su una sua frase estrapolata ad arte il sui senso era “La tossicodipendenza inizia in famiglia, col mancato controllo dei genitori.”
"Madri dei tossici fallite". Prefetto nei guai. Dichiarazioni choc (già quel choc anzichè shock la dice lunga): "Una mamma non si accorge che il figlio si droga? Si deve suicidare". Renzi e Alfano lo rimuovono, scrive Giuliana De VivoIl Giornale”. «Se una madre non si accorge che il figlio si droga per me è una madre che ha fallito, si deve solo suicidare». A volte basta una frase sbagliata a rovinare una situazione in apparenza tranquilla. Ma di frasi dai contenuti inaccettabili il prefetto di Perugia Antonio Reppucci sembra se ne sia fatte scappare più d'una. Lo ha fatto durante una conferenza stampa svoltasi due giorni fa per tranquillizzare l'opinione pubblica sulla droga nel capoluogo umbro, e smentire che Perugia stia diventando una centrale dello spaccio. La toppa, però, è stata decisamente peggiore del buco. Le forze dell'ordine «non possono fare da badanti e tutori alle famiglie - ha proseguito il funzionario - se io avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano lo prenderei a schiaffi, spero che i padri taglino le teste ai figli che assumono stupefacenti». Insomma per il Prefetto «il cancro è lì nelle famiglie». Parole pesanti come pietre, andate in onda sul sito della televisione «Umbria24», che in poco tempo si sono diffuse e hanno fatto il giro del web. E che non potevano non fare rumore. Al punto che il giorno dopo, ieri, il procuratore distrettuale Antimafia di Perugia Antonella Duchini ha sentito l'esigenza di diffondere una nota, nella quale si dissociava dalla posizione del dirigente: «Le famiglie non devono sentirsi isolate, ma supportate e coinvolte», ha messo nero su bianco Duchini. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, su tutte le furie secondo fonti di palazzo Chigi, ha chiesto conto di quanto accaduto al ministro Angelino Alfano. Minuti convulsi, in cui il titolare degli Interni definisce «gravi e inaccettabili» le affermazioni del dirigente, annunciando «immediati provvedimenti» nei suoi confronti. E dopo l'annuncio della rimozione di Reppucci il premier si è espresso, scrivendo su Twitter: «Le frasi del Prefetto di Perugia sono inaccettabili, specie per un servitore dello Stato. Sono grato al ministro Alfano per l'intervento». Intanto la miccia della polemica era stata innescata, l'autodifesa di Antonio Reppucci, che ha invocato l'equivoco, è suonata stonata: «È stato un gigantesco fraintendimento del senso che volevo dare alle parole. Nessuno vuole il suicidio di nessuno. Volevo solo scuotere, era un invito a fare squadra tutti insieme, con magistratura e forze di polizia che fanno già un lavoro egregio. A loro si devono unire però anche le forze della società civile, compresa la famiglia». “
Anche il politicamente corretto Corriere pubblica il suo articolo. Rimosso il prefetto di Perugia dopo le frasi choc sui giovani e la droga. (Già quel choc anzichè shock la dice lunga). Intervenendo ad una conferenza stampa Antonio Reppucci aveva detto: «Se una madre non si accorge che il figlio si droga dovrebbe suicidarsi». Il premier Renzi: «Non può stare al suo posto», scrive Alfio Sciacca su “Il Corriere della Sera”. Rimosso a tempo di record il prefetto di Perugia Antonio Reppucci dopo le esternazioni choc su droga e giovani. «Se una madre non si accorge che il figlio si droga ha fallito, si deve solo suicidare» aveva detto qualche giorno fa suscitando la reazione sdegnata del procuratore della repubblica di Perugia . Dopo aver sentito le parole del prefetto il presidente del consiglio Matteo Renzi si è detto «furente». E a stretto giro è intervenuto anche il ministro dell’interno Angelino Alfano annunciando la rimozione del prefetto. «Ho sentito le sue dichiarazioni, sono gravi e inaccettabili. Non può restare lì nè altrove. Assumerò immediati provvedimenti». «Le frasi del Prefetto di Perugia sono inaccettabili, specie per un servitore dello Stato. Sono grato al Ministro Alfano per l’intervento» ha twittato poco dopo Matteo Renzi ufficializzando la rimozione del prefetto. Qualche giorno fa, parlando di droga in quella che viene considerata la capitale della tossicodipendenza, il prefetto Reppucci aveva preso di mira le famiglie. Intervenendo ad una conferenza stampa, assieme al procuratore generale di Perugia e alti ufficiali delle forze dell’ordine, era stato durissimo. «Il cancro sta nelle famiglie -ha affermato- se una madre non si accorge che il figlio si droga ha fallito, si deve solo suicidare». In un lungo monologo il rappresentante del governo ha detto che il problema della lotta alla droga non può essere caricato esclusivamente sulle forze di polizia. «Noi non possiamo fare da badanti e tutori al posto delle famiglie -ha gridato con intercalare di espressioni napoletane- se uno mette al mondo dei figli poi deve stare attento a quello che fanno. Se io avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano lo prenderei a schiaffi. Uno che beve per strada imbambolato io non lo accetto proprio». La conferenza stampa era stata convocata anche per replicare ad un servizio della trasmissione “Anno Uno” sul consumo e spaccio di droga a Perugia. Le parole del prefetto hanno fatto rapidamente il giro del Web grazie ad un video realizzato dal sito Umbria 24 suscitando un’ondata di indignazione. Il primo a prendere le distante dal prefetto era stata il procuratore della Repubblica di Perugia Antonella Duchini. «Questo ufficio - si legge in una nota- si dissocia in maniera netta dalle affermazioni del prefetto quando spera che i padri taglino le teste ai figli che assumono stupefacenti e quando sostiene che “il cancro è lì nelle famiglie, se la mamma non si accorge che suo figlio si droga è una mamma fallita e si deve solo suicidare”. Le tematiche afferenti al consumo di sostanze stupefacenti -aggiunge- sono complesse e riguardano sia l’aspetto della repressione che quello della prevenzione attraverso politiche sociali rivolte alle famiglie, che non devono sentirsi isolate ma piuttosto supportate e coinvolte». Indignate anche le comunità che assistono i tossicodipendenti e tanti genitori che vivono il dramma di avere un figlio tossicodipendente. A chiedere la rimozione del prefetto anche vari esponenti politici. «Quelle del prefetto sono parole che non sono degne di chi dovrebbe rappresentare la Repubblica Italiana. Frasi incredibili e inaccettabili, e neanche giustificabili come provocazione» ha affermato Sel con il suo coordinatore nazionale, Nicola Fratoianni. «Come ha giustamente affermato il Procuratore antimafia di Perugia Duchini le famiglie andrebbero sostenute e non isolate o giudicate. Credo che il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’interno debbano procedere immediatamente alla rimozione del prefetto». Anche il leader dei verdi Angelo Bonelli aveva chiesto le dimissioni del prefetto di Perugia. «Il nostro Paese - si chiede Bonelli- può consentire ad alti funzionari dello Stato di fare affermazioni volgari e offensive nei confronti dei genitori che vivono il dramma della tossicodipendenza dei propri figli?». Investito dalle polemiche Reppucci ha tentato una goffa marcia indietro. «Non volevo colpevolizzare le famiglie -afferma- volevo dire che dobbiamo fare squadra tutti insieme istituzioni, forze dell’ordine e famiglie per vincere la guerra contro la droga. Sono stato frainteso, il mio era un discorso molto più articolato». Il prefetto ribadisce che «si deve vedere tutto il contesto in cui mi sono espresso, poi erano presenti i vertici delle forze dell’ordine e nessuno ha avuto da ridire. Il mio discorso comunque era molto più articolato: non ho detto che tutte le mamme sbagliano, quindi non tutte le mamme si devono sentire chiamate in causa. Si deve anche capire il senso di un ragionamento». Quello di cui è comunque convinto è che «serve una responsabilizzazione maggiore da parte delle famiglie», perché « le istituzioni e le forze dell’ordine da sole non possono vincere la guerra contro la droga». A discutere della lotta allo spaccio e come smontare l'immagine di Perugia come ''capitale della droga'', erano presenti il procuratore generale della Corte d'Appello perugina Giovanni Galati, il questore Carmelo Gugliotta, il colonnello dei Carabinieri Angelo Cuneo e quello della Guardia di Finanza Vincenzo Tuzi. E' anche vero che proprio sul tema della criminalità e sullo spaccio si è giocata l'ultima campagna elettorale, che ha visto la clamorosa sconfitta del candidato del Pd, il sindaco uscente Vladimiro Boccali, al secondo turno.
Riportiamo il commento dell’On. Osvaldo Napoli ripreso da “Agenparl”. «Il prefetto di Perugia è una vittima, non la sola, del pensiero politicamente corretto, di quel mainstream tanto caro all’universalismo renziano. La sua rimozione immediata da parte del ministro Alfano è un gesto che rivela tutta la debolezza di chi rappresenta lo Stato. Il prefetto ha usato espressioni sopra le righe, non c’è ombra di dubbio, ma la sua denuncia contro il relativismo pedagogico in cui viene lasciata una generazione di ragazzi è più che fondata. La cultura del permissivismo e di una indulgenza generalizzata verso i comportamenti sbagliati dei ragazzi sono il prodotto di una deriva civile in atto da molti anni. Essa ha colpito i luoghi centrali della formazione e in molti casi le stesse famiglie. Richiamare i genitori, e non solo loro, ma anche gli insegnanti e quanti vengono a contatto con i giovani ad adottare comportamenti improntati a minore indulgenza e a una pedagogia più responsabile è un atto doveroso al quale una classe politica non dovrebbe mai sottrarsi. Sulle parole del prefetto sono state imbastite indegne speculazioni politiche. Se Renzi è furente, provi a calmarsi e a rivolgersi, prima che al prefetto, ai tanti, troppi genitori che sono insieme vittime e inconsapevoli carnefici di tanti figli con atteggiamenti di tolleranza che sfiorano l’indifferenza.»
Sui social, intanto, ci sono i commenti più svariati, viziati più da ortodossia ideologica che da conoscenza della realtà.
Reppucci, prima di andare a Perugia, è stato alla guida delle Prefetture di Cosenza e Catanzaro dove è stato molto apprezzato per i legami che ha stabilito con i singoli territori, dimostrandosi molto vicino alla gente. Per questo ha lasciato un buon ricordo in queste realtà.
È sparito per un giorno intero. Nemmeno in prefettura sapevano che fine avesse fatto. Eclissato dopo lo scandalo, quella frase choc che gli è costata il posto da prefetto di Perugia: «Una madre che non si accorge che il figlio si droga ha fallito. Deve solo suicidarsi». Antonio Reppucci riaccende il telefonino di servizio solo in serata, scrive Rinaldo Frignani su “Il Corriere della Sera”.
Che domenica è stata?
«Secondo lei? Guardi, non voglio parlare, non ho niente da dire. Questa cosa mi fa impazzire. Che amarezza! Ammazzate la gente con la penna: una frase, una frase sola, estrapolata da una conferenza stampa di un’ora e mezzo, e avete ammazzato una persona».
Sì ma, prefetto, non era una frase che poteva passare inosservata...
«Ma vi pare che io voglia davvero il suicidio delle persone? Che desideri la morte delle donne? Ma stiamo scherzando? Ma a nessuno viene il dubbio che forse volevo dire un’altra cosa?».
E cosa?
«Che non si può descrivere Perugia come la capitale della droga, che volevo solo svegliare l’opinione pubblica, che da 10 mesi lotto contro lo spaccio fuori dalle scuole».
Ma l’accusano di aver usato espressioni inopportune e violente...
«Quella era solo una frase pronunciata con il caratteristico intercalare napoletano: suicidati nel senso che hai fallito, che non sei riuscito in qualcosa. Non che ti devi ammazzare davvero. Sono profondamente cattolico, il Padreterno sa cosa volevo dire, sa che ho la coscienza pulita».
Visto quello che è successo, ha qualcosa da rimproverarsi?
«Il pensiero che ho lanciato era chiaro: fare squadra, stare con le madri. Da soli si perde, insieme si può vincere. Ho solo difeso Perugia dall’immagine negativa che ha. Visto quello che è successo, verrebbe da chiedermi perché non mi sono fatto i fatti miei. Può darsi che abbia avuto una caduta di stile, non lo so».
Renzi e Alfano non pensano la stessa cosa.
«Per carità capisco Renzi, ha assolutamente ragione, non posso certo ribattere al presidente del Consiglio. Con il ministro non ho ancora parlato. Ho spento tutto, volevo stare da solo a riflettere, mi sono chiuso in me stesso. Non ho nemmeno letto i giornali, alla processione per il Corpus Domini non mi è sembrato opportuno andarci. Ho risposto a voi solo perché ho visto il prefisso 06 e ho uno zio a Roma, pensavo fosse lui...»
In tanti (il dj antidroga Aniceto, i sindaci del Catanzarese, il sindacato dei prefetti) le hanno manifestato solidarietà. Chi l’ha chiamata?
«Tantissime persone, dalle Alpi alle Piramidi, potrei dire. Ma non vorrei essere accusato di captatio benevolentiae. Ho dato la vita per lo Stato, in Calabria ho subìto anche intimidazioni. Quattro anni di sacrifici, in vita mia ho sempre obbedito. Una carriera fatta di servizio rovinata da una frase».
Trenta sindaci e un disc jockey si sono sentiti in dovere, ieri, di intervenire in difesa del prefetto Antonio Reppucci, che aveva invitato a «suicidarsi» le madri che non si accorgono dei figli drogati ed era stato perciò prontamente richiamato (in vista della rimozione) dal premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, scrive Mario Garofalo su “Il Corriere della Sera”. I trenta eletti dal popolo guidano Comuni del Catanzarese e hanno potuto constatare l’«ottimo lavoro» svolto dal suddetto nella loro provincia prima del trasferimento a Perugia: tanto quanto basta per criticare «una punizione giunta a tempo di record, sulla spinta di un’indignazione politica sorprendentemente tempestiva, che a volte non si riscontra neanche di fronte a comportamenti di tanto più gravi». Il dj è Aniceto, testimonial di campagne antidroga, che non condivide le frasi di Reppucci, ma ritiene eccessiva la decisione di rimuoverlo. Va detto, però, che Sua eccellenza il prefetto ha sbagliato di grosso. Adesso spiega di essere stato frainteso, di venire impiccato per una sola frase tirata fuori dal contesto, dopo una vita di impegno profuso per il Paese e perfino le minacce ricevute dalla criminalità organizzata. Ma un conto è richiamare le famiglie alla giusta collaborazione nella lotta all’uso di stupefacenti, altro conto è dire che «se una mamma non si accorge che suo figlio si droga è una mamma fallita e si deve solo suicidare», o che «i padri devono tagliare le teste alla prole che assume stupefacenti». Reppucci ha usato un linguaggio violento, aggressivo, al quale ci stiamo purtroppo abituando frequentando le Reti sociali e i talk show di serie B, ma che certo non si addice a un uomo delle istituzioni. Oltre tutto, non lo ha fatto mentre giocava a bocce con un gruppo ristretto di amici, ma in una sede pubblica, nel corso di una conferenza stampa, davanti alle telecamere e ai taccuini dei giornalisti. È indiscutibile che chi parla così - chi pensa così - non possa rappresentare il governo davanti ai cittadini.
Lo hanno condannato, rimosso e messo spalle al muro, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Ad Antonio Reppucci, prefetto di Perugia, sotto accusa per l’infelice «scivolata» sulle mamme che devono suicidarsi se non si accorgono che il loro figlio si droga, non è stata lasciata possibilità di appello. Ma quando sembrava ormai «spiaccicato» sulla graticola, di fronte a una stampa a «senso unico» e a un ministro dell’Interno sempre troppo frettoloso nel biasimare (gli altri), ecco spuntare i suoi difensori. Come Claudio Palomba, presidente del Sinpref, sindacato dei prefetti italiani, e 30 sindaci calabresi, di destra e sinistra, che di Reppucci hanno un ottimo ricordo per il ruolo svolto a Catanzaro. Del prefetto che per 22 anni, a Latina, ha svolto l’incarico di Capo di Gabinetto e Vicario degli otto prefetti che si sono succeduti, per poi approdare a Napoli, Cosenza e, appunto, Catanzaro, Palomba dice: «Toni sbagliati ed espressioni non condivisibili, ma non si possono cancellare 35 anni di carriera nel corso dei quali ha ricevuto encomi per la sua attività. Sono certo che il suo intento non era quello di creare scandalo». I 30 primi cittadini, dopo aver sottolineato «la costante vicinanza di Reppucci al territorio», hanno prima affermato di essere rimasti senza parole per la sua rimozione e di sperare in un ritiro della decisione, poi aggiunto che per quelle «poche frasi forse non opportune la punizione è giunta a tempo di record sulla spinta di un’indignazione politica sorprendentemente tempestiva, che a volte non si riscontra rispetto a comportamenti più gravi». Chissà se il loro riferimento è proprio ad Alfano, che la rimozione di Reppucci l’ha annunciata alla velocità della luce, totalmente immemore dei suoi ultimi, e gravi, infortuni «comunicativi»: quello sugli applausi che al congresso del sindacato di polizia Sap sono stati indirizzati ai tre poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, quando la «mannaia» del ministro dell’Interno arrivò in men che non si dica ma poi saltò fuori che la televisione di Stato aveva «taroccato» i servizi mandando in onda gli applausi al Capo della polizia e facendo credere che fossero riservati a quei tre poliziotti; o come quello sull’arresto di Giuseppe Bossetti, presunto assassino di Yara Gambirasio, che Alfano, attraverso il suo amato profilo Twitter, ha spacciato per «colpevole» dimenticandosi la presunzione d’innocenza. Mancanza di prudenza e di garantismo, dunque, che invece si ritrovano nelle parole pronunciate da Reppucci. Perché, a parte quella frase obiettivamente inammissibile sulla mamma che dovrebbe suicidarsi, il prefetto ha voluto evidenziare che è sbagliato rappresentare Perugia come «capitale della droga», così come spesso avviene sulla stampa, e che è un errore supporre che la criminalità organizzata si stia infiltrando nel tessuto economico perugino se prima non arriva una sentenza giudiziaria che lo certifichi. E quando il prefetto si è soffermato sulla droga, ha sì usato toni non da convegno e metafore discutibili, ma le altre affermazioni sono davvero così contestabili? «Ritiriamo patenti per alcol e droga – ha sottolineato Reppucci – e quando mandiamo le segnalazioni ai genitori, cominciano a minimizzare dicendo "mio figlio s’è fatto solo uno spinello". Mio padre mi avrebbe tagliato la testa. Spererei che qualche umbro tagli la testa al figlio, così cominciamo a dare il buon esempio». Reppucci si è soffermato su quella che considera «la decadenza della potestà genitoriale», spiegando che «se uno mette al mondo dei figli, poi deve stare attento. Dopo mezzanotte vado sul corso e vedo tutti questi giovani, con le bottiglie in mano, che bevono. Scusate, ma se mio figlio fosse in quelle condizioni, lo prenderei a schiaffi. Perché uno che beve per strada, mezzo ubriaco, io non lo accetto. Parlo da genitore, non come istituzione». Infine il prefetto ha definito «una stronzata» la distinzione fra droghe leggere e pesanti. È lecito il dubbio che forse, a dare fastidio, non è stata solo quella infelice frase sulla mamma?
Parole come sassi per svegliare le famiglie inerti, scrive invece Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. È più cruento rottamare non «qualcosa» ma «qualcuno» o invitare un irresponsabile al suicidio? Non saprei quale delle due nefandezze scegliere. E dico «nefandezze» perché si tratta di parole che è meglio non proferire. Una parte della mia notorietà si deve, tra altri improperi e invettive, a un'affermazione forte, da molti pensata e da pochissimi detta. Di un (...)(...) mio antagonista, e ovviamente in chiave metaforica, dissi: «Lo voglio vedere morto». Si trattava di Federico Zeri. Eccessivo? Forse, ma nella consuetudine, soprattutto quella dei tifosi sportivi. Qualcuno si scandalizza? Certo non si tratta di dichiarazioni istituzionali, ma di sfoghi. Nel caso di specie, però, il confronto che io ho posto all'inizio ha fonti analoghe istituzionali. Un sindaco e un prefetto. Non può che stupire la reazione di Matteo Renzi che chiede «provvedimenti immediati» dichiarandosi «furente» per la dichiarazione in conferenza stampa del prefetto di Perugia Antonio Reppucci, napoletano verace e persona generalmente equilibrata: «Una madre che non si accorge che il figlio si droga ha fallito e deve solo suicidarsi». Non male. Ma non grave dal mio punto di vista, e tanto meno dal punto di vista di chi, da sindaco, ha insistentemente dichiarato di voler «rottamare» i politici, e cioè esseri umani che non sono rifiuti ma semplicemente persone più vecchie di lui, talora anche per provvida esperienza. Con quale coerenza il provetto «rottamatore» si infuria con il povero prefetto di Perugia? Renzi sbaglia e lo segue Alfano, ministro delle interiora, detestabile politico equivocato dal Berlusconi tardo. Infatti, preso atto dell'indignazione di Renzi, Alfano interviene: «Ho sentito le dichiarazioni del prefetto, sono gravi e inaccettabili. Non può restare lì né altrove». Su Twitter, commosso, un Renzi-Pieraccioni ringrazia. A questo sono ridotte le nostre istituzioni. È evidente, infatti, che l'esuberante prefetto non ha fatto nulla di male se non sul piano verbale con enfasi ed iperboli che vanno intese come metafore, esattamente come la «rottamazione» di Renzi. È evidente anche a un cretino, anzi a due, che il povero Reppucci, persona gentile, sensibile ed educata, non desiderasse affatto il suicidio delle madri già sofferenti per il figlio scemo (si dica fuor di metafora), ma intendesse dire che le famiglie devono occuparsi dei figli, essere vigili, in particolare le madri; e che le forze dell'ordine «non possono fare da badanti e tutori alle famiglie». Giusto, giustissimo. Il suicidio significa fallimento di un'educazione da parte dei genitori. Come rottamazione non significa che Renzi volesse la morte di D'Alema o di Veltroni, semplicemente li riteneva superati. Il prefetto Reppucci ha aggiunto: «Se avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano, lo prenderei a schiaffi». Sbagliato? Sbagliato è l'eccesso di tolleranza dei genitori, sempre pronti a perdonare. Il prefetto di Perugia non ha fatto niente di male. Renzi e Alfano hanno abusato del loro potere. Naturalmente non poteva mancare il procuratore antimafia che si dissocia: «Le famiglie non devono sentirsi isolate ma supportate e coinvolte». Ma il prefetto intendeva semplicemente che non devono coprirsi gli occhi ed essere incoscienti. Bravo prefetto! Non bisogna avere paura delle parole ma degli stupidi.
Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta di uno studente fuorisede a Perugia che si schiera dalla parte del prefetto nel caso che ha portato alla decisione del ministro Alfano di procedere alla sua rimozione, scrive “Umbria 24”. La polemica scaturita dalle parole del Prefetto Reppucci porta ad una sola parola : Ipocrisia. E’ sconfortante per un giovane che vive proprio a Perugia, vedersi portare via chi aveva finalmente avviato un processo di bonifica e riuscito finalmente a coordinare forze di polizia, istituzioni locali e società civile. Se la gente ha iniziato a denunciare è perché aveva trovato finalmente un interlocutore serio e popolare, che scende tra la gente ed era ben felice di farlo. Il comportamento di Reppucci è stato piuttosto quello del “buon padre di famiglia” che difende una “creatura” affidatale in un momento difficile. Ha chiamato a raccolta tutti gli operatori del settore ed ha esposto la vera situazione di Perugia. All’assioma “Perugia capitale della droga” non ci sta. Sembrerebbe che i giornalisti godano della decadenza del loro territorio. La cronaca ha dimostrato che i titoli ad effetto attirano altri giornalisti in cerca dell’onda da cavalcare e se non la trovano sono pronti a crearsela. Sono cresciuto in una famiglia dove i figli ancora oggi non pronunciano una “parolaccia” di fronte al genitore né tantomeno se lo sognano di farlo i nipoti, e dove mia mamma mi ha sempre ripetuto di stare alla larga dalle “cattive compagnie” altrimenti…mi taglia la testa! Il rispetto maturato nei suoi confronti fa si che non accada perché altrimenti gli darei un dispiacere e si sentirebbe affranta, “fallita”. E’ questo in fondo il succo del discorso del Prefetto Reppucci. Mi chiedo se non l’avete capito veramente o fate soltanto finta di non capire. Per togliermi ogni dubbio vorrei provare a fare una traduzione, per chi ne avesse bisogno, del discorso incriminato senza tagli o montaggi ad hoc. “Molte volte, soprattutto il lunedì faccio il resoconto delle patenti che si ritirano per alcol e droga e, certo, il problema esiste; poi magari arrivano le segnalazioni: -“eh ma mio figlio che ha fatto? Si è fatto uno spinello!” – si tende dunque a minimizzare. Mio padre mi avrebbe tagliato la testa, spererei che qualche umbro tagli la testa al figlio così iniziamo a dare il buon esempio, perché poi fa parte anche di questa decadenza della potestà genitoriale, questo lo dobbiamo dire”. Nel meridione è di uso comune l’espressione “ti taglio la testa” di certo non usata in senso letterale ma per indicare di mettersi in guardia; è presente anche in un antico indovinello siciliano: “Ci tagghiu a testa, ci tagghiu a cura e viu nesciri na bedda signura. Chi cos’è?” Le taglio la testa, le taglio la coda e vien fuori una bella signora. Cos’è? La soluzione è il fico d’india. La potestà genitoriale è la potestà attribuita ai genitori di proteggere, educare ed istruire il figlio minorenne e curarne gli interessi. Così come stabilita dall’art. 155 c.c. «Provvedimenti riguardo ai figli», comprende diritti sia di natura personale sia di tipo patrimoniale tra cui quello di “educare, secondo la diligenza del buon padre di famiglia, ai costumi del luogo dettati dall’esperienza comune”. Un genitore ha dunque il diritto/dovere di “mettere in guardia” il proprio figlio da un pericolo certo ed attuale quale la droga. Minimizzare il problema e difendere il figlio non e’ certo la soluzione. In presenza di tanti figli viziati e padri accomodanti ai loro capricci l’unica soluzione è scuotere fortemente le loro coscienze; ricordare ai figli di onorare il padre e la madre, rispettarli. Gli è stato poi contestato di aver scaricato tutta la responsabilità sulle famiglie ma invece queste sono le sue testuali parole: “Chiamiamo a raccolta: siamo in guerra contro chi spaccia e questa guerra la combatteremo con grande energia. Questo vale per noi delle forze di polizia e della magistratura, però lavoriamo anche sul piano sociale: genitori, scuola, famiglia, volontariato, parrocchie, ecco lavoriamo tutti nella stessa direzione”. Il Prefetto continua cercando di far capire che non esistono differenziazioni tra le droghe, come tra l’altro ha affermato solo il giorno dopo anche Papa Francesco in udienza, nella sala Clementina del Palazzo Apostolico ai partecipanti alla 31esima edizione dell’International Drug Enforcement Conference dichiarando: “No ad ogni tipo di droga. Semplicemente, no ad ogni tipo di droga”- “Vorrei dire con molta chiarezza: la droga non si vince con la droga! La droga è un male, e con il male non ci possono essere cedimenti o compromessi”. Il giorno prima Reppucci diceva: “La droga fa male! Al di là di queste ultime trovate di differenziazione tra droghe leggere e pesanti che secondo me hanno portato ad un altro tipo di disorientamento perché magari nel giovane si crea il convincimento che la droga leggera è una “stronzata”, consentitemi il termine. Ma sempre droga è! Se andate a leggere i trattati qualche conseguenza la portano a livello celebrale anche le droghe leggere. Quindi bisogna stare attenti. Bisogna che le mamme, dico le mamme perché forse hanno più tempo ed hanno quel sesto senso per capire i disturbi dei figli, guardino a fondo negli occhi, vedere se c’è qualcosa che non funziona, anche perché le forze di polizia e la magistratura, scusate, non possono fare da badante e tutore perché la famiglia arretra. Il cancro è lì, sta nelle famiglie perché se una mamma non si accorge che il figlio si droga è una mamma fallita, ha fallito, si deve solo suicidare, scusate”. E’ inutile girarci intorno, inizia tutto dalla famiglia. Un ragazzo ci passa in media 17/18 ore al giorno. E’ un obbligo delle famiglie proteggere i propri figli. Se tuo figlio adolescente ti chiede soldi oltre a quelli della merenda ma non ritorna con un mazzo di fiori ogni giorno devi chiedertelo cosa ci fa con quei soldi! I ritmi di una famiglia attualmente sono sì diversi ma il Prefetto si appella a quel sesto senso che ogni mamma ha a prescindere dai suoi ritmi. Attualmente un ragazzo si droga per “provare” nuove sensazioni, a volte spinto anche da quell’aggettivo “leggera” che troppo spesso è usato come pretesto per giustificarsi ma che serve solo a disorientarsi; oppure lo fa perché si sente “solo”, travolto da quei ritmi incessanti che la società ci porta ad assumere, con genitori assenti e presi dal lavoro o dal non lavoro purtroppo. Franco Simone anni fa in una canzone diceva: “Cara droga approfitti di un istante in cui non reggo la mia solitudine e riempi la mia mente di quei vuoti che riesci a vendermi”. Spero riusciate a capire che da questo punto di vista le parole del Prefetto devono essere giustificate. Auspico in un ripensamento del Ministro Alfano e del Presidente del consiglio Renzi, che forse sull’onda emotiva hanno dimenticato ciò che di buono ha fatto fino ad’ora il Dott. Reppucci.
Già. E’ sol ipocrisia. Il problema rimane tale ed è grave. Di Perugia a torto od a ragione si è parlato, con un insolito accanimento.
In qualunque altra regione o provincia del Nord o del Sud i morti scendono anno dopo anno. A Perugia il tasso di mortalità è di 4,1 ogni 100 mila abitanti, contro lo 0,9 della media nazionale. Nel 2011 i morti sono stati ventisei, nel 2010 ventiquattro. Nei primi cinque mesi del 2012 sono già arrivati a dodici. Lunedì 4 giugno, il tredicesimo. Un tunisino ritrovato in un anfratto sotto la collina, la sua casa.
L'altra Perugia ostaggio della droga. La Scampia umbra nelle mani dei tunisini, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Cocaina. Eroina. Ketamina. Exstasy. Anfetamina. Marijuana. Hashish. Popper. Mentre nel resto d'Italia le morti collegate al consumo di sostanze stupefacenti diminuiscono, nella cittadina medioevale aumentano. Sullo storico Corso Vannuci alle cioccolaterie si sostituiscono i kebab. E in Piazza IV novembre tutte le sere si assiste alle risse tra tunisini, albanesi e nigeriani che si contendono il territorio. Ci sono giorni che la danno anche gratis. E in altri la piazzano a dieci, quindici euro a bustina. Lo fanno per conquistare nuovi clienti e non perdere i vecchi, invogliati da una concorrenza spietata. Offerte promozionali nel più esagerato supermarket degli stupefacenti. Una volta Perugia era una città tranquilla, oggi si muore di droga cinque volte di più che in ogni altro luogo d'Italia. La fiera dello spaccio è qui, qui nella Perugia della vendita porta a porta, il giro di giostra costa poco, si compra tutto alla luce del sole, ce n'è per tutti i gusti. Cocaina. Eroina. Ketamina. Exstasy. Anfetamina. Marijuana. Hashish. Popper. Stimolanti. Allucinogeni. Antidepressivi. Da iniettare, da sniffare, da fumare. Naturali o sintetiche le droghe hanno fatto diventare questa città l'ultimo cimitero del buco, l'ultima frontiera dell'overdose. In qualunque altra regione o provincia del Nord e del Sud i morti scendono anno dopo anno e qui invece salgono. Nel 2011 sono stati ventisei, nel 2010 ventiquattro. A Milano 13. A Napoli 29. A Bologna 7. A Bari 1. Un tasso di mortalità di 4,1 ogni 100 mila abitanti contro lo 0,9 della media nazionale. E aumentano, aumentano sempre. Nei primi cinque mesi del 2012 sono già arrivati a dodici. Lunedì 4 giugno, il tredicesimo. Un tunisino ritrovato in un anfratto sotto la collina, la sua casa. È un massacro senza fine in questa Perugia fino a qualche tempo fa fuori rotta dalle grandi piste del crimine, silenziosa e ordinata, scelta come capitale delle droghe per la sua lontananza dal clamore e per quei suoi trentamila studenti acquartierati intorno alle università, un richiamo irresistibile, la piazza ideale per vendere tutto quello che si può vendere a prezzi stracciati. Tunisini. Albanesi. Nigeriani. E dietro di loro napoletani e calabresi. Tutti insieme l'hanno conquistata e devastata. Chi sta avvelenando Perugia? Venite a scoprire con noi come è cambiato il volto di Perugia da quando qualcuno ha deciso che doveva diventare una sorta di Scampia in mezzo a tesori medievali e rinascimentali, palazzi sontuosi, oratori e monasteri, rocche, vicoli che si arrampicano e che precipitano, gioielli di scultura, pozzi etruschi, fontane. Al posto delle antiche ed eleganti cioccolatterie sul corso Vannucci ci sono i kebab, paninerie e paninoteche, vetrine piene di cianfrusaglie, baretti che vendono sbobba alcolica a pochi centesimi, fumi di agnello arrosto e puzzo di piscio, vedette, spacciatori sulle scalinate del Duomo, le bustine infilate nelle fessure fra pietra e pietra delle case nobiliari, tre puscher di qua e sei pusher di là, uno squillo di cellullare, scambi veloci, qualche euro che passa di mano. "Li vediamo dappertutto, smerciano droga davanti a tutti e a qualunque ora", racconta Maria Luisa De Marco de "L'Altra Libreria", una sorella morta l'anno scorso per overdose e la sua bella bottega al centro di quello che lei chiama il "triangolo delle Bermude", via Ulisse Rocchi, piazza Danti, via delle Cantine, un crocevia dove i soliti dieci o venti spacciatori attirano i clienti per far scivolare una bustina nelle loro tasche. Fino a una trentina di anni fa, nel centro storico, abitavano più di 30 mila perugini. Ora ce ne sono meno di 6 mila. Negli scantinati, nei bassi, nei sottoscala - tutti affittati a peso d'oro e spesso in nero - vivono gli studenti e anche loro, i venditori porta a porta. Prima in questa Perugia passeggiavano le mamme con le carrozzine, ora s'inseguono i tossici e si accendono furibonde risse fra bande rivali. E' un'altra città. Se la sono presa quelli. E' sotto assedio. Quando fa buio, c'è il coprifuoco. "L'altra sera ho visto un gruppo di tunisini che menavano colpi di bastone contro alcune automobili, dopo un po' i poliziotti hanno dirottato il traffico e chiuso le strade, corso Vannucci era loro territorio fino al giorno del fattaccio", ricorda Walter Cardinali, proprietario dell'hotel "Decò" e uno degli animatori dell'associazione "Pro Ponte". Il "fattaccio" è avvenuto l'8 maggio. Nel salotto di Perugia, colpi di pistola e coltellate fra tunisini e albanesi. Una partita di droga non pagata. Dal giorno dopo la città è stata "militarizzata". Gipponi di polizia, carabinieri e finanza da una parte in piazza Italia e dall'altra in piazza IV Novembre, controlli, posti di blocco, fermi, retate. Gli spacciatori sono stati cacciati finalmente dal corso principale. Si sono spostati a qualche decina di metri. In via della Viola. In via del Dado. In via della Gabbia. In vicolo Volta della Pace. In via della Brocca. In via della Cupa. E giù al Campaccio. Continuano lì a vendere la loro roba. Ma come è stata possibile questa spaventosa invasione di pusher, in una città calma e pacifica come Perugia?
I traffici fanno paura ai cittadini, già si intravede l'ombra della mafia, continua Bolzoni. Perugia ha paura di quello che sta succedendo. Il sindaco Wladimiro Boccali chiede allo Stato di "riappropriarsi del territorio". E annuncia delle iniziative per "blindare il centro storico", come l'apertura di una nuova caserma. E nella guerra tra spacciatori e città, c'è chi sospetta che si stia inserendo anche la criminalità organizzata. Ma la partita è tutta da giocare. I pizzini di Lampedusa. Nell'ultimo anello della catena sono quasi tutti tunisini, gli spacciatori di strada. Ragazzi, approdati con i barconi. A molti di loro la polizia di frontiera ha sequestrato bigliettini con il nome di un bar di Perugia. Sapevano già dove andare prima di sbarcare in Europa. Tutti con una meta: corso Vannucci. Li aspettavano altri connazionali. Questi giovanissimi magrebini provengono quasi tutti da uno stesso quartiere di Tunisi - quello di Hammamet, dicono loro - e la leggenda metropolitana racconta che con lo spaccio di eroina e cocaina riescano a guadagnare anche 30 mila euro al mese. Fesserie. Sono tutti morti di fame, si trascinano, molti di loro sono "sfasciati", vendono la droga per racimolare qualche soldo e poi "farsela". Sopra di loro c'è un clan di albanesi. Piccoli grossisti. E poi anche corrieri nigeriani che vanno e vengono da Napoli, da Roma, forse dalla Calabria. E' un traffico ben regolato. Poca droga alla volta, un flusso continuo. Non ci sono grandi magazzini di stupefacenti a Perugia, non si stoccano grandi quantità in zona, l'ero o la coca arrivano in piccole quantità ma sempre. Chi la vende a Perugia non sa da chi la compra e da dove viene. Il sospetto è che camorra e 'ndrangheta riforniscano i gruppi criminali minori. Le mafie, Perugia l'hanno sub-appaltata. Il lavoro sporco è per loro, per chi è abituato ad entrare ed uscire di galera. I tunisini sono carne da macello per i boss. Per molto tempo tutti hanno finta di niente. Forze di polizia. Magistratura. Amministratori. Commercianti. Poi si sono ritrovati quella valanga di morti per overdose e le vie della loro città in mano agli spacciatori. E si sono messi paura. Soltanto negli ultimi dodici mesi, la polizia ha arrestato 221 persone per reati legati agli stupefacenti. E' da poco che è cominciata davvero la guerra contro lo spaccio. Un nuovo questore nel 2011, un'attività investigativa più intensa, summit, comitati per l'ordine pubblico e la sicurezza, viaggi della speranza al Viminale. Ma perché è passato tutto questo tempo? Perché hanno lasciato Perugia nella morsa dello spaccio per tanti anni? Gli interessi inconfessabili. Meglio tardi che mai, vero sindaco? "Ho chiesto un intervento molto forte e visibile, i cittadini hanno paura, lo Stato deve riappropriarsi di questo territorio", risponde Wladimiro Boccali, primo cittadino di Perugia che qualche giorno fa ha parlato di "un pezzo del centro storico rimasto fuori controllo delle istituzioni per alcune decine di minuti" e ha annunciato che, d'ora in poi, il Comune si costituirà parte civile contro gli spacciatori. L'altra settimana prima ha scritto e poi incontrato il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri, c'erano anche il capo della Polizia Antonio Manganelli e il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Leonardo Gallitelli. A Perugia si riaprirà una piccola caserma nel centro storico, invieranno reparti mobili per la prevenzione. Basterà? "Perugia non è Napoli, la città ormai ha consapevolezza del fenomeno e tutto è recuperabile, siamo già tornati nella metà campo degli avversari", dice ancora Boccali alludendo ai gipponi che - dopo il "fattaccio" - presidiano Piazza Italia e piazza Danti come i blindati davanti all'aula bunker di Palermo negli anni del maxi processo. Ma le risulta che molti suoi concittadini si arricchiscono con gli spacciatori, affittando le cantine nel centro storico? "Ho già firmato una delibera che blocca l'uso dei pian terreni", spiega il sindaco che di colpe, in verità, non ne ha se non quella di avere aspettato un po' troppo prima di alzare la voce. Si è barcamenato, ha preso tempo. Ci volevano quelle pistolettate e quelle coltellate dell'altra notte per risvegliare tutti. Qualche bar ha assoldato i "buttafuori" per impedire l'ingresso a brutti ceffi, un paio di pub hanno la chiusura forzata a mezzanotte. A quell'ora i tunisini sono in piena azione. Sempre gli stessi e sempre diversi. Se ne andranno mai dalla "loro" Perugia? Mafiosizzata o capitale del buco. In città ci sono due partiti. Quello che sostiene che la mafia non c'è e quell'altro che garantisce che ha già allungato le mani lì dal terremoto di 15 anni fa. I primi negano anche sotto tortura la "mafiosizzazione" di Perugia, gli altri spiegano che i Casalesi e i boss della 'Ndrangheta si sono già "sistemati" in Umbria. Già confiscati beni mafiosi, già scoperti prestanome. Un terzo punto di vista - a metà strada - lo fornisce Fausto Cardella, il procuratore capo di Terni che dopo il 1992 ha indagato sulle stragi siciliane: "E' normale che ci siano tentativi di inserimento in una regione come questa, ma ancora non risulta una penetrazione vera e propria, solo episodi. Sul fenomeno dello spaccio non servono interventi speciali ma è necessaria un'attività costante, quotidiana". Quella che - di sicuro - è mancata. Sono solo spacciatori o sono avanguardie dei clan? Marcello Catanelli, della Direzione regionale di Sanità, il capo di una piccola task force che segue le vittime delle tossicodipendenze, è certo che ci sia dell'altro: "Questi morti sono solo la punta dell'iceberg, l'aspetto più clamoroso di un meccanismo di infiltrazione capillare. Qui c'è un'offerta qualificata di stupefacenti, c'è un marketing, una strategia sofisticata, nulla è casuale di ciò che sta accadendo in questi anni a Perugia". Il primo allarme era stato lanciato da una esperta del suo staff, Angela Bravi. E' dal 2007 che lei denuncia tutto. L'hanno lasciata sola con i suoi tossici. La città si è voltata dall'altra parte. Come finirà questa guerra con gli spacciatori e resisterà il primato dei morti per droga di Perugia? I giornali locali quasi ogni mattina dedicano il grande titolo di prima pagina a un sequestro o a un arresto. Una cronista, Vanna Ugolini, ha scritto anche un bel libro - Nel nome della cocaina, la droga di Perugia raccontata dagli spacciatori - che svela i retroscena di tante vite in ostaggio. Come quelle di via del Silenzio. Un vicolo ripido, un muro, una scritta: "Via tutti i tunisini di merda". Quelli che incontra ogni giorno e ogni notte anche il professore Maurizio Tittarelli, insegnante d'inglese che abita proprio qui. L'altra sera ha visto due pusher, avevano appena adocchiato un cliente. Poi hanno infilato la bustina in un grande vaso pieno di terra che il professore ha nel suo giardino. Tittarelli ha chiamato la polizia: "Mettono sempre la droga nella terra del mio vaso, cosa devo fare?". Gli hanno risposto: "Al posto della terra, il vaso lo riempia con il cemento, così la droga non ce la metteranno più".
«Sto come uno che sta andando al patibolo, sono diventato una larva umana, mi sono chiuso nella stanza da letto, pensavo a me stesso e a rendere conto al Padreterno». Lo ha detto Antonio Reppucci durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, scrive “Il Corriere della sera”. L’ormai ex prefetto di Perugia ha anche ammesso di aver pensato al suicidio dopo essere finto alla gogna pubblica. Curioso, visto che proprio una frase sul suicidio gli è costata il posto: Reppucci è stato rimosso dal ministro dell’Interno Angelino Alfano dopo aver detto durante una conferenza stampa che «una mamma che non si accorge che suo figlio è drogato è una fallita e si deve solo suicidare». Ad avere spinto l’ex prefetto a pensare a una soluzione così drastica sarebbe stata la stampa. «I giornalisti mi hanno messo in queste condizioni - ha spiegato Reppucci - Si può fare giornalismo estrapolando una frase da un discorso di oltre un’ora? La penna fa più male di una fucilata, mi hanno dipinto come un mostro, nei miei confronti c’è stata macelleria e killeraggio». A proposito della sua rimozione decisa da Alfano (e caldeggiata pubblicamente anche dal premier Renzi), Reppucci commenta:«Sono abituato ad accettare sempre le decisioni dei miei superiori. Capisco e comprendo. Obbedisco, un servitore dello Stato deve obbedire». Ma l’amarezza c’è: «Mia moglie mi ha detto - continua - “hai dato tutto allo Stato e adesso lo Stato ti prende a calci”. Ho sacrificato la mia famiglia, ho fatto il capo di gabinetto di tanti prefetti. Non ho mai cenato o mangiato con i miei figli. Tanti sacrifici e adesso… Vengo da una povera famiglia di contadini, fino a 25 anni zappavo la terra. Non ho mai avuto una raccomandazione, non ho mai chiesto favori..». Alla fine dell’intervento Reppucci tenta comunque, ancora una volta (dopo aver detto che «“suicìdati” è un intercalare napoletano»), una autodifesa: «Ho la coscienza tranquilla di fronte al Padreterno perché volevo lanciare un messaggio di risveglio, un inno alla vita invece che al suicidio: mamme state attenti ai figli, questo volevo dire». Lo stesso concetto, l’ex prefetto l’ha espresso anche nella lunga lettera aperta con cui stamane si è congedato dalla comunità umbra. «A chi si è ritenuto colpito dall’asprezza delle mie parole chiedo scusa per una frase infelice inserita in un intervento articolato - scrive Reppucci - Evidentemente, trasportato passionalmente, nella foga oratoria, ho troppo forzato il mio intervento (con una frase non immediatamente censurata, che altrimenti avrei meglio precisato) che voleva essere un “Inno alla vita”». «Non intendevo minimamente, criminalizzare od offendere ma svegliare, spronare, sensibilizzare - precisa - sgombrando il campo da ogni ipocrisia». Ma Reppucci ha ancora qualcosa da dire: «Comprendo di aver generato qualche equivoco e fraintendimento con tutte le conseguenze derivate - ammette - ma mi sia reso per lo meno “l’onore delle armi” circa la bontà del messaggio al di là delle espressioni utilizzate, perché non inviterei mai ad atti di autolesionismo chicchessia», scrive ancora nella lettera.
“Aspetto disposizioni da parte del ministro, andrò dove devo andare. Da buon servitore accetto e ubbidisco. In questi giorni ho pensato pure al suicidio. Così mi avrete sulla coscienza e potrei vedere dal cielo cosa scriveranno”. Queste le frasi choc pronunciate dall’ormai ex prefetto di Perugia Antonio Reppucci alla Zanzara su Radio 24, scrive “Libero Quotidiano”. Nei giorni scorsi Reppucci era stato rimosso dalla carica di prefetto dopo alcune frasi pronunciate sulle madri di persone tossicodipendenti. Davvero ha pensato al suicidio, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo?: “Certo. I giornalisti mi hanno messo in queste condizioni. Nessuno che abbia il coraggio di andare a vedere chi è questa persona. Non so, un mostro, uno che ha sbagliato ripetutamente, uno che ha rubato, uno che ha ammazzato qualcuno… Si può fare giornalismo in questo modo?”. Reppucci a La Zanzara se la prende con la stampa: “Si può fare giornalismo estrapolando una frase da un discorso di oltre un’ora? La penna fa più male di una fucilata, mi hanno dipinto come un mostro. Non ho mai fatto male a nessuno, nessuno ha guardato al mio curriculum, a quello che ho fatto nella vita”. Come si sente adesso? “Sto come uno che sta andando al patibolo, sono diventato una larva umana”. “Mi sono chiuso nella stanza da letto – dice Reppucci a Radio 24- non reggevo. Pensavo a me stesso e a rendere conto al Padreterno. Se non c’è giustizia ma solo ricerca dello scoop, se il prefetto di Perugia è diventato il caso Italia con tutti i problemi che ci sono. Posso avere avuto una caduta di stile, chiedo scusa se ho offeso qualcuno. Chiedo scusa a quelli che non hanno capito il mio messaggio”. Considera eccessiva la decisione di Alfano? “Sono abituato ad accettare sempre le decisioni dei miei superiori. Capisco e comprendo. Obbedisco, un servitore dello Stato deve obbedire. Ma ho la coscienza tranquilla di fronte al Padreterno perché volevo lanciare un messaggio di risveglio, un inno alla vita invece che al suicidio: mamme state attenti ai figli, questo volevo dire”. “Sono amareggiato e meravigliato con i giornalisti – prosegue Reppucci - nei miei confronti c’è stata macelleria e killeraggio. Volevo dire suicidatevi alle madri secondo voi? Volevo dire tutto il contrario”. “Renzi? Chissà come gli è stata rappresentata questa storia – prosegue Reppucci - chi ha visto integralmente il mio intervento sa che volevo difendere Perugia, l’onorabilità della città che è rappresentata come capitale della droga e non è vero. E poi dire: care mamme se c’è tanto spaccio e consumo stiamo attenti guardiamo i nostri figli in fondo agli occhi, un discorso di carattere sociologico”. Una madre si può sentire offesa, fanno notare i conduttori? “Sì, si può sentire offesa. Ma volevo dire: preveniamo, evitiamo che i ragazzi si droghino. Anche io sono genitore e poteva capitare questa calamità e non accorgermene. Ma era in termini di risveglio, spronavo a stare vicini ai nostri figli”. E il linguaggio, il termine suicidio? “A Napoli diciamo "accirit" quando è un fallimento, un intercalare. Questo è stato il mio errore e poi diciamo tagliare la testa come uno scappellotto educativo, lo schiaffo educativo, un ceffone benevolo”.
Puniscono le parole, tollerano gli incapaci. La rimozione lampo del prefetto di Perugia per l'infelice frase sulla mamma del drogato conferma che il governo del dire schiaccia il governo del fare, scrive Marcello Veneziani “Il Giornale”. La demagogia di piazza è deplorevole ma la demagogia istituzionale è disgustosa. La rimozione lampo, come mai accade, del prefetto di Perugia per l'infelice frase sulla mamma del drogato conferma una cosa: che il governo del dire schiaccia il governo del fare. Ci sono centinaia, forse migliaia di funzionari che non funzionano, di dirigenti corrotti, incapaci, inefficienti, e ci sono migliaia di episodi di disservizi, malgestioni, danni commessi dalla pubblica amministrazione che restano impuniti o solo deplorati. Poi un prefetto, in un discorso condivisibile e sensato, dice una frase sconveniente e scorretta che rimbalza con enfasi nei media. Viene tempestivamente rimosso e massacrato seduta stante. Il dire conta più del fare, una battuta vale più di una carriera. Giustizia e buon senso consigliano di rispondere al dire col dire e al fare, anzi al non fare o al malaffare, col fare e col disfare. In questo caso sarebbe bastata una lettera di censura per le parole avventate. No, l'ipocrisia di Stato unita alla demagogia di governo comanda la ferocia di una pubblica esecuzione, sul posto. E si caccia il prefetto. Non ho pregiudiziali né antipatia verso il premier e nemmeno verso il ministro dell'Interno ma in questa vicenda vedo rappresentata tutta la fumosa inconsistenza del loro stare al governo: compiacere le fabbriche dell'opinione pubblica, governare a colpi di titoli di giornali e di tg. L'importante è l'apparenza. C'è meno senso dello Stato e della realtà nel loro gesto che in quelle incaute parole.
POVERA PERUGIA......
Criminalità o bugie? È polemica sulla Perugia descritta da Panorama.it. Il sindaco Wladimiro Boccali attacca, ma non riesce a smentire i dati. E critica chi fa cronaca nera, scrive Riccardo Paradisi “Panorama”. Wladimiro Boccali, sindaco di Perugia, non ha gradito l’inchiesta di Panorama.it sul degrado della città (Perugia, una città che assomiglia tanto a Gotham City ). Ha parlato di “giornalismo non libero”, di “meschinità” e ha rispolverato la teoria di una campagna mediatica contro la città. Si guarda bene, il sindaco, dal contestare il merito dell’articolo e di smentire fatti, notizie, riferimenti e dati: il record del consumo di eroina, l’alto numero di morti per overdose, l’aumento degli episodi criminali, la retrocessione al 78° posto nella classifica della sicurezza tra le città italiane, il crollo del valore degli immobili in quartieri un tempo residenziali della città e oggi vittime del degrado. Meglio ricorrere all’invettiva, parlare di stampa “sguaiata” e “non libera”. Come se esistesse un cartello mediatico cospirativo e trasversale contro la città che va da Panorama a Repubblica (due anni fa il quotidiano pubblicò un severo reportage da Perugia), dal Corriere della sera a emittenti televisive come la Rai e La7. Eppure non è difficile capire che Perugia sia ormai un caso paradigmatico del declino della provincia italiana: per le dimensioni del suo degrado e per la velocità con cui la città ha cambiato volto, in una manciata d’anni. E certo non giova a Perugia la rimozione del problema, l’esorcismo facile dell’insicurezza “percepita” e indotta dai media. Ci sono dichiarazioni di Boccali che lasciano interdetti: “Se in questi anni avessimo lasciato un po’ meno andar via notizie di questo tipo” dice il sindaco riferendosi evidentemente ai fatti di nera di cui la stampa locale ogni giorno dà fedele testimonianza “sarebbe stato meglio”. Che cosa significa “lasciare andare via notizie”? Forse che la cronaca nera non deve comparire sui giornali? Che il lato oscuro della città non va raccontato? È questo il giornalismo libero che ha in mente Boccali? Ma non tutte le istituzioni hanno reagito alla maniera del sindaco all’articolo di Panorama.it. Il presidente della provincia di Perugia Marco Vinicio Guasticchi, anch’egli del Pd, pur lamentando una concentrazione di inchieste giornalistiche sulla città s’è domandato il perché di tutto questo interesse: “Non basta” ha detto Guasticchi “la candidatura a capitale europea della cultura. Bisogna lavorare sul rispetto delle regole, che vuol per esempio dire organizzare delle task force che controllino per esempio gli abusi abitativi”. Scovare e smascherare, insomma, quell’area grigia di connivenza che a Perugia fornisce di fatto copertura e riparo alla delinquenza e indigna la gran parte della popolazione locale che dà vita a decine di iniziative nei quartieri per riqualificare la città. È la reazione che ci si aspetta da una classe dirigente che non nega la realtà né ricorre a degli eufemismi per ridurre la gravità della situazione. A proposito, nella sua polemica il sindaco si è appellato anche al prefetto per una presa di posizione che contestasse i fatti riportati dall’articolo. Ma è difficile smentire ciò che non è smentibile. Tanto che il prefetto, Antonio Reppucci, dopo aver parlato di “esagerazioni”, di “descrizioni lontane dalla realtà” dopo aver rivendicato un moltiplicato impegno delle forze di polizia (che Panorama.it non ha mai negato) deve ammettere che “i crimini sono in aumento” e che “sono aumentati i reati contro il patrimonio”. È un dato di fatto: accanto alle consueta attività di spaccio, in città, ormai purtroppo non fanno sentire la loro mancanza nemmeno le risse tra bande, come quella tra tunisini e rumeni che si sono fronteggiati con mazze da baseball il 13 febbraio in un ristorante di via Gallenga, descritta dal Corriere dell’Umbria come una scena da far west. Il prefetto sostiene che «a Perugia non c'è una sola via dove bisogna veramente aver paura di passare». Eppure molte testimonianze sostengono il contrario ed esprimono proprio la paura a muoversi per le vie del centro la sera e in alcuni quartieri della città. Una paura espressa alla presenza dello stesso prefetto da alcune studentesse che hanno dichiarato, in un dibattito su informazione e legalità tenuto alla provincia di Perugia pochi giorni addietro, di “avere difficoltà a muoversi da sole nella città per paura di essere aggredite o derubate”, come virgoletta Il Giornale dell’Umbria di domenica 16 febbraio. Così come arrivano delle conferme allo stato di insicurezza da parte di imprenditori e cittadini, che giustamente non identificano un’inchiesta giornalistica con un attacco a Perugia, ma al contrario come un’occasione di riflessione e di reazione a un degrado che sfregia e umilia una città con antiche e nobili tradizioni. E con le potenzialità che Panorama non ha mai taciuto.
Perugia, una città che assomiglia tanto a Gotham city. Droga, violenza, criminalità diffusa: così la città umbra si è trasformata in una delle più pericolose città d'Italia, scrive Riccardo Paradisi su “Panorama”. Le urla, i colpi, il rumore d’una bottiglia che si spezza. Un’anziana signora s’affaccia dalla finestra della palazzina che dà sul vicolo: a terra c’è un uomo con la testa rotta, riverso sul suo sangue che si allarga sul selciato. Sono le 2 del mattino d’un venerdì d’ordinaria violenza a Perugia. La scena del pestaggio tra spacciatori è via della Spina, una via semicentrale che taglia corso Garibaldi, a due passi dall’università. Ma potrebbe essere una qualunque strada della città. Perché Perugia è una città violenta, una delle più pericolose d’Italia secondo i dati del ministero degli Interni: criminalità, droga e degrado le hanno strappato la serenità di cui aveva goduto fino a una quindicina d’anni fa. Quando uno come Maurizio Marchei, calciatore del Perugia nei primi Settanta e oggi tabaccaio noto in città, pensava che solo al telegiornale o nei film potesse accadere quello che invece è capitato a lui la sera dello scorso 21 gennaio: due maghrebini entrano nel suo negozio all’ora della chiusura, gli fanno aprire la cassa con la minaccia d’un coltello e poi, dopo averlo rapinato, lo picchiano con crudeltà, lasciandolo a terra sanguinante. Una metamorfosi così repentina e profonda, quella di Perugia, da essere quasi un caso da manuale, senza confronti in altre città italiane. Il sociologo americano Robert Putnam, negli anni Novanta, aveva addirittura presentato il capoluogo umbro tra le città-modello di buon governo municipale nel suo Making democracy work: civic traditions in modern Italy; la città ideale dove vivere e studiare. Quel modello e quella città oggi non esistono più. Certo, l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto nel 2007 e il cui processo d’appello si è appena chiuso il 30 gennaio 2014 con pesanti condanne per i due presunti assassini, è il crinale simbolico tra la Perugia d’una volta e quella di oggi. Ma il declino della città parte da più lontano. Inizia a metà degli anni Novanta, quando il degrado iniziato dalle periferie con l’insediamento delle avanguardie di cartelli criminali stranieri s’è arrampicato fino al centro storico. Un centro oggi deserto, spettrale: pochi gli studenti a spasso; corso Vannucci desolatamente vuoto; le saracinesche di negozi e caffè storici come la pasticceria Sandri e il Caffè Medioevo (un tempo polmoni sociali e culturali della città) abbassate; vicoli come via dei Priori o via delle Cantine presidiati dalle sentinelle dello spaccio; le volte etrusche e le mura medievali a fare da muti spettatori a un pullulare di kebabbari là dove prima c’erano negozi artigiani e alimentari. Da città degli studenti, in una manciata d’anni Perugia s’è trasformata in un crocevia per la criminalità internazionale che qui ha radicato bande organizzate che si contendono l’egemonia del territorio. Una guerra della droga in piena regola, cui partecipano le gang sudamericane ecuadoregne e dominicane, ma che vede soprattutto contrapporsi le mafie nigeriane e albanesi (le prime controllano il traffico di cocaina, le seconde quello dell’eroina) che organizzano lo spaccio e la manodopera di piazza, prevalentemente composta da tunisini. I quali hanno suddiviso e ribattezzato il territorio di Perugia con i nomi dei quartieri di Tunisi da cui provengono. Perugia ha il record nazionale di morti per droga: 36 ogni anno. I decessi per overdose sono pari a un terzo del totale italiano; il tasso di utenza ai Sert, i servizi contro le tossicodipendenze, è più alto della media nazionale. Una farmacia del centro, per dire, ha venduto l’anno scorso 25 mila siringhe; il sistema sanitario ha certificato 850 buchi al giorno in città. Perugia è anche la capitale italiana del consumo di eroina, in base alle certificazioni dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano e del dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio. Ma è la stessa commissione tossicodipendenze del consiglio regionale a parlare di «consumo di droga generalizzato» e di «squilibrio militare nel controllo del territorio». È una situazione fuori controllo, che ha ricadute pesanti sull’economia della città. Un esempio per tutti: la crisi immobiliare ha colpito Perugia come ogni altra città italiana, qui si registra una flessione media del valore degli immobili del 10 per cento, in linea con la media nazionale. Ma ci sono quartieri un tempo residenziali e signorili, come Fontivegge e la Pallotta, che hanno visto crollare di oltre il 30 per cento (dati elaborati dalla Fimaa, l’associazione degli agenti immobiliari legata a Confcommercio) il valore delle case per motivi legati al degrado e all’insicurezza del territorio. Nella zona di Fontivegge, alla stazione, accoltellamenti e risse sono all’ordine del giorno. L’ultimo episodio risale a metà gennaio, nella piazza del Bacio, dove s’affacciano gli uffici amministrativi della Regione: una rissa finita con feriti da armi da taglio e contusi. Solo un episodio, in una guerra quotidiana per bande che si affrontano anche a colpi di mannaia. Ora è poi iniziato un altro fenomeno: l’occupazione abusiva delle case sfitte. Per questo reato sono stati arrestati a metà gennaio tre tunisini, che avevano trasformato l’appartamento nel quale abitavano in un covo per lo spaccio. Poco lontano e a distanza di poche ore, in via Sicilia, la zona più martoriata del quartiere, l’ennesimo regolamento di conti tra spacciatori che ha lasciato a terra un tunisino 34enne pestato per il controllo del territorio. Stesse scene si ripetono con regolarità in via della Pallotta. L’ultima a fine gennaio: una rissa a colpi di bottiglia tra tunisini che si è conclusa con un’aggressione alle forze dell’ordine. Uno stillicidio che ha fatto di Perugia, secondo i dati del ministero degli Interni, una tra le 50 città più pericolose d’Italia: 226 scippi e rapine, 411 furti in appartamento, quasi 12 estorsioni ogni 100 mila abitanti. Ma un dato per tutti definisce l’escalation criminale della città: dal 2008 al 2013 i delitti sono saliti dell’89 per cento. Un trend confermato dai dati forniti dalla polizia nel bilancio sulla sicurezza del 2013: a Perugia le forze dell’ordine operano un arresto e un’espulsione al giorno. Il boom di denunce, 5 ogni 24 ore, riguarda scippi, borseggi, aggressioni e rapine. È così che la città ideale sprofonda nella classifica delle città più tranquille d’Italia: al posto numero 74 su 107. E non si tratta solo di microcriminalità. I sette tunisini arrestati a fine anno facevano parte di una banda che aveva esteso il traffico di stupefacenti fino a Napoli, in partnership con la camorra. Gli albanesi arrestati poche settimane prima avevano aperto un «corridoio» con la Spagna, mentre la criminalità nigeriana usa i suoi corrieri interagendo con Colombia e Venezuela. L’amministrazione comunale reagisce come può: dalla moltiplicazione delle telecamere, all’impiego straordinario della polizia municipale passando per il rimpatrio forzato di clandestini accusati di spaccio che vengono imbarcati all’aeroporto di sant’Egidio verso il Cie di Taranto in vista dell’espulsione. Ma si tratta di misure tampone. «Mancano le risorse» si difende il Comune, manca anche una strategia di prevenzione, rilevano le associazioni di categoria, come la salvaguardia del centro storico, una politica per arginarne l’esodo inarrestabile dei perugini. Fino a trent’anni fa in centro abitavano più di 30 mila perugini ora se ne contano meno di 6 mila. «Perugia muore» è stato il grido d’allarme con cui un imprenditore, Giordano Mangano, ha riunito qualche mese fa 600 persone in piazza Grimana, sotto l’arco etrusco: «Quindici anni fa vedevo uno o due spacciatori in giro, il resto era la città degli studenti, vissuta in tutte le ore. Adesso è una città morta, vedi solo zombie, ombre». A proposito di studenti, in dieci anni l’ateneo perugino ne ha persi quasi 10 mila. Colpa della crisi economica sicuramente ma non solo: Perugia non esercita più l’attrazione di una volta, l’ateneo e la città hanno perso prestigio. Eppure Perugia ha risorse potenziali notevoli: conserva punte d’eccellenza nella sanità, vanta istituti prestigiosi come una scuola di alta formazione della Banca d’Italia, la scuola di lingue estere dell’esercito, fondazioni importanti, un’accademia di Belle arti tra le più antiche del Paese. Possibile non riesca a scuotersi, tornare alla sua antica tradizione? Il fatto è che la città non ha mai conosciuto un’alternanza di governo. Ernesto Galli della Loggia, che ha insegnato a lungo in città, parla di un vero e proprio regime: «Il problema» dice a Panorama «è che non esistono contropoteri che generino una vera competizione politica. Il potere è in mano a cacicchi locali che si sono distinti per mancanza di visione, di cultura politica e capacità di governare i problemi. Si aggiunga una struttura industriale e imprenditoriale gracile e un peso pachidermico dell’impiego pubblico: tutto questo produce autoreferenzialità e immobilismo». Magari la candidatura di Perugia a finalista del titolo per capitale europea della cultura è un raggio di speranza per questa città. Ma un raggio di luce non basta a fugare la notte calata sulla città.
UMBRIA DA CENSURA E DA INSABBIAMENTI.
E’ un terreno molto scivoloso quello su cui è entrato il Sindaco di Perugia, che ha denunciato la speculazione mediatica che, dall’omicidio di Meredith in poi, c’è stata sull’immagine della città, scrivono Giuseppe Castellini e Luigi Palazzoni su “Il Giornale dell’Umbria”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’indignazione di Boccali sono state le parole dette in tv da Carmelo Abbate, giornalista di “Panorama”, il quale contestualizzando l’omicidio di Alessandro Polizzi ha parlato di fuga dei residenti dal centro storico, di mercato di stupefacenti fuori controllo, di pendolari della droga che vengono ad acquistarla da bande di microcriminali che, la notte, fanno risse e si accoltellano. Un contesto che Boccali
giudica estremamente esagerato e non pertinente, perché non c’è nulla che, in qualche modo, lo colleghi all’omicidio del giovane Alessandro. Il sindaco ha certamente ragione quando afferma che alcuni media (al tempo dell’omicidio Meredith soprattutto quelli anglosassoni, che dipinsero la città come una sorta di moderna riedizione di Sodoma e Gomorra) su Perugia hanno esagerato ed esagerano e che molti cittadini sono stanchi di questa immeritata, negativa pubblicità. Tuttavia è un po’ come lamentarsi che non si vola perché c’è la forza di gravità. Perché era inevitabile
che, dopo il delitto Meredith, su Perugia si accendessero potenti riflettori e che, ogni cosa di segno negativo che fosse avvenuta, da lì in poi avrebbe avuto risalto superiore rispetto a quanto accade per altre città. Lo spartiacque è stato
il delitto Meredith. Prima di esso i fatti di cronaca nera non accendevano le luci dell’attenzione su tutta la città. Forse che il caso Narducci o vari fatti di sangue si sono, per così dire, “impastati” con l’immagine di Perugia? No di certo. Sono stati considerati fatti isolati, capitati a Perugia quasi per caso, che poco o nulla avevano a che fare con la città e le sue nervature sociali. Nel caso Meredith no. Questo omicidio si è impastato con l’immagine della città, ha attraversato
le sue nervature. Il centro scoperto improvvisamente un luogo di spaccio a cielo aperto, come d’altronde altre aree della città, la questione della droga e dell’alcol a fiumi, l’escalation di furti, la crescita diffusa dell’insicurezza, lo scontro tra bande di spacciatori con periodici scontri all’arma bianca. Tutto si è disvelato e miscelato. Con le istituzioni non solo
completamente impreparate davanti a questa parte impresentabile di Perugia (benché da anni crescesse e prosperasse sotto i loro occhi), ma paralizzate da un riflesso condizionato a sminuire la portata dei problemi, a cercare di mettere
la polvere sotto il tappeto. Basti ricordare le volte, in quegli anni, in cui ogni campagna di stampa che denunciava l’imbarbarimento del centro - ma anche di altre aree di Perugia - veniva bollata dalle istituzioni locali non solo come demagogica ed esagerata, ma come una sottile forma di attacco politico. I risultati di questo non voler vedere sono emersi, poi, in tutta la loro gravità. Il tempo – con molti altri fatti di sangue o comunque di criminalità avvenuti dopo Meredith – ha invece dimostrato che non solo la Perugia impresentabile c’era (e c’è), ma che andava urgentemente combattuta. A cominciare da una chiara presa di coscienza e di impegno civile da parte delle istituzioni. E va dato atto al sindaco Boccali di avere avuto coraggio nell’alzare il tappeto, nell’assumere iniziative, nel mobilitare le altre istituzioni, nel pressare il Governo. Nel mettere la questione sicurezza (che non è solo questione di ordine pubblico,
ma qualcosa di più complesso, in cui entrano le politiche sociali, culturali, turistiche, giovanili...) tra le priorità della sua azione amministrativa. Cogliendo anche alcuni risultati e invertendo la rotta. Ma andava e va messo nel conto che è quasi inevitabile che, dopo Meredith e dopo la polvere sotto il tappeto che è stata “scoperta” in seguito a quel caso, Perugia sia sorvegliata speciale e ogni cosa di brutto che vi accade balzi subito, e pesantemente, agli onori della cronaca
(e di cose rumorose ne sono accadute, solo per restare all’ultimo anno l'assassinio di Alessandro Polizzi, l’omicidio delle due dipendenti della Regione al Broletto e il suicidio del loro killer, le rapine sanguinarie di Ramazzano e Cenerente, le scene drammatiche – la scorsa estate – della battaglia in centro tra bande di spacciatori, con quell’immagine di alcuni pusher che assaltano , proprio davanti al Comune e sotto la finestra dell'ufficio del sindaco, un’auto della Guardia di finanza con gli agenti a bordo). D’altronde è sempre accaduto così, per ogni città e per ogni luogo. Bisogna avere la forza e il coraggio di attuare le politiche giuste (e di cambiarle quando non funzionano), di portare a casa risultati concreti, di risalire la china. Ma bisogna anche avere pazienza, attendere che gli altri si accorgano del mutamento. Spiegare e dimostrare, più che battere i pugni sul tavolo. Far brillare Perugia per altre cose (da questo punto di vista, la candidatura di Perugia e Assisi come capitale europea della cultura è un fatto importante e Boccali ha fatto bene a puntarci con grande determinazione), a cominciare dalla scelta di farne fino in fondo una città universitaria a tutto tondo (con quel tocco speciale dato dall’Università per stranieri). Promuovere il positivo, farlo conoscere, mettersi in gioco quando accadono fatti negativi, sfidare gli interlocutori per convincerli (male ha fatto Boccali a non accettare un dibattito pubblico con Carmelo Abbate), mettendo eventualmente a nudo i loro errori, le loro omissioni,
i loro pregiudizi, i loro luoghi comuni, la loro superficialità (tutti elementi che, nei mass media, talvolta ci sono). Ma guai a dare, anche solo lontanamente (e siamo certi che non sia questo il significato della protesta di Boccali), l’idea di voler imbrigliare la stampa, di voler evitare che racconti le parti oscure, di distribuire sonniferi mediatici. Il sindaco
ha tutta l’autorità e l’autorevolezza per parlare e farsi ascoltare. Questo vale più delle minacciate querele, che sarebbero un boomerang, un segnale imbarazzante e preoccupante di impotenza politica e comunicativa. Quanto alla stampa locale, non deve essere - magari a fasi alterne – né il corazziere del Principe, né l’untore che vede solo degrado e pessimismo. Deve prima di tutto raccontare ciò che accade e ciò che vede, quindi deve favorire il dibattito e la circolazione delle idee per aiutare la crescita sociale, civile ed economica. Vedere il brutto ma anche il bello, i problemi ma anche le opportunità. Sempre con l’onestà intellettuale di chi vuole fornire un’informazione equilibrata e di qualità ai propri lettori.
Eppure a mettere il
bavaglio alla stampa è proprio la magistratura.
Umbria, il bavaglio al giornale online
"Oscurate quell'inchiesta sul web". Un gip ha stabilito l'oscuramento di tre
articoli con le intercettazioni telefoniche legate al caso della Banca Popolare
di Spoleto. "E' il primo episodio del genere. Un precedente pericoloso per il
giornalismo d'inchiesta", scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”.
Il rischio è che ora non si possano pubblicare atti processuali anche dopo
la comunicazione di conclusione indagini. È questo il precedente che potrebbe
nascere dopo la vicenda capitata al giornale online umbro Tuttoggi.info a cui lo
scorso 20 dicembre è stato recapitato l’avviso di sequestro preventivo ,
mediante oscuramento, di ben tre articoli contenenti intercettazioni relativi
all’inchiesta che tocca la Banca Popolare di Spoleto e che vede rinviate a
giudizio ben 34 persone, tra cda e imprenditori legati all’istituto, per reati
che, a vario titolo, vanno dalla mediazione usuraria all’ostacolo alla
Vigilanza, dall’associazione a delinquere fino alla bancarotta fraudolenta. La
prima volta che accade per un quotidiano online. Ma c’è di più. Il motivo per
cui l’ordinanza ha destato l’attenzione anche dello stesso Ordine dei
giornalisti sta nel fatto che gli atti processuali erano ormai pubblici quando
il giornale, diretto da Carlo Ceraso, ha pubblicato gli articoli incriminati. E
da ben tre mesi. Occhio alle date: il 29 maggio il procuratore capo della
Procura di Spoleto Gianfranco Riggio comunica l’avviso di conclusione indagine;
dall’otto all’undici agosto, in successione, Tuttoggi si occupa della vicenda
con tre inchieste scritte a quattro mani dallo stesso Ceraso e dal collega del
Giornale dell’Umbria Massimo Sbardella. Ed ora arriva il sequestro preventivo
disposto dal gip Daniela Caramico D’Auria dopo la querela presentata a novembre
da Giovannino Antonini, ex dominus della Bps, che lo scorso 20 luglio,
nell’ambito di un’altra inchiesta della Procura di Roma, è stato arrestato con
l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme ad altre tre persone, fra cui
il giudice del Tar Franco De Bernardi (per gli inquirenti Antonini avrebbe
cercato di ‘sistemare’ il processo attraverso il quale far annullare il decreto
di commissariamento disposto da Bankitalia e Mef). Atti pubblici o no allora?
Pare proprio di sì dato che nell’ordinanza di sequestro del 20 dicembre scorso è
lo stesso magistrato che dichiara che “le intercettazioni pubblicate negli
articoli” sono “atti non più coperti da segreto avendo il PM emesso nell’ambito
del procedimento nr. 319/2009 avviso di conclusione delle indagini”. Cosa si
contesta allora? In pratica, a detta del gip, è necessario che il giudice non
venga influenzato e non conosca gli atti prima dell’udienza preliminare,
nonostante siano, di fatto, già atti pubblici. “Una preoccupazione che non
esiste - come la definisce a L’Espresso il legale del giornale Salvatore
Francesco Donzelli - perché contrastante con il codice che parla invece di
pubblicità degli atti al momento della notifica di conclusione delle indagini,
comunicazione che era stata resa nota alla stampa dallo stesso Procuratore capo
di Spoleto con un comunicato ufficiale”. Un principio che se diventasse norma
potrebbe portare all’oscuramento di gran parte della cronaca giudiziaria del
nostro Paese. “In pratica - continua Donzelli - è stata applicata la ‘legge
bavaglio’ su cui tanto ha insistito il passato governo Berlusconi”. Si legge
infatti nell’ordinanza che “la libera disponibilità degli articoli può aggravare
la conseguenza del reato” e, soprattutto, che il giudice “non può e non deve
conoscere gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero se non
attraverso il dibattimento”. Nessun riferimento, invece, alla pubblica opinione
che, a conclusione indagini, dovrebbe avere il diritto di conoscere (e
approfonditamente) atti che toccano un istituto importante come quello di
Spoleto, quotato in Borsa. “È un’iniziativa assolutamente assurda quella
intrapresa - chiosa ancora Donzelli - credo nella buona fede dei magistrati,
però oggettivamente è una decisione abnorme perché si è fatto semplicemente
giornalismo d’inchiesta informando su cosa stava accadendo in una banca di cui è
stato devastato il patrimonio, con un buco spaventoso tanto che poi è stata
commissariata da Bankitalia (il 16 febbraio 2013)”. Non è la prima volta,
d’altronde, che Bps e Tuttoggi si scontrano a muso duro. L’otto maggio 2012 il
giornale scovò e pubblicò in esclusiva un video che dimostrava il modus operandi
dell’ex presidente Antonini e che prontamente venne consegnato alle autorità
competenti (anche qui l’inchiesta ha portato la Procura a spiccare 9 avvisi di
garanzia con varie accuse, dalla ingiuria alla minaccia, al falso ideologico a
comportamenti fraudolenti grazie ai quali Antonini sfuggì alla sfiducia votata
dalla maggioranza del board dell’epoca). Delle vicende sulla Pop Spoleto si è
occupato anche Ossigeno, l’osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia,
dato che lo stesso Ceraso ha ricevuto in passato intimidazioni e minacce di
morte che, scrive lo stesso osservatorio, “avevano verosimilmente la loro
origine nell’interesse della testata per le vicende dell’istituto di credito
umbro”. Ed ora ecco l’ultima tessera: l’oscuramento di tre articoli, nonostante
gli atti di cui ci si occupava fossero già pubblici. Sulla questione anche Guido
Scorza, uno dei massimi esperti di web e censura, si dice stupito, almeno dal
punto di vista dello squilibrio tra quotidiano online e cartaceo: “La mia
sensazione - dice l’avvocato e giornalista - è che in effetti siamo di fronte ad
un provvedimento abnorme nelle conclusioni. La cosa curiosa in questa partita è
che se fossimo stati davanti ad un giornale di carta nessuno avrebbe neppure
lontanamente avanzato l’idea del sequestro, mentre di fronte ad una testata
registrata online qualcuno non solo denuncia, ma addirittura c’è chi dispone il
sequestro”. Secondo Scorza, in altre parole, ci sono al momento due pesi e due
misure tra l’online e il cartaceo: “Si sta andando in una direzione, come
d’altra parte dice la nuova legge sulla diffamazione, nella quale
fondamentalmente l’editore di carta e l’editore telematico sono soggetti allo
stesso tipo di responsabilità. Quando si tratta di chiamare il giornalista o
l’editore a pagare il conto per l’errore, l’informazione di carta e quella
telematica vengono equiparate dal punto di vista giuridico; quando invece si
tratta di garantire la tutela del giornalista siamo all’assurdo: l’editore del
giornale di carta dispone della garanzia in pratica di non incorrere mai nel
sequestro preventivo; mentre l’editore dell’online non può disporre della stessa
tutela. Come dire: paga lo stesso prezzo ma gode di meno garanzie”. Al momento
il giornale preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del pronunciamento
del Tribunale del Riesame di Perugia a cui è stato presentato ricorso perché
annulli la disposizione ordinando il dissequestro. Forte è arrivata la vicinanza
anche dall’Ordine dei Giornalisti il quale auspica “che la magistratura sia
capace nelle sue articolazioni di porre riparo ad un atto che arrecherebbe un
danno grave all’informazione ed al diritto fondamentale dei cittadini ad essere
informati”. Quello che è in gioco è il giornalismo d’inchiesta.
“Oscurate tre articoli di Tuttoggi”, scrive Leonardo Perini, Direttore editoriale, su “Tuttoggi”. E’ in sintesi l’ordinanza emessa dal Tribunale di Spoleto che ha disposto il sequestro preventivo degli articoli sulle intercettazioni relative all’inchiesta che ha travolto l’ex board e buona parte del management della Banca Popolare di Spoleto, l’istituto messo in sicurezza lo scorso febbraio da Bankitalia. Ad innescare la decisione, la denuncia dell’ex dominus Giovannino Antonini presentata nei confronti del nostro Carlo Ceraso e del collega Massimo Sbardella del Giornale dell’Umbria che aveva collaborato all’inchiesta giornalistica. L’ipotesi accusatoria è quella di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. Alla quale sta già lavorando il nostro legale, l’avvocato Salvatore Francesco Donzelli. Rispettosi dei principi che regolano l’obbligatorietà dell’azione penale e determinati a difenderci nel processo e non al di fuori di questo, sentiamo di doverne dar conto ai nostri lettori non solo perché l’ordinanza ci sembra abnorme ma, soprattutto, perché siamo convinti della correttezza del nostro operato dal momento che le intercettazioni non erano più coperte da segreto e l’avviso di conclusione indagini era stato notificato già dallo scorso mese di maggio ai 34 indagati, ben tre mesi prima dei nostri articoli. Il dispositivo non sembra avere precedenti nella storia del giornalismo italiano (almeno a cercare approfonditamente nel web), anzi esso stesso rischia di creare un precedente. Tralasciando per il momento ogni opinione sulle motivazioni del sequestro, appare evidente che la vicenda Bps-Scs è degna della massima attenzione, insomma di interesse pubblico: l’inchiesta, e ancor più gli scandali che l’hanno travolta nell’ultimo triennio, hanno interessato e interessano, direttamente, non meno di 18mila soci della Scs che controlla il pacchetto Bps; indirettamente, qualche milione fra azionisti Mps e soci Coop Centro Italia, le due società che partecipano al capitale della banca umbra. La denuncia presentata contro Tuttoggi.info rischia così di minare il giornalismo d’inchiesta: cosa sarebbe stato di scandali come Parmalat, Antonveneta o del latte cinese, solo per citarne alcune, se le notizie non fossero venute alla ribalta? Sulle vicende della Spoleto pensavamo di aver pagato già un amaro prezzo fatto di minacce, calunnie, diffamazioni, persino di una indagine avviata dalla Consob (attivata dall’ex board Bps?) dalla quale siamo usciti immacolati. Solo per aver fatto il nostro dovere, incluso l’aver consegnato prima alla Procura della Repubblica di Spoleto (e solo in un secondo momento pubblicato su queste colonne) il video della ormai tristemente nota “Assemblea della vergogna”, l’adunanza che rimise in sella Antonini con un colpo di spugna e per la quale ci sono 9 indagati per vari reati. Per questo modo di intendere il giornalismo, al servizio dei lettori e della giustizia, non ci siamo mai aspettati un trattamento di favore, ci mancherebbe altro, ma è indubbio che il provvedimento in corso ci lascia a dir poco sorpresi. Come è certo che non cambieremo di una virgola il nostro modo di fare informazione, non indietreggeremo di un millimetro. L’andazzo è ormai noto anche in Umbria dove chi ha forza e risorse ricorre in modo strumentale, eccessivo, a volte palesemente intimidatorio, alle querele e richieste di risarcimento danni per limitare l’attività dei giornalisti. Sono state ribattezzate “querele temerarie”, una sorta di intimidatorio ostruzionismo, con crismi di legalità, all’azione di verità che persegue il cronista quando decide di avviare e seguire un’inchiesta. Lo denunciano da anni l’Ordine dei giornalisti, Anso, Articolo21, Fnsi, Ossigeno per l’informazione, Change.org, e Libera Informazione che anche recentemente hanno chiesto un intervento del legislatore (lo scorso aprile ben 120mila firme sono state consegnate alla Presidente della Camera Laura Boldrini). Oggi lo denunciamo anche noi.
E’ scomodo per la magistratura scoprire gli altarini? Il giudice Schettini non risparmia neppure i magistrati umbri competenti su inchieste che coinvolgono i colleghi romani accusandoli di insabbiare gli esposti. Viaggi e soldi in contanti per comprare le sentenze dei giudici fallimentari, scrive Rita Di Giovacchino su Da Il Fatto Quotidiano del 31/12/2013. CHIARA SCHETTINI,ARRESTATA IN GIUGNO 2013: “A ROMA ERA UNA PRASSI DIVIDERE IL COMPENSO CON IL MAGISTRATO, 3 SU 4 SONO CORROTTI”. In un interrogatorio di 60 pagine, reso ai pm Nello Rossi e Rocco Fava il 29 settembre scorso, l’ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno dal gip di Perugia per corruzione e peculato, offre uno spaccato devastante del sistema di corruzione del Tribunale fallimentare di Roma. Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio. Il giudice Schettini non risparmia neppure i magistrati umbri competenti su inchieste che coinvolgono i colleghi romani accusandoli di insabbiare gli esposti. Spiega anche il meccanismo delle truffe e i trucchi per pilotare i fallimenti milionari: “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. I soldi delle consulenze venivano poi ripartiti tra giudici delegati, curatori, periti e avvocati facendo levitare oltre misura le parcelle. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l’hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: “Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi”. Di fronte ai pm romani, provata dai mesi in cella, cambia registro, ridimensiona il proprio ruolo e punta in alto, accuse che non risparmiano i vertici dell’ufficio, in particolare un magistrato che tirerebbe le fila del sistema: “Il più corrotto di tutti”. Afferma di aver ricevuto minacce di morte, anche dopo l’arresto: “L’ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono soltanto spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente”. Ancora: “Era una prassi dividere il compenso con il giudice, tre su quattro lì dentro sono corrotti”. Dito puntato anche contro il padre di suo figlio, l’ex compagno Piercarlo Rossi che accusa di avere conti all’estero. “Mi sono fidata, ero innamorata, lui trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila”. La percentuale per coprire la tangente. Un j’accuse a tutto campo che non risparmia il giudice fallimentare Tommaso Mar-vasi: “Piercarlo era l’ideatore e promotore, ma ripeto cresce come curatore di Marvasi… perché è troppo penetrante il suo controllo… poi veniva a chiedere a me ‘hai fatto questo? hai fatto quello’. ‘Non ti preoccupare sarà rimesso tutto perfettamente’… Io non l’ho più nominato Federico che rischia di far esplodere lo scandalo del tribunale fallimentare ai massimi vertici”. È un fiume in piena questa signora bionda che al momento opportuno parla come un facchino: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Descrive il meccanismo della corruzione: “C’era chi si faceva pagare le cene, chi i viaggi, chi smezzava il compenso, sul netto”. Uno in particolare non mollava mai l’osso: “Anche se era in un’altra sezione ha continuato a governare la fallimentare, è il capo della cupola”. Di un altro pezzo grosso dice: “Si sapeva tranquillamente e serenamente che per una nomina a commissario giudiziale andava a via Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno e ma nessuno fa niente, ha dato tre quarti delle nomine a quello studio”. Tira in ballo anche l’ex ministro Franco Frattini: “Mi telefonò dicendo che un suo amico, tale Maurizio Bonifati, aveva bisogno di consigli perché aveva questa società, la Mining, che stava per fallire…”. Ogni fallimento è organizzato con modalità predatorie. Crediti inesistenti attribuiti a soggetti inesistenti, sul piatto 2 milioni e mezzo di euro, ma prima di arraffarli è stata arrestata.
Certo, però, che anche la stampa locale ha le sue colpe nel coprire le nefandezze dei potenti. Vedi per esempio La villa abusiva di Guasticchi. Ecco le carte che confermano quanto rivelato da panorama.it sul garage trasformato in abitazione dall'uomo del Pd, scrive Laura Maragnani su “Panorama”. Polpette avvelenate. Bufala. Killeraggio. Non erano state delicate, in casa di Marco Vinicio Guasticchi, vulcanico e tri-laureato presidente Pd della provincia di Perugia, le reazioni all’articolo di Panorama.it sul suo splendido casale di Umbertide: 250 metri circa su tre livelli, con splendida vista sugli ulivi del parco (protetto) del Monte Acuto, realizzati trasformando in villa di lusso un ex fabbricato agricolo di 32 metri quadrati. Il tutto in spregio delle norme urbanistiche e paesaggistiche, e senza mai spendere un euro di Imu, Irpef, Iva e concessioni edilizie. In pratica: un abuso. «Una cosa che non solo non mi riguarda, ma che neanche esiste» aveva tagliato corto Guasticchi con la Nazione dopo l’uscita di Panorama. In effetti, intestatario del terreno e dell’annesso agricolo è il padre Giancarlo, ex potentissimo segretario generale della provincia detto un tempo «l’imperatore», che abita a pochi metri dal discusso casale, e in una villa altrettanto bella. Tra le due abitazioni, una piscina e un campo da tennis su cui certo non il padre, ultra-ottantenne, ma il presidente della provincia, appassionato tennista, si esercita appena gli è possibile. Con lodevoli risultati, come ben sanno gli intimi; anzi: non solo gli intimi, visto che il casale è stato sede di plurimi incontri politici, riunioni di corrente, pranzi e cene con compagni di partito, tutti colpiti, come racconta uno dei presenti a Panorama, dalla «ristrutturazione di gusto» dell’edificio, dotato anche di un’area spa con tanto di «sauna, bagno turco, idromassaggio». Tutto abusivo, come scritto da Panorama. Ora c’è la conferma dell’assessore regionale all’ambiente, Silvano Rometti, che in risposta a un’interrogazione del consigliere leghista Gianluca Cirignoni scrive: «L’amministrazione comunale ha ritenuto di non rilasciare il permesso di costruire in sanatoria né l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria» come richiesto dal proprietario. Niente condono edilizio o paesaggistico. Il motivo? Gli «ulteriori abusi edilizi, precedentemente non facilmente individuabili, riscontrati negli accertamenti eseguiti in data 22 e 25 ottobre 2013». Traduzione: a distanza di 5 e di 7 giorni dalla pubblicazione dell’articolo di Panorama.it, il comune di Umbertide ha sentito la necessità di capire l’effettiva consistenza degli abusi di casa Guasticchi e, grazie a due distinti sopralluoghi dei vigili, ha scoperto l’esistenza del piano interrato con tanto di idromassaggio e bagno turco. Da qui, il 29 ottobre, la firma di un’ordinanza di demolizione, la numero 114, che fa seguito alla numero 22 del 1° marzo, con cui il sindaco ordinava l’abbattimento delle prime opere abusive e il ripristino dei luoghi, evidentemente non effettuato. Anche il corpo forestale non è stato a guardare: il 25 ottobre, otto giorni dopo l’uscita di Panorama.it, comunicava ufficialmente alla regione le «presunte irregolarità in materia paesaggistica e urbanistico-edilizia». Quindi: abuso accertato, condono respinto, demolizione ordinata. Tutto è bene quel che finisce bene. Ma per quanti anni il comune di Umbertide, rigorosamente Ds-Pd, non è intervenuto per bloccare o sanzionare l’abuso del presidente Pd della provincia? E perché la regione Umbria, cui spetta la vigilanza sui beni paesaggistici come il parco del monte Acuto, ha chiuso un occhio su quest’ abuso eccellente, che pure in zona era conosciuto da tutti?
Se lo chiede il deputato leghista Paolo Grimoldi in un’interrogazione al Mibac , mentre il senatore leghista Stefano Candiani, paventando «il rischio di un insabbiamento da parte di soggetti istituzionali o pubblici funzionari interessati a dare copertura “politica” alla vicenda», si rivolge al ministro dell’Intero Angelino Alfano per chiedergli di «impedire possibili condotte omissive da parte degli uffici pubblici interessati» . Neanche Cirignoni molla l’osso: è tornato alla carica con la regione Umbria per sapere «quanto è costato trasformare il garage in villa con tutti i comfort, incluso campo da tennis e piscina», oltre «a quali imprese hanno operato, come e quanto siano state pagate». Affari di Guasticchi, direte? Fino a un certo punto. Perché a Umbertide ricordano benissimo il viavai dei mezzi per lo sbancamento: "secondo informazioni anonime che ho ricevuto" ci spiega Cirignoni "e che ho subito girato alla procura di Perugia, sarebbero coinvolte ditte che hanno lavorato per la provincia di Perugia. Chiedo ai magistrati di accertarlo al più presto". Tra cui quello per la sistemazione esterna del centro faunistico di Torre Certalda di Umbertide. Centro faunistico, guarda la coincidenza, dove ha sede il centro ippico della polizia provinciale di Perugia creata da Guasticchi, e dove lavora una delle sue ex mogli, Sonia Galmacci, appassionata cavallerizza arruolata nel suddetto servizio di polizia equestre. Facciamola corta: alle ultime primarie Matteo Renzi ha travolto Gianni Cuperlo anche in Umbria, 75 a 15. Così Marco Vinicio Guasticchi, da un po’ convertito al renzismo, coltiva l’ambizione di candidarsi nel 2015 al posto della governatrice Catiuscia Marini, una bersanian-dalemiana. Ambizione legittima, per carità, per uno che è nato nel 1962 ed è già stato presidente del consiglio comunale e assessore al bilancio e patrimonio dl comune di Perugia, in quota Margherita, prima di diventare presidente della provincia nel 2009. Ma non sarebbe il caso, prima di candidarsi, di abbattere quella scandalosa villa-casale, idromassaggio e campo da tennis compresi?
INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.
Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un'accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.
I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».
Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith.
Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.
Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. Le reazioni «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.
Quella strana condanna del Pm Giuliano Mignini, scrive Adriano Lorenzoni su Terni in rete. Di fatto bloccate le indagini perugine sui mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Nel gennaio del 2010 il Pubblico Ministero di Perugia, Giuliano Mignini e l'ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, sono stati condannati dal Tribunale di Firenze con l'accusa di abuso d'ufficio in una inchiesta relativa al filone di indagini perugine collegate a quelle relative ai "mandanti" dei delitti del mostro di Firenze. Secondo la tesi accusatoria Mignini e Giuttari avrebbero intercettato e indagato illecitamente giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionarne la loro attività. Un procedimento anomalo visto che il PM Mignini era stato regolarmente autorizzato dal GIP di Perugia ad avvalersi del mezzo delle intercettazioni per le sue indagini, atti che aveva il dovere di compiere. Un procedimento anomalo perché a condurre le indagini contro Mignini e Giuttari è stata quella stessa Procura della quale il Pm di Perugia, ne aveva indagato il capo, Ubaldo Nannucci. Non a caso il dottor Mignini ha eccepito la incompetenza funzionale di quella Procura a svolgere le indagini ed ha sollevato eccezioni di nullità della sentenza. Sarà la corte d'appello di Firenze il prossimo 22 novembre a decidere sulla questione. Tutto nasce da una registrazione effettuata da Michele Giuttari di un suo colloquio con il sostituto procuratore di Firenze, Paolo Canessa nel quale Canessa afferma che il suo capo non era un uomo libero e confessa di essere stato bloccato da quest'ultimo, cioè dall'allora Procuratore Ubaldo Nannucci in merito alle richieste dello stesso Giuttari relative all'inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari trasmette la registrazione a Mignini il quale la gira alla Procura di Genova competente ad indagare sui magistrati di Firenze. Il Procuratore Nannucci verrà inquisito per aver rallentato, anzi ostacolato le indagini sul mostro di Firenze. Genova archivierà subito. E' ancora Giuttari a lamentarsi con Mignini per il comportamento del questore di Firenze, De Donno il quale, come disposto dal Ministero dell'interno, avrebbe dovuto provvedere all'istallazione della sala intercettazioni del G.I.DE.S , ( gruppo investigativo delitti seriali ) dove si erano sistemati Giuttari e i suoi uomini, cosa che non fa. Mignini lo incrimina e manda il fascicolo a Firenze. Viene da chiedersi : dov'è l'abuso d'ufficio? Viene anche da chiedersi il perché di tanto apparente disinteresse nei riguardi delle indagini condotte da Michele Giuttari, laddove non vengono ostacolate. " Non bisogna farle le indagini sui mandanti, perché sono solo illazioni " , una inutile perdita di tempo , si sente dire Giuttari. Sorprendente. Finchè si indagano i compagni di merende, va tutto bene. Va bene Pacciani, va bene Lotti , va bene Vanni. Quando si alza il tiro cominciano a sorgere i problemi. Michele Giuttari viene addirittura sollevato dall'incarico e trasferito. Al PM Mignini viene perquisito l'ufficio e gli vengono sequestrati atti di una indagine in corso, quella sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, atti sui quali aveva eccepito il segreto, inutilmente. Anche in questo caso viene da chiedersi perché tanta paura ( a Firenze e a Perugia ) dell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci? Secondo il PM perugino , Francesco Narducci era collegato , in qualche modo, con le vicende del mostro di Firenze. Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merende, sostenne che ad un dottore venivano consegnate le parti di corpo femminile amputate, in cambio di denaro. Delitti, quindi, su commissione. Di un dottore. Un dottore, non un farmacista, Francesco Calamandrei, di San Casciano val di Pesa. Tra l'altro , nell'inchiesta è emerso che Calamandrei e Narducci si conoscevano. Narducci morirà in circostanze niente affatto chiare il 13 ottobre del 1985. Annegato nelle acque del lago Trasimeno. Un mese dopo l'ultimo omicidio commesso dal mostro di Firenze. Suicidio si sostenne all'epoca. Una verità assai poco credibile. Tanto che il Gip Marina De Robertis ha archiviato con formula dubitativa l'ipotesi dell'omicidio a determinati indagati ( il giornalista Mario Spezi, il farmacista di San Casciano , Calamandrei e altri ) e ha dichiarato prescritti ma esistenti i reati commessi all'epoca in materia di occultamento e sottrazione di cadavere e di falsificazione di numerosi documenti pubblici. Inoltre, dall'aprile scorso, si attende di conoscere le motivazioni con le quali, a vario titolo, anche con formule dubitative, il Gup, Paolo Micheli, ha assolto una ventina di persone ( anche il padre e il fratello di Narducci ) dalle accuse di falso, associazione per delinquere, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Avverso questa decisione del Gup, Il PM Mignini proporrà , verosimilmente, appello e ricorso non appena verranno depositate le motivazioni che avrebbero dovuto essere depositate il 20 luglio scorso. Gli stessi Mignini e Giuttari sono stati , invece, assolti perché i fatti non sussistono ( e la Procura di Firenze non si è appellata ) dall'accusa di abuso di ufficio ( e Mignini anche dal favoreggiamento nei confronti di Giuttari ) relativamente ad accertamenti cosiddetti paralleli a quelli della Procura di Genova che stava indagando l'ex capo della mobile di Firenze per falso, per via di quella registrazione del colloquio con il sostituto Canessa ( di cui abbiamo parlato precedentemente ) registrazione che , secondo l'accusa, era stata manomessa. Inchiesta, questa, che ha poi portato alla perquisizione dell'ufficio del PM di Perugia e al sequestro di numerosi atti di indagine. Inutile aggiungere che il procedimento a carico di Giuttari e di due poliziotti si è concluso un una sentenza di non luogo a procedere per assoluta insussistenza del fatto, emessa dal GUP genovese Roberto Fenizia. Una condanna " anomala " quella di Giuliano Mignini che, non ha però subito conseguenze disciplinari di alcun tipo. Il procedimento disciplinare è infatti sospeso sino alla definizione del procedimento penale dal quale dipende. e il PM. Mignini ha potuto continuare a svolgere le sue funzioni , anche in processi importantissimi e di rilievo internazionale , come quello relativo alla morte della studentessa inglese, Meredith Kercher.
«La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nel lago Trasimeno nell'ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del "Mostro di Firenze", ma decise di non far trapelare nulla per evitare che fossero coinvolti tutti». Una nuova testimonianza nell' inchiesta sui mandanti degli omicidi compiuti in Toscana tra il 1968 e il 1985 svela intrecci finora insospettabili, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. E delinea nuove responsabilità di chi avrebbe tentato di nascondere la verità. Sono centinaia i verbali raccolti negli ultimi due anni dai pubblici ministeri umbri e fiorentini che stanno cercando di identificare i componenti della congrega che avrebbe armato la mano dei «compagni di merende». Ma anche di individuare chi provocò la morte del medico perugino. Gli accertamenti svolti sinora portano infatti a escludere che Narducci sia stato vittima di un incidente mentre era in barca, come si era pensato fino a due anni fa. «È stato ucciso - ribadiscono gli inquirenti - e la sua morte è certamente legata agli assassinii delle coppiette». È stato Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un'indagine personale sulla vicenda, a rivelare il ruolo della massoneria, alla quale lui stesso apparterrebbe. E le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. «Il padre del medico - ha raccontato Benedetti - faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l'autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un'associazione segreta denominata "la setta della rosa rossa". Al momento dell'iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po' di tempo aveva raggiunto il ruolo di "custode". Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei "mostri" e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c'era il rischio che venissero coinvolti tutti». Tra i testimoni ascoltati dai magistrati c'è anche Augusto De Megni, nonno del bimbo rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente d' Italia. «So che Narducci andava a Firenze - ha confermato - e che frequentava giri poco raccomandabili». Secondo le indagini compiute sinora il dottore potrebbe essere stato il «custode» dei reperti genitali asportati alle vittime. E adesso si sta verificando se possa esserci un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot al pubblico ministero Silvia Della Monica. L'omicidio della francese e del suo compagno Jean-Michel Kraveichvili avvenne l'8 settembre agli Scopeti. Recentemente si è scoperto che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche e che sarebbe poi rimasta vittima di un rito satanico. Un mese dopo il delitto scomparve il dottor Narducci. Era in ospedale a Perugia e dopo aver ricevuto una telefonata andò via sconvolto. Di lui non si seppe più nulla fino al 13 ottobre, quando il suo cadavere affiorò a circa duecento metri dalla riva. Alcuni testimoni dell' epoca hanno raccontato che aveva numerosi ecchimosi, ma la famiglia si oppose allo svolgimento dell'autopsia. Soltanto due anni fa si è scoperto che i rilievi del medico legale furono effettuati sul corpo di una persona alta almeno cinque centimetri più del dottore. Un'evidente sostituzione sulla quale dovranno adesso fornire spiegazioni alcuni familiari di Narducci e il questore dell' epoca Francesco Trio, tutti indagati per occultamento di cadavere. «Dalle lettere anonime che attribuivano un ruolo a Narducci e ai suoi amici di Firenze come mandanti dei delitti - ha dichiarato ieri Michele Giuttari, capo della squadra investigativa -, siamo passati alle testimonianze dirette. Tanti sapevano e ora hanno parlato».
L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive il Prof. Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).
Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello stato, continua il Prof. Paolo Franceschetti. Una strage di stato mai chiamata come tale.
Premessa. Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del mostro di Firenze. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di stato italiane: l’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Ripercorriamo quindi le tappe della vicenda per poi trarre le nostre conclusioni. Con la dovuta avvertenza che il nostro articolo non è volto a individuare nuove piste; non vogliamo discutere se Pacciani fosse o no colpevole, se il mostro fosse uno solo o fosse un gruppo organizzato, se dietro ai delitti del mostro ci sia la Rosa Rossa, come si è ipotizzato, o altre sette sataniche. Vogliamo analizzare la cosa dal punto di vista prettamente giuridico, evidenziando alcuni dati che nessuno finora ha abbastanza trattato.
Il processo Pacciani. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. Ricordiamoci questo particolare del pube, perché lo riprenderemo in seguito. La vera e propria caccia al mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal mostro. C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti - non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno. Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo. Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la procura di Firenze, sospetta un omicidio.
Il caso Narducci. Nel 2002 l’indagine sul mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico Perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985. Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il PM di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile. Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci, e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci, il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli.
Depistaggi e coperture eccellenti. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare. In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un indagine del genere senza commetterne); la procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento massoneria – delitti del mostro – sette sataniche vengono querelati anche se le querele verranno poi ritirate. Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali di cui non vengono informati gli inquirenti. Il PM Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narduci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti. Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro - anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla procura di Genova che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial Killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 - non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial Killer è un mostro isolato, ancora in libertà.
Morti sospette. Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico Perugino trovato morto nel lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani per la quale la procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna. Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo, di cui ci siamo già occupati. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati. Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi, e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i compagni di merende, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo) Gabriella Pasquali Carlizzi, dandogli alcune informazioni sul mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un porta asciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderla più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto - l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?
Conclusioni. La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. In realtà, in questa vicenda molte cose sono chiare, molto più chiare di quanto non sembri a prima vista. Leggendo attentamente i fatti e i documenti è possibile farsi un’idea della vicenda, e delle motivazioni che spingono alcune delle persone coinvolte. Ma non è mio intendimento fare ipotesi, smontare tesi o costruirle. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì“aria fritta” l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un indagine importante compare il binomio massoneria – servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione. Ancora una volta la massoneria deviata riesce a mostrare tutta la sua forza, riuscendo a tacitare ogni tipo di delitti, purché siano coinvolte persone a loro legate. Non solo colpi di stato, stragi e altro, ma addirittura delitti come quelli del Mostro di Firenze. Il che porta a concludere che anche i morti legati alla vicenda Mostro di Firenze, che non sono solo le sedici vittime ufficiali, ma anche tutte le altre (i testimoni soppressi brutalmente e gli omicidi non individuati ufficialmente) possono essere considerati una strage di stato. L’ennesima strage compiuta con la connivenza di pezzi dello stato, resa possibile sia dalle complicità ad alto livello, sia dall’ignoranza degli organi investigativi, dalla loro impreparazione riguardo al modus operandi e alla struttura delle logge massoniche deviate e in particolare delle sette sataniche. Ancora una volta viene in evidenza poi la totale inutilità delle norme giuridiche e processuali. Finché un PM che avvisa un indagato commetterà un reato minimo; finché l’occultamento di prove o di un fascicolo agli inquirenti, subirà un pena minima, destinata tra l’altro ad andare in prescrizione; finché l’operato dei servizi segreti rimarrà sempre impunito in nome del cosiddetto segreto di stato; finché il tempo massimo per le indagini preliminari, anche in reati così complessi, continueranno ad essere due anni; finché avremo questo sistema, insomma, la macchina giudiziaria sarà sempre paralizzata nel perseguimento di questo tipo di delitti, cioè i delitti che vedono coinvolti, a vario titolo, i colletti bianchi nel coprirsi a vicenda i reati da ciascuno di loro commessi. Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: “Certo Paolo che dietro ai delitti del mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi… Un tempo, se toccavi il tasto mafia – politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione… insomma ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di stato, ce ne sono molti altri, Rom, immigrati clandestini, ecc. che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente”. E mi ha anche detto i nomi di alcune persone coinvolte, tra l’altro chiaramente ricavabili dal fatto di essere proprietarie dei luoghi in cui si svolgevano questi riti. Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anche io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere, e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. 18 vittime ufficiali che potevano essere nostri amici, nostri partner, o potevamo essere noi; decine di vittime nella mattanza dei testimoni e delle persone coinvolte; centinaia di famiglie inconsapevoli coinvolte nella vicenda, che escono distrutte, alcune perché vittime del mostro, altre perché sospettate di essere familiari di un mostro. Il vero mostro in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello stato. Il mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.
Bibliografia. Se molti in questi anni hanno cercato di nascondere la verità, è anche vero che, come dice un detto famoso, la verità non si può nascondere per sempre. Per chi vuole cercarla e capire segnaliamo due testi. Michele Giuttari, Il mostro anatomia di un indagine, BUR. Una cosa che mi colpisce leggendo il libro di Giuttari è che quando parla dei depistaggi e degli occultamenti vari non nomina mai la massoneria. Parla di un “partito avverso”. Anche se, leggendo, non è difficile intuire cosa sia questo partito avverso, non si capisce se la cosa sia voluta o casuale. Questi legami vengono descritti meglio nel libro: Luca Cardinalini, Pietro Licciardi, La strana morte del dottor Narducci, ed. Deriveapprodi. L'idea del titolo non è nostra, ma di Piero Licciardi; è lui che definisce il Mostro di Firenze “una piovra che si insinua nello Stato".
LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.
L'ex vicecomandante della polizia penitenziaria di Perugia è accusato di violenza sessuale aggravata e concussione nei confronti di un'ex detenuta del carcere di Capanne, scrive “Virgilio”. La donna lo ha denunciato dopo aver letto le parole di Amanda Knox. L'americana, assolta in secondo grado per l'omicidio di Meredith Kercher, aveva scritto sui suoi diari, secondo il The Sun, che la sua guardia carceraria "era fissata col sesso". "Di notte mi convocava al terzo piano in un ufficio vuoto, per una chiacchierata. Quando gli ripetevo che dell'omicidio di Meredith Kercher non ne sapevo nulla cercava di parlarmi di lei o di portarmi verso l'argomento sesso", aveva detto Amanda. Il tutto anche se i legali difensori dell'uomo hanno sempre negato qualsiasi evento di questo genere. L'uomo, che da sempre respinge ogni accusa, comparirà martedì davanti al gip Lidia Bruti. Secondo l'accusa, come riporta Il Messsaggero, "nell'assenza temporanea del personale penitenziario in servizio presso il primo piano della sezione detentiva e facendosi in plurime occasioni aprire il cancello della cella, costringeva o comunque induceva la stessa, in stato di soggezione psicologica derivante dallo stato di depressione sofferto a seguito della carcerazione, dall'assunzione di psicofarmaci in dosi rilevanti e anche superiori a quanto prescritto, e dal ruolo rivestito dalla guardia, a compiere atti sessuali anche ripetendole spesso che “si doveva comportare bene". Amanda Knox è stata, diverse volte, vittima di violenza sessuale da parte dello staff e dei reclusi, mentre si trovava in carcere. La studentessa americana racconta nel suo libro, che un dottore ha esaminato le sue parti intime, dopo essere stata arrestata, mentre un altro signore le ha riferito, erroneamente, che era risultata positiva al test HIV. Una guardia del carcere l’ha tormentata in diverse occasioni, chiedendole se voleva dormire con lui e aggiungendo: “quali posizioni ti piacciono di più?” Amanda Knox, 25, ha passato quattro anni in carcere, per l’accusa dell’omicidio della sua compagna di stanza, la studentessa inglese Meredith Kercher. Dopo essere stata rilasciata nel 2011, Knox ha presentato la sua autobiografia, Waiting to Be Heard, in cui racconta gli eventi, dal suo punto di vista. Come riporta il Daily News, nel libro, lei dichiara l’umiliazione sessuale, che ha dovuto sopportare. Un dottore le ha ordinato di spogliarsi, per esaminare i suoi genitali con le mani, mentre la polizia stava a guardare. Lei scrive: “lui esaminò e fotografò le mie parti intime”. Il sospetto cadde su Knox e Sollecito, quando Kercher, 21, fu trovata morta nella casa, che condivideva con Amanda, mezza nuda e pugnalata al collo. Ciò incitò a pensare che la ragazza era stata vittima di un gioco sessuale, andato male. Dopo essere stata accusata di omicidio e dopo aver avuto la sentenza di 26 anni in carcere, Knox afferma di aver avuto particolari attenzioni da Raffaele Argiro, un custode. Lei scrive: “lui mi diceva, “ho sentito dire che ti piace fare sesso. Come ti piace farlo? Quali sono le tue posizioni preferite? Vorresti fare sesso con me? No? sono troppo vecchio per te?” Inoltre, Knox fu anche molestata da reclusi – una compagna di cella bisessuale la baciò sulle labbra e cercò di aver un rapporto sessuale con lei. La ragazza americana parla anche del rapporto con Kercher: “siamo diventate amiche intime, in poco tempo. Io vedevo in Meredith, la mia confidente. Lei mi trattava con rispetto e senso di umorismo”.
Violenza in carcere, atti sessuali subiti mentre era dietro le sbarre. A denunciarlo una vigilessa di Milano che ha accusato la guardia penitenziaria che faceva parte della scorta di Amanda Knox. , scrive “Il Messaggero”. Comparirà infatti davanti al giudice Lidia Brutti l'ex vicecomandante della polizia penitenziaria di Perugia, Raffaele Argirò, accusato di violenza sessuale con l'aggravante di aver agito su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e di concussione da un'ex detenuta del carcere perugino di Capanne. Di lui, che si è sempre detto innocente, aveva parlato anche Amanda Knox, all'indomani dell'assoluzione di secondo grado. «Era fissato col sesso e voleva sapere con chi avesse avuto rapporti la giovane americana e cosa le piacesse fare sotto le lenzuola», aveva scritto il tabloid inglese Sun riportando passaggi dei diari dell'americana accusata di aver ucciso la coinquilina inglese Meredith Kercher insieme all'ex fidanzato Raffaele Sollecito. «Di notte - aveva detto Amanda - mi convocava al terzo piano in un ufficio vuoto, per una chiacchierata. Quando gli ripetevo che dell'omicidio di Meredith Kercher non ne sapevo nulla cercava di parlarmi di lei o di portarmi verso l'argomento sesso». Argirò, che faceva sempre parte della scorta della Knox per le udienze di Perugia, annunciò che avrebbe valutato se denunciare la giovane per queste frasi che nell'ottobre del 2011 bollò come menzognere. Adesso però, davanti al giudice ci è finito per la denuncia di una ex detenuta del carcere perugino, che ha detto di aver trovato la forza di raccontare tutto proprio dopo aver sentito le parole di Amanda Knox. Si tratta di una vigilessa di Milano detenuta a Capanne tra dicembre 2006 e gennaio 2007. La donna denuncia i fatti con anni di ritardo: «Nel 2011 erano usciti articoli su alcune rivelazioni fatte da Amanda Knox - aveva raccontato - la quale però non ha mai detto di aver avuto rapporti sessuali con lui. Così mi sono incavolata, ho pensato “Cavolo non è possibile, lo devo denunciare, adesso c'è un'altra persona che ha parlato”». La donna, il due ottobre dello scorso anno, in sede di incidente probatorio davanti al gup Luca Semeraro aveva raccontato di aver avuto «una decina di rapporti sessuali nell'arco di un mese circa» con l'ispettore (ora in pensione): «palpeggiamenti», «rapporti completi non protetti», «richieste di mostrare le parti intime». Secondo la ricostruzione dell'accusa, sostenuta dal pubblico ministero Massimo Casucci, l'ex guardia Raffaele Argirò, «nell'assenza temporanea del personale penitenziario in servizio presso il primo piano della sezione detentiva e facendosi in plurime occasioni aprire il cancello della cella, costringeva o comunque induceva la stessa, in stato di soggezione psicologica derivante dallo stato di depressione sofferto a seguito della carcerazione, dall'assunzione di psicofarmaci in dosi rilevanti e anche superiori a quanto prescritto, e dal ruolo rivestito dall'Argirò, che l'aveva indotta a ritenere che un suo rifiuto avrebbe potuto determinare effetti pregiudizievoli sulla sua condizione di indagata in stato di detenzione e di madre di una bambina di sette anni, a compiere atti sessuali anche ripetendole spesso che “si doveva comportare bene”». Lui invece ha sempre detto di «non averla mai sfiorata neanche con un dito. A me - aveva spiegato Argirò difeso dagli avvocati Daniela Paccoi e Guido Rondoni - come agli altri agenti uomini, non è permesso entrare nel braccio in cui sono detenute le donne, senza essere accompagnati da una collega di sesso femminile».
La Procura è andata dritta, scrive Erika Pontini su “La Nazione”. E ritiene che sussistano tutti gli elementi d’accusa per mandare a giudizio l’ex ispettore della polizia penitenziaria del carcere perugino di Capanne, Raffaele Argirò, già vicecomandante del Reparto (e in questa veste per molto tempo guardia di Amanda Knox) imputato di violenza sessuale con l’aggravante di aver agito su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e di concussione nei confronti di una vigilessa di Milano, arrestata ma poi scarcerata e assolta. Il pubblico ministero Massimi Casucci ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dell’uomo e il giudice per l’udienza preliminare, Lidia Brutti ha fissato per il 19 novembre l’udienza. La Procura ha inoltre depositato, come indagini integrative, gli accertamenti finanziari (conti correnti, finanziamenti, reddito) sul conto della vigilessa forse proprio nell’ottica di verificare la sua attendibilità in riferimento alle pesanti accuse contro l’ex ispettore e al suo bisogno di denaro, come paventato dalla difesa di Argirò nel corso dell’incidente probatorio. I fatti al centro dell’inchiesta, svolta dalla polizia della sezione di polizia giudiziaria di Perugia, sarebbero avvenuti nella sezione femminile della Casa circondariale tra dicembre 2006 e gennaio 2007. A denunciare Argirò era stata la stessa vittima degli abusi dopo il «caso-Amanda». «Quando ho letto il nome di Argirò quale autore delle molestie in danno di Amanda ho pensato che era arrivato il momento giusto per riferire quanto accadutomi... Ho il desiderio che una persona che approfitta di situazioni di soggezione psicologica non possa farlo più», disse, tra l’altro, l’ex detenuta ma cinque anni dopo i fatti. Nel corso delle indagini la polizia ha sentito come persone informate dei fatti anche le agenti della sezione femminile: alcune avrebbero confermato delle continue visite di Argirò nel braccio e di essersi allontanate per qualche minuto. Agli atti anche una conversazione telefonica registrata tra la vigilessa e l’allora ispettore. L’imputato è difeso dagli avvocati Daniela Paccoi e Guido Rondoni che sono pronti a dare battaglia. L’ex ispettore infatti si è sempre professato innocente. Dall'America intanto la Knox insiste nelle accuse contro la guardia carceraria che non ha mai denunciato. La giovane, di nuovo sotto processo davanti alla Corte d’assise d’appello di Firenze per l’omicidio di Meredith Kercher, insieme a Raffaele Sollecito, ha scritto anche nel suo ‘Waiting to be Heard’ di essere stata molestata proprio da Argirò che, sostiene la Knox, le faceva domande esplicite sulle sue abitudini sessuali.
Meredith, a Perugia la casa del delitto è senza pace: 8 intossicati per monossido. Nella casa, rimasta a lungo vuota dopo il delitto della giovane studentessa inglese, gli occupanti, tra cui due neonati, sono stati trasportati in ospedale dopo aver utilizzato un braciere per cucinare carne: avevano cominciato ad accusare malori e vertigini, scrive “La Repubblica”. Non c'è pace per la villetta di via della Pergola, a Perugia, dove nella notte tra il primo e il 2 novembre del 2007 venne uccisa Meredith Kercher: nella casa, rimasta a lungo vuota dopo il delitto della giovane studentessa inglese, la scorsa notte otto persone, tutte di origini marocchine, fra le quali due neonati, sono rimaste intossicate dal monossido di carbonio. Le loro condizioni - si è appreso in ospedale - non destano preoccupazione. Solo una coincidenza, naturalmente, in un periodo in cui - a causa dell'arrivo del freddo e, spesso, di stufe difettose - in Umbria si contano diversi intossicati da monossido: solo ieri erano stati soccorsi, a San Giustino, sette componenti di un gruppo musicale e, a Marsciano, una intera famiglia di origini marocchine, genitori e due figli piccoli. La villetta alle porte del centro storico, in cui hanno vissuto Meredith Kercher e Amanda Knox, e che gli italiani hanno imparato a conoscere per le tante ricostruzioni che ne sono state fatte nelle trasmissioni televisive dedicate all'assassinio della giovane americana, torna così a far parlare di sé. Il giovane che ha preso in affitto i due appartamenti, un marocchino di 24 anni, avrebbe riferito che, dopo aver cucinato della carne utilizzando un braciere, sia lui che gli altri occupanti hanno accusato cefalea e vertigini. Durante la notte sono state prestate le prime cure a tre adulti, che occupavano il piano terra del piccolo casale. Stamani l'ospedale ha quindi preso in cura due mamme e i rispettivi figli, di un anno e un mese di età, oltre ad un uomo di 23 anni. A metà mattina due dei ricoverati sono stati dimessi. I due neonati sono ricoverati in Pediatria e gli altri quattro intossicati sono stati trasferiti dal pronto soccorso in altrettante diverse strutture di medicina. La villetta era stata ristrutturata dopo il dissequestro da parte della polizia che svolse le indagini sul delitto. Negli anni scorsi l'agente immobiliare incaricato di affittare l'immobile aveva spiegato che alcune persone si erano tirate indietro una volta venute a conoscenza di quale fosse la casa. La proprietaria aveva dovuto aspettare due anni, fino all'ottobre del 2009, per definire un nuovo contratto d'affitto con tre giovani studenti stranieri, scaduto il quale, quelle stanze erano di nuovo rimaste a lungo vuote. "L'ho scelta perché è un posto tranquillo e le camere sono belle per studiare", aveva detto ai giornalisti Christ, ventiduenne originario del Congo che per primo era tornato ad occupare la stanza - rimessa a nuovo - di Meredith.
Nei guai uno dei pm che rappresentavano l'accusa al processo di primo grado per la morte di Meredith Kercher. Manuela Comodi sarà giudicata alla Sezione disciplinare del Csm per il filmato computerizzato usato per ricostruire la scena del delitto. L'accusa è quella di aver liquidato il compenso per l'incarico alla società Nventa Id, (un' "ingente somma", pari a 182.740 euro), senza esplicitare nel decreto di pagamento le motivazioni e i criteri adottati. E di aver così provocato un "danno ingiusto" all'Erario. L'incarico venne conferito da Comodi e dall'altro pm titolare delle indagini, Giuliano Mignini, che autorizzarono insieme un preventivo di spesa pari nel massimo a 180mila euro, estendendo poi l'incarico alla realizzazione di una data base contenente gli atti del procedimento penale. Ma fu la sola Comodi a emettere il decreto di liquidazione con cui - secondo la procura generale della Cassazione - recepì "acriticamente e per intero" la fattura che era stata presentata dalla società, "senza motivare alcunché sui parametri di riferimento indicati" dalla normativa per la determinazione dell'importo e "senza nemmeno procedere, pur a fronte della cospicua entità del denaro corrisposta, alla distinzione tra le somme da imputare alla ricostruzione della scena del delitto e quella da ricollegare alla creazione del data base". Così il magistrato non solo ha "eluso" la normativa in questione, ma ha arrecato, "in conseguenza del significativo importo liquidato irregolarmente - sottolinea l'atto di incolpazione - un indebito vantaggio alla Nventa Id, con correlato danno ingiusto all'Erario che il 30 giugno del 2011 ha anticipato l'ingente somma". Nel processo disciplinare Comodi avrà un difensore di eccezione: l'ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, da anni ormai consigliere in Cassazione. In particolare, il sostituto procuratore Manuela Comodi dovrà rendere conto al Csm di una spesa di 182.740 euro, di cui oltre 30.000 per l’Iva liquidata alla società ‘Nventa Id Srl’ e per una ricostruzione animata in 4D dell’ambientazione della scena del crimine. Secondo quanto contestato al pm, «la liquidazione veniva disposta con un visto a margine della fattura apposto tramite un timbro recante la formula di stile asserente la ritenuta regolarità della fornitura o congruenza dei prezzi, per altro interamente anticipati dall’erario il 30 giugno 2012». Secondo l’accusa mossa al magistrato sarebbe stata «omessa la motivazione del decreto di pagamento e della conseguente mancata applicazione dei criteri e tabelle all’uopo predisposti per la corretta anticipazione della somma da liquidare». Secondo la procura generale della Cassazione, l’episodio avrebbe arrecato un danno ingiusto all’erario e ilo stesso magistrato, questa la contestazione, avrebbe recepito «acriticamente e per intero», «senza nemmeno procedere , pur a fronte della cospicua entità del denaro corrisposta, alla distinzione tra le somme da imputare alla ricostruzione della scena del delitto e quella da ricollegare alla creazione del data base».
«Sento una persecuzione nei miei riguardi, senza alcun senso logico». Raffaele Sollecito prende la parola al nuovo processo d'appello per la morte di Meredith Kercher. È arrivato a Firenze, come aveva annunciato, per dire la sua verità davanti ai giudici: «È stata costruita, con prove e testimoni, una realtà che non esiste. Ancora oggi dopo 6 anni vengo ad ascoltare cose ridicole» dice in aula. «Sono qui - continua - per cercare di farmi conoscere e farvi capire la realtà di questa vicenda. Ho rispetto per voi giudici, vi chiedo di guardare la realtà e il grande sbaglio che è stato fatto. Vorrei per me la possibilità di una vita come voi. Mi hanno descritto come un assassino spietato, non sono niente di tutto questo». Sollecito, a tratti commosso, quando racconta di non avere più «una vita normale», ripercorre tutto da principio: «A Perugia nel novembre 2007 stavo per laurearmi in informatica. Mancava una settimana alla discussione della tesi. Avevo conosciuto Amanda, il mio primo vero amore. Vivevamo una vita spensierata, isolata da tutti: la nostra favola. Adesso mi sento in colpa per non aver preso sul serio questa situazione. Sono stato arrestato per l'impronta di una scarpa, che solo più tardi si è scoperto che era di Rudy Guede. Un coltellino serramanico indicato come arma del delitto che poi anche questo è stato smentito. Non mi è mai piaciuto l'alcool e non andavo alle feste, anche se mi sono fatto qualche spinello, questo non ha cambiato la mia personalità».
Superaccusatori. Curriculum dei pm sconfitti: Mignini punito, la Comodi sconfessata. Mignini punito per abuso d'ufficio: "Non ha senso del limite". La Comodi bacchettata quando indagò il cardinal Giordano, scrive Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano”. Ora, tanto per chiarire: non è che qui si voglia imbastire una generica accusa alla casta dei magistrati, né chi scrive è fra quelli che immaginano una confraternita di toghe complottarde che sempre trama nell’ombra. E però, insomma, destano più d’una perplessità le dichiarazioni dei pm di Perugia. Con il sostituto procuratore Giuliano Mignini che alle telecamere denuncia, a proposito del processo per l’omicidio di Meredith Kircher, «una pressione mediatica inaccettabile» - e chissà se si riferisce a chi per anni ha dipinto Amanda Knox come una sorta di mantide manipolatrice, eventualmente per informazioni il pm può chiedere agli imbecilli che l’altra sera gridavano “vergogna” in piazza. E ancora Mignini, riguardo l’assoluzione dei due imputati, così commenta: «Purtroppo una decisione quasi annunciata» - annunciata più che altro dal fatto che, in aula, le ricostruzioni dell’accusa sono state smontate pezzo per pezzo. E forse non si rende conto che, così facendo, insinua il dubbio che la Corte abbia sentenziato facendosi condizionare da elementi diversi dal diritto, di fatto disponendo la scarcerazione di due assassini - che invece sono stati dichiarati innocenti da un tribunale dello Stato. E poi, comunque: si grida allo scandalo perché troppo spesso ci si permette di criticare una sentenza da pubblici pulpiti, e poi sono proprio i magistrati a farlo a telecamere spiegate: pure l’altro inquirente titolare dell’inchiesta, Manuela Comodi, ha dichiarato che «è una sentenza che non fa giustizia». No, perché allora uno s’informa. Cerca di ricostruire, non come e quanto i giudici fanno con la vita passata degli imputati ma insomma, giornalisticamente scavando. Ed ecco: per quanto riguarda la dottoressa Comodi, peraltro nota anche fra gli avvocati per serietà e preparazione - e viene qui rimarcato senz’alcuna ironia -, ecco, la dottoressa Comodi condusse in un passato nemmeno troppo lontano un’altra inchiesta clamorosa, quand’era in servizio al tribunale lucano di Lagonegro. Si trattava dell’indagine che mise sotto accusa per usura fra gli altri anche il cardinale di Napoli Michele Giordano. Il quale nel dicembre del 2000 - quando la Comodi era da poco stata trasferita - venne assolto in udienza preliminare. Nelle motivazioni, il gup sottolineò «il magma di diverse rappresentazioni» emerse dall’inchiesta stessa, concludendo che «gli elementi indiziari non assurgono a dignità di prova in quanto difettano in essi i necessari requisiti della gravità, concordanza e precisione». C’è da dire che la Comodi ha cominciato ad occuparsi dell’inchiesta sul delitto di Meredith nel maggio del 2008, sette mesi dopo l’omicidio, quand’ormai mancava poco alla chiusura dell’indagine. Tutta l’inchiesta preliminare è stata invece coordinata dal sostituto Mignini. Il quale aveva poi chiesto d’essere affiancato da un collega proprio poiché impegnato in un’altra indagine clamorosa. Quella sul decesso di Francesco Narducci, trovato morto annegato nell’ottobre del 1985 nel Lago Trasimeno. E niente, questa faccenda - presa in carico per l’appunto dalla Procura di Perugia - venne collegata ai delitti del mostro di Firenze, e si parlò delle onnipresenti logge massoniche e vennero indagati avvocati e magistrati e giornalisti, e per la verità tutto pare finito in niente, con archiviazioni varie e non luoghi a procedere. E però, d’altro canto, proprio Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari - che in qualità di capo del Gides, il Gruppo investigativo delitti seriali, conduceva le indagini di Firenze e Perugia sul maniaco delle coppiette e sui mandanti - Magnini e Giuttari, dicevamo, furono messi sotto accusa per abuso d’ufficio, in sostanza accusati d’aver svolto accertamenti illeciti, arresti compresi. E vennero processati, e poi nel gennaio del 2010 condannati in primo grado: un anno e sei mesi a Giuttari, un anno e quattro mesi a Mignini - pene sospese con la condizionale. E per quanto riguarda Mignini, così recitava la sentenza: «La critica al modo di procedere è, in definitiva, di avere costantemente dimostrato nei suoi atti una mancanza di adeguata ponderazione e di senso del limite». E ancora: «L’azione penale è obbligatoria, ma ciò non significa che il pm debba qualificare in termini di illecito qualsiasi minimo spunto che consenta una vaga lettura in chiave accusatoria». Chissà se un eventuale ribaltamento del verdetto in Appello farà loro gridare allo scandalo. E comunque, intendiamoci, non è nemmeno che un errore professionale debba per forza segnare per sempre la carriera d’un magistrato - anche se “l’errore” di un pm può anche significare la galera per un innocente. E in ordine all’annoso dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati - oggetto d’un disatteso referendum voluto dai soliti Radicali, rimasti unici e isolati a combattere per questioni di giustizia al di là delle logiche di schieramento - ecco, per questo si rimanda ad altri articoli. Per quanto ci riguarda, anche e soprattutto dopo una sentenza d’assoluzione, si vorrebbe dai pm proprio un po’ di «senso del limite». No, che non è neanche chiedere troppo.
PERUGIA: GLI SCANDALI; LA STRAGE….
Un uomo è entrato stamane negli uffici della Regione Umbria e, dopo aver gridato "mi avete rovinato", ha ucciso una dirigente ed un’impiegata e si è tolto la vita. Un eccidio annunciato, dopo i suicidi (tentati o compiuti) da parte di cittadini che ritenevano di essere vessati da Equitalia od abbandonati dalle istituzioni. L’uomo si chiamava Andrea Zampi, di 43 anni, e le due vittime sono Daniela Crispolti, 46 anni di Todi, e Margherita Peccati, 61 anni di Umbertide. Sembra che, nei giorni scorsi, la Regione gli avesse respinto la richiesta di accreditamento per carenza dei requisiti, che gli avrebbe permesso l’accesso ad un finanziamento ammontante ad un centinaio di migliaia di euro. Una somma misera se si considerano le ‘chiacchiere’ e gli ‘scandali’ che riportano i giornali locali. Come le “crepe nel mito dell’Umbria, regione verde per geomorfologia e rossa per la monocromia politica dei suoi amministratori”, di cui racconta Blitz Quotidiano accennando ad una “gestione clientelare e un arcipelago di piccoli scandali locali”. Un ciclone sta per abbattersi sulla quieta Umbria, che insieme all’Emilia Romagna è una “regione rossa” spesso portata ad esempio come modello di buon governo. Conti in regola, 350 milioni di euro di cassa generati ogni anno, sanità in attivo che offre un servizio di buon livello. Ma i tagli decisi dal governo di Roma rischiano di rompere gli equilibri solidi solo in apparenza di una regione amministrata per 60 anni dallo stesso partito, il Pci-Pds-Ds-Pd. Nel 2011 l’impatto sui conti umbri è stato di 245 milioni in meno. Nel 2012 il bilancio regionale dovrà fare a meno di 305 milioni, nel 2013 di 330 milioni, nel 2014 di 375 milioni. In totale fanno 1,2 miliardi in meno in quattro anni per una spesa che nel 2011 è stata di 2,1 miliardi. Roba da far saltare il coperchio alla pentola della spesa pubblica, che finora ha contribuito notevolmente a consolidare il potere “rosso” che ha governato su Perugia e Terni dal dopoguerra ad oggi. Come spiega al Sole 24 Ore Francesco Bistoni, rettore uscente della settecentenaria Università perugina: “Da una parte c’erano i comunisti, che avevano in mano tutte le leve dell’amministrazione; dall’altra i democristiani, cui spettavano l’Università e le banche. Al di là delle lotte di facciata, il sistema di potere era fondato su una diarchia allargata alla chiesa e alla massoneria”. Ora che gli ex comunisti e parte degli ex democristiani si sono fusi nel Pd, se gratti sotto lo strato rassicurante del monocolore trovi le sfumature cromatiche delle correnti. Che agitano lotte intestine fra ex Ds che rivogliono l’egemonia ed ex Margherita che non ci stanno, come Giampiero Bocci che, dopo essere stato battuto alle primarie, non nasconde i contrasti con Catiuscia Marini, la bersaniana presidente di Regione succeduta nel 2010 alla dalemiana Maria Rita Lorenzetti. Scontro che ai tempi del Pci rimaneva nelle segrete stanze del partito ma che adesso viene portato in piazza, sui giornali e sulle tv locali. Litigano ex Ds ed ex Margherita, litigano anche gli ex Ds fra di loro: la Marini e la Lorenzetti, per esempio. E d’altra parte per placare le polemiche ci saranno, dopo i tagli del governo, sempre meno poltrone, posti di lavoro e appalti da distribuire. La mancanza di fondi per le clientele è un vero pericolo per il sistema di potere che ha retto l’Umbria negli ultimi 60 anni. Poi c’è anche la lenta erosione dei consensi alla sinistra. La stessa Marini nella sua Todi dopo essere stata sindaco dal 1998 al 2007 ha posto le premesse per una storica vittoria della destra. Poi ha vinto le regionali del 2010 col 57%, dal 63% che le portava in dote la Lorenzetti. Fiammetta Modena, candidata del Pdl sconfitta dalla Marini, dice al Sole 24 Ore che un apparato pubblico sempre più pesante non può reggere con la crisi è i tagli. E se il Pd, che sta riorganizzando a fatica la sanità locale, dovesse trovarsi costretto a sforbiciare gli impiegati regionali, potrebbe rischiare seriamente le prossime elezioni. Quello che la Modena non dice è che il Pdl erediterebbe gli stessi problemi senza avere la stessa base sociale.
“Dal “sesso rosso” che imperversa dalle parti di Orfeo Goracci,”zar” di Gubbio e sindaco della cittadina medievale targato Rifondazione Comunista all’assessore regionale all’agricoltura Fernanda Cecchini, che con i fondi di un bando del Programma di sviluppo rurale varato dal suo stesso assessorato ha finanziato con 83 mila euro a fondo perduto la ristrutturazione dell’abitazione dove vive la sorella. Stessa cosa, con 200 mila euro, ha fatto il sindaco democratico di Città di Castello, successore peraltro della stessa Cecchini.“
“La logica era chiara: o eri donna, e cedevi alle avances del sindaco Goracci, o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia con Goracci o con persone riconducibili al suo gruppo, oppure eri fuori dai giochi”. Questa la dichiarazione al Messaggero di una donna vigile urbano di Gubbio. La donna è stata illegittimamente esclusa dalle stabilizzazioni dei contratti, che ora sono a tempo determinato, perché esterna alla presunta associazione a delinquere promossa dall’ex sindaco di Gubbio Orfeo Goracci. La vigilessa ha detto che alla richiesta di chiarimenti sulla mancata stabilizzazione l’ex sindaco le ha risposto: “Qui decido io, lei per me non entra”. Anche un’altra vigilessa di Gubbio a dichiarato di essere stata esclusa dalla stabilizzazione perché ha rifiutato le avances sessuali di Goracci, che in un’occasione l’avrebbe “attirata a sé, abbracciandola per le spalle e cercando di baciarla sulle labbra”. La donna ha detto di essersi “ritratta ed essere riuscita ad andarsene dall’ufficio”. Ad un secondo tentativo di Goracci la donna gli avrebbe detto: “ancora una volta di piantarla, ricordandogli che aveva una moglie e una figlia”.
Avances sessuali che sarebbero proseguite fino a poco prima del concorso per diventare agente di polizia municipale, secondo l’accusa organizzato per “sistemare la coordinatrice della segreteria di Rifondazione comunista legata al gruppo del sindaco”, mentre la donna che ha respinto Goracci sarebbe stata “penalizzata ingiustamente nella prova orale e nella valutazione dei titoli e danneggiata per avere cantato in chiesa con il colletto azzurro della camicia della divisa (da vigile urbano) che sporgeva dall’abito da chiesa”. La vigilessa ha così ”cominciato a dar credito alle voci insistenti che indicavano molte delle donne “sistemate” all’interno dell’Amministrazione come amanti (o ex amanti) del Goracci)”.
Oppure la vicenda delle ‘tangenti ENAC’ in cui Catiuscia Marini, presidente della Regione, è menzionata ma non indagata nell’inchiesta anche se, su “un foglietto sequestrato a Viscardo Paganelli, proprietario della Rotkopf aviation arrestato per corruzione, c’è scritto “Marini 20 mila”. Sembra accertato che una parte della somma sia finita come contributo per Umbria Jazz, ma non è che la cosa appaia così chiara e trasparente come vorremmo noi contribuenti. Per non parlare dello scandalo che coinvolge l’ex presidente “Maria Rita Lorenzetti, indagata insieme ai due assessori della sua giunta Maurizio Rosi e Vincenzo Riommi nell’inchiesta “sanitopoli”: i pm li accusano di assunzioni sospette alla Asl di Foligno, contratti di lavoro pilotati, distruzione di atti relativi a un’operazione che costò un rene a un paziente“. Oppure “l’ex vicepresidente Carlo Liviantoni, indagato per Sanitopoli, così come il consigliere regionale del Pd Luca Barberini. Il presidente del Consiglio regionale Eros Brega è indagato per peculato, come ex responsabile dell’associazione “Eventi Valentiniani” organizzatrice della festa di San Valentino, patrono di Terni. Dai conti della festa mancano all’appello 200 mila euro.” “Nell’informativa dei Carabinieri ci sono decine di telefonate che si riferiscono alla pressioni per far ottenere il posto alla «raccomandata» di turno. Tanto che gli indagati nelle intercettazioni le chiamano «marchette” (Terni Magazine). Il tutto condito con l’allegra partecipazione di dirigenti regionali e sanitari, impiegati a vario titolo e "raccomandati" in lista d’attesa, dilapidando centinaia di migliaia di euro. Andrea Zampi ne chiedeva molti di meno e, per ora, non sappiamo quanto ne avesse diritto o meno: sarà, si spera, un’indagine della Guardia di Finanza a chiarirci se a monte del gesto esasperato ci fossero anche delle irregolarità o delle pressioni indebite da parte delle due impiegate morte o da chi le aveva precedute, dando adito ad aspettative e speranze disattese in un uomo che, su Radio Capital, Vladimiro Boccali, sindaco di Perugia, ha definito "matto". Un uomo con "problemi psichici" – secondo le affermazioni del sindaco – che però era in possesso di una pistola calibro 21, due impiegate uccise dell’ufficio dell’assessorato alla Formazione che sono un fatto atroce di per sè, le vergognose notizie che riportano i giornali umbri sui loro politici e tante malversazioni. Una strage annunciata, come non pensarlo?
Lorenzetti: "Quello studente va promosso" e il raccomandato prese 30 in patologia. Perugia, così l'ex governatrice segnalava al rettore i suoi pupilli. Nelle telefonate intercettate usava come tramite una docente (già suo assessore), scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. "Senti pisché, ti devo chiedere una cortesia. Tu una tale Romani di patologia generale la conosci?". "Luigina Romani? L'assistente del rettore? Come no, certo, perché, che c'è?". È il 3 settembre 2012. Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd della Regione Umbria e allora presidente di Italferr, ora agli arresti per associazione a delinquere e corruzione nell'inchiesta sui lavori del passante Tav di Firenze, chiama la professoressa Gaia Grossi, ordinaria di Chimica generale all'università di Perugia e suo ex assessore alle Politiche sociali alla Regione Umbria. Comincia così una serrata serie di contatti telefonici per raccomandare uno studente di Odontoiatria che - spiega Lorenzetti - ha urgenza di aprire uno studio a Terni ma teme che uno studente più danaroso di lui arrivi prima sul mercato. È il padre del giovane a rivolgersi alla ex governatrice dell'Umbria: il ragazzo deve superare entro il mese l'esame di patologia generale. E lei si prodiga. I carabinieri del Ros di Firenze registrano. La professoressa Grossi afferra al volo la richiesta: "Ho capito, ha bisogno di non essere fermato ingiustamente, diciamo così, per qualche finezza accademica". "Ecco ecco, brava, hai capito perfettamente, Gaia mia", le fa eco la presidente Lorenzetti: "Noi siamo concrete e pratiche senza tante seghe. Insomma, questa è l'ansia di chi dice: "Io non è che sono figlio di papà, sono uno normale che però sto più avanti di quest'altro, allora vorrei arrivare prima"". Il 6 settembre la professoressa Grossi annuncia alla amica Maria Rita di aver parlato con il rettore, il professor Francesco Bistoni, ordinario di microbiologia. "Lo vedo domani pomeriggio perché queste cose è meglio farle di persona, comunque si è prosternato perché gli ho detto da chi viene. "A disposizione" (ride). Ti faccio sapere domani... Però insomma la persona è molto molto, molto vicina a lui, è la sua allieva". L'indomani annuncia: "Fatto!". "Sei grande", le risponde Lorenzetti. E la professoressa commenta: "Come si diceva, a noi chi c'ammazza?". Lorenzetti però ha bisogno di ulteriori chiarimenti: "Il ragazzo deve avere qualche informazione o va tranquillo?". Risponde la professoressa: "Lui (il rettore) ha detto: "Cosa fatta"". Ma il papà dello studente non è tranquillo. Meglio sarebbe se il figlio conoscesse in anticipo le domande. E qualche giorno più tardi provvede a riferire alla amica Lorenzetti gli argomenti preferiti dal figlio. Ma ancora non basta, perché la professoressa Romani non sembra aver capito che deve avere un occhio di riguardo per il ragazzo. Maria Rita Lorenzetti torna alla carica con Gaia Grossi: "Allora bisogna proprio che Frà (Francesco, il rettore, ndr)... Gli devi dire, guarda, proprio per le ragioni che ti ho detto io ci tengo proprio in modo particolare appunto che la chiami". Perché - dice il padre del ragazzo - "a lui non gli può dire di no perché trema". Cioè la docente non potrebbe dire di no al rettore. Maria Rita Lorenzetti non molla la presa. Insiste con l'amica perché si faccia di nuovo sentire col rettore: "Grazie pischella mia. Noi della vecchia guardia siamo sempre dalla parte del più debole". Il 27 settembre Gaia Grossi la rassicura definitivamente: "Istruzioni per l'uso. Il capo è andato in laboratorio ieri. Ha parlato con i suoi, ha visto le analisi, sono tutte positive. Quindi la prognosi è positiva". Previsione esatta. Poche ore più tardi il padre del ragazzo chiama Maria Rita Lorenzetti. È entusiasta: "Allora, il mio è andato a fare la visita, è rimasto contentissimo, però gli ha ordinato 30 analisi da fare". La presidente resta un momento disorientata, poi capisce: "Eh, quindi? Alla grande. Ah, ecco 30 analisi, scusami, c'ho avuto un momento... Quindi alla grande". In serata Maria Rita Lorenzetti invia un sms all'amica Grossi: "Tutto a posto. 30. Grazie e ringrazia il capo".
Maria Rita Lorenzetti, la zarina di D'Alema. Chi è l'ex presidente della regione Umbria arrestata questa mattina nell'ambito dell'inchiesta sul passante Tav di Firenze, scrive Giacomo Amadori su “Panorama”. È stata arrestata questa mattina Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della Regione umbria e dal 2010 capo di Italferr , società del gruppo Ferrovie dello Stato che opera nel settore dell’ingegneria dei trasporti ferroviari e dell'Alta Velocità. La Procura di Firenze ha fatto bloccare i lavori della Tav cittadina e ha indagato 31 persone per associazione a delinquere: una rete composta dai vertici della Italferr e della Rfi (che si definisce parte lesa), società del gruppo Ferrovie, delle coop rosse (Coopsette) e da funzionari dei ministeri delle Infrastrutture, dell’Ambiente e dell’Autorità di vigilanza per gli appalti pubblici, soggetti che avrebbero lucrato risparmiando sulle commesse per lo smaltimento dei residui di scavo. Non mancherebbero i legami con la camorra. Per gli inquirenti Lorenzetti svolgeva «la propria attività nell’interesse e a vantaggio della controparte Novadia e Coopsette, da cui poi pretendeva favori per il marito», metteva a disposizione «le proprie conoscenze personali, i propri legami politici e una vasta rete di contatti grazie ai quali era in grado di promettere utilità ai pubblici ufficiali avvicinati» e conseguiva «incarichi professionali in favore del marito». La presidenta - molto vicino a Massimo D'Alema - è accusata di associazione per delinquere, abuso di ufficio, corruzione e traffico di rifiuti. Nelle 400 pagine di ordinanza di custodia cautelare viene ipotizzato il rischio di inquinamento probatorio. Ecco il ritratto della Lorenzetti uscito su Panorama il 30 gennaio 2013.
Nel centro del «centru de lu munnu», ovvero piazza della Repubblica di Foligno, alcuni pensionati scuotono la testa di fronte ai giornali. La combriccola confabula sotto Palazzo Trinci, uno dei lavori di recupero affidati dalla pubblica amministrazione al principe consorte della «zarina», l’architetto calabrese Domenico Pasquale. Per i pm di Firenze la signora avrebbe agevolato affari illeciti, in cambio di favori per il marito. «È una “spadara” mica una ladruncola» replica sicuro il gruppetto di concittadini di Maria Rita Lorenzetti, classe 1953, nata sotto il segno dei Pesci, dipendente provinciale di settimo livello in attesa di pensione. La Spada è il suo rione nell’antica giostra cittadina della Quintana, di cui la signora, vaga somiglianza con Meryl Streep, è influente vicepresidente. Ai tempi del liceo classico era meno elegantemente soprannominata «Mozzarella», per il colore eburneo dell’incarnato. Da allora ne ha fatta di strada: prima giovane militante comunista, poi assessore e sindaco della sua città (a quei tempi il suo futuro marito diventava membro della commissione urbanistica del comune), quindi parlamentare, presidente della commissione dei Lavori pubblici all’epoca del terremoto in Umbria, infine per due lustri presidente della regione, sino a quando una fronda interna al partito le impedì il «triplete». Tanti anni di navigazione nei mari procellosi della politica non le hanno sgualcito la fedina penale: un’indagine per una storia di liquami, finita con un proscioglimento, una chiamata di correo di un imprenditore ritenuto dai magistrati inattendibile e, infine, solo nel 2012, la prima richiesta di rinvio a giudizio della sua vita, nella cosiddetta Sanitopoli umbra, per abuso d’ufficio e falso consumati, secondo l’accusa, per favorire la nomina a dirigente della propria segretaria particolare. Che per paura di tornare a fare l’impiegata pronunciò al telefono l’ormai celebre: «Con 1.500 euro (al mese, ndr) non so cosa mangiare». Nel frattempo, nel 2011, Lorenzetti è diventata presidente dell’Italferr, società di progettazione del gruppo Ferrovie. Una poltrona ottenuta dal governo Berlusconi, anche se i veri sponsor erano il presidente del Copasir Massimo D’Alema e l’amministratore delegato di Ferrovie Mauro Moretti, entrambi habitué dell’Umbria e di Foligno, il primo per villeggiatura e passione enologica (con il sostegno di Lorenzetti ha intrapreso a Terni l’attività di vignaiolo), il secondo per la sua antica attività sindacale. Ma il nuovo incarico ora rischia di trasformarsi in una punizione, viste le accuse che planano a Foligno da Firenze (vedere il riquadro a destra). La trama è intricata, ma si può riassumere così: per i magistrati esisterebbe una banda (gli indagati sono 31), composta da dirigenti del gruppo Ferrovie, delle coop e da funzionari ministeriali, impegnata a lucrare sulla costruzione del tratto fiorentino della Tav, così da incassare illeciti guadagni e realizzare fondi neri. Una delle figure centrali di questa associazione a delinquere, secondo gli inquirenti, sarebbe proprio Lorenzetti, indagata per abuso d’ufficio e corruzione. I lavori sarebbero stati eseguiti in barba alle più elementari norme di sicurezza e di rispetto ambientale. Rischiando, persino, di far crollare una scuola confinante con uno dei cantieri della Tav a causa di lavori realizzati «senza nesso logico». Per non parlare del pericolo incendi nelle gallerie, visto che le paratie ignifughe venivano costruite con materiali scadenti. «Chi vuoi che si accorga di questi magheggi» dice uno degli indagati al telefono. Per l’accusa anche lo smaltimento dei residui di scavo veniva facilitato da giochi di prestigio. Carte truccate firmate da alcuni funzionari dei vari ministeri. Tra questi ci sarebbe l’ingegner Pietro Calandra, di area pd, dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, addirittura «servizievole e devoto» verso Lorenzetti. Accuse gravissime che forse la zarina respingerebbe con il suo classico «a pischè», a metà tra il rimprovero e il buffetto. Eppure, per i magistrati la donna si sarebbe spesa in particolare per ottenere «incarichi professionali nella ricostruzione del terremoto in Emilia in favore del marito». Quali lavori? Nell’ordinanza del tribunale non sono specificati, ma sul sito della società di Domenico Pasquale, la Cooper studio, forse si può individuare il settore d’interesse. Fra le commesse più recenti è indicata la progettazione architettonica delle scuole primarie e secondarie temporanee di Novi (Modena), una delle 28 gare assegnate a tempo di record l’estate scorsa dalla Regione Emilia-Romagna per gli edifici scolastici. La Cooper ha partecipato a tre, vincendone una. Centinaia di altre aziende e studi sono rimasti all’asciutto, anche perché i progetti andavano preparati e presentati in pochi giorni. Quindi un successo insperato o un mezzo flop? I folignati potrebbero vedere il bicchiere mezzo vuoto, visto che a giugno i giornali locali avevano annunciato con orgoglio l’invio in Emilia (a spese dell’Umbria) dell’ex direttore generale del Comune di Foligno Alfiero Moretti con la motivazione che «la sua esperienza è stata ritenuta strategica per il recupero di edifici scolastici delle zone emiliane colpite». Di certo il gruppo della zarina, secondo gli inquirenti, poteva contare su molti addentellati. Tra questi ci sarebbero pure Maurizio Brioni, dirigente della Coopsette, e il consulente Walter Bellomo, membro della commissione Valutazione impatto ambientale del ministero dell’Ambiente, ex coordinatore provinciale del Pd palermitano. Per la procura, quest’ultimo era a «disposizione per stilare pareri compiacenti utilizzando documenti forniti dagli stessi interessati», in cambio di «plurime utilità», per esempio le «assunzioni di parenti presso la Coop centro Italia». Anche qui i folignati collegano i fili, fanno associazioni. Vere o erronee che siano. Presidente del consiglio di sorveglianza di Coop centro Italia è Giorgio Raggi (ex sindaco di Foligno che passò il testimone a Lorenzetti), ex comunista di pia estrazione parrocchiale, storica conoscenza della zarina. Oggi è alla sbarra per una storia di presunta appropriazione indebita di circa 800 mila euro provento della compravendita gonfiata di un immobile da parte della Coop centro Italia. Fra gli altri imputati anche un imprenditore, ex socio dello studio di Pasquale in un appalto. Una quindicina di anni fa una voce isolata si alzò a stigmatizzare il presunto conflitto di interessi nel rapporto tra Lorenzetti e Pasquale. Era quella dell’ex parlamentare Maurizio Ronconi, che in un’intervista disse: «Il terremoto (di Umbria e Marche del 1997, ndr) è stato gestito in modo mafioso, la sinistra con a capo Maria Rita Lorenzetti, allora presidente della commissione Lavori pubblici, marito architetto che si occupa, guarda caso, di opere pubbliche, venne agevolata in tutto perfino nella designazione dei capi campo, che nell’emergenza decidevano l’assegnazione di viveri e coperte, diventando veri e propri capò». Lorenzetti denunciò. Il giudice decise di non procedere per l’immunità parlamentare, sottolineando però che «la difesa dell’imputato aveva documentato gli incarichi conferiti al coniuge della Lorenzetti» sino all’inizio del 2000. Nella lista 10 commesse pubbliche per un fatturato complessivo di circa 11 miliardi di lire. Gli amici della coppia ribattono che in città è un altro lo studio di architettura che lavora a pieno regime con le coop e che la parentela con Lorenzetti in realtà ha danneggiato Pasquale. Chi non ama i coniugi invece consiglia di visitare il sito della Cooper studio e di esaminare le centinaia di lavori in portfolio: la maggior parte hanno un committente pubblico. Tra i lavori più importanti la biblioteca di Foligno, il restauro della Chiesa del Suffragio, infrastrutture e pavimentazione del polo didattico cittadino (un appalto da 3,2 milioni). Erano tempi migliori, la Cooper dal 2009 al 2011 ha perso più del 30 per cento dei ricavi, passando da 550 mila euro a 345 mila. Pasquale in tutto questo tiene un profilo bassissimo. Per anni è stato più facile incrociarlo ai giardinetti con il figlio, che con la consorte sul corso. Snello, testa lucida, giacche ben tagliate e occhiali da vista, l’architetto ha recentemente sostituito la troppo vistosa berlina della moglie con una utilitaria. Come casa di famiglia 12 vani (cinque ereditati dal suocero Damiano, ex poliziotto e ferroviere) in un anonimo condominio, a cui vanno aggiunte una casetta alla periferia di Firenze e diverse proprietà in Calabria. Nel suo patrimonio personale anche investimenti in titoli per centinaia di migliaia di euro. Un tenore di vita da medio professionista, quale risulta essere. Passioni, quelle per la finanza e l’architettura, trasmesse al figlio Carlo, 24enne allevato in Bocconi, stage tra New York (Cucinelli) e il Brasile, per 6 mesi membro dello staff del direttore generale dell’Unicredit Roberto Nicastro. Sul suo profilo Twitter il ragazzo tifa Pd, boccia Michele Santoro per l’ospitata di Silvio Berlusconi e si complimenta con la senatrice Anna Finocchiaro (ex compagna di stanza della madre a Roma) «per il bel risultato alle primarie». Consultazioni in cui Lorenzetti ha corso per interposto candidato sponsorizzando in provincia di Perugia un giovane assessore di Foligno, Joseph Flagiello. Ma il giovanotto, non certo sorretto dal nome, è scivolato malinconicamente in fondo alla classifica, settimo su sette. Per qualcuno la rappresentazione plastica del declino dell’ultima zarina di Foligno.
CASTA. AFFARI DI FAMIGLIA. L’ATENEO: ROBA NOSTRA!
L'ateneo, un affare di famiglia, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Padri, mogli, figli. A Perugia, nella facoltà di medicina e all'ospedale, i cognomi che contano sono sempre gli stessi. Mentre le immatricolazioni degli studenti sono in caduta libera e la valutazione dei risultati accademici è tra le più basse in Italia. Che non si osi parlare di parentopoli. Nell'ateneo di Perugia, e in particolare nella facoltà di medicina, nessuno vuole sentire questa parola. Eppure, tra i dipartimenti dell'università e tra i reparti dell'ospedale del capoluogo umbro, i nomi che si ritrovano sono sempre gli stessi. Una valanga di mogli, mariti, zii, figli. Tutti insieme appassionatamente. "Beh - ci dice il preside di facoltà, il professore Luciano Binaglia - in una cittadina come Perugia se il figlio di un dottore decide di intraprendere la carriera medica è più che normale ritrovarli nella stessa struttura ospedaliera. Il problema quello vero è andare a vedere come si sono svolti i concorsi. Se uno è meritevole è giusto stia lì". Lettura impeccabile, ci mancherebbe. Alcuni casi, però, lasciano più di un dubbio, specie se moglie, marito e figlia poi li ritroviamo nello stesso reparto e nello stesso dipartimento. L'ordinario di gastroenterologia Antonio Morelli, per dirne una, lavora ormai da anni fianco a fianco con la moglie, Monia Baldoni, e con la figlia, Olivia Morelli. Entrambe ricercatrici. Entrambe nello stesso dipartimento di papà e consorte. E come se non bastasse le ritroviamo entrambe anche nell'equipe medica proprio del reparto di gastroenterologia dell'Ospedale di Perugia, il cui primario - indovinate un po' - è ancora lui, Antonio Morelli. Altra medaglia al merito: come rivelato già da L'Espresso, Morelli, su cui pende già una condanna in via definitiva, è ora rinviato a giudizio per truffa a danno proprio dell'Azienda Ospedaliera. Secondo l'accusa avrebbe "dirottato" pazienti dalla struttura pubblica a quella privata dell'Ars Medica, di proprietà proprio della moglie Monia Baldoni. Ma andiamo avanti. Già, perché basta spostarsi di poco per leggere altre situazioni simili. Come quella dei Mannarino. Elmo, infatti, è professore ordinario e primario del reparto di medicina interna dell'ospedale. Proprio lo stesso reparto dove ha trovato occupazione un altro Mannarino, Massimo Raffaele, che è anche ricercatore nel dipartimento di medicina clinica e sperimentale. Lo stesso - manco a dirlo - dove Elmo è ordinario. Che dire, poi, della famiglia Donato. Calabrese proprio come Morelli e come Mannarino, Rosario Francesco è professore ordinario di anatomia umana. Ebbene, nello stesso dipartimento lavorava anche la consorte, Ileana Giambanco. Il figlio Giulio, invece, è titolare di un assegno di ricerca proprio nel reparto di gastroenterologia della famiglia Morelli. Ma di coniugi, d'altronde, ne troviamo a gogò. Lanfranco Corazzi, professore ordinario, condivide vita e ricerca con Rita Roberti, professoressa associata: entrambi docenti di biochimica, entrambi nel dipartimento di medicina interna. E anche spostandosi di uffici la situazione non cambia: Paolo Puccetti, ordinario di farmacologia al dipartimento di medicina sperimentale e scienze biochimiche, lavora fianco a fianco con la consorte Luigina Romani, ordinaria di patologia generale. Curiosità: la Romani è finita sotto processo perché, secondo l'accusa, avrebbe alterato un concorso da ricercatore favorendo una persona di suo gradimento. Eppure pare proprio che questi legami parentali non facciano più di tanto scalpore. Secondo il professor Puccetti "non ci sono casi eclatanti che possono far parlare a Perugia di quello che tecnicamente è noto come 'nepotismo'. Sicuramente ci possono essere letture che potrebbero far pensare a una sorta di consociativismo". Ecco, 'consociativismo'. Nulla più. E poi, continua il docente, "è una cosa comune a tutto l'ambiente universitario che io conosco. Universitario ed extrauniversitario. Ci sono anche ciabattini figli di ciabattini, voglio dire". "Non bisogna dimenticare - chiosa Puccetti - che spesso in alcune famiglie si tramanda un amore per la medicina". Tanto basterebbe a giustificare il tutto. Ma dev'essere stato un "amore" ai limiti dell'impossibile vista la mole di parenti che lavorano "core a core" nell'università e che godono anche di una convenzione con il Servizio Sanitario Regionale. Come non sono pochi, peraltro, i figli e nipoti di ex primari oggi in pensione. Insomma, anche la sfilza delle seconde generazioni è decisamente lunga. Quello che ne esce è una rete incredibile. Carlo Cagini, per dire, è professore associato presso l'ateneo ma anche primario del reparto di clinica oculistica, lo stesso reparto dove tra gli altri lavora Tito Fiore, il quale è anche ricercatore universitario e, soprattutto, è figlio di Cesare, ex primario ed ex ordinario proprio di oculistica. Il fratello di Carlo, Lucio Cagini, oltre ad essere anche lui ricercatore, è membro dell'equipe medica di chirurgia toracica e componente del cda universitario. Nello stesso reparto lavora, come dirigente di prima fascia, anche Niccolò Daddi, figlio dell'ex professore Giuliano che, manco a dirlo, era primario dello stesso reparto. E che dire, ancora, dei fratelli Gerli, Roberto (ordinario) e Sandro (ricercatore), il primo responsabile della struttura semplice di reumatologia, il secondo dirigente di seconda fascia della clinica ostetrica e ginecologica. Nello stesso dipartimento di Roberto Gerli, lavorano come associata anche Laura Pasqualucci, il cui cugino, Alberto, è ordinario di anestesiologia, ed Enrico Velardi, ricercatore e figlio di Andrea, ordinario in malattie del sangue. Basta incrociare i nomi, dunque, per capire come, spesso, ruoli apicali spettino a persone della stessa famiglia. Anche quando padre, marito o zio è andato in pensione. E così, se ad esempio l'ex preside Adolfo Puxeddu ha appeso il camice al chiodo (ma resta comunque professore emerito), il figlio Efisio è ricercatore in medicina interna oltre a lavorare anche lui in ospedale, nel reparto di medicina endocrinologica. Situazione analoga a quella dei Martelli: l'ex ordinario Massimo è oggi emerito, mentre la figlia, Maria Paola, è ricercatrice e dirigente di ematologia. E ancora Giuseppe Rinonapoli: professore associato e membro dell'equipe medica di ortopedia, lo stesso reparto dove lavorava, da ordinario, il padre Emanuele. Insomma, quella perugina sembrerebbe una realtà del tutto naturale, visti i numerosi i casi. Se infatti Renato Palumbo, ex primario di medicina nucleare, è andato in pensione, oggi nell'equipe medica dello stesso reparto ritroviamo la figlia Barbara nelle vesti di dirigente di prima fascia, mentre Isabella, la seconda, lo è di radioterapia oncologica. Entrambe, ovviamente, anche ricercatrici universitarie. Che sia una realtà che va avanti da tempo, lo capiamo colloquiando telefonicamente con il preside Binaglia, il quale, alla nostra domanda, argomenta: "guardi, non penso che le malversazioni siano poi così diffuse". E poi aggiunge: "Noi peraltro abbiamo una regola - non solo noi ma proprio tutto il sistema universitario - per la quale non possono lavorare nello stesso dipartimento persone fino al quarto grado di parentela". Ebbene, il silenzio del professore che segue alle nostre osservazioni sui tanti casi della facoltà che tradiscono tale "regola" è più eloquente di mille parole. "Eh... ahimè sì... ma è una situazione che ho trovato. Non potevo mica licenziarli?". Una situazione surreale, dunque. Che si è acuita, dicono i ben informati, sotto la lunga gestione del rettore Francesco Bistoni, non a caso anche lui proveniente proprio dalla facoltà di medicina (di cui è stato anche preside dal 1987 al 1994). Ben quattordici anni di mandato per lui. Era il 1999, infatti, quando divenne numero uno dell'università di Perugia. E da allora è riuscito a prolungare fino all'inverosimile la sua presenza sullo scranno più alto dell'ateneo (scranno da circa 196 mila euro annui. Qualcosa come 16 mila euro al mese). Surreali anche le proroghe ottenute per arrivare ad essere uno dei rettori più longevi d'Italia. Lo statuto accademico che vigeva nel '99 prevedeva un mandato di tre anni con una sola proroga. Insomma, Bistoni avrebbe potuto collezionare sei anni di rettorato se tutto fosse rimasto invariato. Peccato però che durante il primo mandato il regolamento interno cambia: gli anni diventano quattro. Ergo: strada spianata per Bistoni fino al 2007. A questo punto, però, il rettore riesce nuovamente a cambiare lo statuto con l'inserimento di una norma ad personam: ulteriore elezione giustificata dal fatto che, poiché l'anno dopo si sarebbe tenuto il 700centesimo anniversario dell'ateneo perugino, era necessario garantire continuità per l'organizzazione delle celebrazioni. Arriviamo così al 2011. Ma non è finita: interviene un'ulteriore proroga in virtù di un comma della riforma Gelmini, che prevedeva che i rettori in carica al momento dell'adozione dei nuovi statuti (previsti appunto dalla riforma) potessero restare per altri dodici mesi. Una norma di transizione per accompagnare il passaggio dal vecchio al nuovo. Peccato però che una parte dei rettori (tra cui, guarda caso, anche Bistoni) la interpretano in modo estensivo agganciando alla prima proroga, dal 2011 al 2012, una seconda aggiuntina, di un altro anno. Risultato: per l'immortale rettore perugino lo scranno è rimasto saldo. Risultato? I quattordici anni di Bistoni - che si concluderanno, nel caos più totale, tra poco più di un mese con l'elezione del nuovo rettore - hanno portato l'ateneo umbro ad uno scadimento progressivo della qualità della ricerca e dell' insegnamento. Almeno questo è quello che sembra andando a leggere l'ultima valutazione dell'Anvur (luglio 2013): l'ateneo umbro si è piazzato 21esimo sui 32 grandi atenei complessivi, con poche punte di eccellenza e ripercussioni negative sui fondi ministeriali (che peraltro, come se non bastasse, verranno congelati visto che l'università perugina sarà l'ultima a recepire la riforma Gelmini). Avremmo voluto parlarne direttamente con Bistoni. Ma "in questo periodo è praticamente impossibile", ci dicono dal rettorato. Peccato. E gli studenti? Questi, come indica il crollo delle iscrizioni (meno 30% in 8 anni), stanno ormai scomparendo. Ma i professori, quelli no. Restano. Soprattutto se sei "figlio di".
La scalata al Rettorato si fa via Tar, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Dopo 14 anni di "regno", Francesco Bistoni lascia il posto di comando all'università di Perugia. Sulla successione è buio fitto. Tra rinvii, ricorsi, proroghe ed esclusioni eccellenti. L'università degli studi di Perugia è Francesco Bistoni. Lo è stata, perlomeno, per ben quattordici anni. Incredibile a dirsi, ma tanto è durato il suo rettorato. Fin dal 1999. Uno dei mandati più lunghi d'Italia. Meglio di lui, forse, è riuscito a fare solo Giovanni Cannata dell'università del Molise, andato in pensione quest'anno dopo essere stato rettore addirittura dal 1995, anno di nascita dello stesso ateneo. Eppure, all'indomani del baronato a firma Bistoni, le acque non sono affatto tranquille. Quello che è accaduto e che sta accadendo a Perugia ha dell'unico. Dell'incredibile. Le elezioni del nuovo rettore, previste nel mese di giugno, sono infatti state rimandate, a suon di ricorsi al Tar, ad ottobre. Fa niente se quello perugino sarà l'ultimo ateneo a recepire la riforma Gelmini con il conseguente congelamento dei fondi pubblici destinati all'università (come ci confermano dal ministero). Un problema non da poco considerando che i rubinetti non siano poi così aperti. Ma torniamo ai fatti. Perché questo disastro? Colpa, dicevamo, di alcuni ricorsi al Tar - presentati da diverse associazioni a cominciare da quella di area Pd dell'Udu (Unione degli Universitari) - per via (anche) di un regolamento decisamente caotico e confuso. "Diverse erano le criticità - ci dicono - si passava da un regolamento che aveva un punto, com'era nel vecchio regolamento, a uno che ne aveva più di 45. I criteri non erano assolutamente chiari, non erano tesi a permettere una forte partecipazione attiva degli studenti". Per dirne una: per la presentazione di ogni singola lista erano necessarie cinquanta firme. Un numero elevatissimo se si pensa che ci sono anche dipartimenti molto piccoli dove gli iscritti sono anche solo 180. "Una percentuale che a livello giuridico non esiste da nessuna parte", commenta Tiziano Scricciolo, segretario dell'Udu perugino. Per questi ed altri motivi (alcune liste, nonostante fossero state ammesse "senza colpo ferire" dalla commissione elettorale dell'ateneo, avrebbero consegnato i plichi ben oltre i termini previsti. Anche ore dopo) il Tar ha riammesso le associazioni studentesche alla corsa elettorale. Non è stato questo, però, l'unico ricorso presentato. All'inizio di agosto, infatti, ancora il Tar di Perugia ha riammesso la candidatura del professore Mauro Volpi (ex componente laico del Csm), il quale era stato escluso dalla commissione elettorale per la corsa al rettorato per sopraggiunti limiti di età. Il giudizio di merito, infatti, resta sospeso perché il Tar ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità relativa all'articolo 2 comma 11 della legge Gelmini che non consente a Volpi di partecipare alle elezioni per difetto del requisito previsto per l'elettorato passivo, ossia "assicurare un numero di anni di servizio pari almeno alla durata del mandato prima del collocamento a riposo". Il fatto è che Volpi ha 65 anni e il mandato da rettore ne dura sei, mentre la legge Gelmini mette fuori dell'università gli ultrasettantenni. La questione non è affatto di poco conto: nel caso in cui Volpi venisse eletto e la Consulta dovesse nel frattempo stabilire che l'articolo 2 non è incostituzionale, chiunque potrebbe presentare un ulteriore ricorso e si dovrebbe tornare al voto nel giro di uno o due anni. Un disastro completo, insomma. E i paradossi non finiscono qui. Un'altra delle conseguenze dei vari pronunciamenti del Tar è che le matricole non potranno partecipare al voto. Il motivo? I giudici amministrativi hanno di fatto congelato le elezioni e hanno disposto che proprio da quelle si dovrà ripartire. Ergo: gli aventi diritto saranno gli stessi che lo erano a giugno 2012. E, dunque, matricole fuori mentre - paradosso dei paradossi - anche coloro che nel frattempo si sono laureati potranno partecipare al voto, sebbene ora fuori dall'università. Una situazione che definire assurda è poco. Ma ecco la ciliegina sulla torta: viste le tante stranezze di queste elezioni, se qualcuno dovesse, all'indomani del voto, decidere di ricorrere nuovamente al Tar e questo dovesse dargli ragione, la strada che potrebbe aprirsi sarebbe quella del commissariamento. E quale nome sarebbe il più indicato se non quello di Francesco Bistoni vista l'esperienza maturata? Non c'è dubbio che il magnifico accetterà. Per il bene dell'ateneo, certo. Ma anche per arrotondare a cifra tonda i suoi anni di rettorato. Ipotesi remota, forse. Ma che, come ci confermano in tanti, rimane in piedi.
Perugia, ma che strano primario, scrive Carmine Gazzanni e Maurizio Bongioanni su “L’Espresso”. Condannato per corruzione nel 2003, Antonio Morelli è rimasto al vertice dell'ospedale. Ora è alla sbarra per truffa: avrebbe dirottato i pazienti dal nosocomio pubblico all'ambulatorio privato della moglie. Che insegna nella sua stessa facoltà. Dalla condanna per corruzione al processo per truffa, passando dagli affari di pastasciutta a programmi Rai con sponsorizzazioni sospette. Senza mai perdere la cattedra, né l'incarico nella sanità pubblica. Antonio Morelli è uno che conta a Perugia: ordinario all'Università di Medicina e primario di gastroenterologia all'ospedale cittadino. Che la sua carriera sia andata a gonfie vele anche per i rapporti che è riuscito a stringere, sembrerebbe un dato di fatto. A cominciare da quelli col rettore Francesco Bistoni, il quale non l'ha scalzato dalla sua posizione universitaria, nonostante una condanna definitiva per corruzione nel 2003. In quel caso Morelli aveva chiesto a un paziente il pagamento di un referto istologico benché ci si trovasse in una struttura ospedaliera pubblica. Il paziente aveva pagato: subito dopo però si era recato in Procura per presentare un esposto. Da qui, indagini e relativa condanna a 2 mesi di reclusione. Nonostante questo, Morelli è rimasto al suo posto. Sia nell'azienda ospedaliera, sia nell'ateneo. Dove nel frattempo ha trovato incarichi anche la famiglia. Sarà semplicemente un caso, ma spulciando tra l'equipe medica ospedaliera del primario, compaiono i nomi della moglie di secondo letto, Monia Baldoni, e quello della figlia, Olivia. Le due familiari, come se non bastasse, lavorano pure nel dipartimento universitario diretto da Morelli stesso: ricercatrici entrambe, la figlia dal 1999, la moglie dal 2007. Ora però, accanto alla condanna definitiva, spunta una nuova tegola per Morelli. Il prossimo 4 luglio ci sarà la prima udienza del processo dove è rinviato a giudizio per truffa a danno dell'Azienda Ospedaliera. Le indagini, durate ben cinque anni e condotte dal pm Giuseppe Petrazzini, sono nate nel 2007 quando vengono presentate alle forze dell'ordine diverse denunce da pazienti che erano stati "dirottati" dalla struttura pubblica all'ambulatorio privato Ars Medica srl, la cui titolare, formalmente, risulterebbe essere tale Gioia Pia. Secondo l'accusa, però, Pia altro non sarebbe che un prestanome, cosa accertata dal pubblico ministero Petrazzini attraverso un fitto lavoro di indagini su conti bancari (la perizia messa agli atti testimonia giri di soldi da oltre 4 milioni di euro) e società private. L'illecito sarebbe dimostrato anche dalla visura camerale dell'ambulatorio: la proprietà dell'azienda privata è infatti riconducibile totalmente alla moglie del professore Monia Baldoni. Secondo l'imputazione, diversi pazienti recatisi in ospedale per un'operazione o per un'analisi, sarebbero appunto stati convinti a rivolgersi all'ambulatorio privato. Il primario, sfruttando la sua posizione, avrebbe avuto gioco facile nel dirottare pazienti dalla struttura pubblica a quella di famiglia. Il tutto, ovviamente, facendo pagare ai malcapitati cifre decisamente elevate per ottenere prestazioni che avrebbero invece potuto ricevere semplicemente pagando il ticket sanitario. Ma la cerchia del professore avrebbe messo affari ancora più consistenti. E' notizia di poche settimane fa: Alessandro Di Pietro, giornalista Rai, è stato sollevato dal suo contratto in Rai per aver parlato troppo bene (in ben tre puntate) di una pastasciutta per diabetici, la Aliveris. Ebbene, nella società produttrice Aliveris spiccano i nomi di diverse persone che lavorano nell'ateneo perugino, tutte a stretto contatto con Morelli, alcune delle quali poi si intrecciano anche con la Ars Medica. Non solo: il professore Morelli stesso è stato titolare della Aliveris tramite fiduciaria (la Fidam), prima di cedere la quota, attraverso prestanome, alla moglie Baldoni. Quel che si dice, letteralmente, avere le mani in pasta.
INGIUSTIZIA A PERUGIA. Il Caso Meredith Kercher.
«Ho incastrato io Amanda Knox». Parla il super testimone: «Condanna giusta», scrive Luigi Foglietti su “Il Messagero”. «Per me, sentenza giusta». Non ha dubbi Marco Quintavalle, il testimone chiave del processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito dopo il verdetto che rimanda in carcere i due ormai ex fidanzatini. Accusati di aver ucciso la notte tra il primo ed il 2 novembre 2007 Meredith Kercher, l'inglesina che aveva preso alloggio in via della Pergola. Fu lui a raccontare di aver visto Amanda la mattina del delitto, mentre lei disse di essere a dormire con Sollecito. «Ma la pena è troppo severa - aggiunge -, perché due giovani come loro hanno diritto ad essere assistiti per avere una possibilità di recupero». Marco Quintavalle, oggi cinquantacinquenne, testimone chiave al processo Kercher, fece la sua deposizione, ritenuta determinante, sabato 21 marzo del 2009 quando si celebrava il primo grado di giudizio. Poi non è stato più chiamato alla sbarra, sia nel primo appello né ora nel rinvio della Cassazione al secondo svoltosi a Firenze.
Sempre fermo nelle sue convinzioni?
«Se mi chiamassero ancora a testimoniare direi le stesse cose perché quella è la verità. Sono abituato a giudicare una persona per i fatti, quindi se Amanda dice che quella mattina dormiva, invece stava aspettando che aprissi il negozio, dice una bugia, poi quello che ha fatto prima e dopo io non lo so».
Quindi mai dubbi?
«Qualcuno ha tentato di farmi cambiare versione, addirittura un giornalista inglese, che stava tra gli innocentisti, mi ha accusato di essere un bugiardo, quando venne da me ad intervistarmi nel mio negozio, insieme ad una amica di Amanda che cercava di farmi dire che mi ero sbagliato. Mi chiedeva con insistenza se ero certo che nella vita non si può sbagliare, le risposi che ovviamente è possibile, ma in quella occasione ero sicuro del contrario».
Essere tacciato da bugiardo le ha pesato?
«Molto, anche gli avvocati della difesa hanno detto che sono inattendibile, ma sono nato al centro di Perugia, ci ho lavorato tanti anni, mi conoscono tantissime persone, amici e clienti, che sanno che invece sono molto affidabile».
Ma tornando al suo minimarket dove la mattina del 2 novembre è venuta Amanda?
«Certo, ma da marzo del 2009 non ce l'ho più ho ceduto l'attività ad un libico. Anche lì giornali e televisioni hanno detto tante cose sbagliate, ad esempio che avevo dichiarato che Amanda avesse acquistato saponi e detergenti. Io non l'ho mai detto, perché mentre sono sicuro che quella mattina lei fosse lì al momento dell’apertura, non posso dire che cosa avesse acquistato in quanto non stavo alla cassa e l'ho vista con il suo cappottino grigio, quello sì, di spalle mentre pagava».
E Sollecito veniva al market?
«Certo è venuto alcune volte, una addirittura in concomitanza con Rudy che acquistò una Coca Cola. Per me stavano insieme, ma non li ho visti parlare tra loro».
All’inizio della
indagine non si era presentato a dare la sua testimonianza, perché?
«Non sentivo la necessità di riferire che Amanda quella mattina era venuta da
me, quindi non poteva stare a casa di Raffaele, l'avevo detto solo ai miei
familiari, poi la cosa si è risaputa e mi hanno convinto ad andare in procura.
Certo, ho la coscienza a posto, ma la cosa per me ha avuto un costo altissimo
sotto tutti i punti di vista».
INGIUSTIZIA A PERUGIA (dall’omonimo Blog). Un tempo, un luogo, una o più persone, il dramma classico ha queste caratteristiche e anche la drammatica vicenda cui questo sito è dedicato rispetta queste regole: il tempo è il 1 novembre 2007, un giorno emblematico in Italia, Ognissanti, generalmente associato al culto dei defunti, assieme al 2 novembre, giorno anche esso chiave in questa storia; il luogo è una villetta o cottage ai bordi del centro di Perugia, in una strada dal nome apparentemente rassicurante, Via della Pergola e le persone sono quelle che conosceremo ora. La vittima, innanzitutto, la quasi ventiduenne studentessa inglese Meredith Kercher, a Perugia per motivi di studio nell’ambito del programma Erasmus, poi un’altra studentessa, la ventenne americana Amanda Knox, anche lei studentessa in trasferta per motivi di studio dalla lontana Seattle, infine due ragazzi, il ventitreenne Raffaele Sollecito, nativo della Puglia ma studente pure lui a Perugia e il prossimo ventunenne Rudy Guede, nato in Costa d’Avorio ma arrivato in Italia a sei anni e oramai perugino d’adozione. Ovviamente ci sono altri personaggi, molti altri: coinquiline, ragazzi del piano di sotto, amici vari, il proprietario di un pub, poliziotti, magistrati, testimoni, periti, un sacco di gente, come sempre succede in vicende di questo tipo, particolarmente in quelle che catturano l’attenzione del grande pubblico, ancora di più quando questo pubblico è internazionale. Ma al centro della storia ci sono loro: la vittima e le persone accusate di averla uccisa. Rudy Guede è già stato condannato in via definitiva a 16 anni, mentre per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, oramai popolarmente noti come Amanda e Raffaele, è tuttora in corso un’altalena giudiziaria: condannati in primo grado, assolti in appello e ora rinviati a nuovo processo dalla Cassazione. Ma come in ogni tragedia classica c’è almeno un atto che precede l’evento di sangue, anche in questa storia ci sono dei fili che si devono intrecciare prima del dramma e, diversamente da una tragedia greca, qui tutto inizia con i toni di una commedia. Amanda e Meredith si conoscono intorno al 20 settembre in Via della Pergola: Amanda torna dalla Germania dove era andata dopo un primo passaggio a Perugia, durante il quale aveva affittato una stanza nella villetta di Via della Pergola e vi trova la giovane inglese ora sua coinquilina, assieme a due italiane, Laura Mezzetti e Filomena Romanelli. I rapporti tra le due ragazze sono buoni, dopotutto hanno circa la stessa età e parlano la stessa lingua, oltre a dormire in stanze contigue, perché qualcosa non dovrebbe andare? Certo, con Meredith morta e Amanda sul banco degli imputati si scatenerà di tutto: da quelli che faranno di questioni di scarichi idraulici un movente per l’omicidio, a quelli che vedranno il movente nell’abitudine di Amanda di mettersi a cantare a squarciagola nelle situazioni più impensate. E in mezzo una buona dose di pruriginosi scenari a sfondo sessuale, che fanno sempre bene alle vendite dei giornali e all’audience televisiva. Nonostante tutto questo però nessun testimone credibile ha mai potuto citare una sola evenienza di uno scontro anche solo verbale tra le due ragazze, fino all’ultimo giorno della vita di Meredith. Raffaele entra in scena una settimana prima della morte di Meredith: lui e Amanda si incontrano ad un concerto di musica classica e tra i due nasce immediatamente un’intesa che li porta ad essere inseparabili nei giorni successivi. Tra l’altro occorre notare che la coppia appena formata passerà insieme tutte le notti, ma sempre nell’alloggio di Raffaele, un dettaglio da considerare nel contesto di quello che sarà poi l’impianto accusatorio contro di loro. Rudy Guede in verità nella scena ci è entrato anche prima di Raffaele, ma molto tangenzialmente: è infatti amico dei ragazzi che vivono nell’appartamento sotto quello delle quattro ragazze, i ragazzi del piano di sotto di molte descrizioni, e una sera ha l’occasione di fare brevemente la conoscenza di entrambe le ragazze (Meredith e Amanda) proprio al piano di sotto. Pare accertato che abbia poi incrociato, in qualità di cliente, Amanda nel pub Le Chic dove lei lavorava part-time, oltre a questo non risulta nessun altro legame o contatto dimostrato né con la vittima né con gli altri imputati. Ora che il preambolo è terminato, possiamo analizzare come la commedia diventi tragedia.
Morte a Perugia.
Dato che da questo momento in poi ogni minimo dettaglio, ogni minimo racconto, verbale o scritto, è stato sviscerato, analizzato e vi si sono cercate contraddizioni che qualcuno ha creduto anche di trovare, il resoconto che faremo non potrà che essere succinto e lasciare ad altri articoli il compito di analizzare in dettaglio particolari aspetti della vicenda. In questa introduzione seguiremo principalmente il racconto di Amanda e Raffaele. La mattina del 2 novembre 2007 Amanda si alza abbastanza tardi, intorno alle 10 e va al villino di Via della Pergola per fare una doccia e cambiarsi d’abito prima di partire per una programmata gita a Gubbio insieme a Raffaele. Ci sono alcune anomalie: la porta esterna aperta (ma era difettosa), alcune piccole macchie di sangue nel bagno e una più significativa ma slavata sul tappetino del bagno (notata però solo dopo aver fatto la doccia), tuttavia Amanda non si preoccupa veramente finché non scopre che qualcuno ha defecato nell’altro bagno, quello comunemente usato dalle coinquiline italiane, senza tirare l’acqua. Lascia precipitosamente il cottage per tornare a casa di Raffaele, nel mentre cercando di contattare senza successo Meredith per poi riuscire a parlare con Filomena che le consiglia di tornare alla villa con Raffaele per verificare cosa è successo. Quando i due tornano in Via della Pergola iniziano ad esplorare l’alloggio e scoprono che la finestra della camera di Filomena è stata rotta da un grosso sasso e che tutto in essa è sottosopra. Dopo qualche tentativo di capire se Meredith è nella sua stanza e qualche altra telefonata con Filomena, Raffaele chiama i Carabinieri che dicono che invieranno una pattuglia. La coppia esce pertanto fuori dal villino, ad attenderli. Al loro posto arrivano invece due agenti della Polizia Postale, che sono venuti a riconsegnare un telefono intestato a Filomena Romanelli (ma in realtà in uso a Meredith Kercher) che è stato ritrovato quella mattina nel giardino di una villa a non molta distanza da Via della Pergola. Amanda e Raffaele li invitano ad entrare per verificare lo stato dell’alloggio e della stanza di Filomena, la quale poco dopo arriva e manifesta una certa agitazione, mentre gli agenti della Postale manifestano molta più tranquillità ed uno dei due cerca di calmarla con una battuta che probabilmente si ricorderà finché vive: “non preoccuparti, non c’è mica un morto sotto il divano”. Su chi fosse preoccupato, quanto, perché e se avrebbe dovuto esserlo o meno si è imbastita un’incredibile sofistica querelle piena di analisi su come Amanda (in particolare) avrebbe o non avrebbe dovuto reagire, su cosa avrebbe o non avrebbe dovuto dire e soprattutto l’esegesi della differenza di opinioni tra lei e Filomena sulla frequenza con cui Meredith chiudeva la porta della sua stanza è diventata un autentico leit-motiv colpevolista. Ma tant’ è: ogni parola, gesto, atto della giovane coppia e particolarmente di Amanda in questa mattinata e nei giorni seguenti verrà interpretato in chiave accusatoria costruendo incredibili castelli di carte interpretativi sulle più misere basi fattuali. E’ il prodotto di quella che si chiama cultura del sospetto. Ma torniamo agli eventi di quella mattina: Filomena insiste con l'amico del suo ragazzo, contro il parere opposto degli agenti della Postale, finché questi con una serie di calci ben assestati sfonda la porta della stanza di Meredith e si ha la scoperta del cadavere. Un altro elemento contro Amanda, ancora ribadito dalla motivazione della Cassazione, in piena, diciamo pure letterale, sintonia con il ricorso della Procura, sarebbe costituito dai dettagli della scena del crimine che l’americana avrebbe mostrato di conoscere parlando con le amiche inglesi di Meredith in Questura e che secondo la pubblica accusa lei non poteva conoscere se innocente perché non poteva averli visti all’atto dello sfondamento della porta e del ritrovamento del cadavere, essendo troppo lontana. Ora, a parte che i “dettagli” raccontati da Amanda sono alquanto confusi e chiaramente dimostrano di essere il prodotto di sentito dire, dovrebbe apparire evidente a delle brillanti menti legali che se si lascia qualcuno un’ora a parlare fuori dalla scena del delitto con chi i dettagli li ha visti (Luca Altieri che aveva sfondato la porta, ma anche i paramedici), non si può poi pretendere di vedere nel suo racconto elementi autoincriminanti che magari invece vi si sarebbero potuti vedere se tutti i presenti fossero immediatamente stati isolati gli uni dagli altri e interrogati. Interrogatori, ovvero assunzioni di sommarie informazioni, perché sembra che la parola “interrogatorio” non piaccia molto alla pubblica accusa, ce ne saranno in abbondanza nei giorni successivi, fino a quello fondamentale e altamente controverso della notte tra il 5 e il 6 novembre. Qui vogliamo far notare soprattutto due cose: la prima è che Amanda verrà costantemente interrogata (ci perdoni la Procura ma è un termine più facile da usare) per parecchie ore al giorno dal 2 al 4 novembre, mentre Raffaele dopo il 2 novembre verrà lasciato in pace fino al 5, è importante e ci torneremo sopra; la seconda è che progressivamente il cerchio si stringe su Amanda e Raffaele, non solo i loro telefoni sono intercettati, ma si effettua un’intercettazione ambientale ad hoc in Questura il 4 novembre e secondo quanto scritto da un giornalista locale, quello è lo stesso giorno in cui iniziano a girare voci che gli inquirenti “non ci vedrebbero chiaro nel ruolo di Amanda e Raffaele”. Inoltre la Polizia propende quasi subito per ritenere che l’effrazione attraverso la finestra della camera della Romanelli sia in realtà una simulazione, e poiché il loro ragionamento è che ha interesse a simulare un’effrazione solo chi, avendo le chiavi, vuole stornare da sé i sospetti, dato che delle quattro persone aventi le chiavi una è la vittima e le due italiane hanno alibi confermati da più persone, chi resta con il cerino in mano? Tutto ciò è importante, perché secondo la pubblica accusa (ma anche molti dei giudici che sono intervenuti nei vari gradi di giudizio sono riusciti a non vederci niente di strano) Amanda e Raffaele arrivano alla fatidica notte tra il 5 e il 6 novembre come persone informate dei fatti, che possono essere interrogate (o quell’altra cosa sulle sommarie informazioni) senza che s’imponga la presenza di un avvocato. Una bella differenza …Ma davvero Amanda e Raffaele la sera del 5 novembre vanno in Questura come semplici persone informate sui fatti? Il fronte colpevolista, oltre a rispondere ovviamente sì, fa anche notare che in realtà Amanda nessuno l’ha chiamata per andare in Questura quella sera, che il convocato era il solo Raffaele e che lei si è aggregata spontaneamente (o addirittura per controllare lui, secondo qualcuno). Ecco appunto, la Polizia vuole sentire il solo Raffaele, dopo averlo ignorato per più giorni e per di più alle dieci di sera. Perché è così fondamentale sentire così urgentemente una semplice persona informata sui fatti, oltretutto in un contesto in cui non c’erano state nuove eclatanti evoluzioni (nessun secondo omicidio di un potenziale serial killer, per esempio)? Già, chissà perché…Comunque il fatto è che quella sera verso le 22.30 -23 inizia un interrogatorio parallelo, in stanze separate, per Amanda e Raffaele, le cui conseguenze, oltre a portarli immediatamente in carcere, continuano a segnare ancora oggi la vicenda giudiziaria. Amanda firmerà due “spontanee dichiarazioni”, una alle ore 1.45 e l’altra alle ore 4.45 del 6 novembre, entrambe verranno poi dichiarate inammissibili, almeno nel contesto del processo per omicidio, dalla Corte di Cassazione. Che cos’è realmente successo durante tutte quelle ore di interrogatorio, di cui non esiste alcuna registrazione? La testimonianza dell’interprete Anna Donnino parla di un’Amanda che di punto in bianco e senza aver subito sollecitazione alcuna si mette ad accusare il suo datore di lavoro Patrick Lumumba (il proprietario del pub Le Chic presso il quale lavorava due sere la settimana come cameriera) non appena le viene mostrato un SMS che lei negava di avergli inviato. Il racconto di Amanda è un po’ diverso e parla di parecchie sollecitazioni e anche di qualcosa di più, tra minacce di trent’anni di galera, scappellotti e inviti a risvegliare i suoi “ricordi rimossi”. Il racconto di Raffaele è anch’esso pieno di urla, minacce, commenti non gentilissimi rivolti a lui ma ancora di più ad Amanda e anche qualche contatto fisico. Insomma, una notte da ricordare che i primi due gradi di giudizio valuteranno diversamente: tutto sommato ordinaria il primo, decisamente ai limiti del consentito il secondo. Alla fine persino la Cassazione, nel contesto di una motivazione chiaramente favorevole alla Procura, non potrà esimersi dal far cadere qua e là parole come “pressante richiesta di un nome da parte delle forze dell’ordine”, “smarrimento, amnesia, confusione”, “eccessi inquisitori”. Sembra proprio che di una tranquilla chiacchierata tra amici non si parli più. Il prodotto più evidente di quest’agitata nottata è che le versioni di Amanda e Raffaele cambiano (per la prima e unica volta) rispetto alle loro precedenti dichiarazioni, che li vedevano insieme a casa di Raffaele per tutta la notte del 1 novembre. Raffaele mette su una confusa ricostruzione, chiaramente improntata ai ricordi della serata precedente, quella di Halloween, in cui Amanda lascia l’appartamento abbastanza presto durante la serata e Amanda di suo ci mette un confuso (l’espressione “ricordo confusamente” appare esplicitamente nel verbale) racconto in cui incontra Patrick vicino al cottage e insieme vanno appunto al villino dove poi il congolese avrebbe ucciso Meredith mentre un’atterrita Amanda si copriva le orecchie in cucina per non sentire le urla. La presenza di Raffaele in quel contesto è ipotizzata in forma altamente dubitativa solo nel verbale delle 5.45. A questo punto la Polizia, presente il PM Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta, ha in mano delle dichiarazioni, appunto, confuse, nelle quali Lumumba apparirebbe come l’assassino (e in cui, incidentalmente, nemmeno si capisce bene che ruolo abbia Raffaele). Non sarebbe la prima volta nella storia delle indagini di polizia se a questo punto si volesse chiarire la posizione del congolese convocandolo discretamente in Questura per vedere per esempio se può fornire un alibi per la notte del delitto. Si preferisce invece arrestarlo all’alba a casa sua con un certo spiegamento di mezzi per poi sottoporlo ad un interrogatorio (o magari un’assunzione di sommarie informazioni) sulla cui intensità il racconto dello stesso Lumumba varierà nel tempo: prima ad un tabloid inglese racconterà di metodi non esattamente propri di uno stato democratico, per poi ritrattare tutto e dichiarare di essere stato trattato civilmente. Quello che appare piuttosto singolare è che quella stessa mattina, mentre in casa di Sollecito (che a prestar fede alle dichiarazioni di Amanda manco si capiva se era presente al delitto) vengono sequestrati tre coltelli, uno dei quali, il solo preso in mezzo ad altri tra l’utensileria da cucina, diventerà la supposta ed estremamente controversa arma del delitto, dalla casa di Lumumba, che (sempre secondo le dichiarazioni di Amanda, che in quel momento sono, ufficialmente, tutto quello che la polizia ha in mano) è l’autore materiale del crimine, non se ne preleva manco uno. Segue poi la famosa conferenza stampa del “caso chiuso”, nella quale viene un po’ prematuramente dichiarato che tutto è chiarito e che i responsabili sono stati individuati. Un po’ prematuramente perché ancora non sono arrivati i risultati delle indagini forensi sui reperti raccolti sul luogo del delitto e particolarmente nella stanza di Meredith. Quando questi arrivano scoppia la bomba: nella stanza non vi è traccia dei tre arrestati ma ve ne sono invece di un quarto individuo, che si scoprirà poi da un’impronta palmare essere Rudy Guede, al quale appartiene anche il DNA trovato sulla carta igienica nel water del bagno delle due coinquiline italiane. Inoltre un professore svizzero fornisce un alibi inoppugnabile a Lumumba, che a questo punto viene scarcerato ed esce dalle indagini, tranne che come parte lesa per il reato di calunnia da parte di Amanda Knox. Gli unici elementi seri a carico di Amanda e Raffaele a questo punto sono il famoso coltello, scelto, pare, per “intuizione investigativa”, sul quale la Polizia Scientifica ha rilevato (elemento controversissimo a tutt’oggi) una traccia quantitativamente molto esigua del DNA di Meredith sulla lama e una abbondante ma in sé poco significativa del DNA di Amanda sul manico e poi alcune impronte insanguinate di scarpe che vengono attribuite a Raffaele, mentre successivamente verrà appurato che sono di Guede. Per raccogliere altre prove la Polizia Scientifica effettuerà un ulteriore sopralluogo della scena del crimine il 18 dicembre 2007, a 46 giorni dal crimine, in un contesto di ampia alterazione della scena stessa, per via dei precedenti sopralluoghi, documentato in abbondanza da foto e filmati. E’ proprio durante questo sopralluogo che si “ritrova” il famoso gancetto del reggiseno di Meredith, fotografato il 2 novembre ma poi “perso di vista”, sul quale la Polizia Scientifica rileverà (e anche questo sarà elemento di controversia) il DNA di Raffaele e poi numerose impronte di piede nudo evidenziate dal luminol, due sole delle quali presentano un profilo genetico misto Amanda-Meredith. Incidentalmente, tutte queste impronte, che si vorrebbero di Amanda, sono al più compatibili dimensionalmente con il piede di Amanda ma o sono troppo indefinite per presentare elementi distintivi veramente utili ad un’identificazione o, nel caso di un’impronta più definita delle altre, presentano una morfologia chiaramente diversa da quella del corrispondente piede di Amanda. Infine, nessuna di queste impronte risulterà positiva al test della tetrametilbenzidina (TMB), un test particolarmente sensibile alla presenza del sangue.
I testimoni.
Nell’anno circa che passa tra l’arresto e il rinvio a giudizio di Amanda e Raffaele spunteranno (termine particolarmente appropriato) diversi testimoni a carico, la maggior parte di essi nella parte finale di quei dodici mesi. Due di essi, Kokomani e Gioffredi, gli unici che avrebbero attestato una frequentazione dei tre imputati antecedente il delitto e anzi addirittura nei giorni immediatamente precedenti ad esso, vengono ritenuti inattendibili per le molteplici contraddizioni in cui cadono in sede di esame. Oltre a loro però si presentano, in tempi più o meno lunghi e magari sotto lo sprone di un giornalista, un clochard, un proprietario di negozio, un’anziana signora dal buon udito e due più giovani signore anch’esse dotate di valide capacità uditive. Il clochard si chiamava (è deceduto nel 2012) Antonio “Toto” Curatolo e all’epoca del delitto viveva in Piazza Grimana, a breve distanza dal villino di Via della Pergola. Eroinomane per sua stessa ammissione e tuttavia già testimone in altri processi, Curatolo afferma di aver visto a più riprese la sera del 1 novembre Amanda e Raffaele proprio in Piazza Grimana tra le 9,30 e un orario mai veramente definito bene ma che potrebbe spaziare tra “dopo le 23” e “prima di mezzanotte”. Il proprietario di negozio, a nome Marco Quintavalle, afferma, ma solo dopo circa un anno con apparente sicurezza, che la mattina del 2 novembre 2007 una ragazza, che egli ritiene di riconoscere in Amanda Knox, entrò nel suo negozio alle 7.45 e si diresse nella zona dei prodotti per la pulizia, per poi uscire senza tuttavia aver effettuato, a memoria del Quintavalle (e del suo registratore di cassa) alcun acquisto, dirigendosi infine, una volta uscita, in direzione della vicina Piazza Grimana (e quindi, implicitamente, di Via della Pergola). Le prima testimone “uditiva” è l’anziana Nara Capezzali, la prima a dichiarare di aver udito, attraverso i doppi vetri chiusi di casa, in un intervallo di tempo piuttosto vagamente identificato come orientativamente intorno alle 23.30, un urlo straziante di donna proveniente dalla direzione del villino, direzione identificata grazie alla propria “buona conoscenza dei luoghi”. Dopo qualche minuto la signora Capezzali ritenne anche di aver udito, sempre attraverso le finestre chiuse, dei passi di corsa sulla scaletta di ferro vicina al parcheggio sottostante e poi anche sulla ghiaia e le foglie secche (!) del vialetto del villino. La seconda teste che ha, letteralmente, orecchiato qualcosa si chiama Antonella Monacchia e sente, anche essa in un orario vagamente compatibile nella sua indeterminatezza con quello della Capezzali, solo l’urlo ma non i passi di corsa. La terza infine delle tre ascoltatrici, Maria Ilaria Dramis, sempre in un orario che è più o meno compatibile con quello delle altre due, sente i passi di corsa ma non l’urlo. Questi sono i testimoni che conteranno davvero nel corso del procedimento giudiziario, almeno relativamente al delitto di omicidio. Ad essi si aggiungeranno, più che altro come testimoni a (cattiva) reputazione di Amanda Knox, le sue ex coinquiline italiane, le amiche inglesi di Meredith e tanto per gradire anche il proprietario di una boutique dove Amanda aveva comprato, il giorno successivo alla scoperta del delitto, un paio di mutande, per sfortuna sua non proprio castigatissime. Già, la reputazione di Amanda … in effetti al processo Amanda ci arriva con una reputazione già completamente fatta a pezzi, perché un anno è lungo e la stampa nel frattempo si è scatenata.
I media.
Non è una gran novità che i mezzi d’informazione, stampa, TV e oramai anche Internet, vengano attratti morbosamente da alcuni casi, che per un motivo o per l’altro diventano “celebri” (i casi Montesi e Fenaroli negli anni ’50 e ’60 attrassero più attenzione, in proporzione ai media di allora, dei casi degli ultimi anni) e perciò quando una somma di variabili non chiaramente definibili a priori si materializza, ecco che l’attenzione dei media si polarizza su quel caso e sui suoi personaggi. O su alcuni di essi. Il caso di Perugia aveva sin dall’inizio molti ingredienti per diventare “celebre”: protagonisti belli e giovani, torbidi elementi sessuali supposti sin dall’inizio, un’atmosfera internazionale. Non era forse del tutto prevedibile che l’attenzione si concentrasse in maniera pressoché esclusiva su di una sola persona, ovvero Amanda Knox. Forse sarebbe meglio dire che l’attenzione si concentrò su di un personaggio che di Amanda aveva il nome (e per i tabloid inglesi manco quello, visto che il soprannome “Foxy Knoxy” sostituì e ancora oggi in buona parte sostituisce, il vero nome dell’americana) e naturalmente le fattezze fisiche rappresentate in fotografia, ma la cui presunta personalità, la cui vita privata addirittura, erano più che altro il prodotto di fantasie elaborate ad arte per vendere più copie o avere più audience. In realtà pure questa non è una novità: succede spesso che i media creino i mostri (molto raro vedere posizioni apertamente innocentiste) e poi se li crescano come creature proprie, totalmente sganciate dal reale essere umano che dovrebbero rappresentare e di cui tuttavia portano il nome e l’immagine esteriore. Tuttavia in questo caso si sono aggiunti altri fattori: essendo la vittima inglese e la supposta assassina americana anche i media di questi due grandi paesi sono stati coinvolti, inizialmente più quelli inglesi in verità, creando un cortocircuito dove le illazioni di un tabloid d’oltremanica venivano gonfiate da un quotidiano italiano per poi essere riprese da un altro giornale o da una TV come base per la successiva sparata ancora più grossa. Tutto il sensazionalismo era chiaramente incentrato sulla sfera sessuale, per cui Amanda Knox diventava una mangiauomini in grado letteralmente di telecomandare due ragazzi come Guede e Sollecito nel compimento di un omicidio a sua volta a sfondo sessuale, per alcuni addirittura con elementi quasi da racconto a sfondo morale, visto che si arrivava a supporre una Meredith costretta a subire violenza sessuale poiché aveva criticato i facili costumi della coinquilina. Favole di dubbio gusto, semplici stupidaggini, tuttavia tutto questo battere e ribattere il tasto della prorompente, incontrollabile sessualità della Knox durante tutto un anno, dal novembre 2007 al novembre 2008, e poi ancora oltre, ben dentro il processo di primo grado, creò le condizioni necessarie affinché Amanda arrivasse al primo processo non solo con il marchio dell’assassina ma dell’assassina perversa. Tutto il mondo occidentale condivide più o meno le stesse mode e gli stessi stereotipi, tuttavia fa un po’ strano che un paese come l’Italia, centro della moda, della sofisticazione nel vestire, dove anche le ragazze ancora minorenni selezionano attentamente il proprio abbigliamento, curano il trucco e guardano con attenzione alla propria acconciatura, si sia potuto tranquillamente bere come prototipo della torbida e sofisticata dark lady una che riusciva ad accoppiare un paio di scarpe da hiking nere con una lunga gonna bianca.
Il processo di primo grado.
Dopo il rinvio a giudizio nel corso dell’udienza preliminare da parte del GUP MIcheli (contestualmente lo stesso GUP aveva condannato Guede a trent’anni) Amanda e Raffaele si trovano ad affrontare nel corso del 2009 il processo con rito ordinario di fronte alla corte presieduta da Giancarlo Massei. A rappresentare la pubblica accusa vi sono i PM Giuliano Mignini e Manuela Comodi. Il processo dura quasi un anno e finisce con la condanna a ventisei anni per Amanda (giudicata colpevole anche di calunnia nei confronti di Patrick Lumumba) e a venticinque per Raffaele. La motivazione del giudice Massei sostanzialmente accoglie più o meno tutti i punti dell’accusa, perlomeno per quello che riguarda l’attendibilità dei testimoni e la validità delle prove scientifiche e particolarmente di quelle riguardanti il DNA, per le quali la difesa aveva richiesto invano un riesame da parte di periti nominati dal tribunale. Alcuni elementi riguardanti appunto le prove scientifiche risultarono particolarmente controversi perché, per esempio, solo a processo in corso si scoprì che il DNA attribuito a Meredith Kercher e campionato sulla lama del famoso coltello, era di tipo Low Copy Number, cioè essenzialmente in quantità molto esigua e che richiede particolari cautele per il suo trattamento. Così pure, solo a processo ben inoltrato si scoprì che sulle presunte impronte insanguinate il test del TMB aveva avuto esito negativo. Una cosa sulla quale invece il giudice Massei si discosta dall’impianto accusatorio è nella ricostruzione dell’evento omicidiario e del connesso movente, o forse si dovrebbe dire della mancanza dello stesso. L’omicidio viene infatti rappresentato come la conseguenza di una serie di circostanze casuali chiaramente non pianificate: Amanda e Raffaele, nonostante abbiano un appartamento tutto per loro decidono di andare a dare libero sfogo alle loro effusioni nella striminzita cameretta di Amanda al villino (con letto singolo, particolare importante), non prima però di aver stazionato (o comunque di essere apparsi a più riprese) nella fredda serata per un paio d’ore davanti al buon Toto Curatolo che così li può notare. Per strada però (o forse più tardi, quando sono già al cottage: Massei lascia aperte entrambe le strade) si unisce a loro Rudy Guede, che … passava da quelle parti … vai a vedere il caso alle volte cosa ti combina! Una volta al villino si appartano nella stanza di Amanda e iniziano le loro attività amorose (con Meredith nella camera a fianco), ma a un certo punto accade che Rudy Guede “si sia lasciato trascinare da una situazione avvertita come carica di sollecitazioni sessuali” e “cedendo alla propria concupiscenza” aggredisce Meredith per costringerla ad un rapporto sessuale; Amanda e Raffaele “ne dovettero essere disturbati ed intervennero”… aiutando Rudy a violentare Meredith! Perché mai? La sentenza risolve il tutto con un “rientra nell’esercizio continuo della possibilità di scelta e questa Corte non può che registrare la scelta di male estremo che fu operata”. Una formula con cui si può giustificare qualsiasi cosa, forse un po’ troppo generica, visto che subito dopo Massei aggiunge “si può ipotizzare che tale scelta di male iniziò con il consumo di sostanze stupefacenti [spinelli] che si era verificato anche quella sera, come dichiarato da Amanda.” Visto poi che magari qualche spinello non è ancora abbastanza viene aggiunta anche, per buona misura “la visione di film e la lettura di fumetti nei quali la sessualità si accompagna alla violenza ed a situazioni di paura”. Insomma sesso, droga e cattive letture.
Il processo d’appello.
Il secondo grado di giudizio ha inizio alla fine del 2010 e si protrarrà fino ai primi giorni di ottobre del 2011, nel frattempo la sentenza di Rudy Guede è stata ridotta a 16 anni e resa definitiva dalla Cassazione. La pubblica accusa è rappresentata dal Sostituto Procuratore Generale Costagliola, ma ancora affiancato dai PM Mignini e Comodi. La Corte, presieduta da Claudio Pratillo Hellmann, accoglie durante le prime udienze la richiesta da parte della difesa di un riesame delle prove genetiche e nomina due periti, Stefano Conti e Carla Vecchiotti a questo scopo. Il rapporto dei due periti sarà l’elemento centrale e più determinante dell’intero processo d’appello, di fatto smantellando agli occhi della Corte la credibilità delle prove genetiche, attraverso il lavoro della Prof.ssa Vecchiotti sul DNA del coltello e del gancetto di reggiseno, e anche quella più in generale dei rilievi effettuati dalla Polizia Scientifica sulla scena del crimine, attraverso le critiche mosse dal Prof. Conti all’operato mostrato nei filmati girati dalla stessa Polizia. Il processo si concluderà con l’assoluzione di Amanda e Raffaele per non avere commesso il fatto e, relativamente all’accusa di aver simulato una falsa effrazione nella camera della Romanelli, perché il fatto non sussiste. Viene invece confermata la condanna di Amanda per calunnia, senza però ovviamente l’aggravante di aver calunniato a scopo di depistaggio. La motivazione smonta praticamente tutto quanto ritenuto fermamente stabilito in primo grado:
Curatolo non è attendibile perché confonde i giorni e comunque ha facoltà intellettive molto compromesse;
Quintavalle può essere soggettivamente convinto di quel che dice di aver visto ma non è affatto certo che lo abbia visto davvero, soprattutto perché nell’immediatezza degli eventi non aveva manifestato tale certezza;
l’ora della morte deve essere anticipata a prima delle 22.13 perché ci sono altri elementi che risultano più convincenti di quelli riferiti da Capezzali, Monacchia e Dramis;
l’impronta sul tappetino non è di Raffaele ma piuttosto di Guede;
le impronte “insanguinate” tali non sono principalmente perché negative al TMB ed inoltre per alcune di esse si può chiaramente dire che non sono né di Amanda né di Raffaele;
l’attribuzione del DNA sul coltello a Meredith non ha valore scientifico;
il DNA di Raffaele sul gancetto è probabile frutto di contaminazione;
tutte le altre prove genetiche raccolte nel bagno piccolo non hanno valore, sia per come sono state raccolte, sia perché il fatto che Amanda e Meredith condividessero il bagno le giustifica senza bisogno di un evento violento;
il famoso coltello sequestrato in casa di Sollecito con ogni probabilità non è affatto l’arma del delitto, perché di fatto incompatibile con alcune caratteristiche delle lesioni e perché è estremamente difficile giustificare la sua presenza in Via della Pergola nel contesto delle altre evidenze processuali;
l’effrazione è autentica e probabilmente compiuta da Guede per introdursi in casa;
il comportamento di Amanda e Raffaele durante il ritrovamento del corpo e nei giorni successivi non ha alcun valore indiziario a loro carico;
Amanda è sì colpevole del reato di calunnia, ma “il contesto nel quale sono state rese quelle dichiarazioni era chiaramente caratterizzato da una condizione psicologica divenuta per Amanda Knox davvero un peso insopportabile”. I due imputati sono quindi scarcerati e Amanda torna subito a Seattle. Qualcuno è riuscito a criticare pure questo ritorno, definito come troppo precipitoso … che dire … non avrà gradito la sistemazione in albergo o il servizio in camera durante quei quattro anni …
Il ricorso della Procura e la Cassazione.
Nel febbraio 2012 la Procura Generale di Perugia ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza di secondo grado, in un documento a firma del Procuratore Generale Galati e del Sostituto Costagliola, criticando praticamente tutte le conclusioni della medesima. Il giudizio della Cassazione è fissato per il 25 marzo 2013, ma i supremi giudici prendono tempo fino al mattino successivo, per poi annullare con rinvio le assoluzioni e confermare invece la condanna di Amanda Knox per calunnia. Pratillo Hellmann, oramai in pensione e quindi libero da vincoli professionali, critica apertamente la decisione dicendo “Prevedevo che la decisione della Cassazione sarebbe stata quella dell’annullamento con rinvio. Il partito dei pm è molto forte nella magistratura” e poi ancora “Voglio vedere chi si assumerà la responsabilità di condannare due innocenti o comunque sfido chiunque ad affermare che ci sono le prove per condannarli”. Il 18 giugno 2013 viene resa pubblica la motivazione della sentenza della Cassazione ed è ancora Pratillo Hellmann a farsi sentire apertamente: a suo parere la Cassazione sarebbe entrata a piedi uniti nell’ambito delle decisioni di merito, che per legge non le competono. In effetti, ad una prima, ed ancor più ad una seconda lettura, la sentenza, oltre a mostrare una conformità spesso letterale alle argomentazioni della Procura e oltre a presentare, nella critica alla logica della corte d’appello, parecchi passaggi di una logicità a sua volta piuttosto dubbia, formula talvolta proprie ipotesi sul corso degli eventi che sono semplicemente alternative a quelle della sentenza annullata (e già questo non sembrerebbe molto consono al ruolo della Cassazione) per poi affermare come dato di fatto, per esempio, che l’urlo udito da Capezzali e Monacchia era “sicuramente della povera Meredith”, il che suona parecchio come un giudizio di merito. Tutta la sentenza si presenta come una completa sconfessione dell’operato dei giudici di secondo grado e come una quasi completa rivalutazione della sentenza di primo grado e del lavoro della Polizia Scientifica, fino al punto di affermare che i video ripresi sulla scena del crimine dimostrerebbero l’operato conforme ai protocolli della Polizia Scientifica, cosa che oltre a suonare un’altra volta come un giudizio di merito, porta anche a chiedersi di quali video si stia parlando. Infine, praticamente nelle ultime righe, viene riproposto come probabile scenario del delitto quello del gioco erotico, che aveva furoreggiato a suo tempo ma che era stato abbandonato un po’ da tutti nel corso degli anni.
Il nuovo processo.
La prossima tappa di questa maratona giudiziaria avrà luogo a Firenze, a partire dal 30 settembre 2013, salvo rinvii e ritardi, il Presidente della Corte sarà Alessandro Nencini, mentre la pubblica accusa sarà rappresentata dal Sostituto Procuratore Generale Alessandro Crini. Certamente il tono tutto della sentenza di Cassazione sembra far presagire una condanna, in particolare viene esclusa di fatto la possibilità che Guede possa essere l’unico autore del crimine (anche se la sentenza lo definisce “sicuramente protagonista principale”) e la completa rivalutazione dell’attendibilità dei testimoni e delle indagini forensi non sembra lasciare molti spazi alle difese dei due imputati. Amanda con ogni probabilità non presenzierà, soprattutto dopo una motivazione di quello stampo, mentre Raffaele ha già dichiarato che sarà presente.
Commentario critico alla sentenza della Cassazione sul processo Knox-Sollecito. Scritto da Luca Cheli. Il presente articolo vuole costituire un’analisi critica della sentenza della Cassazione 26455/13 che il 25 marzo 2013 (con annuncio dato il giorno successivo 26 e pubblicazione della motivazione il giorno 18 giugno 2013) ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, al contempo confermando la condanna a tre anni inflitta in secondo grado alla Knox per calunnia ai danni di Diya Patrick Lumumba. In quest’analisi verranno esaminate una per una le quattordici sezioni o capitoli in cui la motivazione ha suddiviso i motivi della decisione (da pagina 39 a pagina 74), evidenziando per ciascuna quelle che sono per lo scrivente le lacune, le contraddizioni o anche aspetti dubbi da un punto di vista di diritto di tali motivazioni. Chi scrive non ha una formazione giuridica, se non quella da autodidatta che si è fatta seguendo questo e altri casi, perciò l’approccio sarà essenzialmente basato sulla logica e sui principi fondamentali del diritto, sui quali qualsiasi persona di buona volontà si può informare abbastanza facilmente. Per spazzare ulteriormente il campo da fraintendimenti o ambiguità, si dichiara apertamente che l’autore è un fermo innocentista nell’ambito della causa in questione e che tuttavia cercherà di mantenersi, per quanto possibile, obbiettivo e neutrale, sostenendo argomentazioni logiche che siano le più ampiamente condivisibili possibile. Si riconosce tuttavia che una completa obbiettività è in generale estremamente difficile e probabilmente impossibile per chi è decisamente schierato da una parte in un dibattito di questo tipo. Iniziamo dunque, seguendo passo passo le argomentazioni della Suprema Corte.
Capitolo 1 – Premesse sui limiti del sindacato di questa Corte. Basilarmente i Supremi Giudici affermano di aver eseguito la loro valutazione solo nell’ambito del “ragionamento probatorio, quindi il metodo di apprezzamento della prova, non essendo consentito lo sconfinamento nella rivalutazione del compendio indiziario”, anche se poi ulteriormente si precisa che non è affatto impedito ai giudici di Cassazione “di verificare se la valutazione operata sia avvenuta secondo criteri logici”. Il confine è sottilissimo e di fatto si possono trovare sentenze della Suprema Corte in cui tale limite è percepito in un certo modo e altre (tra cui, ad avviso dello scrivente, questa) in cui esso è sentito come alquanto lasco. Un altro campo in cui i criteri della Suprema Corte non appaiono essere sempre così coerenti è quello della valutazione degli indizi in base al comma secondo dell’articolo 192 del Codice di Procedura Penale: in particolare su che rapporto ci sia tra la prima fase in cui gli elementi indiziari vengono valutati ciascuno individualmente per valutarne gravità e precisione e la seconda in cui tutti gli elementi vengono valutati collettivamente (o “osmoticamente”, per usare un aggettivo molto caro agli estensori della presente sentenza) per valutarne la concordanza e anche se tale valutazione collettiva permetta di superare l’ambiguità che essi hanno se presi singolarmente. Particolarmente, la Prima Sezione Penale della Cassazione critica i giudici di secondo grado di Perugia in quanto “la decisione impugnata presenta ictu oculi una valutazione parcellizzata ed atomistica degli indizi, presi in considerazione uno ad uno e scartati nella loro potenzialità dimostrativa, senza una più ampia e completa valutazione”. In realtà la questione è abbastanza aperta ad interpretazioni: altre sentenze hanno interpretato in maniera diversa il rapporto tra le due fasi e i problemi di “atomizzazione” o “frammentazione” del quadro indiziario, per esempio, sempre la Cassazione a Sezioni Unite Penali (33748/2005, Mannino), scrive: “Essendo stato privilegiato dalla Corte palermitana il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio, a fronte di una pretesa polverizzazione ed atomizzazione delle fonti di prova asseritamente operata dal giudice di primo grado, si è finito per dare rilevanza anche ad una serie di indizi che, pur analiticamente presi in esame in prime cure e ritenuti ciascuno di essi incerto, non preciso né grave (ovvero, trattandosi di dichiarazioni dirette o de relato di collaboratori di giustizia, neppure assistite da riscontri individualizzanti) e perciò probatoriamente ininfluente, sembravano tuttavia raccordabili e coerenti con la narrazione storica delle vicende, come ipotizzata dall'accusa e recepita dai giudici di appello. Ma un siffatto metodo di assemblaggio e di mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nell'interpretazione dei risultati probatori.” Che pensare dunque? Forse che il giudizio dipende da quali giudici formano la Corte quel giorno e per quel caso? Comunque, al di là del tema in sé, molto importante per il diritto italiano, nella concreta economia di questo caso, la suddetta disquisizione di principio assume un ruolo alla fine molto secondario, poiché, come vedremo, non si tratterà di stabilire se n elementi indiziari ciascuno poco affidabile individualmente possano essere rivalutati da una valutazione “osmotica”, ma che, grazie alla rivalutazione degli stessi fatta da questa sentenza, ci si trova davanti a n elementi indiziari già di per sé attendibili individualmente.
Capitolo 2 – La condanna della Knox per il delitto di calunnia.
Come prima annotazione di merito c’è da dire che la Suprema Corte ritiene particolarmente importante e apparentemente addirittura dirimente ai fini della consumazione del reato di calunnia che la Knox abbia confessato alla madre in un colloquio in carcere il 10 novembre 2007 di provare rimorso per l’accusa rivolta a Lumumba, senza però averlo comunicato prima agli inquirenti, segnando così “l’assoluta mancanza di volontà di chiarire presso gli inquirenti la falsa indicazione”. Tuttavia la Suprema Corte sembra ignorare (o quanto meno di sicuro trascura) l’esistenza del memoriale autografo della Knox del 7 novembre, nel quale si legge: “non ho mentito quando ho detto che pensavo che l’assassino fosse Patrick. Ero molto stressata in quel momento e pensavo veramente che lo fosse. Ma adesso ricordo che non potevo sapere chi fosse l’assassino, perché non sono ritornata alla casa [di Via della Pergola]. So che la polizia non sarà lieta di ciò, ma è la verità”. Detto ciò, portiamo invece la nostra attenzione su di un aspetto puramente attinente al diritto, che se pur magari fondatissimo, come argomenta la motivazione, nell’ambito del diritto italiano, potrebbe invece fornire ampio spazio per un ricorso presso il Tribunale Europeo per i Diritti dell’Uomo (ECHR), si afferma infatti: “E’ bene premettere, a confutazione di quanto sostenuto nei motivi di ricorso della difesa dell’imputata, che è principio affermato da questa Corte con continuità quello secondo cui la notizia di reato ben può essere tratta dalle dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini preliminari, anche se in ipotesi inutilizzabili per la mancanza dell’avvertimento ex art. 64 c.p.p e che quindi si possa correttamente addebitare il reato di calunnia al dichiarante, sulla base di indicazioni accusatorie inutilizzabili o di dichiarazioni contenute in atto di interrogatorio nullo.” Viene spontaneo chiedersi a cosa serva fornire garanzie e diritti all’imputato se poi le dichiarazioni rese in violazione di tali diritti o garanzie hanno comunque valore alla fine della costruzione di un capo di accusa ed eventualmente di una condanna. In questo senso un ricorso a Strasburgo per violazione dell’articolo 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) potrebbe avere conseguenze ben al di là di questo singolo caso per la giustizia italiana, visto che la Corte Costituzionale, con sentenza 113/2011 ha di fatto aperto la strada alla revisione quei processi che abbiano violato, in base a sentenza dell’ECHR, l’articolo 6 della CEDU. C’è poi un altro aspetto, eminentemente di diritto, che suscita perplessità: nella sentenza si scrive che “risulta quindi manifestamente illogico il passaggio della sentenza in cui è stato giustificato che la Knox doveva ritenersi certa dell’innocenza del Lumumba, anche se lontana dal luogo del delitto”. Ora, a pensar male verrebbe da dire che i giudici hanno dato per scontata una condanna della Knox per omicidio (o almeno la sua presenza sul luogo al momento dello stesso), ma se si esclude tale pensiero maligno non si può fare a meno di notare che, avendo essi demolito la spiegazione del perché l’imputata poteva sapere il Lumumba innocente per l’omicidio della Kercher (condizione necessaria per l’esistenza del reato di calunnia) nel caso essa stessa fosse estranea (anche fisicamente) al delitto, se mai il nuovo processo di appello dovesse assolvere la Knox, ci si troverebbe ad avere una condanna per calunnia priva di motivazione nel suo elemento fondamentale. Forse sarebbe stato meglio annullare con rinvio anche la condanna della Knox per calunnia…
Capitolo 3 – La simulazione del furto.
La sezione riguardante la presunta simulazione di furto nella stanza di Filomena Romanelli sostanzialmente fa proprie le obiezioni avanzate dal ricorso del PG Galati e si allinea pressoché in toto con la ricostruzione effettuata nella sentenza di primo grado. E’ al di fuori dello scopo del presente articolo una dissertazione puntuale sugli elementi costituenti indicazione o meno di una possibile simulazione, si vogliono invece qui far notare alcune imprecisioni e contraddizioni della sentenza su questo punto. Innanzitutto si afferma che secondo la corte d’appello “l’interesse a simulare sarebbe stato del solo Guede […] tale affermazione del tutto assertiva, non era consentita, anche perché inficiata da contraddittorietà e frutto di omessa considerazione di dati acquisiti definitivamente agli atti. La sentenza che ebbe a condannare Rudy, non smentita sul punto da nuove emergenze, ebbe ad affermare che le tracce delle scarpe sporche di sangue del menzionato segnarono il percorso da lui seguito dalla camera della povera Meredith, alla porta esterna della casa, senza passare dalla camera della Romanelli, atteso che come è stato scritto, le tracce di sangue della vittima segnarono il percorso seguito dal Guede, senza alcuna deviazione”. Allora, per prima cosa la teoria della simulazione da parte di Guede è solo un’alternativa molto secondaria nella motivazione della corte d’appello (Hellmann), in quanto è detto esplicitamente che la corte ritiene non essersi trattato di simulazione ma di vera effrazione, mentre i giudici della Cassazione tendono a presentare questa teoria secondaria quasi come elemento portante della sentenza cassata. Bisogna inoltre dire che non è affatto vero che non vi sono state “nuove emergenze” al di fuori del processo di Rudy che possano mettere in crisi la ricostruzione di cui sopra: alle pagine 103-104 della motivazione di secondo grado si fa esplicito riferimento al fatto che la perizia Vinci ha trovato macchie di sangue sulla parte inferiore del tappetino del bagno, non in corrispondenza con quelle arcinote sulla parte superiore, che potevano essere perfettamente compatibili con l’aver Amanda Knox trascinato con i piedi bagnati tale tappetino dalla doccia fino alla propria camera, cancellando con tale atto una serie di impronte insanguinate lungo tale percorso la mattina del 2 novembre 2007. Come ulteriore inconsistenza si può citare l’asserzione che fotografie e video dimostrerebbero che i frammenti di vetro erano sopra e non sotto i vestiti: in realtà sul fatto che le foto dimostrino l’esatto contrario sono d’accordo tanto la sentenza di primo grado (Massei, pag. 42-43) quanto quella di secondo (Hellmann, pag. 119), per quanto poi differiscano sul valore da attribuire a tali immagini. Infine è da notare che la Suprema Corte, pur dando tanto valore in chiave simulativa ai frammenti trovati sopra gli oggetti, non si chiede come spiegare, sempre nel contesto di una simulazione, quelli trovati sotto.
Capitolo 4 – La testimonianza Curatolo
Il capitolo dedicato all’ormai defunto clochard perugino è nell’opinione dello scrivente un mix di apparente incomprensione di quanto realmente affermato nella sentenza di secondo grado e di escursione nel campo delle valutazioni di merito, cosa da cui, per mandato, la Suprema Corte dovrebbe astenersi. Incomprensione perché, seguendo la falsariga dell’appello Galati, si prospetta il ragionamento della corte d’appello come volto a dimostrare che il Curatolo avrebbe visto gli imputati in Piazza Grimana la sera di Halloween e non la sera del 1 novembre, cosa palesemente impossibile visto che i loro movimenti per la sera del 31 ottobre sono noti e diversi. Il punto però è che la motivazione di secondo grado prendeva spunto proprio dal fatto che il teste collocava i due imputati in un contesto spaziotemporale incoerente e confuso per argomentare che tutta la sua testimonianza era inaffidabile e che non si poteva essere certi di quando e se egli li avesse veramente visti. Per quanto Curatolo possa avere, come ribadisce la Cassazione, riconosciuto i due imputati in aula come i due giovani che egli vide in Piazza Grimana, il fatto che egli li collochi (con abbondanza di dettagli e affermando di averli visti a più riprese) in un contesto, quello della sera di Halloween, in cui essi sicuramente non erano dove egli dice di averli visti, dovrebbe sollevare molti dubbi sull’attendibilità generale della sua testimonianza, ovvero su ogni punto di essa. La Suprema Corte invece ritiene che l’elemento veramente importante a cui fare riferimento (“dato ad elevatissimo quoziente di univocità, più di ogni altro”) è il fatto che nei ricordi del Curatolo egli collochi la vista di uomini vestiti di tute bianche (gli operatori della Polizia Scientifica) intorno al villino di Via della Pergola la mattina dopo la sera in cui afferma di aver visto gli imputati. E’ difficile non considerare questa come una profonda incursione nel terreno delle valutazioni di merito: un conto è criticare (forse senza nemmeno capirlo bene) l’argomentare della sentenza annullata, un conto è indicare categoricamente quali elementi di una testimonianza debbano essere considerati di maggiore o addirittura assoluto valore. Dal capitolo in questione si evince piuttosto chiaramente che la Suprema Corte crede che Curatolo abbia visto i due imputati in Piazza Grimana la sera dell’omicidio, con ciò rivalutando in pieno la ricostruzione della sentenza di primo grado ed è difficile immaginare come tale implicita indicazione possa essere ignorata dai giudici del nuovo processo di appello.
Capitolo 5 – La testimonianza Quintavalle.
Per quanto concerne Marco Quintavalle, all’epoca titolare di un minimarket nei pressi di Piazza Grimana e che testimoniò di aver visto Amanda Knox entrare nel suo esercizio molto presto la mattina del 2 novembre, le critiche della Suprema Corte alla sentenza di secondo grado si concentrano sull’averne sminuito il valore indiziario, sull’aver trascurato alcuni dettagli della testimonianza e sulla valutazione della formazione progressiva nel tempo della convinzione da parte di Quintavalle di aver visto proprio la Knox quella mattina. Sul primo punto la sentenza della Cassazione contesta che “la corte ebbe a premettere (pag. 51 sentenza) che il dato che la Knox si fosse presentata di primissima mattina ad acquistare detersivi il giorno seguente al fatto di sangue, anche se accertato, non rivestiva alcuna rilevanza”. Ebbene questo semplicemente non è vero, perché a pagina 51 della sentenza di secondo grado sta in verità scritto: “In verità si tratterebbe, anche se in ipotesi circostanza vera, di un elemento indiziario debole, in quanto di per sé solo non idoneo a provare neanche presuntivamente la colpevolezza”, che è cosa diversa. Passando al secondo punto la Suprema Corte accoglie le doglianze del PG sull’omissione, in fase di motivazione da parte della corte d’appello di Perugia, del fatto che il Quintavalle avesse affermato di aver visto ad un certo punto di fronte e da distanza ravvicinata la ragazza. Si può accogliere l’obiezione in se stessa, in quanto il punto avrebbe dovuto essere considerato, tuttavia sarebbe stato da meglio valutare se davvero tale omissione potesse far cadere nell’illogicità o nella carenza motivazionale l’intera trattazione del Quintavalle da parte della sentenza di appello. Infatti tale sentenza considerava anche altri aspetti critici nella testimonianza del Quintavalle, quali l’aver affermato che la supposta Knox indossasse un cappotto grigio, da lei mai posseduto, nonché il fatto che questa ragazza nulla aveva acquistato nel suo negozio (su questo punto Quintavalle non è chiaro ma dai suoi scontrini di cassa non risultano acquisti per quell’ora), dettaglio che mal si concilierebbe con la presunta necessità, secondo l’impianto accusatorio e la sentenza di primo grado, da parte della Knox di acquistare materiale per effettuare la pulizia della scena del crimine. Da notare, en passant, che con una certa originalità, la Cassazione identifica tali pulizie con quelle di indumenti, non di pavimenti come generalmente ritenuto nelle ipotesi accusatorie. Ma infine il punto più importante è probabilmente il terzo, cioè se la convinzione del Quintavalle di aver davvero visto Amanda Knox si formò solo progressivamente nel tempo e se in tal caso tale convinzione può essere ritenuta credibile. La Suprema Corte su questo aspetto sembra un po’ ambigua, perché di fatto conferma che la convinzione si formò nel tempo, ma pare accettare tale evoluzione come fatto normale se non addirittura rafforzativo della deposizione. In particolare si legge “il teste ebbe a chiarire nei passi della sua deposizione, di essersi convinto della identità della ragazza apparsa sui giornali con quella che si presentò a lui di prima mattina il 2 novembre 2007, visto che dalla foto non appariva il colore degli occhi, ma di avere acquisito certezza, una volta vista direttamente la ragazza in aula.[…] il testimone ebbe a spiegare le ragioni delle sue perplessità e la evoluzione della sua convinzione in termini di certezza”. Dunque a parere dei Supremi Giudici Quintavalle acquisì la certezza della propria identificazione della ragazza da lui vista con Amanda Knox soltanto quando la vide in aula e cioè anche dopo un anno dal fatto, diciamo pure un anno e mezzo. Se poi il problema del Quintavalle era tutto nel fatto che dalle foto in bianco e nero dei quotidiani non si poteva riconoscere il colore degli occhi della Knox, viene spontaneo chiedersi come mai il teste non sia stato spinto dalla propria incertezza a procurarsi una copia dei tanti settimanali pieni di belle foto a colori che nel corso di quell’anno misero più volte tanto in copertina quanto nelle pagine interne numerose foto, appunto a colori, della Knox, tratte tanto dalle udienze preliminari quanto di fonte americana.
Capitolo 6 – La mancata valorizzazione del memoriale della Knox.
La sentenza della Corte di Cassazione ritiene che la corte d’appello non abbia valutato con sufficiente attenzione il memoriale scritto dalla Knox nella mattina del 6 novembre, nel quale essa si colloca apparentemente nella casa di Via della Pergola al momento del delitto. La Suprema Corte ammette che si tratta di affermazioni scritte “collocandosi in un contesto più onirico che reale” e che “si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale”, ma tuttavia afferma che “non potevano essere liquidate – come furono –sul presupposto della pressione psicologica a cui fu posta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato della piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne usato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto”. Qui sono due i punti dove la motivazione della sentenza appare perlomeno dubbia. Il primo riguarda quanto il fatto che il memoriale sia stato scritto qualche ora dopo la fine dell’interrogatorio notturno possa renderne il contenuto libero dagli effetti psicologici degli “eccessi inquisitori”: la Suprema Corte tanto in questa sezione quanto in quella precedente dedicata alla calunnia lo dà praticamente per scontato, ma è un aspetto in realtà molto discutibile. Sul secondo aspetto il discorso è sottile: la corte di secondo grado afferma sì che il memoriale non fu scritto in una condizione di incapacità di intendere e volere (Hellmann pag. 34), tuttavia tale memoriale viene pure definito “la narrazione confusa di un sogno” (Hellmann pag. 32) e che in esso l’autrice “scrive di una confusione totale, di non essere in grado di ricordare quanto le viene chiesto” (Hellmann pag. 33): è dunque quantomeno dubbio che davvero la corte di secondo grado abbia ritenuto tale memoriale un elemento a carico nella condanna per calunnia.
Capitolo 7 – La mancata valutazione del contenuto della sentenza definitiva pronunciata contro Rudy Guede.
Uno dei più controversi aspetti della sentenza sotto esame è senza dubbio il forte legame di dipendenza nei confronti della sentenza passata in giudicato del processo con rito abbreviato a cui è stato sottoposto Guede separatamente dagli altri due imputati. E’ in realtà un problema che in prospettiva potrebbe toccare molti altri casi in Italia e che ha le sue radici nell’istituzione stessa, nel 1990, del rito abbreviato. Il rito abbreviato avviene “allo stato degli atti”, cioè in questo caso facendo riferimento alle evidenze probatorie raccolte fino all’udienza davanti al GUP Micheli nell’autunno 2008; talvolta può essere ordinata una perizia aggiuntiva, ma non è stato questo il caso, eccetto che per una valutazione sul lavoro svolto dai laboratori della Polizia Scientifica. Ora, è chiaro che il rito abbreviato è più veloce di quello ordinario ed è pure quasi sempre vero che si basa su informazioni parziali, dato che usualmente nel rito ordinario ne emergono altre durante il dibattimento (perizie, testimonianze, etc.). Di conseguenza è praticamente inevitabile che se per un dato crimine ci sono più imputati e uno di essi sceglie (ed è un suo insindacabile diritto) il rito abbreviato, l’esito del suo giudizio (che si basa quasi sempre su di un insieme di prove più limitato o addirittura superato perché corretto da successive evidenze emerse nel rito ordinario) arriverà ad essere confermato dalla Corte di Cassazione prima di quello degli altri imputati che hanno scelto il rito ordinario e, come ben si vede in questo caso, lo influenzerà pesantemente. Questo è un grosso problema di diritto per l’Italia ma nel caso specifico potrebbe avere anche grosse conseguenze su di un’eventuale richiesta di estradizione della Knox a seguito di un’eventuale condanna, in quanto potrebbe configurarsi una violazione dei suoi diritti costituzionali (che hanno la precedenza sugli impegni dei trattati) in quanto l’esito del suo giudizio è fortemente dipeso da quanto deciso in un processo in cui lei non era rappresentata. Questo aspetto è parzialmente vero anche in Italia ed infatti la Cassazione ammette che la sentenza Guede non può essere considerata “vincolante” per l’altro giudizio, tuttavia nel contesto statunitense esso è decisamente più sentito. Lo scrivente non è certo un esperto di diritto USA (e nemmeno di quello italiano, se per questo), tuttavia ha seguito con molta attenzione un caso che, tra l’altro, è stato riaperto più o meno in contemporanea con quello di Perugia, quello della cittadina americana residente in Arizona Debra Milke, accusata di aver cospirato con due complici al fine di uccidere il proprio figlio di quattro anni nel 1989. Ebbene quando i tre “cospiratori” vennero sottoposti a giudizio dopo il fatto si ebbero tre processi successivi separati e praticamente a tenuta stagna, nel senso che le dichiarazioni rese in uno di essi o i risultati di uno di essi non vennero neppure citate negli altri, nonostante i tre fossero accusati di cospirazione tra loro: è molto evidente quindi quanto diverso sia l’atteggiamento americano in merito. Tornando ora alle questioni italiane e a questa particolare sentenza, la prima cosa che causa una certa perplessità relativamente al ragionamento svolto dalla Suprema Corte per l’indebita noncuranza della sentenza Guede da parte dei giudici d’appello di Perugia è la sua insistenza sull’importanza del possesso delle chiavi di Via della Pergola da parte della Knox. Causa perplessità perché a fronte di un ragionamento piuttosto esteso ed argomentato della sentenza di secondo grado, che elenca i diversi motivi per cui la sentenza Guede oltre ad essere non vincolante è pure da considerarsi superata sotto l’aspetto della ricostruzione dei fatti, il primo e più pesante motivo di critica da parte della Suprema Corte sia la mancata considerazione della disponibilità delle chiavi. Innanzitutto questo è un elemento che, pur avendo pesantemente influenzato le indagini sin dall’inizio, di per se stesso è molto meno ovvio di quanto sembrano credere tanto la Suprema Corte quanto la Pubblica Accusa, quasi che in tutta la storia del crimine mai ci sia stata occorrenza di un crimine da parte di qualcuno introdottosi in un’abitazione attraverso una scusa o sfruttando una conoscenza occasionale con la vittima. In secondo luogo è poi particolarmente dubbio il modo in cui tale elemento (la disponibilità delle chiavi) dovrebbe rendere più significativo o di maggior influenza il giudicato del processo Guede nell’ambito del processo a Knox e Sollecito. E’ ben vero che i supremi giudici argomentano che “la conclusione dei giudici di secondo grado, secondo cui anche a volere tenere ferma l’ipotesi del concorso necessario di persone, non per questo la sentenza [Guede] assume valore probatorio determinante per riconoscere negli attuali imputati i correi di Rudy, è frutto di un ragionamento basato su un’insufficienza argomentativa, poiché il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con il dato della disponibilità della casa”, tuttavia, anche a voler accettare quell’assai arbitrario “necessariamente”, anche volendo perciò assumere che Knox e Sollecito sono più candidati di altri a ricoprire il ruolo di complici di Guede perché avevano le chiavi, qual è il contributo aggiuntivo che la sentenza su Guede dà su questo punto, visto che la sua presunta importanza può essere ricavata in maniera del tutto autonoma da esso? Forse la vera risposta sta in un passaggio successivo della sentenza sotto esame: “la sentenza acquisita [quella della Cassazione su Rudy] escludeva che il Guede fosse autore della simulazione di reato che veniva riconosciuta sussistente ed imputabile ad altri soggetti”. Un passaggio che suona tanto come “l’effrazione è simulata perché così si è deciso in un altro processo passato in giudicato”. Certamente poi la Suprema Corte cita alcuni dettagli tratti dalla sentenza su Guede e a suo dire trascurati dalla corte d’appello nella sua valutazione dell’effrazione, tuttavia a questi se ne potrebbero opporre altri di segno opposto e la sensazione generale che si trae dalla lettura di questo capitolo è che i supremi giudici ritengano come dato definitivo l’esistenza di una simulazione e che a tale dato i giudici del processo a Knox e Sollecito, passati e futuri, si debbano scrupolosamente attenere. Con una conclusione un po’ pilatesca i supremi giudici chiudono il capitolo dicendo che vi è un “difetto di adeguata motivazione nel passaggio cruciale della ricostruzione del fatto che attiene alla presenza di concorrenti nel reato, nell’abitazione nella disponibilità oltre che della vittima, della sola Knox, in quella maledetta serata, profilo che non va sicuramente inteso in un automatismo probatorio, ma che costituisce un segmento significativo nell’itinerario ricostruttivo, da valutare unitamente agli altri elementi di prova.” Un colpo al cerchio e uno alla botte.
Capitolo 8 – La valutazione delle dichiarazioni rese da Rudy Guede nel giudizio di appello.
A modesto parere dello scrivente il capitolo parte con un equivoco, attribuendo un significato errato a quanto affermato dalla corte di appello nella sua sentenza in merito alle dichiarazioni del Guede. Avevano infatti scritto Hellmann e Zanetti (pag. 35): “Per quanto possa sorprendere, Rudy Guede non è stato mai interrogato nell’ambito del presente processo circa i fatti verificatisi la notte tra il 1 ed il 2 novembre 2007 in via della Pergola; né prima ai sensi dell’art. 210 c.p.p., né successivamente ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p. cosicché, a prescindere dalla attendibilità o meno del medesimo, non sussistono dichiarazioni rese in tale veste aventi per oggetto i fatti principali del processo.” Questa è un’affermazione neutra: si dice che Guede non ha mai testimoniato sui fatti nel contesto del processo Knox-Sollecito e si citano gli articoli del Codice di Procedura Penale in base al quale ha potuto esimersi dal farlo. Nient’altro. Ora leggiamo invece le conclusioni della Suprema Corte sul punto, che peraltro riprendono quasi letteralmente il testo dell’appello Galati , anch’esso all’apparenza caduto nell’equivoco: “vizio di violazione di legge riscontrabile, ictu oculi, nel passaggio della sentenza in cui viene fatto carico al Guede (e verosimilmente all’organo dell’accusa) di non esser stato mai interrogato né in primo, né in secondo grado. Come correttamente rilevato dalla parte pubblica ricorrente, Rudy Guede era all’epoca del giudizio di primo grado a carico dei due fidanzatini, imputato in processo connesso ex art. 12 comma 1 lett. a), con il che l’art. 210 comma 4 cod.proc.pen. gli consentiva di non rispondere. L’art. 197 bis comma 4 cod. proc. pen. inoltre lo scioglieva dall’obbligo di deporre su fatti per cui era stata pronunciata la sua colpevolezza con sentenza di condanna, avendo egli negato le sue responsabilità e non avendo reso alcuna dichiarazione. Dunque nessuna forzatura della procedura sarebbe avvenuta per compiacere il coimputato, a danno di Knox e Sollecito, ma stretta osservanza dei parametri normativi di riferimento; né può essere ritenuta l’inattendibilità del medesimo, sul semplice presupposto che ebbe a rifiutarsi di deporre, essendosi semplicemente avvalso del suo buon diritto, riconosciutogli dalla legge.” Si noti bene che si citano gli stessi articoli del Codice di Procedura Penale per dire la stessa cosa: Guede aveva diritto di tacere e l’ha fatto. Punto. Dove nella sentenza di secondo grado si accennerebbe a “favori” fatti dalla Pubblica Accusa al Guede a danno di Knox e Sollecito? Dove nella sentenza di secondo grado si dichiara di ritenere il Guede inattendibile per il solo fatto di non aver testimoniato?Dove? Il resto del capitolo demolisce le ragioni con le quali la corte di secondo grado aveva ritenuto di vedere nella conversazione via Skype del Guede con l’amico Benedetti elementi favorevoli agli imputati Knox e Sollecito. Per far questo, oltre a ripetere, avvalorandolo, un punto dell’appello Galati particolarmente discutibile, ovvero quello in cui si ritiene che Guede, collocandosi sul luogo del delitto al momento del delitto ma in un orario antecedente a quello ritenuto vero dall’accusa abbia voluto depistare, continua dando poi al Guede una notevole patente di totale inaffidabilità e definendolo pure “sicuramente protagonista principale” del crimine. Il motivo per cui causa forte perplessità l’argomentazione del depistaggio è presto detto: non si capisce davvero che effetto depistante si otterrebbe a piazzarsi sul luogo del crimine al momento del crimine ma alterando tale orario. Si capirebbe l’intento depistante se Guede avesse dichiarato di essersene andato mentre la Kercher era viva e vegeta, ma dichiarando di aver assistito al crimine e spostandolo di un paio d’ore (secondo la Pubblica Accusa) non si capisce davvero che effetto depistante si prefiggerebbe. Al contrario, visto che nega la sua partecipazione materiale all’omicidio, avrebbe ogni motivo di riportare il corretto orario proprio per acquisire credibilità agli occhi degli inquirenti. D’altra parte poi l’unico effetto depistante che si può ottenere collocandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato ma cambiando l’orario è quello di apparire come un mitomane, ma qualcuno che ha lasciato le tracce che il Guede ha lasciato sulla scena del crimine e che sa di essere ricercato proprio in virtù di quelle tracce, non può davvero sperare di essere ritenuto un semplice mitomane. Dicevamo poi che a Guede viene data una qualifica di totale inattendibilità, e infatti le parole “inaffidabilità” e “generale” o “totale” vengono ripetute tre volte in una pagina: di conseguenza è ragionevole attendersi che qualsiasi dichiarazione futura di Rudy Guede non avrà influenza alcuna sul processo a Knox e Sollecito. Oltre a sancirne l’inattendibilità, la Suprema Corte addossa però a Guede anche un livello di responsabilità nel crimine che potrebbe avere, questo sì, effetti sul giudizio riguardante gli altri due imputati. Con quella che, ad essere onesti, suona un po’ come un’incursione nel merito, la Suprema Corte afferma infatti (pag. 57): “Il messaggio captato non poteva essere valutato attendibile, non foss’altro per il fatto che lo stesso autore [Guede] si teneva lontano da quel fatto di sangue di cui fu sicuramente protagonista principale, per le numerosissime tracce che ebbe a lasciare sul luogo del delitto”. Si parlava di incursione nel giudizio di merito perché quanto sopra citato potrebbe essere letto come un’ammissione che Guede ha lasciato molte più tracce dei suoi complici e che quindi egli ha maggior responsabilità, da ciò potendo conseguire che la pena dei suoi complici andrebbe ridotta rispetto alla sua. Questo è un punto potenzialmente foriero di notevoli conseguenze pratiche, come meglio vedremo nell’analisi della sezione conclusiva, la quattordicesima.
Capitolo 9 – Rigetto dell’istanza di audizione di Aviello Luciano.
Luciano Aviello è un pregiudicato e compagno di prigionia di Sollecito, che venne prima presentato come testimone della difesa, con un racconto abbastanza improbabile in base al quale l’assassino della Kercher era il fratello del teste, per una storia di quadri; in un secondo tempo Aviello ritrattò e divenne testimone d’accusa, affermando che Raffaele Sollecito in carcere gli aveva confessato le responsabilità proprie e della Knox nell’omicidio, avvenuto per motivazioni di tipo “sessuale”. Ora, a prescindere dall’attendibilità intrinseca di un teste capace di così notevoli giravolte a 180 gradi, tema sul quale la Suprema Corte non si esprime, dicendo solo che da un’eventuale audizione “il giudizio di inaffidabilità avrebbe anche potuto essere rafforzato”, il resto del capitolo è un discorso di dettaglio su questioni procedurali che superano di gran lunga le competenze in materia dell’autore del presente articolo e perciò ci si rimetterà alle conclusioni della Corte. Se proprio dobbiamo sentire Aviello, con questa o quella versione, vorrà dire che lo sentiremo a Firenze.
Capitolo 10 – La riparametrazione operata in secondo grado sull’ora della morte.
E’ questo il capitolo in cui forse la Suprema Corte entra più pesantemente nell’ambito del giudizio di merito, formulando anche proprie ipotesi alternative e cioè sollevando ampie perplessità sul rispetto dei limiti che essa stessa si era imposta, in accordo con le norme di legge, nel capitolo primo della motivazione. Sostanzialmente la Corte ritiene che la determinazione dell’orario della morte di Meredith Kercher così come effettuato nella sentenza di primo grado, basandosi prevalentemente sulle più o meno convergenti testimonianze delle signore Capezzali, Monacchia e Dramis, superi per logicità e affidabilità quella effettuata dalla corte d’appello, che si basava soprattutto su di elementi riscontrati da una perizia sul telefonino della vittima, sulla chat di Guede con Benedetti e su alcune considerazioni logiche. La Suprema Corte applica nei confronti della chat via Skype di Guede tanto un’operazione di negazione di validità basata sul giudizio di totale inaffidabilità del Guede emesso nel procedimento che lo ha riguardato, quanto una logica secondo la quale le parole di Guede possono solo essere accettate o totalmente o per nulla. Infatti i supremi giudici censurano la corte d’appello di Perugia per essersi basata su alcune affermazioni fatte da Guede nella suddetta chat e relative all’orario della morte (da lui indicata intorno alle 21.30), al contempo non prestando attenzione al fatto che nella stessa chat Guede collocava Amanda Knox sulla scena del crimine e che soprattutto escludeva “di aver visto rotto il vetro della camera della Romanelli per tutto il tempo in cui ebbe a trovarsi in detta dimora. Realtà del tutto disattesa dalla corte, in un passaggio immediatamente successivo, allorquando ebbe a concludere che fu il Guede ad essere entrato dalla finestra della stanza della Romanelli, dopo aver lanciato il sasso di quattro chili dal terrapieno esterno sottostante la finestra, così realizzando un’insanabile contraddizione interna, che evidenzia il tasso sempre più marcato di illogicità che permea la sentenza”. Dunque Guede per la Suprema Corte è come la Rivoluzione Francese per Clemenceau: può essere solo accettato o rifiutato in blocco, come un tutt’unico. Non sembrano pensare i supremi giudici che l’autore di un’effrazione possa avere interesse a negarne l’esistenza piuttosto che ad ammetterla, né forse si sono resi conto che Guede nella chat non parla esplicitamente di Amanda Knox ma di una voce femminile che sente discutere animatamente con Meredith Kercher (in una lingua non specificata, ma è dubbio che Guede sarebbe stato in grado di riportare il contenuto di un litigio tra due persone di madre lingua inglese che in tale stato d’animo non si sarebbero certamente messe a cercare le parole in italiano) e che tra l’altro è stata fatta entrare in casa dalla Kercher dopo aver suonato il campanello, particolare questo che dovrebbe generare almeno qualche dubbio sull’identità della sconosciuta negli strenui sostenitori della teoria della “disponibilità delle chiavi”. Comunque, una volta tolto ogni valore all’orario riportato in chat da Guede, la Suprema Corte prosegue demolendo il valore probatorio dell’esame delle tracce sul cellulare della vittima e qui compie un passo particolarmente critico, formulando ipotesi alternative proprie su elementi di fatto: “suona del tutto implausibile che si possa fondare un’alternativa ipotesi ricostruttiva sulla base del fatto che poiché la vittima non ebbe a ripetere la chiamata a casa dopo le 20.56, sarebbe giocoforza ritenere l’intervento di accadimento infausto: la prima mancata risposta dei familiari potrebbe aver indotto la giovane a ricordare impegni serali degli stessi che si potevano protrarre fino a tardi e quindi è assolutamente ragionevole pensare che la giovane inglese abbia desistito, per ragioni non legate necessariamente alla sorte che le sarebbe poco dopo toccata.” Si richiama ora quanto scritto dagli stessi giudici nel capitolo ottavo della stessa sentenza a pagina 56: “avendosi riguardo a parametri valutativi non già rimpiazzabili con altri non meno validi e congruenti (situazione che precluderebbe qualsivoglia incursione ad opera di questa Corte, Sezioni Unite, 31/5/2000 n°12) ma a …”. Andando un passo oltre citeremo anche un articolo del consigliere di Cassazione Giovanni Canzio sul tema dei limiti dell’operato della Corte di Cassazione nei confronti di una sentenza di appello e in particolare il seguente passaggio a pagina 6 dello stesso: “In ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto, può dirsi peraltro ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni Unite penali (Cass., Sez. un., 13/12/1995, Clarke; Sez. un., 19/6/1996, Di Francesco; Sez. un., 30/4/1997, Dessimone; Sez. un., 24/11/1999, Spina; Sez. un., 21/6/2000, Tammaro; Sez. un., 31/5/2000, Jakani; Sez. un., 24/9/2003, Petrella; Sez. Un., 30/10/2003, Andreotti; Sez. un., 12/7/2005, Mannino), per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo. Le contestazioni del ricorrente non possono risolversi in una non ammessa rilettura degli acquisiti elementi di prova, perché la Corte non può procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del processo, e che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non sono idonee ad accedere al giudizio di legittimità, poiché, in presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, né la possibilità di scrutinare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.” Certamente la ricostruzione della vicenda deve essere “corretta”, ma in questa particolare sezione della sentenza della Cassazione non si sta argomentando che l’uso fatto delle tracce trovate sul telefono della vittima è “illogico” o “contraddittorio”: si postula semplicemente un’ipotesi alternativa, magari anche possibile, ma semplicemente alternativa, non sostitutiva di un ragionamento illogico. Preso atto di tale apparente forzatura, andiamo avanti e passiamo all’elemento centrale del capitolo: le testimonianze di Capezzali, Monacchia e Dramis. La Capezzali riferisce di aver sentito un urlo straziante e poi poco dopo passi su di una scaletta in ferro e sulla ghiaia e sulle foglie secche di Via della Pergola. La Monacchia sente un urlo, ma non passi di nessun genere. La Dramis non sente l’urlo ma “passi di corsa sotto la finestra, come non ne aveva mai sentiti”. Ora, a parte chiedersi come dovessero essere questi passi per meritarsi una tale qualifica di unicità, bisogna anche notare che le tre donne non guardano l’orologio e riferiscono la collocazione temporale dei fatti da loro testimoniati semplicemente come avvenuti più o meno dopo le 22.30 in tutti e tre i casi, ma quanto dopo non è dato sapere se non con margini di errore di almeno trenta minuti. La Suprema Corte ritiene tali testimonianze concordanti e non si fa nessun problema sull’orario, diversamente dalla corte di appello che aveva scritto “mezz’ora più o mezz’ora meno non sono affatto indifferenti”. Non contenta di ciò, la Suprema Corte fa un’altra incursione, verrebbe da dire alquanto esplicita, nell’ambito del giudizio di merito, definendo categoricamente (pag. 63) “l’urlo straziante sicuramente della povera Meredith”. Di fatto quindi la Suprema Corte ha fissato l’ora della morte di Meredith Kercher a beneficio dei giudici del prossimo processo. A sostegno di tale pesante affermazione i supremi giudici citano ancora il fatto che “dell’urlo straziante ne ebbe a fare cenno anche la stessa Amanda nel suo memoriale”, del cui contesto “più onirico che reale” gli stessi giudici avevano parlato qualche pagina prima ed infine il particolare che avendo i dati tanatologici indicato un range per l’ora della morte dalle ore 18.50 alle ore 4.50 del 2 novembre, le ore 23/23.30 del 1 novembre vi cadrebbero perfettamente in mezzo. Non viene invece trattato, neppure per confutarlo, l’argomento speso dalla corte d’appello considerando che la vittima era ancora, quando fu aggredita, vestita nello stesso modo in cui era stata vista per l’ultima volta dall’amica Sophie Purton e che a quest’ultima la Kercher aveva detto di essere stanca e di voler andare a dormire presto, rendendo così improbabile che fosse rimasta due ore sul letto ancora sveglia e pure vestita di tutto punto.
Capitolo 11 – Le ordinanze con cui venne disposta una nuova perizia genetica e con cui successivamente venne rigettata l’istanza di nuova perizia sulla nuova traccia campionata.
Come in un crescendo giungiamo qui ad uno degli elementi più controversi di tutto il caso ( e anche della sentenza), ovvero le perizie genetiche. L’argomento è diviso in tre capitoli, questo, l’undicesimo, tratta specificamente delle tracce sul coltello sequestrato a casa di Sollecito e supposta arma del crimine, il successivo dodicesimo capitolo delle indagini genetiche più in generale e dell’argomento contaminazione in particolare, mentre il tredicesimo capitolo si occupa delle impronte e delle altre tracce, particolarmente quelle nel bagno piccolo in uso a Knox e Kercher. A proposito della perizia Conti-Vecchiotti ordinata dalla corte d’appello, il ricorso Galati si era spinto fino a chiedere che ne fosse dichiarata l’illegittimità: su questo punto la Suprema Corte è molto chiara e pur dicendo che la sua necessità è stata malamente motivata, tuttavia ritiene tale perizia assolutamente legittima da un punto di vista di diritto. Ciò che invece i supremi giudici censurano in questo capitolo è il fatto che non sia stata testata la nuova traccia campionata dalla Vecchiotti sul coltello, secondo loro addirittura in prossimità di quella attribuita “con forti contestazioni” alla vittima, cosa che a memoria dello scrivente non dovrebbe essere proprio corretta visto che la nuova traccia “36I” si trova vicino al manico, mentre la vecchia, famosa, 36B si trovava più vicino alla punta della lama. Comunque, al di là di simili dettagli, è interessante analizzare la logica argomentativa della Suprema Corte su questo aspetto. I supremi giudici ripetono più volte che tale decisione (di non testare la nuova traccia) è stata una decisione “assunta in solitudine da uno dei periti, la prof. Vecchiotti, senza una documentata preventiva autorizzazione in tal senso da parte della Corte […] Tale scelta incontrò peraltro la successiva condivisione del Collegio” e poi più oltre “In ogni caso non poteva uno dei componenti il collegio peritale assumere la responsabilità della decisione di autoridursi il mandato ricevuto”, non si capisce quindi se la Vecchiotti doveva chiedere un’autorizzazione scritta della Corte a non testare o se doveva testare comunque ed in ogni caso. Dalle argomentazioni successive della Suprema Corte pare infine di capire che si doveva testare comunque e poi eventualmente discutere della affidabilità o meno dei risultati. Nel corso di tale ragionamento la Suprema Corte entra di nuovo considerevolmente nel tema delle prove fattuali, arrivando a citare i dieci picogrammi (o anche meno) che Novelli, consulente della Procura, ritiene essere la soglia di sensibilità della strumentazione attuale in ambito diagnostico (che la Suprema Corte ritiene esplicitamente essere del tutto equivalente a quello forense) e anche i 120 picogrammi in cui, diversamente dalla Vecchiotti, la professoressa Torricelli, consulente delle parti civili, ha quantificato la sostanza utile sulla nuova traccia. In tutto questo trionfo di argomentazioni tecniche nell’ambito di un giudizio di legittimità, si dice pure che il verbale in cui la Vecchiotti giunse alla conclusione di non procedere al test, non venne “ovviamente” sottoscritto dai consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili, punto seccamente contestato da Sollecito dopo la pubblicazione della motivazione e di cui magari sentiremo riparlare nel prossimo processo. Sono due i punti però sui quali possiamo fondare una valutazione critica. Innanzitutto, cos’è una “moderna tecnica di analisi sperimentata”, alla quale, secondo la Suprema Corte, la nuova traccia dovrebbe essere sottoposta? Sono i mezzi di cui parla Novelli con i loro 8-10 picogrammi di sensibilità di soglia, magari usati abitualmente sugli embrioni, ma che non sembra siano altrettanto consolidati in campo forense, o sono quelle tecniche sulle quali c’è ampio consenso in quella parte della comunità scientifica più specificamente dedicata alle analisi forensi? Un’altra sentenza della Corte di Cassazione, ritenuta importante in anni recenti, la cosiddetta Cozzini (43786/2010), si esprime nel modo seguente su come trattare teorie scientifiche (e tali si possono considerare anche le teorie sui metodi da applicare all’analisi delle tracce di DNA) in contrasto tra loro (pag. 35): “D'altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l'affidabilità metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso.” E decisamente dalla letteratura presentata nella motivazione di secondo grado la teoria di non testare se non si poteva procedere ad un’amplificazione multipla pareva quella con il maggior consenso da parte della comunità scientifica. La Prima Sezione Penale nella presente sentenza ha invece adottato una logica del tipo “prima si testa e poi si discute”: benissimo, ne vedremo i frutti al processo di Firenze. E proprio ricollegandoci al prossimo processo veniamo a trattare il secondo elemento di analisi critica, ovvero il famoso coltello come arma del delitto. Cominciamo facendo notare che c’è un intero capitolo nella sentenza di secondo grado riguardante tale coltello e trattante tutti i motivi per cui, a prescindere dalle analisi genetiche, tale strumento risulta molto improbabile nel ruolo dell’arma che ha ucciso Meredith Kercher. Tutti questi elementi (la poca o nulla compatibilità con le ferite, la presenza di amido, l’improbabilità della spiegazione con cui la corte di primo grado ha giustificato la sua presenza in Via della Pergola la notte dell’omicidio, etc.) non sono stati oggetto di contestazione da parte della Procura Generale di Perugia nel suo appello e di conseguenza non sono stati neppure trattati dalla Suprema Corte nella presente sentenza. Si desume quindi che tali argomenti mantengano intatta la loro efficacia anche nel nuovo processo. In questo senso questo autore si sente di criticare il fatto che la Suprema Corte abbia definito la nuova traccia un elemento “di portata non solo significativa ma decisiva”. Ovviamente la Suprema Corte era obbligata a definire tale prova come “decisiva” per poter invocare l’articolo 606 sezione d) c.p.p e giustificare il ricorso della Procura su questo punto, tuttavia lo scrivente contesta che si possa definire “decisivo” il test sulla traccia 36I quando molti altri elementi di prova di senso contrario possono renderla al più un elemento di prova contraddittorio ma non decisivo. Detto questo, e ammetto di aver compiuto un atto di presunzione a pormi sullo stesso piano della Corte di Cassazione, anche accettando la definizione della traccia 36I come “decisiva”, se la si testa e viene fuori che non appartiene a Meredith Kercher, che succede? Si assolve automaticamente perché l’elemento “decisivo” è andato a sfavore dell’accusa e a favore della difesa? Sarebbe troppo ingenuo credere in un tale automatismo, tuttavia questo punto verrà trattato nuovamente, in un più ampio contesto, nell’analisi del capitolo finale, il quattordicesimo.
Capitolo 12 – Indagini genetiche.
Il capitolo comincia criticando la corte d’appello di Perugia per aver “supinamente recepite le indicazioni dei periti [Conti e Vecchiotti], quanto alla mera inadeguatezza delle indagini condotte dalla Polizia Scientifica” per poi affermare che in sede di motivazione non è stato tenuto conto delle motivate obiezioni dei professori Novelli e Torricelli, consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili. Questo primo insieme di obiezioni introduce una questione di metodo che impatterà sicuramente sul nuovo processo, ma anche ben al di là di questo, sfociando probabilmente in un dibattito internazionale. Sostanzialmente la Suprema Corte aderisce alle obiezioni di Novelli e Torricelli sulla stretta aderenza ai protocolli, propugnata invece da Conti e Vecchiotti. I supremi giudici sembrano infatti concorrere con Novelli che “aveva convenuto che esistono protocolli e raccomandazioni, ma aveva aggiunto che prima di tutto doveva concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso, pena la messa in discussione di tutte le analisi del DNA fatte dal 1986 in avanti” e con la Torricelli che “aveva puntualizzato come a detti protocolli necessariamente è consentito derogare, proprio in ragione della particolarità dei singoli casi”. Su questo argomento lo scrivente si sente costretto a spendere qualche parola, avendo una formazione universitaria nel campo delle scienze fisiche che pur se persa nella notte dei tempi in quanto ai dettagli, gli ha lasciato almeno qualche ricordo sui metodi. Sarà forse perché la fisica non è la biologia, ma sono assolutamente certo di non aver mai sentito dire nel contesto dell’ambito sperimentale che “prima di tutto devono concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso”, avendo sempre ricevuto l’insegnamento che la validità di una misurazione scientifica deve dipendere dai metodi seguiti e dagli strumenti impiegati ma non dalle qualità individuali dell’individuo che la esegue, anche perché è requisito fondamentale che essa sia ripetibile da chiunque possieda analoghi strumenti e segua gli stessi protocolli. Si ricava invece dalla lettura di queste pagine, ma in realtà da tutta la diatriba sulle indagini genetiche in questo processo, la sensazione che in questo campo ci si trovi di fronte più ad un’arte (dove molto dipende dall’ ”operatore”) che ad una scienza esatta (dove il risultato deve essere indipendente dall’ “operatore”), almeno per quel che riguarda la determinazione e l’attribuzione dei profili genetici, essendo evidente dalla lettura degli atti processuali che molto viene lasciato all’interpretazione dei singoli “operatori”. Orbene, se questo è lo stato delle cose nella genetica forense non ci si può che adeguare ad esso, tuttavia deve essere ben chiaro, soprattutto ai giudicanti, togati e popolari indifferentemente, che, contrariamente a quanto mostrato in numerose serie televisive estremamente popolari, non ci sono macchine in cui si inserisce il campione e da cui esce, dopo rigorosa analisi matematica, la foto del sospettato, bensì una serie di interpretazioni individuali con ampio margine di soggettività. Questo è molto importante perché oggigiorno le giurie hanno una fede pressoché assoluta nel valore della “prova regina”, ovvero il DNA, immaginando confusamente però, il più delle volte, che l’attribuzione di un profilo genetico segua gli stessi passaggi della risoluzione di un’equazione matematica, il che sicuramente non è vero e questo dovrebbe essere chiarissimo ai giudicanti. Forse ancora più importante è l’aspetto trattato subito dopo dalla Suprema Corte in questo capitolo, ovvero quello della contaminazione, sul quale citiamo estesamente le parole dei supremi giudici: “L’aspetto ancora più sorprendente è stato quello di recepire senza alcun senso critico, la tesi sostenuta dai periti sulla possibile contaminazione dei reperti, tesi del tutto disancorata da un dato scientifico idoneo ad accreditarla concretamente. L’ipotesi indimostrata di una contaminazione è stata assunta quale assioma, […] laddove i dati acquisiti non consentivano di addivenire a simili conclusioni. Era stata esclusa anche dagli stessi periti [quali? Conti e Vecchiotti?] la contaminazione da laboratorio. Il professor Novelli disse che della contaminazione deve essere dimostrata l’origine, il veicolo”. Viene poi fatto una lunga citazione di elementi che dimostrerebbero l’assenza di contaminazione in laboratorio, ma visto che nella sentenza di secondo grado era stata ritenuta ben maggiore una probabilità di contaminazione nella fase di refertazione (Hellmann pag. 89-93), si procede a negare pure questa. Innanzitutto, poiché nella sentenza di secondo grado si era fatto riferimento alla presenza del DNA di Sollecito su di un mozzicone di sigaretta, viene addirittura ridicolizzata la possibilità che tale DNA sia “trasmigrato” sul gancetto del reggiseno di Meredith Kercher, senza però considerare che per la sentenza di secondo grado quello era solo un esempio: “ma il DNA di Sollecito era certamente presente nel resto della casa, tanto da essere stato rilevato, per esempio, su un mozzicone di sigaretta, né potendosi escludere su altri oggetti non repertati” (Hellmann pag 93). Ancor più lacunosa appare poi l’assenza di ogni riferimento alla presenza di altri profili maschili sul gancetto di reggiseno, che nel processo di secondo grado era stato ritenuto uno degli elementi chiave a favore della contaminazione. Si potrebbe anche dire che nessun test quantitativo su possibilità di contaminazione per trasferimento multiplo è mai stato effettuato dalla Polizia Scientifica nell’ambito di questo caso (e forse in nessun caso). Ma lasciando ora da parte questioni tecnicamente sofisticate (e che peraltro competono più al giudizio di merito che a quello di legittimità), dobbiamo ora volgere la nostra attenzione ad una serie di affermazioni ed argomentazioni che saranno certamente fonte di conseguenze, anche ben oltre i confini nazionali. Prima affermazione: “Né poteva essere affermato, come fu, che nel tempo intercorso tra il primo sopralluogo ed il secondo, compiuto a distanza di più di quaranta giorni, presso la casa locus commissi delicti, ‘vi avessero tutti scorrazzato’, visto che alla casa furono apposti i sigilli ed in detto intervallo nessuno ebbe l’opportunità di accedervi, come risulta dai dati processuali.” Premesso che Sollecito, dopo aver letto la motivazione ha pubblicamente affermato che i dati processuali indicherebbero proprio l’opposto, cosa che sicuramente sarà approfondita nel nuovo processo, quello che si vuol far notare qui è che i filmati girati durante il secondo sopralluogo mostrano uno stato dei luoghi totalmente diverso da quello che si vede nei filmati dei primi giorni. Chi sia stato e quando ovviamente i filmati e le foto non lo dicono, ma che sia successo è evidente ed era stato infatti detto nella sentenza di secondo grado che “è certo che tra il sopralluogo della Polizia Scientifica, nella immediatezza della scoperta del delitto, e il secondo sopralluogo della stessa Scientifica del 18 dicembre, la casa di Via della Pergola fu oggetto di più perquisizioni, dirette a ricercare eventuali altri elementi utili per le indagini, nel corso delle quali la casa venne messa a soqquadro, così come documentato anche dalle fotografie proiettate dalla difesa degli imputati ma realizzate dalla stessa Polizia. E queste perquisizioni vennero comprensibilmente effettuate senza le cautele che accompagnano le indagini della Scientifica, nella convinzione che ormai, comunque, i reperti da sottoporre ad indagini scientifiche fossero stati acquisiti.” (Hellmann pag. 90-91) Seconda affermazione: “i dati obbiettivi raccolti deponevano per l’assenza di evidenze (già messa in luce nella sentenza di primo grado da pag 281 in avanti, in cui si fece riferimento alla video registrazione delle operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura) accreditanti l’ipotesi della contaminazione”. Tra tutte le cose i supremi giudici dovevano citare proprio quei video che nell’udienza del 25/07/2011 il professor Conti esaminò in aula passo passo, evidenziandone le discrepanze rispetto a quelle che avrebbero dovuto essere le procedure seguite. Ora, mentre su alleli, stutter e tante altre questioni riguardanti la profilazione del DNA, la gran massa del pubblico è totalmente ignorante e non può che rimettersi agli esperti, chiunque abbia gli occhi non può non vedere se non si usano le pinzette quando si dovrebbe o se non ci si cambiano i guanti quando sono sporchi o se non si vestono gli appropriati indumenti anti contaminazione quando si dovrebbe. E’ evidente nell’affermazione citata sopra una certa volontà di tutelare il buon nome della Polizia Scientifica, aspetto evidente anche nelle argomentazioni del sostituto PG Riello all’udienza, tuttavia mi chiedo se si pensa di fare un grande favore a questi servitori dello Stato negando in assoluto che ci siano stati errori anche dove essi sono evidenti e visibili da tutti senza necessità di alcuna formazione specialistica. Perché è ben noto che tali immagini hanno già fatto il giro del mondo una volta ed è certo che lo rifaranno una seconda volta durante il nuovo processo e c’è da chiedersi se in tale contesto, particolarmente all’estero, le parole “operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura” non verranno interpretate come “questo è quello che fanno di solito e perciò bisogna accontentarsi”. Terza affermazione: “La corte di secondo grado ha condiviso la tesi della probabile contaminazione avanzata dai periti, basata sul ‘tutto è possibile’, che non è un argomento spendibile […]: il veicolo di contaminazione andava individuato […] non bastava ipotizzare un’insufficiente professionalità degli operatori nella refertazione […] ma soprattutto si è fondato sulla erronea convinzione che incombesse sull’accusa dimostrare l’assenza di agenti contaminanti, laddove i dati […] si basavano […] su un’attività di refertazione compiuta sotto gli occhi dei consulenti di parte che nulla ebbero a rilevare. Tale quadro era tale da poter accreditare una correttezza di procedura che faceva inevitabilmente ricadere su chi lo volesse sostenere, l’onere di individuare e dimostrare il fattore contaminante […] La confutazione della prova scientifica doveva quindi, per forza di cose, passare attraverso la dimostrazione delle circostanze di fatto specifiche e concrete, accreditanti l’asserita contaminazione.” Allora, per prima cosa la tesi della contaminazione non si basa sul “tutto è possibile” (frase del professor Conti già citata nell’appello Galati e totalmente estrapolata dal contesto in cui fu pronunciata) ma, come argomentato dalla sentenza di secondo grado, è basata sulla letteratura in materia e sull’esame delle prove visive. In secondo luogo, a prescindere dagli ulteriori sopralluoghi di cui si è detto sopra, di sicuro l’attività di refertazione svolta dal pomeriggio del due fino alla mattina del sei novembre, non fu svolta sotto gli occhi dei consulenti di parte, per il semplice fatto che tecnicamente non c’erano indagati e quindi nemmeno loro consulenti. Infine per quello che riguarda l’asserzione che la contaminazione vada provata, che ne vada identificato il veicolo e quindi la dettagliata meccanica, in opposizione al concetto della corte di secondo grado, nel corso del 2012 apprezzato su siti e riviste giuridiche italiane, secondo il quale il mancato rispetto dei protocolli che prevengono la contaminazione è sufficiente come prova di avvenuta contaminazione, ebbene qui certamente si genererà una grossa contesa, sui media certamente, ma anche a livello giuridico. Tale affermazione potrebbe essere infatti la base per un ricorso al Tribunale di Strasburgo sulla base dell’articolo 6 comma 3 lettera b) della CEDU, che dice che “ogni accusato ha diritto di … disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”: infatti se è richiesto all’accusato di provare in dettaglio l’avvenire della contaminazione ed egli è privato non solo del controllo completo della scena del crimine, ma anche di fonti audiovisive che documentino gli atti di tutti gli operatori in ogni momento e da più angolazioni, nonché della possibilità di effettuare in proprio prelievi ed analisi per documentare tali trasferimenti contaminanti, allora l’accusato è privato delle “facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”. Non si tratta tanto di inversione dell’onere della prova, bensì del negare gli strumenti necessari a sostenere tale onere. Tutto ciò è tanto più vero se si considera che le riprese video, a prescindere dal numero e dalla qualità, non sono nemmeno un obbligo per la legge italiana e che comunque la refertazione avviene nella maggior parte dei casi prima che ci siano degli accusati e quindi prima che essi possano in modo diretto od indiretto avere un controllo sulla scena del crimine, anche qualora la legge desse loro questa facoltà.
Capitolo 13 – Analisi delle impronte e delle altre tracce.
Questa sezione si occupa, piuttosto sommariamente rispetto alla più lunga e accurata trattazione presente nella sentenza di secondo grado, tanto delle impronte di piede rilevate con il luminol e ritenute dall’accusa (e dalla sentenza di primo grado) impresse con il sangue della vittima che delle tracce di sangue repertate nel bagno piccolo. Oltre a essere sommaria, l’analisi della Suprema Corte verte quasi esclusivamente su due elementi secondari e alquanto periferici nell’economia della sentenza annullata. Dopo aver infatti ammesso che la valutazione dell’impronta sul tappetino del bagno come non attribuibile a Sollecito non è sindacabile in questo contesto trattandosi di un profilo valutativo, la Suprema Corte censura però la sua attribuzione a Guede. Per quanto gli argomenti che i supremi giudici spendono a questo proposito non manchino di una certa logica, non per questo quelli della corte d’appello sono “contro ogni evidenza”, come invece sostenuto dalla Suprema Corte, la quale poi, nel corso di tali argomentazioni, oltre ad assumere apparentemente che la corte di secondo grado abbia fatto confusione tra impronte palmari e di scarpe del Guede, cosa non vera, torna a basarsi pesantemente sulle conclusioni della sentenza riguardante Guede, ancora una volta dando per scontato che le impronte dell’ivoriano indichino un’uscita diretta, senza deviazioni dalla casa e ancora una volta ribadendo che Guede agì “in concorso con altri, così come è stato affermato nella sua sentenza di condanna”. Ma a prescindere da tutti questi dettagli, l’attribuzione dell’impronta sul tappetino a Guede è un puro fattore accessorio nel contesto di un processo dove l’imputato interessato è Sollecito e dove quello che veramente conta e che non si possa attribuire a lui tale impronta. Ma il punto più dubbio non solo di questa sezione ma forse di tutta la sentenza viene toccato a proposito delle impronte evidenziate dal luminol: innanzitutto si trascura di dire che solo due di esse hanno dato un profilo misto Knox-Kercher (anzi, si afferma erroneamente che esso è misto in tutte e trascurando completamente il fatto che fossero tracce di DNA Low Copy Number, come invece evidenziato dalla corte d’appello), ma soprattutto si afferma apoditticamente “il luminol evidenzia tracce di sangue e non era davvero ipotizzabile che la Knox avesse avuto i piedi imbrattati di sangue della vittima in precedenti occasioni.” Tale frase, a parte il cattivo gusto da battuta macabra, certamente involontario, riprende un’affermazione simile presente nell’appello Galati, dove però almeno ci si era preoccupati di dire che il luminol “esalta principalmente le tracce di sangue”, mentre nella versione della Suprema Corte ogni precisazione è sparita e sembra che il luminol reagisca solo ed unicamente con il sangue. Cosa palesemente non vera. Non si può inoltre non notare che la Suprema Corte, che in questo capitolo riprende con ampie citazioni la sentenza di primo grado per descrivere quali atti la Knox avrebbe compiuto per lasciare non solo queste impronte insanguinate, ma anche svariate altre tracce di sangue nel bagno piccolo, trascuri totalmente quello che invece era elemento fondamentale delle ragioni assolutorie della sentenza di secondo grado, ovvero la negatività delle presunte impronte insanguinate al test della tetrametilbenzidina (TMB), definito dalla corte di secondo grado “molto sensibile, tanto da riuscire positivo anche in presenza di soli cinque globuli rossi. La stessa dottoressa Stefanoni, inoltre, ha chiarito (udienza preliminare del 4 ottobre 2008) che mentre l’esito positivo dell’esame potrebbe essere ingannevole in ragione della reattività dell’evidenziatore anche ad altre sostanze, l’esito negativo dà certezza sull’assenza di sangue.” Senza entrare in disquisizioni tecniche sull’effettiva sensibilità del TMB rispetto al luminol, quello che si vuole sottolineare qui è che tale aspetto fondamentale (non messo in questione neppure nell’appello Galati) non viene minimamente affrontato, neppure per confutarlo, da parte della Suprema Corte, che però scrive all’inizio di questo capitolo di ritenere fondate “le censure avanzate in termini di manifesta illogicità della motivazione, quanto ai criteri di valutazione in materia genetica”. Allo stesso modo nulla si dice, neppure per confutarle, delle obiezioni mosse dalla sentenza di secondo grado al modo in cui vennero campionate le cosiddette tracce miste nel lavandino o nel bidet e neppure nulla si dice, nemmeno per confutarla, sull’ovvia considerazione che la presenza del DNA di Kercher e Knox sui sanitari che usavano insieme sia cosa del tutto naturale. La Suprema Corte conclude poi il capitolo con un’operazione che non può che sollevare forte perplessità nello scrivente: essa eleva un’argomentazione del tutto secondaria della corte di secondo grado a fulcro delle motivazioni di questa, per poi demolirla. L’argomentazione è quella che nel bagno piccolo non vennero evidenziate tracce di Sollecito e la Suprema Corte, riprendendo la sentenza di primo grado, la “smonta” affermando che egli potrebbe essersi lavato nel vano doccia con abbondanza d’acqua. Ma il punto critico è che quest’argomentazione è nella sentenza di secondo grado poco più che un’appendice conclusiva, una piccola nota finale, mentre nella sentenza della Cassazione viene fatta passare come l’unica risposta della corte d’appello al problema delle tracce miste rinvenute nel bagno, cosa che certamente non fu, perché altre furono le risposte, queste sì ignorate dalla Suprema Corte, come si è detto sopra.
Capitolo 14 – Le dichiarazioni della Knox (e conclusioni).
L’ultimo capitolo della sentenza inizia affermando che non sono state prese in dovuta considerazione alcune dichiarazioni (o atti, come una telefonata) di Amanda Knox che potrebbero costituire elemento indiziario a suo carico in quanto indicanti una conoscenza dei particolari dell’omicidio che essa non avrebbe dovuto possedere se innocente. In particolare si ritorna ancora una volta su quanto Amanda Knox avrebbe detto in Questura nel pomeriggio del 2 novembre alle amiche inglesi della vittima e cioè “che il cadavere dell’amica l’aveva trovato lei, che era davanti all’armadio, che era coperto da una trapunta, che spuntava fuori un piede, che le avevano tagliato la gola e che c’era sangue dappertutto, laddove nel suo interrogatori del 13/6/2009, aveva escluso di aver visto alcunché.” La prima consistente imprecisione è che la Knox in realtà disse che il cadavere dell’amica era stato ritrovato dentro un armadio (il fatto è riportato correttamente nell’appello Galati), cosa che già dimostra quanto tale presunta conoscenza fosse indiretta e derivante da sentito dire. Il dire “l’ho trovato io” è interpretabile come un’approssimazione per “ero presente al ritrovamento”, mentre il taglio alla gola e il sangue sono dettagli facilmente appresi dalle altre persone presenti, che tali dettagli videro e con le quali la Knox venne lasciata tranquillamente a conversare per un’ora fuori dal villino prima di andare in Questura. In aggiunta a tutto ciò il trasferimento in Questura avvenne sulla macchina di due altri testimoni presenti al ritrovamento con i quali avvenne ulteriore travaso di informazioni. Queste sono evidenti obiezioni che dovrebbero emergere chiaramente e facilmente nel nuovo processo, anche se in realtà avrebbero già dovuto essere abbondantemente chiare a questo punto. Infine la Suprema Corte riprende il tema della telefonata fatta dalla Knox a sua madre alle ore 12.47 italiane del 2 novembre, notte fonda a Seattle, della quale sottolinea il valore potenzialmente indiziario sia per l’orario sia perché a suo dire la Knox in sede di interrogatorio fu reticente o poco chiara su di essa e infine perché avvenne prima delle telefonate di Sollecito ai Carabinieri. Ancora una volta le motivazioni della Suprema Corte destano profonda perplessità nello scrivente: “la sottovalutazione della circostanza non è questione di pura valutazione, se solo si consideri che ancora una volta i dati non sono stati correttamente recepiti dai flussi informativi, avendo ritenuto il Collegio di secondo grado che si fosse trattato di telefonata in contemporanea con quella che il Sollecito fece dapprima al 112 e poi alla sorella [in realtà avvenne il contrario]. In realtà agli atti risultava che la prima a manifestare inquietudine la mattina del 2/11/2007 fu sicuramente la Knox che telefonò alla madre cogliendola in piena notte, che il Sollecito tre minuti dopo chiamò la sorella”. Dunque per la Suprema Corte tre minuti di differenza rendono tali telefonate non in contemporanea: mentre la cosa è vera in senso letterale, tuttavia era evidente nella motivazione di secondo grado che si parlava di un crescendo di preoccupazione nel cui contesto avvengono a breve distanza le une dalle altre le suddette telefonate e non si può credere che i supremi giudici di questa nazione non siano in grado di capirlo. Infine, terminato l’esame delle manchevolezze della sentenza annullata, la suprema corte fornisce quelle che potrebbero essere definite “indicazioni” alla prossima corte giudicante: “Il giudice del rinvio dovrà quindi porre rimedio, nella sua più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa, operando un esame globale ed unitario degli indizi, esame attraverso il quale dovrà essere accertato se la relativa ambiguità di ciascuno elemento probatorio possa risolversi, poiché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri. L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati nel locus commissi delicti, ma ad eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo.” A parte le questioni “osmotiche”, che lasciamo volentieri alla chimica, queste “direttive” mantengono almeno una parvenza d’imparzialità, in esse infatti non si dà per scontata la presenza dei due imputati sulla scena del crimine, anche se questo lo si capisce quasi solo da quel “eventualmente” messo prima di dell’elencazione delle possibili “situazioni soggettive”, ovvero più o meno dei possibili livelli di responsabilità degli imputati se la loro presenza sul luogo del delitto risultasse certa agli occhi dei nuovi giudici. Bisogna però dire che il tono tutto della sentenza, con la critica pressoché totale della sentenza di secondo grado, l’accettazione quasi completa del ricorso della Procura, le cui argomentazioni vengono spesso riproposte in maniera quasi letterale e gli apprezzamenti più volte espressi verso la sentenza di primo grado, non lascia molto spazio per un’interpretazione positiva da un punto di vista innocentista. Perciò se si vuole usare questa sentenza come chiave di lettura per i possibili esiti del prossimo processo, il modo più immediato di farlo è di esaminare i tre possibili scenari di condanna che essa delinea. Il primo, l’accordo “genetico” sull’opzione di morte, usa un’espressione un po’ enigmatica per definire quello che potrebbe essere uno scenario con premeditazione, una tesi abbandonata già durante il secondo processo, se non addirittura durante il primo, e che quindi è difficile che riveda la luce nel nuovo processo d’appello. Il secondo, la modifica di un programma che inizialmente contemplava solo un gioco sessuale non condiviso dalla giovane inglese, potrebbe essere una riedizione, riveduta e corretta dello scenario prospettato dalla motivazione di primo grado, forse addirittura alleggerito come responsabilità, visto che i supremi giudici, che si suppone ben conoscano il valore delle parole in un contesto penale, non usano i termini “stupro” o “violenza sessuale”, ma solo “gioco sessuale”. Il terzo infine, l’esclusiva forzatura ad un gioco erotico, potrebbe prospettare una partecipazione semplicemente passiva dei due imputati all’atto omicidiario, ovvero essi erano presenti ma non vi presero materialmente parte, mentre misero in seguito in atto attività depistanti perché avevano paura di essere considerati colpevoli anche dell’omicidio. Sorprende un po’ che in due casi su tre si riproponga quel “gioco erotico” che, sebbene considerato elemento quasi certo nelle fasi iniziali del caso, nel corso degli anni e dei processi era apparso sempre più improbabile. Giunti al termine di questa lunga analisi, rammentiamo quindi quanto si era detto sul fatto che la Suprema Corte avesse apertamente descritto Guede come protagonista principale e gli appunti fatti sul coltello nei commenti all’undicesimo capitolo. La traccia 36I del coltello verrà probabilmente testata e se darà esito negativo per il profilo di Meredith Kercher, o anche solo un risultato inconclusivo (ci sono indicazioni nella relazione Conti-Vecchiotti che si tratti di una mistura di DNA maschile e femminile), il probabile effetto sarà quello di far escludere il famoso coltello come arma del delitto: questo assieme al ruolo da protagonista attribuito dalla Suprema Corte a Guede, potrebbe far retrocedere Knox e Sollecito a colpevoli di reati secondari anche in caso di condanna.
Ringraziamenti. Voglio ringraziare Clive Wismayer e Rose Montague per i preziosi suggerimenti fornitimi.
AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.
“Perugia vi odia”: la pagina Facebook contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Dopo le battaglie giudiziarie, per la studentessa di Seattle arrivano anche quelle sui social network , scrive “Giornalettismo”. Il tutto era cominciato la settimana scorsa con un tweet di Amanda Knox nel quale aveva postato una foto che la ritrae mentre sorregge un foglio di carta riportante la scritta “Siamo innocenti”. L’iniziativa della ragazza americana aveva scatenato una valanga di commenti sui social network e la foto è stata modificata più volte, dando il via ad una serie infinita di meme. C’è però chi non ha proprio digerito l’appello sui social network della ragazza di Seattle, così su Facebook è stata aperta la pagina “Amanda e Raffaele, Perugia VI ODIA“, sulla quale alcuni ragazzi e ragazze replicano l’iniziativa della Knox facendosi ritrarre con dei cartelli sui quali manifestano l’odio verso Amanda. A quest’iniziativa la studentessa americana ha voluto rispondere con un post sul suo blog intitolato “Perugia, ti voglio bene“. In seguito la pagina Facebook contro la studentessa americana e lo studente barese è stata presa d’assalto dai critici: «Vi ho appena segnalato per incitamento all’odio. Spero di non vedervi più» si legge tra i tanti commenti, tant’è che gli amministratore della pagina hanno dovuto ricorrere al blocco dei post e del ban degli utenti che scrivevano messaggi ritenuti troppo offensivi. A 7 anni di distanza, i condannati per l’omicidio di Meredith Kercher fanno ancora parlare di sè.
"Siamo innocenti" scrive Amanda Knox, "Perugia vi odia", rispondono i 2283 seguaci del gruppo creato su Facebook "Amanda e Raffaele, Perugia vi odia". Lei procalma la sua innocenza riguardo l'omicidio di Meredith Kercer, postando su Twitter una foto che la ritrae con un cartello con scritto 'Siamo innocenti', e il gruppo la condanna. Una pagina che grida dissenso specificando però che "la nostra città è fatta anche di quelle persone che hanno il loro pensiero sull'accaduto. Non starò qui a giudicarlo", scrive l'amministratore. Che sia amata o no Amanda Knox risponde che a Perugia vuole bene e lo fa scrivendolo nel suo blog proprio nel giorno di San Valentino.
“Perugia vi odia”. Su Facebook le foto contro Amanda. La risposta all’autoscatto dalla ragazza Usa. Ma la città si divide. Rabbia on line con i «selfie». Il primo autoscatto («selfie»), postato da un giovane perugino su Facebook in risposta a quello di Amanda: in poche ore ha raccolto 2 mila preferenze. Un post dal titolo "Perugia ti voglio bene" sul proprio blog, così Amanda Knox risponde al gruppo Facebook "Perugia vi odia", riferito a lei e a Raffaele Sollecito. Il gruppo è stato lanciato da un giovane perugino ed era in effetti una risposta al "selfie" (nel linguaggio web una sorta di autoscatto) della stessa Amanda pubblicato alcuni giorni fa su Twitter in cui l'americanina esponeva un cartello con la scritta in italiano «Siamo innocenti» che in pochi giorni ha raccolto parecchi sostenitori. Anche gruppo "Perugia vi odia" conta molti "mi piace": venerdì mattina oltre 2mila. E tanti commenti diversi. Spuntano anche cartelli che rimproverano ad Amanda e Raffaele di aver pubblicato libri sulla vicenda.
CICLONE AMANDA Botta & Risposta: su Fb da Perugia Vi Odia a Sono Innocenti. Botta, risposta e contro-risposta. Sempre ovviamente tramite social network. La storia infinita del processo Meredith - nuova condanna per omicidio per Amanda Knox e Raffaele Sollecito - si arricchisce di un altro "pesante" tormentone. Andiamo per ordine: Amanda mette su twitter una sua foto con il cartello Amanda e Raffaele sono innocenti e di fatto spara a zero sui magistrati italiani e indirettamente riporta Perugia nel tritacarne mediatico. A quel punto nasce il gruppo su Fb - Amanda e Raffaele Perugia Vi odia - di chi a Perugia non ne può più delle provocazioni della ragazza di Seattle e della cattiva e ingiusta pubblicità (oltre un boicottaggio dell'Umbria e dell'Italia dichiarato sul web dai fan di Amanda) subita dal nostro capoluogo. In poche ore raggiunge i 2mila mi piace e scatta una serie di attacchi contro l'iniziativa. Amanda allora scrive sul suo sito che ama Perugia e se la prende anche con Perugiatoday.it. Solo perchè PT ha riportato i fatti ironizzando con dei titoli da....tabloid made in Usa. Ma non finisce qui. Arrivano le truppe cammellate - autonome - di Sollecito e Knox che fondano la pagina "Amanda e Raffaele sono innocenti" in risposta a quella di disistima fatta da perugini. Peccato però che l'unica pagina che sarebbe stata gradita è quella di ricordo di Meredith Kercher, la sola vittima di questa storia. Ma a lei purtroppo sta pensando, con qualche limite, solo le toghe di casa nostra.
Chissà perché, ma Perugia che ama e che odia, per condannare o assolvere Amanda e Raffaele, ricorda tanto quei processi di Roy Bean, the Hanging judge, che mandava alla forca gli imputati nel suo saloon fumoso a ovest del fiume Pecos, dicendo «prima impiccateli e poi facciamo il processo», fra le urla di giubilo degli avventori, scrive Pierangelo Sapegno su “La Stampa”. Come allora, al posto di un tribunale ci sono i social network che sono un po’ come i nuovi saloon, dove la violenza lapidaria delle parole ha sfoghi altrettanto febbrili e contagiosi. Ha cominciato Amanda con un tweet, mostrando la foto di lei che tiene un cartello con scritto sopra «Siamo innocenti». In poche ore ha raccolto più di 2mila preferenze. Allora su Facebook un giovane perugino ha creato una pagina in risposta a quel selfie (l’autoscatto), postando un altro cartello: «Perugia vi odia». Ci ha messo qualche giorno di più, ma adesso anche lui è arrivato a 2240 «mi piace». Per la verità, assieme ai fan con i volti mascherati o seminascosti che espongono manifesti con le scritte «Te lo diamo noi il tweet, Perugia vi odia» o «Perugia vi odia e non vi vuole», e «fate schifo» e altra roba così, molti altri sono intervenuti come Francesco D’Avanzo per condannare questa iniziativa: «Cari perugini, guardatevi in casa vostra ogni tanto. La vostra città è una capitale della droga...». Ne è nata un’altra battaglia a suon di insulti, ma anche di poesie. Se una ragazza scrive che Amanda ci mette la faccia, «mentre voi vi nascondete dietro le maschere», Marie Yvette Di Benedetto risponde «i knoxisti sono quasi tutti analfabeti», e un altro urla «se toccate la mia città, vi rovino la vita». Poi, magari, Riccardo Bazzurri quasi ci canta sopra: «Dormi Perugia, dormi sotto la luna, come t’ho amato non t’amerà nessuna». C’è però in tutto questo, qualcosa di folle e incomprensibile, così medioevale e così oscuro, e così lontano da qualsiasi senso di Giustizia, da far quasi paura. Amanda ha risposto sul suo blog con un altro post dal titolo «Perugia ti voglio bene» e un lungo messaggio per dire che quella pagina su Facebook dimostra quanto sia irrazionale e violenta la campagna colpevolista scatenata dall’accusa: «L’odio riflette la natura del caso scandalo dell’omicidio di Meredith, ed è una delle poche cose che possono spiegare la persecuzione di parte dell’accusa nei nostri confronti. Queste persone che portano le loro emozioni sui cartelli aiutano me e il mondo a capire quello che è realmente accaduto. Il mio amore invece si estende a quella Perugia compassionevole e generosa che abbiamo conosciuto durante la mia prigione». Questa battaglia senza regole e senza confini rappresenta bene il clima di qualsiasi processo pubblico. Sarebbe meglio fermarsi qui, però. Roy Bean ne aveva fatto un’istituzione. Serviva whiskey dietro il bancone del suo Jersey Lile, sulle sponde del Rio Grande, e poi spediva il cowboy di turno al patibolo solo per «aver commesso qualche grave offesa alla dignità dello Stato del Texas». Ma assolse anche uno che aveva ucciso un cinese: «Non trovo nulla sull’uccisione di un cinese». E tutti bevevano e urlavano di gioia lo stesso. Una casa di produzione porno di Los Angeles, la Monarch Distributions, ha offerto ad Amanda Knox una parte in un suo film hard. Il compenso, secondo il Daily Beast, sarebbe di 20mila dollari. Il capo della Monarch, Mike Kulich, riferisce che sin da quando Foxy Knoxy è diventata famosa, il suo ufficio è stato invaso di richieste da parte del pubblico di poterla vederla protagonista in un suo film.
La memoria di Mez offuscata dalla saga di Amanda e Raffaele, scrive “RaiNews”. L'anticipazione sul documentario della Bbc, in programmazione questa sera. Parlano il fratello e la sorella della studentessa uccisa a Perugia nel 2007: "Vogliamo che questa storia arrivi alla fine, con una decisione definitiva dai tribunali italiani. Solo allora potremo ricordare Mez". Meredith dimenticata nel tormentone mediatico che avvolge le vicende, giudiziarie e non solo, di Amanda Knox e Raffele Sollecito. A parlare è, questa volta, la famiglia della giovane studentessa inglese, in un documentario dal titolo "Amanda Knox è colpevole?" che la Bbc trasmetterà questa sera e di cui il Guardian pubblica un'anteprima. I due fratelli Kercher, Lyle e Stephanie, nell'intervista richiamano l'attenzione sulla storia della vittima, sulla sua vita. Perchè - dicono - il circo mediatico si concentra troppo e solo sul processo e sui due principali imputati, retroscena inclusi, dimenticando il resto. "Mez è stata dimenticata in tutto questo - ha detto la sorella Stephanie - I ritratti dei giornali non sono mai rivolti a lei. Non c'è molto su ciò che è accaduto all'inizio, prima del delitto. Per questo è molto difficile tenerne viva la memoria". In merito all'ennesimo capitolo del processo che ha portato alla candanna in appello di Amanda e Raffaele, il fratello Lyle: "Non è la fine è solo un altro capitolo di una storia che andrà avanti". Quello che interessa ai fratelli è ricordare chi fosse Meredith. La giovane di Coulsdon, appena ventunenne, arriva nel capoluogo umbro per uno scambio universitario. "Era molto entusiasta di venire in Italia, era curiosa di conoscere la cultura italiana, di vedere la città di Perugia e fare nuove amicizie - ricorda la sorella Stephanie - Ha davvero lottato per questo. Lo desiderava". "Stavamo parlando sul divano, in una sorta di dolce saluto - racconta la sorella - mi ricordo che lei è scoppiata a piangere, perchè era triste di dover partire ma allo stesso tempo entusiasta". Poi i fatti di Perugia sono noti. Sul calvario della famiglia Lyle ha detto: "È sempre dura perdere qualcuno, soprattutto così giovane. Ma il modo in cui Meredith è morta ha reso tutto 100 volte più difficile. È stato impegnativo gestire anche il rapporto con la stampa". La sorella aggiunge: "Noi tutti vogliamo un punto. Vogliamo che questa storia arrivi alla fine, con una decisione definitiva dai tribunali italiani. Solo allora potremo cominciare a ricordare solo Meredith". Il 30 gennaio 2014 scorso la Corte d'Appello di Firenze, dopo il rinvio da parte della Corte di Cassazione del 26 marzo 2013, ha confermato la colpevolezza di Sollecito e della Knox condannandoli rispettivamente a 25 anni di reclusione e 28 anni e sei mesi. Le motivazioni arriveranno entro 90 giorni dalla sentenza. In un processo separato nel 2008, è stato condannato a 30 anni anche Rudy Guede per l'omicidio della Kercher. Il giudice, nella sentenza, aveva precisato che l'ivoriano non avrebbe agito da solo.
Raffaele Sollecito, intervista esclusiva: pensateci, e se io fossi innocente?
Intervista esclusiva del 16 febbraio 2014 a Domenica Live di Barbara D’Urso a Raffaele Sollecito, l’ex ragazzo di Amanda Knox recentemente condannato a 25 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher. Vero e proprio colpaccio giornalistico della D’Urso che porta davanti alle telecamere uno dei protagonisti più laconici dell’omicidio di Perugia. Raffaele è tranquillo e lucido, appare comunque determinato a mostrare l’assurdità delle accuse a suo carico e racconta la sua verità. Sollecito comincia a ricostruire i fatti: “La persona che parlava di più con Meredith era Amanda, noi stavamo insieme da poco più di una settimana prima dell’omicidio e io non avevo grande dimestichezza con l’inglese”. Poi parla delle accuse: “L’ipotesi dovrebbe partire da un teorema accusatorio fondato. Dov’è la droga e alcool che l’accusa dice essere una serata di droga e alcol? A un certo punto l’accusa decide che dovevamo andare fuori casa ad incontrare Rudy Guede con cui è iniziato tutto: io Guedè non l’ho mai visto e non l’ho mai incontrato prima”. Sollecito, appassionato ma composto, racconta anche di Patrick Lumumba. “Ti faccio una domanda Barbara: perché la polizia ha preso Patrick Lumumba da casa e l’hanno arrestato senza accertare quello che aveva detto Amanda, una ragazza che non parlava neanche tanto bene in italiano?”. Parte l’rvm con Lumumba che dichiara: “A me nessuno mi ha mai chiesto scusa. Comunque di Amanda posso dire che vivrà nella sua prigione mentale, se non finirà in quella materiale”. La D’Urso torna ad incalzare il ragazzo sulla ricostruzione del suo alibi e del suo movente, lui risponde: “Ero al mio computer: ho finito di vedere un film alle 21.30″. Barbie: “E se c’è questa prova perché ti hanno condannato a 25 anni fa?”. Sollecito: “Me lo chiedo anch’io Barbara. Dovrei aver fatto un omicidio per solidarietà ad una ragazza, Amanda, che comunque conoscevo appena!”. Quindi l’intervistato racconta della mattina in cui scoprirono il corpo di Meredith: “Dovevamo andare tutti a Gubbio: sono andato a casa di Amanda. Dopo un po’ che chiamavamo Meredith – la sua porta era chiusa – e non rispondeva ci siamo preoccupati e ho sfondato la porta, così abbiamo scoperto il corpo. Poici hanno arrestato per i comportamenti strani di Armanda. Ma il problema non è quello: uno può avere sospetti, ma qui le figurine non s’incastrano anche se loro le vogliono far incastrare per forza. Se una storia è poco credibile, tale rimane”. Poi c’è Amanda. Alla domanda della D’Urso, “Vi siete visti dopo l’arresto?” Raffaele è quasi sorpreso e dice: “In realtà, non ci siamo mai più parlati in questi anni di carcere, al massimo ci siamo scambiati due sguardi al processo. Il punto non è stata la nostra storia su cui si sono concentrati i media, ma proprio l’esperienza vissuta di anni in carcere che vorrei raccontare. Pensate per un attimo, tutti a casa, anche coloro che mi considerano colpevole, se io fossi innocente e allora cercate di capire cosa vuol dire non poter fare quelle attività quotidiane, ordinarie, che voi tutti fate ogni giorno. Fate finta per un attimo che io sia innocente e cercate di pensare a cosa ho vissuto in questi quattro anni e potrei vivere per i prossimi venti”. Solo qualche giorno fa, a qualche settimana di distanza dalla sentenza Meredith, era stata Amanda Knox a ribadire, questa volta con foto e cartello su Twitter, la sua innocenza e quella del suo ex fidanzato. “Siamo innocenti”, aveva scritto Amanda facendo riferimento al delitto della sua coinquilina ai tempi di Perugia. Innocenza di cui parla ancora una volta anche Raffaele Sollecito, condannato in appello a Firenze a 25 anni e ora senza passaporto. L’ex studente di Perugia è tornato in televisione per parlare ancora della sentenza Meredith e per raccontare il suo stato d’animo. L’ha fatto in un’intervista che sarà trasmessa domani 15 febbraio su Sky Tg24. “Per me e per la mia famiglia è una tragedia enorme. Attraverso le telecamere voglio dare il mio messaggio e spero di riuscire a far conoscere a tutti i tragici fatti di questa vicenda e spiegare le ragioni della mia innocenza. Non avevo alcun motivo di fare del male a Meredith Kercher”, così Sollecito, il quale ha aggiunto di non avere “una luce nel futuro”. “Combatto per far capire quanto è grave questa falla nel sistema” - L’ex fidanzato di Amanda Knox ha ricordato come la giustizia gli abbia ritirato la carta d’identità e il passaporto: “Non so se riuscirò a realizzare i miei sogni o qualsiasi cosa io voglia fare. Ho discusso con i miei amici e familiari l’ipotesi di andare all’estero circa un anno fa ma non accetto di abbandonare tutte le persone a me veramente care per un teorema”. Un teorema – ha sottolineato Sollecito – “resta un teorema, e per quanto potere possano avere le persone che mi accusano, io non accetto di distruggere la mia esistenza”. Il giovane condannato per il delitto di Perugia ha detto di voler usare i media per denunciare il fatto, “ma ci sono molti innocenti che hanno avuto un destino analogo al mio e sono stati completamente dimenticati”. Dimenticati in un sistema – ha spiegato – “in cui si costruisce una teoria contro una persona, si crea un vestito di colpevolezza che ti tatuano addosso e qualsiasi cosa dici, qualsiasi sia la verità, qualsiasi cosa siano i fatti, si va oltre e per loro diventa la verità assoluta, indipendentemente da tutto e tutti”. Per queste sue ragioni Sollecito ha detto di voler combattere per far capire “quanto è grave questa falla nel sistema”. «Io ero a casa quella notte, ho le prove nel mio computer. Hanno definito l’ora della morte di Meredith tra le 21 e le 22. Io fino alle 21.15 ho visto un film al pc, Il fantastico mondo di Amelie, insieme ad Amanda, e poi ho aperto un altro file video della serie animata giapponese Naruto». A Domenica Live, Raffaelle Sollecito parla dell’omicidio di Meredith, per ribadire la sua innocenza, nonostante la condanna a 25 anni. «Non ho mai visto la scena del delitto nelle realtà. L’ho vista in una fotografia. L’accusa dice che io l’avrei fatto per solidarietà. Solidarietà verso Amanda, che conoscevo da poco e contro una ragazza che non conoscevo, è assurdo. Non avrei mai fatto una cosa del genere». La mattina, la scoperta. «Quella mattina dovevamo andare a Gubbio, ma io da un po’ non ero abituato a dormire con un’altra persona, quindi a non dormire un sonno lineare. Sono rimasto a letto. Amanda è tornata a casa per farsi una doccia. L’ha fatto, poi è tornata da me e mi ha raccontato alcune stranezze, come la porta aperta e delle macchioline di sangue nella doccia. Ho lasciato andare a Gubbio, le ho detto di chiamare le sue amiche e siamo andati. Quando siamo arrivati, ho visto il vetro rotto e i vetri rotti in terra». Non ti sembra strano che Amanda non abbia notato nulla?, domanda la D’Urso. «La stanza di Meredith era chiusa. Amanda ha provato a chiamarla. Io ho provato a buttare giù la porta per tre volte, non ci sono riuscito, ho chiamato mia sorella e lei mi ha detto di uscire subito e non toccare nulla». I due fidanzatini però attirano presto l’attenzione delle forze dell’ordine. «Ci hanno arrestato subito perché i comportamenti strani di Amanda hanno lanciato sospetti. Una persona può avere dei sospetti però accertati, non puoi sposare una cosa che non esiste e poi cercare per forza di appiccicare tutte le cose insieme anche se non ci stanno». Sollecito contesta anche l’impronta del piede lasciato sul tappetino. Prove alla mano – «Ho l’alluce valgo e questo difetto dimostra che l’impronta non è la mia» – e sollecitato dalla D’Urso espone la sua idea sul caso. «Rudy aveva precedenti per furti. Lui è stato ripreso dalle telecamere. Io non lo conosco, non l'ho mai visto». Inevitabile un richiamo a Patrick Lumumba, ingiustamente accusato da Amanda Knox. «Su Lumumba, Amanda ha avuto quella che io chiamo un'allucinazione e comunque io non ero in quell'allucinazione». E il rapporto con Amanda dopo il caso giudiziario? «Ci siamo sentiti per mail o via skype. Sentirla non era la mia priorità in quel momento. Vorrei che le persone a casa mi pensassero per un attimo innocente e capissero che in quel periodo, quando ho fatto dei viaggi in Austria, cercavo solo di portare avanti una vita normale e di stare vicino alla mia ragazza. Ho saputo della condanna via radio. Mio padre mi ha detto di andare subito in Questura a consegnare il passaporto, che mi era stato ritirato». Cosa ha pensato Sollecito sentendo la notizia della condanna? «Mi sono sentito morire dentro. Una persona che sente che a nessuno interessa più quale sia la verità, non conta più nulla. Ero nel mezzo di una tempesta di neve. Mi sentivo come se non ci fosse speranza per nulla. la verità sembra proprio non interessare, fino ad arrivare a una sentenza del genere dove dei periti giudiziari dichiarano completamente inattendibili le prove portate dall’accusa». La D’Urso tocca nuovamente la corda del rapporto con Amanda: «Hai sentito le sue reazioni?». «Non mi interessa – ribadisce Sollecito – Lo so che è difficile far capire alla gente, le persone non hanno mai vissuto lo stare in una stazione di polizia, le accuse che vengono costruite contro di te, contro cui non puoi fare nulla, perché ogni volta che dimostri che le provi non sono vere, ti dicono comunque sei colpevole. Sto facendo di tutto per far capire quanto siano gravi le falle di questo sistema. Il teorema dell'accusa non è mai stato dimostrato, rimane nell’ambito della fantasia». Cosa sarà ora di Raffaele Sollecito? «La giustizia italiana ha sbagliato, lo sto dicendo in tutti i modi. Loro non sono infallibili anche se hanno questo potere enorme. Hanno fallito in questo caso. Secondo l’accusa io e Amanda avremmo portato un coltello che stava a casa mia nel cassetto, che aveva pelato delle patate, hanno trovato dell’amido di patate e, dicono, il dna di Meredith all’inizio della lama. I periti della corte d’appello a Perugia hanno detto che quel risultato è assolutamente inaffidabile perché non sono stati seguiti i protocolli per capire come si è giunti a quel risultato. Il coltello ha una lama di 30 centimetri, è assurdo solo pensare che avremmo potuto portarlo da casa mia a casa di Meredith. Quelli che hanno fatto i rilievi hanno fatto un casino dentro la casa, il materasso di Meredith era in cucina. Il gancetto del reggiseno è stato pestato e spostato, e chissà quante altre prove sono state spostate così. Su quel gancetto, secondo l’accusa, ci sono il Dna mio, di Meredith e uno di chi non si sa e altri possibili». L’Italia ti crede colpevole o innocente? «Non posso saperlo, ho molto sostegno da chi ha capito come è stata condotta questa cosa. La maggior parte delle volte, le persone mostrano supporto e talvolta curiosità di capire chi sono, la vicenda, perché tutta questa attenzione, ma non so se per assolvermi o condannarmi». Amanda, condannata a 28 anni, non verrà in Italia a scontare la pena. Sollecito tornerà in carcere? «Capisco il dolore della famiglia Meredith, io dall’altra parte ho perso una madre. Vorrei che tutti si concentrassero sul fatto che se si sposa una teoria falsa si possono fare più vittime. Io sono davanti alle telecamere non perché mi piaccia, ma per denunciare con quelle che sono le mie armi, una tragedia che può capitare a chiunque. Se la Cassazione conferma io dovrò essere davanti alle porte del carcere. Non so quando. Io non ho la più pallida idea delle motivazioni. Passerà comunque ancora un anno, qui bloccato in Italia, con tutti i miei progetti nel dimenticatoio. Cosa c’è dietro questa sentenza? Io non sono una persona folle, sono una persona come tutti, è assurdo essere sbattuto sui giornali e in carcere per quattro anni per qualcosa che non esiste».
Sollecito: “Se un interrogatorio poteva scagionarmi perché non chiederlo?”. Condannato per l’omicidio di Mez: sconcertato dalle parole del giudice, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Parlano tra di loro sottovoce, Greta e Raffaele. Lei mi chiede: le piace l’indiano? Piove, e a pochi minuti dall’una è come se fosse in vigore il coprifuoco a Treviso. Un gran deserto. Greta è discreta e silenziosa. Spettatrice. Hostess perché? «Mi piace volare. E poi è uno stile di vita. Quattro giorni in volo, altrettanti a terra, di riposo...». Unico commento che si riesce a strapparle. Raffaele Sollecito, il sempre muto, occhi bassi, voce sussurrata, fragile, visto da vicino, sei anni e passa dopo l’omicidio di Meredith, quattro anni di carcere, decine di udienze di processo, è tutta un’altra persona. «Dopo sei anni, non mi posso permettere di vedere un futuro. Non me ne danno la possibilità». Berretto di lana color cammello, prova a non farsi notare. «Difficile essere ottimista in questa situazione. Sono estraneo ai fatti. Non ho ucciso nessuno». La sua verve polemica esplode come un parafulmine quando attrae scosse elettriche, all’accusa di non essersi mai fatto interrogare. È polemica di queste ore le considerazioni del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, sul suo silenzio in aula che potrebbe aver pregiudicato un esito diverso dello stesso processo: il magistrato è stato accusato di mancanza di imparzialità, e oggi il suo caso approda al Csm. «Se solo me lo avessero chiesto.... Mica stavo in aula per riscaldare la sedia. Ero a disposizione. Il presidente Nencini mi disse che se avessi voluto prendere la parola sarebbe stato il benvenuto. Ero a disposizione ma in tutti questi anni nessun pubblico ministero o giudice ha mai fatto un cenno, mai si sono rivolti al sottoscritto chiedendomi di rispondere, precisare, difendermi. Trovo sconcertanti le considerazioni del presidente della Corte. E poi, se davvero le mie dichiarazioni avrebbero potuto cambiare il corso del processo perché nessuno ha avvertito l’esigenza di interrogarmi?». Mano nella mano, gomiti poggiati sul tavolo del ristorante indiano, Greta e Raffaele sono due giovani innamorati. Ma è vero che volevate fuggire? L’altra sera, il giorno della sentenza, siete stati in Austria per poi rientrare? «Scappare? Non ci crederà ma io l’altra sera credevo nell’assoluzione. Se avessi voluto far perdere le mie tracce non mi sarei ridotto all’ultimo minuto, l’avrei fatto una volta uscito dal carcere. Io invece sto combattendo per la verità e lo farò con tutte le mie forze». Uno pensa al soggiorno a Santo Domingo. Sbagliato. «Quello è stato recente, l’anno scorso. Ed è stato un viaggio per aprirmi una prospettiva di lavoro. No, la fuga l’avrei dovuta pianificare e attuare prima, una volta uscito dal carcere, nel 2011». Durante il pranzo, Raffaele torna spesso sulla questione del suo contributo al dibattimento che avrebbe potuto cambiare l’esito del processo. È un groppone che non riesce a mandare giù. «Ho letto che avrei dovuto scaricare tutto su Amanda. La verità è che contro di me non c’era nulla. C’era il memoriale di Amanda, che su di me non aveva detto nulla. Io Meredith l’avevo vista una paio di volte ma non le avevo mai parlato. Insomma la mia era una conoscenza superficiale. Rudy addirittura non l’avevo mai incontrato. E questo giudice che parla di questa cosa, l’omicidio, che può succedere tra ragazzi. No, non mi riconosco nella immagine di un depresso dalle manie strane. Vivevo una vita felice. Allucinante dipingermi come uno che partecipa a un omicidio per solidarietà. Non c’ero. E sulla scena del crimine le mie tracce non le hanno trovate». Controverso l’esame sul gancetto del reggiseno strappato di Meredith, che proverebbe la sua presenza. Controverse le impronte di piede insanguinate sul tappetino del bagno, rilevate dall’esame con il Luminol. Raffaele contesta tutto. Tento la provocazione: prima del fermo nelle dichiarazioni in questura una volta ammise che forse Amanda si ripresentò a casa sua in tarda mattinata. «Fu un equivoco. Ero sotto pressione e non riuscivo a capire a quale giorno si riferissero i poliziotti. Se il giorno prima o il giorno dopo. Oltretutto nel pormi le domande erano molto minacciosi». Ma non sembrò strano a Raffaele che la mattina dopo, il 2 novembre, lei andò a casa sua a farsi una doccia? Non poteva farsela a casa Sollecito? «Effettivamente. Chiedetelo a lei. Comunque, quando tornò a casa, da me, mi chiese se fosse normale che la porta di via della Pergola fosse aperta, che ci fossero piccole tracce di sangue nel bagno, e nulla mi disse del disordine nella stanza della Romanelli, che invece io notai subito quando poi andai a casa di Amanda». Amanda e ancora lei, quasi un’ossessione: «Il suo memoriale? Non so come è andata. Non sono io il responsabile delle sue dichiarazioni. Non posso accusarla perché non so nulla. Devo essere sincero: non ho alcun ricordo di quella serata senza di lei. Insomma, non ricordo». Ma com’era Amanda la “luciferina”? «Come tutte le donne, molto più sfuggente. L’ho conosciuta per così poco tempo che non posso esprimere un giudizio definitivo. Di certo era solare, espansiva, “Alice nel paese delle meraviglie”. Oggi è cambiata». Disarmante Raffaele, quando risponde alla domanda: «Come penso che sia andata quella sera? Non mi riguarda. Io non c’ero. Sono estraneo e non sono io che devo trovare risposte. Rudy Guede aveva precedenti per rapine con modalità identiche. Vetro rotto, scalata, entrata nell’appartamento. Io quella sera ero a casa mia. Tra le 21 e 21.30. Prima “Il favoloso mondo di Amelie”, poi aprii il file di una puntata di “Naruto”. Sul cuscino di Mez c’era anche una macchia di sperma mai analizzata. Io non c’entravo eppure loro hanno deciso che dovessi esserci per forza nel cerchio». La sua è quasi una arringa difensiva fuori tempo massimo. «Che tristezza - dice mentre si infila il giaccone- quello che è capitato a me può succedere a tutti. Perché questo accanimento contro un innocente?». Greta, la compagna di Raffaele, sempre silenziosa durante tutto il pranzo, si lascia andare: «Mi sforzo di essere ottimista».
IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
Raffaele Sollecito "ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo": è questa frase del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, contenuta in una sua intervista riportata da alcuni quotidiani, a innescare le polemiche dopo la nuova condanna del giovane pugliese e di Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher. A prendere posizione sono subito i difensori di Sollecito, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori. "E' gravissimo, anzi inaccettabile – sottolineano -, che il presidente Nencini abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva".
«Le sentenze si rispettano, le interviste no. È gravissimo, anzi inaccettabile, che il presidente Nencini abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di Consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva di Sollecito». A dirlo sono in una nota congiunta gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori, legali del giovane, dopo l’intervista del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze al Corriere della Sera.
«Ci chiediamo innanzitutto - affermano Bongiorno e Maori - se parla a nome di tutti i giurati e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto». «In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare - sottolineano i due difensori -, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente. Nei prossimi giorni valuteremo le iniziative da intraprendere». Per gli avvocati Maori e Bongiorno «la moda delle interviste sulle camere di consiglio scredita l’intera magistratura, ma rilasciare un’intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile».
"La moda delle interviste sulle camere di consiglio scredita l'intera magistratura, ma rilasciare un'intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile", scrive “La Repubblica”. Con queste parole affidate a una nota congiunta, i legali di Sollecito, Giulia Bongiorno e Luca Maori, hanno accusato il presidente della Corte d'Appello di Firenze, Nencini, di un comportamento "gravissimo, anzi inaccettabile". Ovvero, l'aver "commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva di Sollecito". Bongiorno e Maori si chiedono se Nencini nell'intervista parli "a nome di tutti i giurati, e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto". "In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare - hanno sottolineato i due difensori -, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente. Nei prossimi giorni valuteremo le iniziative da intraprendere". Luca Maori si è spinto anche oltre, affermando che le parole di Nencini sono la "prova provata" che la condanna di Raffaele e Amanda nell'appello bis è maturata su un "evidente pregiudizio da parte dei giudici nei confronti degli imputati, e in particolare di Sollecito". Maori ha chiesto "l'intervento del Csm e del procuratore generale della Cassazione perché valutino attentamente le dichiarazioni, al fine di considerare non solo un'azione disciplinare ma anche la legittimità della decisione". "Ricordo - ha aggiunto il legale di Sollecito - che in seguito a un'intervista rilasciata dal dottor Claudio Hellmann Pratillo, presidente della Corte d'Assise d'Appello di Perugia (ora in pensione) che assolse Raffaele e Amanda, allo stesso è stata negata la presidenza del tribunale di Perugia pur essendo in possesso di tutti i requisiti formali per ricoprire quel posto". Tra le ipotesi che sarebbero al vaglio della difesa Sollecito quelle di rivolgersi al Csm o alla procura generale della Cassazione. Secondo gli avvocati Bongiorno e Maori "rilasciare un'intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile". "Non entro nel merito dell'intervista - ha detto il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli - ma il fatto che il presidente del collegio giudicante rilasci delle dichiarazioni prima del deposito delle motivazioni e il giorno dopo una sentenza che è all'attenzione pubblica, è inopportuno". "Il caso è sicuramente grave", ha commentato il consigliere del Csm Nicolò Zanon, laico di Forza Italia. "Lunedì - ha aggiunto - decideremo se chiedere l'apertura di una pratica in Prima Commissione". La difesa di Amanda Knox, invece, non ha commentato le parole del presidente Nencini. "Mai come in questo caso il silenzio è d'oro" si è limitato a dire l'avvocato Luciano Ghirga.
Le toghe si svegliano tardi: processo a chi parla troppo. L'Anm vuol mandare davanti ai probiviri il giudice intervistato dopo la sentenza. Ma quando la vittima era il Cav l'associazione non si è mossa, scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Roma - Due processi sui quali l'attenzione dell'opinione pubblica è sempre stata altissima e due giudici che, all'indomani delle rispettive sentenze di condanna, spiattellano sui giornali dettagli e confidenze su quanto accaduto in camera di consiglio. Con una differenza: quando il chiacchierone di turno è il giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che lo scorso agosto ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per il processo dei diritti tv Mediaset, l'Associazione Nazionale Magistrati fa quadrato intorno al collega liquidando tutt'al più come «inopportuna» la chiacchierata con il giornalista amico; quando invece a lasciarsi andare a rivelazioni sul verdetto a poche ore dalla decisione è Alessandro Nencini, il presidente del collegio giudicante che ha dichiarato colpevoli Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l'omicidio di Meredith Kercher, l'Anm è pronta a bastonare chi non rispetta le regole. Due pesi e due misure, insomma, per due toghe inciampate nella medesima leggerezza ma interpretata, chissà perché, in maniera diversa. Fatto sta che per Nencini i magistrati si sono mossi immediatamente e il giudice fiorentino rischia adesso di essere «processato» davanti al collegio dei probiviri dell'Anm per aver violato una norma del codice etico delle toghe. Si tratta dell'articolo 6 che disciplina i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa dei magistrati e pretende che i giudici si ispirino a criteri di «equilibrio», «equità» e «misura» nel rilasciare dichiarazioni a giornali o Tv. Uno dei componenti del collegio ha anticipato che, verosimilmente, si occuperanno del caso, andando oltre quanto già detto due giorni fa dal presidente dell'associazione, Rodolfo Sabelli, il quale aveva bollato come «inopportuna» l'intervista (esattamente come aveva fatto la scorsa estate con quella del giudice Esposito) e sottolineato che «tanto maggiore è l'interesse pubblico di una vicenda giudiziaria, tanto maggiore è il rischio che possono avere i commenti offerti da chi di quel processo è titolare». Ma il fatto che la condanna definitiva del Cavaliere, rischiando di tagliare fuori dalla vita politica del Paese il leader dell'opposizione, andasse a toccare equilibri delicatissimi, non è bastato per convincere l'Anm ad intervenire contro il giudice che aveva anticipato a mezzo stampa le motivazioni di una sentenza di tale rilievo a poche ore dal verdetto. Allora Sabelli spiegò che le dichiarazioni di Esposito non avrebbero avuto conseguenze processuali, né disciplinari, perché si riferivano ad una sentenza definitiva. Anche il segretario dell'associazione, Maurizio Carbone, concordò che quella di Esposito era stata una semplice «scivolata», la quale non avrebbe cambiato assolutamente la vicenda processuale. E così, dell'intervista in cui il giudice spiegava che Berlusconi era stato condannato non perché «non poteva non sapere» della frode fiscale ma perché «qualcuno aveva detto che sapeva» alla fine si occuparono il Csm e la Procura Generale della Cassazione. Non l'Anm, la cui difesa corporativa evidentemente segue regole arbitrarie. Questa volta, invece, per l'Associazione Nazionale magistrati ci potrebbe essere materia per un procedimento disciplinare associativo in attesa di sapere che cosa deciderà di fare oggi il Csm, come anticipato dal consigliere Nicolò Zanon: «Il caso è sicuramente grave, decideremo se chiedere l'apertura di una pratica in prima commissione».
Adesso straparla anche il giudice di Sollecito. Nencini rivela ai media le motivazioni della condanna, dicendo persino che una parte sarà "discutibile". Andrebbe punito, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una macchina da interviste: il discreto e riservato giudice Alessandro Nencini prima ha letto il dispositivo della sentenza d’appello sul caso Meredith (scritto da lui) e poi si è concesso a Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Mattino e chissà chi altri. Diritto di opinione? Facciamola breve: è un giudice che andrebbe punito e basta. Il Csm dovrebbe muoversi - ma non si muoverà - o il Parlamento in alternativa dovrebbe fare un apposita legge - che non farà, perché al dunque salterà sempre fuori qualcuno a sostenere che la libertà di parola è garantita dalla Costituzione: refrain preferito per giustificare ogni sparata dei De Magistris e degli Ingroia. Cosicché è da vent’anni che blateriamo contro il protagonismo dei giudici e che ci inamidiamo la bocca dicendo che «le sentenze non si commentano»: col risultato che i più, da vent’anni, se ne fottono, e le belle frasi rimangono sfondi di talkshow, di convegni e di pompose inaugurazioni dell’Anno giudiziario. In questo caso, poi, non siamo neanche a un commento della sentenza propriamente detta, comprensiva cioè delle motivazioni: quelle verranno rese note più avanti. Siamo al commento del semplice dispositivo da parte del giudice che l’ha redatto, cioè a un’approssimativa anticipazione mediatica di quanto potrebbe scrivere: con l’ausilio di qualche «motiveremo», «espliciteremo» e addirittura un «abbiamo sviluppato un ragionamento che sarà la parte più discutibile». Incredibile. E se tutto questo attiene a un apparente piano formale - senza dimenticare che la forma, in diritto, è sostanza - poi c’è un piano di merito, ossia le cose che il giudice ha concretamente detto nelle varie interviste. Per farla breve: Nencini ha commentato pubblicamente quello che è successo nel segreto della camera di Consiglio: e pare grave. Poi si è spinto a criticare la strategia difensiva del condannato, Raffaele Sollecito, e in particolare la sua scelta di non sottoporsi a interrogatorio: una facoltà liberamente concessa dal Codice anche se non dovesse piacere al giudice Nencini. E pare grave anche questo, a noi profani. Anche perché la circostanza spinge a chiedersi se un comportamento processuale legittimo possa aver influito sulla decisione di condannarlo: «Lo leggerete nelle motivazioni» ha risposto il giudice, che giudica anche ciò che ha voglia o non ha voglia di dire adesso. Del resto le dinamiche di una decisione di tribunale, insegna Nencini, si rivelano in parte con le motivazioni (che non ci sono) e in parte con le interviste, rilasciate a titolo personale e che quindi non sappiamo neppure se condivise dai giudici popolari che hanno condiviso la camera di Consiglio. Nel complesso, un meraviglioso spettacolo offerto alla stampa mondiale: galera preventiva all’italiana, indagini per sei anni, trenta perizie, colpevolezza in primo grado, assoluzione in Appello, Cassazione che smonta l’Appello, rifacimento dell’Appello e presto un’altra Cassazione, il tutto condito da quell’assenza di chiaroscuri - innocenti, anzi colpevoli, anzi vittime, anzi assassini - che contraddistingue un sistema giudiziario che sembra aver smarrito il ragionevole e umano dubbio, ma non l’irragionevole e umana vanità di chi giudica e poi si concede alla passerella. E già ci sembra di sentirlo, il giudice Alessandro Nencini: prima di straparlare, direbbe, «attendete le motivazioni». E lui, prima di straparlare, cominci a scriverle.
«Raffaele Sollecito voleva sposarmi per ottenere la cittadinanza americana e scappare dall'Italia», scrive “Il Messaggero”. A pochi giorni dalla sentenza dell'appello bis sull'omicidio di Meredith Kercher, una ragazza dell'Idaho, Kelsey Kay, accusa lo studente pugliese. Non solo. Sostiene anche che Sollecito avrebbe prima chiesto la mano ad Amanda Knox, ma quando lei ha rifiutato ha pensato di rivolgersi altrove. L'italiano nega tutto, così come il suo avvocato Luca Maori. Ma la storia, partita da un sito americano, Radar Online, è poi approdata sul tabloid inglese Mirror e da lì la notizia è rimbalzata ovunque. Non una bella figura per Raffaele, che giovedì prossimo conoscerà il suo destino. Eppure la faccenda sa tanto di vendetta personale. Basta leggere i presunti messaggini (tra sms, WhatsApp, Skype, ecc.) che si sono scambiati l'italiano e la 22enne Kelsey. La ragazza, scoperto che Sollecito era stato fotografato a Santo Domingo con un'altra, dà in escandescenze e giura di vendicarsi. La storia comincia il 10 giugno dell'anno scorso. L'americana legge il libro di Raffaele (Honor bound) e si immedesima in lui. Anche lei, una volta, è stata condannata per un crimine non commesso. Così lo cerca su internet, trova il suo appello per donare soldi per pagare gli avvocati, lascia un'offerta e un messaggio. «Lui mi ha risposto subito e ha chiesto il mio numero. Nella prima telefonata ha subito parlato di matrimonio e di diventare cittadino americano per poter rimanere in Usa. Nonostante fossi un po' esitante ho accettato di incontrarlo», ha raccontato la signorina Kay che ha una figlia di 3 anni e si è dichiarata single. Così sei giorni dopo, da New York, Raffaele prende un aereo e vola in Idaho a Coeur D'Alene, dove vive la ragazza. Si incontrano all'aeroporto, lei è accompagnata da un'amica. E appena questa li lascia soli lui comincia a baciarla. E Kelsey inizia a prendersi una sbandata. «Raffaele non si è mai inginocchiato per chiedermi la mano. Ma quando è venuto a trovarmi sembrava già che la decisione fosse presa. E in banca mi ha presentato come la sua futura sposa», prosegue. Il secondo giorno Sollecito le mostra un accordo prematrimoniale, secondo cui la coppia deve rimanere sposata almeno per 3 anni (tempo necessario per la cittadinanza). Nel caso in cui lei lo lasciasse prima del tempo dovrebbe pagare una penale di 20.000 dollari. A quel punto Kelsey si insospettisce e quando l'italiano le dice di aver chiesto anche la mano di Amanda, mesi prima, si arrabbia molto. Confessa a sua volta di avere precedenti penali, inizia una lite furibonda e lei se ne va rifiutando le nozze. Insomma Quando poi Sollecito ha scoperto che Kalsey aveva problemi con la giustizia è andato su tutte le furie e l'accordo tra i due saltò. Mesi dopo, però, i due tornano a chattare e Raffaele le scrive scoraggiato (o per liberarsene) che «sposarti non mi protegge dagli italiani». Seguono molti scambi. Se sono genuini (impossibile verificarlo tramite Radar Online) è chiaro che la storia tra i due si è ormai raffreddata e che l'italiano è sempre più stressato per il processo e per gli esami dell'università. E quando Kelsey scopre che frequenta un'altra lo insulta e minaccia di raccontare tutto. «Mio figlio non ha mai fatto proposte ad Amanda. Sono tutte falsità, questa signora dovrebbe vergognarsi - ha dichiarato il padre, Francesco Sollecito - Raffaele era andato a trovarla in Idaho, ma lei si è mostrata poco disponibile e poi è emerso che era sposata con una figlia. Gli ha mentito. Inoltre si sono conosciuti l'estate scorsa, perché ne parla adesso dopo nove mesi?». Ed a dispetto di tutto ciò, invece.......
E' bionda e fa la hostess la nuova fiamma di Sollecito. Si sono conosciuti in volo, Raffaele Sollecito e Greta Menegaldo: lui tra i passeggeri, lei al lavoro come hostess, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Naturalmente, adesso, il ragazzo pugliese ha ben altro a cui pensare: condannato giovedì a 25 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, Raffaele da qualche mese frequenta questa ragazza trevigiana, conosciuta appunto in uno dei suoi viaggi. È con lei che l’ex fidanzato di Amanda Knox, proprio giovedì, ha raggiunto l’Austria; era con lei quand’è arrivata la polizia, venerdì mattina, e in paese (Oderzo, dove lei vive) sono in molti ad averli notati, «li vediamo spesso - raccontano nei pub frequentati dai due - passeggiano mano nella mano, teneri e discreti». Lei ha 31 anni, è di Ponte di Piave - dove vivono i genitori, in una villetta bianca, bassa, graziosa - e di mestiere fa la hostess di terra per una compagnia low cost, all’aeroporto di Venezia. Il padre ha lavorato con Giuseppe Stefanel e la madre gestiva un laboratorio per lo stesso gruppo a Ponte di Piave. Lei, dunque, in paese è conosciuta da tutti: viene descritta come riservata, elegante, determinata. Con la passione per i viaggi. In questi giorni si è spesso sottratta alle mille domande che, soprattutto i media locali, le hanno rivolto: quando ha accompagnato Raffaele alla questura di Udine, venerdì mattina, ha detto più volte ai poliziotti di non gradire tanta attenzione. Per un po’, infatti, i due sono riusciti a tenere la loro relazione fuori dalla portata dei giornalisti: poi però hanno cominciato a parlarne i siti, e da internet la notizia è rimbalzata sulla stampa del Trevigiano e in questi ultimi giorni ovunque. I due ragazzi anche ieri sono stati avvistati dalle parti di Treviso, anche se l’appartamento di lei ha avuto le finestre sbarrate per tutto il giorno. Escono soprattutto di sera, una birra al pub, una passeggiata: inseguono la normalità, per quanto sia possibile. Di Greta, a Oderzo, tutti conoscono la storia: si è diplomata all’istituto linguistico Dorotee di Oderzo e subito dopo, ha cominciato a lavorare. Da hostess, in volo, ha conosciuto Raffaele: anche se forse, quel giorno di qualche mese fa, non poteva immaginare ciò che l’aspettava una volta tornata sulla terra.
Greta Menegaldo, 31 anni, è di Oderzo in Veneto, scrive “Libero Quotidiano”. Amanda è lontana. Dall'altra parte dell'America canterebbe Lucio Dalla. Lontani i tempi di quell'amore finito tragicamente una notte in una villetta di Perugia e in una condanna a 25 anni di carcere. Per Raffaele Sollecito, questa è un'altra vita. E nel suo cuore c'è una nuova ragazza. No, non la brunetta (abbronzata, la definirebbe Berlusconi) in compagnia della quale il ragazzo pugliese condannato per l'omicidio di Meredith Kercher era stato fotografato alcune settimane fa a Santo Domingo, in quella che potrebbe essere la sua ultima vacanza di qui a molti anni. Ma una ragazza della padania profonda, per lui del sud. Si chiama Greta Menegaldo e viene da Oderzo, veneto profondo. Ha 31 anni e lavora come hostess di terra all'aeroporto Marco Polo di Venezia. Sollecito l'ha conosciuta proprio in aeroporto, ai banchi di una compagnia aerea low cost. Di Amanda ha gli stessi tratti dolci, ma più schietti e meno da gatta morta. È con lei che giovedì ha raggiunto l’Austria; era con lei quand’è arrivata la polizia, venerdì mattina, e in paese (Oderzo, dove lei vive) sono in molti ad averli notati. In paese, scrive il Corriere della Sera, viene descritta come riservata, elegante, determinata. Con la passione per i viaggi. In questi giorni si è spesso sottratta alle mille domande che, soprattutto i media locali, le hanno rivolto: quando ha accompagnato Raffaele alla questura di Udine, venerdì mattina, ha detto più volte ai poliziotti di non gradire tanta attenzione. Per un po’, infatti, i due sono riusciti a tenere la loro relazione fuori dalla portata dei giornalisti: poi però hanno cominciato a parlarne i siti, e da internet la notizia è rimbalzata sulla stampa del Trevigiano e in questi ultimi giorni ovunque.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
Amanda Knox, Raffaele Sollecito: ricondannati. Undici ore e 29 minuti dopo, la campanella dell’aula suona e il silenzio piomba nell’aula fin lì elettrica. Il silenzio è interrotto solo dai clic delle macchine fotografiche. Sono le 21,48, la porta della camera di consiglio si apre, passano tre minuti. Sguardi fra gli avvocati, l’aula trattiene il respiro, scrive Gigi Paoli su “Il Quotidiano Nazionale”. Risuona la campanella e finalmente dalla porta esce il presidente della corte d’assise d’appello Alessandro Nencini, seguito dal giudice a latere Luciana Cicerchia e dai giudici popolari. «In nome del popolo italiano» Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono colpevoli ancora una volta per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto nel novembre del 2007 a Perugia: 28 anni e 6 mesi (due e mezzo in più del primo grado) per la ragazza americana, da tempo a Seattle e difficilmente rivedibile da questa parte dell’oceano, e 25 anni per il suo ex compagno Raffaele che ieri mattina era in aula e poi, assieme al padre, è sparito. E ora lo cercano perché la corte d’assise d’appello, accogliendo la richiesta in tal senso del sostituto procuratore generale Alessandro Crini, ha disposto il divieto di espatrio per il giovane pugliese, con il ritiro del passaporto, per evitare che scappi all’estero in Paesi che non hanno accordi giudiziari con l’Italia. Come Santo Domingo, ad esempio, dove è stato più volte. La squadra mobile di Firenze, non casualmente presente ieri sera alla lettura del dispositivo della sentenza, lo sta già cercando. Dunque, il settimo sigillo (perché settimo è il processo per questo caso) del delitto di Meredith Kercher arriva dopo undici ore di camera di consiglio. Il presidente Nencini rientra in aula con mille occhi che lo guardano. Ne mancano diversi però: non c’è più Raffaele Sollecito, non c’è suo padre Francesco che nei giorni scorsi aveva gridato al mondo che suo figlio sarebbe stato presente. Ma non ha mentito, Sollecito senior: Raffaele in aula c’è venuto, ma un’oretta al mattino, il tempo di farsi vedere dalla corte e di ascoltare le ultime repliche degli avvocati di Amanda, Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. Poi, alle 10,19, la corte d’assise ha lasciato l’aula e si è chiusa nella stanza della camera di consiglio. «Verso le 5 vi faremo sapere qualcosa sui tempi» ha detto Nencini prima di andarsene. Da quel momento, di Raffaele si è persa ogni traccia. È in albergo, verrà per la lettura del dispositivo, è andato a casa sua in Puglia. Voci, chiacchiere. Ma nessuna conferma. Le ore di attesa della sentenza sono state estenuanti, intervallate dai carrelli e dai vassoi del bar del Palagiustizia di Firenze che sparivano dietro la porta chiusa della camera di consiglio. E le 17 sono diventate le 18, le 18 le 19, le 19 un «non si sa, potrebbero anche essere le dieci» con cui la cancelliera della corte ha gelato gli avvocati e il plotone di giornalisti da tutto il mondo che per l’intera giornata ha stretto d’assedio il Palagiustizia. E mentre il tempo scorre, l’aula si riempie. Di pubblico, taccuini e telecamere. Giulia Bongiorno, legale di Sollecito, è una sfinge e ostenta sicurezza. Ha aspettato la sentenza Andreotti, che vuoi che le faccia l’attesa di un Sollecito qualunque? Il sostituto procuratore generale Alessandro Crini attende una decina di piani più in alto, nel suo splendido ufficio dove un’intera parete è una vetrata che domina le colline di Firenze. Il suo capo Tindari Baglione è con lui e scendono insieme per la sentenza. In aula, silenziosi, mezz’ora prima della lettura, si presentano due giovani, scortati dalla console della Gran Bretagna: sono Stephanie e Lyle Kercher, i fratelli della povera Meredith. Diranno poco con le parole («non è tempo di festeggiare») e moltissimo con gli occhi. Parleranno stamattina assieme ai loro avvocati Maresca, Perna e Fabiani in una conferenza stampa. Sono le 21,48. È l’ora. Silenzio e poi un campanello: entra la corte. Tutti in piedi. «In nome del popolo italiano» si condannano due fantasmi. Per rendere giustizia a Meredith, in verità, dovrebbero scontare almeno la pena.
Chi è il presidente della Corte d’Appello di Firenze? Di lui ne parla Franco Bechis su Libero Quotidiano. La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell’occasione aveva espresso nei confronti dell’odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire». Gianfranco Fini è pronto a consegnare per la prima volta ai magistrati Silvio Berlusconi. Non è un caso da manette, né una delle grandi inchieste da cui il cavaliere aveva cercato di essere protetto con il Lodo Alfano o uno scudo giudiziario. Ma il caso è destinato lo stesso a fare rumore. Il gruppo di Futuro e Libertà, secondo quanto risulta a Libero, è infatti orientato per concedere l'autorizzazione a procedere richiesta dal tribunale civile di Milano nei confronti del presidente del Consiglio. La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Il casus belli era avvenuto il 24 marzo 2009, giorno in cui il Cavaliere si era imbarcato sul treno Milano-Roma che inaugurava la nuova linea ad alta velocità. Chiacchierando con i giornalisti Berlusconi raccontò che la linea ferroviaria era stata costruita da Impregilo e disse: «La cosa drammatica è che i dirigenti di Impregilo dopo avere fatto questo lavoro dell'Alta velocità che ha del miracoloso sono stati condannati a cinque anni dalla magistratura di Firenze dopo essere stati assolti da quella di Bologna. È qualcosa di patologico, una metastasi del nostro Paese contro cui dobbiamo reagire perchè c'è qualcuno che usan la legge come un Moloch che deve colpire». Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell'occasione aveva espresso nei confronti dell'odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire». La causa è andata davanti un po', raccogliendo le tesi difensive e poi è arrivata al più classico degli scogli: quello della immunità parlamentare garantita per l'espressione delle opinioni dei parlamentari dall'articolo 68 della Costituzione. Il giudice milanese non è di quella idea, ma ha dovuto chiedere alla Camera il giudizio che le spetta costituzionalmente. E il fascicolo è ora approdato alla giunta per le autorizzazioni. Dove appunto la questione è diventata più politica del solito. Lì siede un finiano sicuramente moderato e ben disposto più di tanti altri nei confronti del premier: Giuseppe Consolo. Ma è in imbarazzo, in forte imbarazzo. Sospira: «Gli atti non li ho ancora letti. Ma certo se il presidente del Consiglio la smettesse di attaccare così la magistratura saremmo tutti in minore imbarazzo». L'appiglio che hanno i finiani è proprio quello della genericità delle accuse. Che la magistratura sia una "metastasi" e i giudici un "Moloch" diventano espressione politica assai più della rilevanza che possa avere il giudice Nencini. Nelle fila del gruppo di Futuro e Libertà si vuole cogliere l'occasione d'oro per dare una lezione che non faccia troppi danni al premier, anche se il sì alla autorizzazione verrebbe a costituire un precedente rischioso sotto il profilo delle immunità parlamentari. Una partita da giocarsi anche come avviso di garanzia lanciato nei confronti del futuro "pacchetto giustizia" che Berlusconi porterà prima davanti al consiglio dei ministri e poi naturalmente in Parlamento. Un simbolo della guerriglia che ormai sta combattendo senza esclusione di colpi Fini, che proprio ieri ha sfidato il presidente del Senato, Renato Schifani, con una lettera ufficiale in cui chiedeva a palazzo Madama di rinunciare alla discussione della legge elettorale che secondo lui dovrebbe iniziare alla Camera dove esistono maggioranze diverse in grado di mettere in difficoltà il premier. “La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell’occasione aveva espresso nei confronti dell’odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire».”
Chi è il giudice a latere del presidente della Corte d’Appello di Firenze? Condanna per Meredith: decisivo il ruolo nella corte d'assise d'appello del giudice aretino Luciana Cicerchia. Sarà lei a motivare la sentenza, scrive Salvatore Mannino su “La Nazione”. E' in corte d'appello da un paio d'anni, in precedenza ha diretto l'ufficio Gip del Palazzo di giustizia ed ha fatto parte del tribunale di Variantopoli. Un magistrato di indiscussa serietà. E' entrata in diretta tv nelle case degli italiani alle dieci della sera. In silenzio, a fianco del presidente della corte d'assise d'appello che ha emesso la clamorosa sentenza per il delitto Meredith: i 25 anni a Raffaele Sollecito e i 28 ad Amanda Knox. Lei, Luciana Cicerchia, aretina doc, di quella corte era il giudice a latere, il magistrato togato che affianca il presidente insieme ai sei giudici popolari. Conoscendone la preparazione e il garbo, sicuramente le sue opinioni hanno pesato sul verdetto che ribalta quello di assoluzione della corte d'appello di Perugia, che era stato poi annullato dalla cassazione. All'epoca Luciana Cicerchia era ancora in servizio al tribunale di Arezzo, capo dell'ufficio Gip, ultimo incarico al palazzo di giustizia del Garbasso prima di chiedere e ottenere il trasferimento alla corte d'appello di Firenze. Ora la giudice aretina è attesa da un altro compito delicatissimo: sarà lei probabilmente, almeno questa è la prassi per i giudici a latere in corte d'assise, stendere le motivazioni della sentenza, in vista del sicuro ricorso in cassazione. E quando la suprema corte prenderà di nuovo in esame il caso, saranno proprio le motivazioni e la loro coerenza nell'interpretare e nello spiegare la sentenza a decidere di cosa disporranno i giudici del Palazzaccio, ultima istanza inappellabile del sistema giudiziario italiana. Cinquantenne, sposata con figli, Luciana Cicerchia è una abituata a convivere con le responsabilità. Tanto per dire, fu lei a stendere le motivazioni della sentenza di condanna di Variantopoli: un migliaio di pagine scritte in un italiano chiaro e anche sferzante, così diverse dal giuridichese corrente, che poi sono risultate inattaccabili anche in appello, dove il verdetto è stato confermato praticamente in toto. E prima ancora era toccato alla giudice nel 2006 presiedere la corte d'assise che condannò la britatista rossa Nadia Lioce per l'omicidio sul treno Roma-Arezzo del poliziotto Emanuele Petri, nei pressi della stazione di Castiglion Fiorentino, domenica 2 marzo 2003. Un processo in trasferta, nell'aula bunker di Firenze, che Luciana Cicerchia si trovò a guidare quasi all'improvviso, dopo la pensione del presidente in carica della sezione penale aretina, Mario Bartalesi. Come al solito condusse le udienze con equilibrio e anche con fermezza. Con cortesia ma anche senza concedere niente alla propaganda delle Br che la Lioce avrebbe voluto portare in aula. Basterà ricordare la scena, immortalata dalla Tv, del confronto tra Luciana Cicerchia e la terrorista, cui fu impedito di trasformare l'aula in un luogo di proselitismo. Ma senza alcun tono autoritario, solo col carisma di chi sta stare sul banco dei giudici. Ma nemmeno quello era il primo grande processo della giudice aretina, che era stata già parte del tribunale che condannò l'anarcoanimalista Sergio Maria Stefani, poi scivolato in carcere verso ambienti legati al terrorismo vero e proprio, accusato insieme all'allora fidanzata Agnese della bomba rudimentale in una macelleria di via Cavour. Il verdetto scatenò la contestazione dei compagni dei due, che improvvisarono un corteo lungo il corso, scontrandosi con la polizia. Ne nacque un parapiglia e anche un arresto per resistenza. Ma le immagini mostrarono il giorno dopo in aula, nel processo per direttissima, che l'arrestato non c'entrava. Luciana Cicerchia non esitò ad assolverlo. Prima di pronunciare il verdetto, nella vecchia aula del tribunale monocratico di via Garibaldi, chiese il silenzio e disse che non avrebbe tollerato incidenti. La sua sentenza fu letta in un'aula nella quale non volava una mosca. Quella del processo Meredith è stata una camera di consiglio interminabile, lunga più di dieci ore. Anche questa è una situazione cui la giudice aretina è abituata: per Variantopoli il tribunale rimase in camera di consiglio per una dozzina di ore: il verdetto fu letto a notte fonda, quando mezzanotte era passata da un pezzo. E di una cosa si può stare certi: Luciana Cicerchia ha affrontato anche questo processo da prima pagina, con le luci della ribalta delle tv nazionali, con la stessa tranquillità di sempre. Lei è una fine interprete del diritto, non si fa certo impressionare dal clamore.
IL RESOCONTO.
Meredith, dall'omicidio all'appello bis, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia la sera del primo novembre del 2007 e la vicenda giudiziaria legata al delitto è una delle più controverse degli ultimi anni. Queste le tappe del giallo.
1 NOV 2007 – Meredith, studentessa inglese di 22 anni, in Italia per Erasmus, viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia con la squadra mobile del capoluogo umbro e il Servizio centrale operativo.
6 NOV – In carcere finiscono Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba Diya. Amanda, americana, di Seattle, all’epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all’Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell’ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all’omicidio. Contro Patrick ci sono le dichiarazioni di Amanda, ma lui sostiene che si trovava nel suo locale.
9 NOV – Il gip convalida i fermi.
15 NOV – Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito. 20 NOV - Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa.
6 DIC – Rudy è trasferito in Italia.
27 MAG 2008 – Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.
19 GIU – I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Amanda, Raffaele e Rudy per futili motivi.
16 SET – Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.
18 OTT – I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all’ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.
28 OTT – Il Gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.
18 GEN 2009 – Inizia il dibattimento per Sollecito e per la Knox.
18 NOV – Si apre davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Perugia il processo d’appello nei confronti di Rudy Guede.
5 DIC – La corte d’Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Amanda a 26 anni di carcere e Raffaele a 25.
22 DIC – La corte d’Assise d’Appello riduce da 30 a 16 anni la pena inflitta a Rudy. Concesse le attenuanti generiche.
4 MAR 2010 – Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente “erotico, sessuale, violento”.
22 MAR – Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Rudy Guede: “concorse pienamente”, scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello, all’omicidio di Meredith.
24 NOV – Si apre il processo d’appello per Amanda e Raffaele.
16 DIC – La Cassazione conferma la condanna a 16 anni per Rudy Guede. La pena diventa così definitiva.
18 DIC – La Corte d’assise d’Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l’arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della corte, “non sono attendibili”.
4 OTT 2011 – La corte d’Assise d’appello assolve i due imputati dall’omicidio “per non avere commesso il fatto” e ne dispone la scarcerazione. Il pg ne aveva chiesto l’ergastolo.
15 DIC 2011 – Depositate le motivazioni. Secondo i giudici di secondo grado i “mattoni” su cui si è basata la condanna “sono venuti meno”: c'è una “insussistenza materiale” degli indizi, dalle tracce di Dna all’arma del delitto. E l'ordinamento “non tollera la condanna dell’innocente”.
25 MAR 2013 – Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l’annullamento della sentenza di assoluzione, definita un “raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità”.
26 MAR 2013 – La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo.
30 SET 2013 – A Firenze si apre il nuovo processo di appello. Amanda è negli Stati Uniti, Raffaele non è in aula.
6 NOV – Sollecito rilascia dichiarazioni spontanee: "Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso".
26 NOV – Il pg Alessandro Crini chiede condanne a 30 anni per Amanda Knox (compresi i tre già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per Raffaele Sollecito. Secondo il pg il movente non è un gioco erotico finito male ma una lite legata anche a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa.
17 DIC – Amanda invia una lettera alla Corte: “Non sono presente in aula perchè ho paura. Ho paura che la veemenza dell’accusa vi impressionerà”.
20 GEN 2014 – Il pg Alessandro Crini chiede “l'applicazione di una misura cautelare” nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito in caso di condanna.
30 GEN - Amanda e Raffaele sono condannati a 28 e 25 anni dalla Corte di Appello di Firenze.
Dagli Stati Uniti, patria di Amanda, alla Gran Bretagna dove vive la famiglia Kercher. E' su tutti i siti la notizia della nuova condanna nel processo d'appello bis per l'omicidio di Meredith Kercher. Dalla Cnn alla Bbc, è la notizia che rimbalza ovunque. E la notizia fa il giro del mondo. “Guilty again” (“colpevole ancora”), titola la Cnn. La notizia della condanna di Amanda Knox e Raffaelle Sollecito nel nuovo appello bis rimbalza in tempo reale sui siti d’informazione britannici e statunitensi. Alcuni, nelle loro home page, hanno dato le dirette del processo. Tra questi il londinese «the Guardian» e il «Telegraph». La stampa inglese è stata colpevolista. Inchieste sulle storture della giustizia italiana sono state invece condotte dai media Usa. Amanda Knox colpevole, negli Usa rabbia su Twitter: "Giudici italiani corrotti". La condanna ai danni di Amanda Knox provoca una bufera di proteste negli Stati Uniti, scrive “Leggo”. Un'onda d'indignazione che scoppia sui social network dove in tanti, tantissimi, attaccano a caldo, in modo violento il sistema giudiziario italiano e le sue procedure. ''Incapaci per anni di condannare Berlusconi, ora fanno un altro pasticcio con Amanda''. Attacca Ben dalla Florida. ''La giustizia italiana è morta del tutto. Sembra che possano tenere alla sbarra la gente sino a quando non ottengono il verdetto che vuole l'accusa''. In tanti non capiscono, da questa parte dell'oceano, come mai si possa fare un secondo processo, sulla stessa vicenda. ''Tutta questa storia non ha alcun senso - twitta un ragazzo di colore - prima è stata in galera per 4 anni, poi assolta, liberata, e ora di nuovo condannata''. ''Si tratta di un sistema corrotto - attacca un'altra utente di Los Angeles - che oggi prova a salvarsi la faccia alle spese della povera Amanda. Lo sapete che il killer è già in galera?''. E ancora, senza mezzi termini: ''il sistema giudiziario italiano è la cosa più corrotta presente nell'universo''. ''Sono un avvocato - ammette Steve - ma il sistema italiano mi lascia interdetto…Amanda Knox ora è di nuovo colpevole? ''. E sono in tanti, tantissimi, che descrivono la nostra magistratura un 'joke'', uno scherzo, una barzelletta, una ''farsa di proporzioni epiche''. Qualcosa che ha ''zero credibility'', credibilità nulla. ''Sono sicuro - anticipa un altro tweet - che ci sarà un altro giudizio. Altri giorni di paga per gli avvocati. Giustizia italiana ha il record assoluto del tempo impiegato per raggiungere un nulla di fatto''.
Amanda Knox: i colpevoli per gli americani siamo noi? Si chiede Alberto Sofia su “Giornalettismo”. C'è chi azzarda paragoni con i processi alle streghe di Salem. O chi si scaglia contro il sistema giudiziario italiano, definito come «viziato e corrotto». Per parte dell'opinione pubblica americana la responsabilità sul caso Kercher non è della studentessa americana, definita "innocente" e "vittima di una persecuzione giudiziaria". C’è chi azzarda paragoni con i processi alle streghe di Salem o con i tempi dell’Inquisizione. O chi si scaglia contro il sistema giudiziario italiano, definito come «viziato e corrotto». Ma c’è anche chi “consiglia” agli studenti americani di «non andare più in Italia», attaccando il nostro Paese: dopo l’appello bis di Firenze sul caso del delitto Meredith Kercher, con Amanda Knox e Raffaele Sollecito dichiarati colpevoli e condannati rispettivamente a 28 anni e sei mesi e 25 anni di carcere, su alcuni media americani e soprattutto sui commenti degli utenti statunitensi sui media e sui social network non manca chi critica l’Italia, parlando di “persecuzione giudiziaria” ai danni delle propria cittadina e attaccando il verdetto della corte fiorentina. Se i giudici fiorentini avevano ieri decretato la colpevolezza di Knox e Sollecito, per i due ex fidanzati l’unica consolazione era arrivata dalle misure cautelari. Se Sollevito temeva l’arresto i giudici si sono limitati a un divieto di espatrio, mentre per Amanda – che si trova «legittimamente nel suo Paese di origine», gli Stati Uniti, hanno spiegato i giudici nella sentenza – non è stato deciso alcun provvedimento cautelare. Il verdetto ha scatenato non poche polemiche negli Stati Uniti: diversi quotidiani sono tornati ad attaccare il nostro sistema giudiziario, definendo Amanda “innocente” e “vittima” delle disfunzioni nel nostro sistema. mentre si parla di nuova “svolta drammatica” nel caso. Già in passato, nel marzo 2013, dopo la sentenza di Cassazione e le assoluzioni annullate per Knox e Sollecito, il sistema italiano era stato definito “carnevalesco”. La stessa accusa è rilanciata sempre dall’Atlantic, dove si spiega come sia stata ribaltata la precedente sentenza di assoluzione: «Knox ha atteso il verdetto dalla sua casa di Seattle. Improbabile che le autorità italiane richiedano l’estradizione fino a quando il verdetto non sarà definitivo. In base al sistema italiano, il processo potrebbe richiedere fino a un altro anno di tempo . Alcuni esperti dicono che è improbabile che la Knox sarà estradato in Italia, anche perché si rischia di danneggiare i rapporti internazionali tra i due paesi». Si riportano anche le parole del giornalista Tobias Jones, che sul Guardian, subito dopo il verdetto di assoluzione del 2011, spiegò come nel nostro paese “quello che succede di solito è lasciare la porta aperta fino al successivo grado di giudizio. Così tra appello e Cassazione, tutto può essere stravolto”. Un eccesso di “garantismo” o un sistema contorto, secondo i media americani. Altri quotidiani spiegano invece come con la condanna e i prossimi passi del processo ci sia il rischio di una lunga contesa sull’estradizione. Sempre sul Guardian si legge come il verdetto per l’omicidio di Meredith Kercher potrebbe creare una disputa diplomatica tra i due paesi. Per evitare di consegnare Knox alla giustizia italiana Washington dovrebbe violare il trattato sull’estradizione del 1983. Da Seattle, dove è stata raggiunta per telefono dai suoi difensori, la diretta interessata già ieri aveva replicato facendo sapere di essere «spaventata e rattristata dal verdetto» e di sentirsi vittima di una «persecuzione ingiusta». Chi era con Raffaele ha invece spiegato di averlo visto «incredulo»di fronte al verdetto. E Knox viene considerata una vittima anche dai propri concittadini, come si legge in diversi commenti sui social e sui quotidiani locali.
Nessun commento da parte sua è apparso sulla pagina Facebook di Raffaele Sollecito dopo la sentenza di ieri sera, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Piuttosto, sono tantissimi i messaggi di incredulità e solidarietà inviati a Raffaele, la maggior parte dei quali in lingua inglese. Così c'è chi commenta che verdetti di colpevolezza riguardano migliaia di "persone buone" nel mondo, chi prega per Raffaele, chi ha il cuore devastato da un verdetto "ingiusto" definendolo "a great miscarriage to justice" come un grande fallimento della giustizia. Da Seattle, per esempio, Linda scrive: "…the Italian "justice system" is a fucking joke", il sistema italiano è uno scherzo. Da Amsterdam c'è chi aggiunge: "I Am So Sorry Raffaele! Words Are Not Enough At This Moment", sono molto dispiaciuto non ci sono parole. Mimmo, invece, dice a Raffaele: "non mollare", Paola lo incita: "Và via". Poi c'è il commento di Cristian: "Forza e coraggio amico mio!". Gianni è diretto: "La giustizia a volte è infame ... Lotta col cuore amicone mio ... Tvtttttttb ...". Decine di messaggi di solidarietà affidati alla rete tra cui compare una foto di Amanda e Raffaele, di qualche tempo fa, sorridenti e in apparenza spensierati.
La sintesi l’ha fatta uno dei difensori, l’avvocato Luciano Ghirga: "Una bella botta", scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Corte d’assise d’appello di Firenze ha condannato Amanda Knox a 28 anni e sei mesi di carcere e Raffaele Sollecito a 25. Per la studentessa americana i giudici hanno stabilito una pena più alta dei 26 anni che le vennero inflitti in primo grado a Perugia per effetto dell’aggravante legata alla calunnia nei confronti di Patrick Lumumba. L’unica consolazione, per i due ex fidanzatini, sono le misure cautelari. Sollecito stamani è arrivato in aula a Firenze col timore che la Corte d’assise d’appello potesse stabilire per lui anche un arresto. Invece, i giudici si sono limitati a un divieto di espatrio: gli verrà tolto il passaporto, niente di più. Nessun provvedimento per Amanda che si trova "legittimamente nel suo Paese di origine", gli Stati Uniti, hanno spiegato i giudici nella sentenza. Da Seattle, dove è stata raggiunta per telefono dai suoi difensori, Amanda ha fatto sapere di essere "spaventata e rattristata dal verdetto" e di sentirsi vittima di una "persecuzione ingiusta". Non ha pianto, però. Raffaele, che si è allontanato quando i giudici sono entrati in camera di consiglio, ha preferito non tornare in aula. Probabilmente ha atteso la sentenza a casa sua, a Bari. A chi era con lui è apparso "incredulo". La sentenza è arrivata alle 21.55, dopo più di undici ore di camera di consiglio. Il verdetto è stato accolto in silenzio dal pubblico. Anche i familiari di Meredith, la sorella Stephanie e il fratello Lyle, arrivati al Palazzo di giustizia pochi minuti prima della lettura del dispositivo, sono rimasti impassibili. "E' la cosa migliore che potevamo sperare – ha detto il fratello Lyle – ma non è tempo di festeggiare". Il pg Alessandro Crini aveva chiesto 30 anni per Amanda e 26 per Sollecito. Per l’ingegnere pugliese la sentenza di oggi è stato come un brutto passo indietro nel tempo. La Corte ha confermato la condanna che gli venne inflitta in primo grado a Perugia. Per lui è stato disposto il divieto di espatrio perchè ha la "disponibilità di supporti logistici in Paesi in relazione ai quali lo Stato italiano non risulta legato da accordi di assistenza giudiziaria". Tradotto: è stato più volte a Santo Domingo e c'è il rischio che torni là, evitando così di scontare la pena nel caso in cui la Cassazione confermi la condanna. La sentenza fiorentina arriva sette anni dopo l’omicidio di Meredith, uccisa la sera del primo novembre del 2007 a Perugia, e dopo tre sentenze: la condanna in primo grado, l’assoluzione in appello, l’annullamento in Cassazione. Da stasera, i colpevoli tornano ad essere tre: Rudy Guede, che sta scontando una condanna a 16 anni, Raffaele e Amanda, per i quali, comunque, si dovrà aspettare la Cassazione. La Corte si è presa 90 giorni per le motivazioni. Uno dei punti da chiarire è il movente. C'è da capire se ribadirà quello ipotizzato dai magistrati di Perugia, e cioè un gioco erotico degenerato, o quello tratteggiato dal pg della Toscana: una lite legata a vecchi rancori fra Amanda e Meredith per la pulizia della casa e innescata, quella sera, dal comportamento di Guede, che andò in bagno senza tirare lo sciacquone.
La Knox: “Terrorizzata dalla giustizia italiana. È una persecuzione”. La studentessa Usa a Seattle durante la sentenza: impietrita ma senza lacrime. Amanda Knox ha trascorso la giornata più lunga della sua vita chiusa nella casa della madre a Seattle: qui, dopo le 22, ha ricevuto la telefonata del suo legale che le ha dato la notizia della condanna a 28 anni di carcere, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Impietrita, ma senza lacrime. Così Amanda Knox reagisce alla sentenza che la fa tornare assassina: «Sono terrorizzata e intristita - dice - da questo verdetto ingiusto. Essendo stata riconosciuta innocente in precedenza, mi aspettavo di meglio dal sistema giudiziario italiano». Amanda parla dalla casa della madre, dove ha aspettato la sentenza con i famigliari, e la sua reazione è durissima: «Le prove e il teorema accusatorio non giustificano un giudizio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Piuttosto, nulla è cambiato. C’è sempre stata una chiara mancanza di prove. Io e la mia famiglia abbiamo sofferto enormemente per questa persecuzione sbagliata». Non si ferma, la sua rabbia va oltre: «Questa storia ormai è fuori controllo. E la cosa che mi dà più fastidio è che poteva essere evitata. Io mi appello alle autorità perché pongano rimedio ai problemi che hanno pervertito il corso della giustizia, e sprecato risorse preziose del sistema: una procura troppo zelante e intransigente, una investigazione segnata dal pregiudizio e la strettezza mentale, la mancanza di volontà di riconoscere gli errori, l’attenzione prestata a testimoni e prove non affidabili, l’assassinio del mio carattere, l’inconsistenza del teorema accusatorio, le tecniche coercitive e controproducenti di interrogatorio, che hanno prodotto confessioni inaccurate».
Omicidio Meredith, condannati Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza delle Corte d'assise d'appello a Firenze. Ventotto anni e sei mesi per la giovane americana e 25 per il suo ex fidanzato. Divieto di espatrio per lui. Lei: "Sono spaventata. Verdetto ingiusto". Legali pronti ad andare in Cassazione, scrive “La Repubblica”. Quasi dodici ore di camera di consiglio, poi la sentenza di condanna per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Una pena di 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e di 25 per Raffaele Sollecito per l'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nel 2007. Divieto di espatrio per Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda. La sentenza dei giudici della Corte d'Appello di Firenze è arrivata alle 21.50. Rispetto alla condanna di primo grado emessa nel dicembre 2009 dalla Corte di Perugia, è stata aumentata di due anni e sei mesi la pena inflitta ad Amanda Knox perché i giudici hanno ritenuto aggravato il reato di calunnia commesso dalla ragazza americana nei confronti di Patrik Lumumba. Secondo la Corte d'Appello di Firenze, Amanda lo accusò per assicurare a sé l'impunità dal reato di omicidio. Anche Lumumba era in aula, dopo la sentenza ha detto: "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia italiana, Amanda può dire cosa accadde quella notte". "Sono spaventata e rattristata da questa sentenza ingiusta", ha detto poco dopo la giovane, intervistata dal network televisivo Abc. Questa dura condanna "non è una consolazione per la famiglia Kercher", e credo che tutta la vicenda sia "sfuggita di mano". Amanda Knox è rimasta "impietrita, ma non ha pianto e non ha parlato", aveva detto poco prima uno dei suoi legali, Carlo Dalla Vedova, che le ha comunicato la decisione. La Knox è negli Stati Uniti a casa della madre. L'altro legale della ragazza, Luciano Ghirga, ha aggiunto: "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda è innocente". E più tardi anche la madre della giovane americana, Edda Mellas, ha rilasciato un'intervista alla Abc: "Amanda è sconvolta. Tutti noi siamo sconvolti e scioccati, ma siamo anche pronti a combattere. Tutti in famiglia, anche nella nostra famiglia allargata, siamo pronti a continuare a lottare per la verità e per la sua libertà, e nessuno di noi ha intenzione di mollare". Anche Sollecito non era in aula al momento della lettura della sentenza. E' apparso "annichilito" ad uno dei suoi difensori, l'avvocato Luca Maori. I legali di Amanda Knox si sono detti pronti a fare ricorso. "La lunga discussione - ha detto Ghirga - dimostra che ci sono stati temi controversi. La strada del ricorso dopo il rinvio è molto difficile da determinare ma siamo pronti a una nuova battaglia". Pronta a impugnare la sentenza anche Giulia Buongiorno, legale di Raffaele Sollecito, che ha definito il processo "vuoto di prove e di indizi". "Lo abbiamo dimostrato. Questo è solo un passaggio", ha detto. Alla notizia della condanna i familiari di Meredith sono rimasti impassibili. Hanno stretto le mani ai loro legali. "Non è tempo di festeggiare", ha detto il fratello di Meredith, Lile. Poco dopo Stephanie, sorella della vittima, ha affermato: "Non sapevamo cosa aspettarci. Siamo ancora sotto shock". I due concordano sul fatto che "non importa quale sia stata la sentenza perché non c'è comunque nulla da festeggiare ma probabilmente è la cosa migliore che ci saremmo mai potuto aspettare". Soddisfatto il legale della famiglia della giovane inglese uccisa la notte tra il 1 e il 2 novembre del 2007: "Riteniamo che sia stata fatta giustizia per Meredith e la sua famiglia", ha detto Francesco Maresca. Nelle scorse settimane il pg aveva chiesto pene di 30 anni per Amanda (compresi i 3 già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per Raffaele. Aveva chiesto anche che, in caso di condanna, la Corte d'assise d'appello di Firenze disponesse le misure cautelari.
Amanda Knox e Raffaele Sollecito condannati a 28 anni e a 25 anni di carcere per l'omicidio di Meredith Kercher, scrive “Libero Quotidiano”. Il verdetto del tribunale di Firenze arriva dopo 12 ore di camera di consiglio. Raffaele non era presente in Aula, Amanda invece è negli Stati Uniti. I due imputati erano stati condannati in primo grado e assolti in appello, la Cassazione aveva ordinato un nuovo processo d'appello a Firenze. Dopo la sentenza di assoluzione Amanda è volata nella sua Seattle. Raffaele non ha mancato un'udienza e anche giovedì mattina era in aula. Poi però ha preferito aspettare la lettura della sentenza lontano dal tribunale. A Raffaele Sollecito ora sarà ritirato il passaporto. Intanto però la vicenda non finisce qui. Il legale di Sollecito, Giulia Bongiorno è pronta per una battaglia in Cassazione: "Impugneremo la sentenza. Questo è un processo vuoto di prove e di indizi. Lo abbiamo dimostrato. Questo e' solo un passaggio". Soddisfazione invece per il Pg Crini: "E' stato riconosciuto il nostro impianto accusatorio". Per i Kercher invece parla l'avvocato Maresca:"Riteniamo che sia stata fatta giustizia per Meredith e la sua famiglia". "Siamo pronti ad accettare qualsiasi decisione. Non vogliamo che a pagare siano le persone sbagliate: quello che vogliamo è sapere cosa è successo quella notte", aveva detto la sorella di Meredith Kercher questa mattina alla stampa. Ora quella decisione c'è stata. In aula non era presente nessuno degli imputati: Raffaele Sollecito si era presentato in tribunale durante la mattinata, ma poi ha cambiato idea ed è andato via insieme al padre che ha dichiarato "Non ce la facciamo". Sui banchi della difesa erano quindi presenti solamente i legali, Giulia Bongiorno e Luca Maori per Sollecito e Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga per Amanda Knox, che è rimasta negli Stati Uniti e ha seguito il verdetto dalla casa della madre. Con questa sentenza si chiude per il momento (nell'attesa del processo in Cassazione) una vicenda lunga 7 anni. Ecco le tappe che hanno portato a questo verdetto:
L'omicidio - Nella notte del 1° novembre del 2007 in via della Pergola a Perugia viene assassinata Meredith Kercher, una studentessa inglese di 21 anni. Il giorno successivo il corpo viene scoperto dalla coinquilina Amanda Knox e dal suo fidanzato Raffaele Sollecito, che dopo 4 giorni vengono fermati dalla polizia, finendo sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Giacomo Silenzi, fidanzato italiano di Meredith, accusa Amanda di essere insensibile alla vicenda, dal momento che non tradiva la minima emozione all'indomani dell'omicidio. A finire nei guai è anche Patrick Lumumba, proprietario del bar in cui Amanda lavorava ogni tanto, accusato dalla stessa Amanda. Le prove scarcerano poi Lumumba e nello stesso giorno viene accusato Rudy Guede - rintracciato e arrestato in Germania - perché viene trovata sulla scena del crimine l'impronta della sua mano insanguinata.
Il processo - Il 16 settembre 2008 inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, che dispone di procedere col rito abbreviato per Guede - condannandolo a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale - e rinvia a giudizio Amanda e Raffaele. Il loro processo inizierà il 16 gennaio 2009 e a fine anno arriverà la sentenza della Corte di assise di Perugia, che li condanna rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere.
L'appello - Il 18 dicembre 2010 la stessa Corte d'assise riapre il dibattimento del processo per i due ex amanti e dispone una nuova perizia per le tracce genetiche ritrovate sul coltello e sul gancetto del reggiseno trovato nella stanza di Meredith. Sei mesi dopo i periti bocciano il lavoro svolto dalla scientifica definendo gli accertamenti come non attendibili. Il 24 settembre 2011 la procura chiede l'ergastolo per entrambi, ma qualche giorno dopo la sorpresa: arriva l'assoluzione.
La cassazione - La procura generale e la famiglia della vittima depositano il ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione e il 25 marzo 2013 la cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado. Questo porta a un "nuovo inizio" del processo. Il pg Alessandro Crini aveva chiesto trent'anni di carcere per Amanda Knox e la riformulazione a 4 anni di reclusione per calunnia ("carattere non estemporaneo della calunnia stessa, e tarata per creare depistaggio") e 26 anni per Raffaele Sollecito. Ora per Amanda e Raffaele è arrivata la nuova condanna.
Quella di Firenze è una nuova sentenza di una vicenda giudiziaria che dura da sette anni, ovvero da quando Meredith, studentessa inglese di 22 anni, fu trovata senza vita nella camera da letto del suo appartamento di via della Pergola a Perugia. Knox e Raffaele Sollecito erano stati condannati in primo grado a 26 e 25 anni per l'omicidio e poi assolti in appello nell'ottobre 2011. Ma il 26 marzo dello scorso anno la Corte di Cassazione aveva cancellato l'assoluzione e ordinato un nuovo processo, di cui oggi è arrivata la sentenza. Rudy Guede, il terzo accusato per l'omicidio, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale. Amanda ha atteso il quarto verdetto dagli Stati Uniti, nella sua casa di Seattle. La studentessa americana ha rilasciato un'intervista via Skype al New York Times. "Nulla potrà cancellare l'esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata", aveva detto nelle ore che hanno preceduto la decisione dei giudici della Corte d'Appello di Firenze.
Hanno seguito le indicazioni della Corte di Cassazione e «hanno posto rimedio» come era stato sollecitato il 26 marzo scorso proprio dai supremi giudici, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Perché la sentenza d’appello che assolveva Amanda Knox e Raffaele Sollecito, era stata annullata ritenendo fosse «segnata da molteplici profili di manchevolezza, contraddittorietà ed illogicità». E ieri sera il nuovo collegio presieduto da Alessandro Nencini è addirittura andato oltre le aspettative, aggravando la pena inflitta in primo grado ad Amanda Knox e confermando quella per Raffaele Sollecito. I 28 anni e sei mesi per lei e i 25 per lui dicono che entrambi erano sulla scena del delitto, entrambi hanno partecipato all’omicidio di Meredith Kercher. La linea tracciata dalla Cassazione ordinando un nuovo processo d’appello era chiara: «Delineare la posizione soggettiva dei concorrenti di Rudy Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo». «Concorrenti»: è questa la parola chiave. E infatti il verdetto emesso ieri sera conferma la posizione dominante di Amanda, ma assegna a Raffaele un ruolo da protagonista. Non passa la linea degli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori che avevano chiesto di «separare» i due ragazzi. Non passa la linea di chi ipotizzava per lui una condanna per favoreggiamento. Raffaele, questo dice la Corte, c’era e partecipò attivamente all’assassinio. Erano 14 i punti controversi evidenziati dai supremi giudici. Testimonianze, prove genetiche, ricostruzioni: ogni aspetto era stato rimesso in discussione. E molti dubbi erano stati espressi sulla valutazione delle dichiarazioni di Amanda Knox, la sua confessione e quel memoriale che - meno di una settimana dopo il delitto, quando le indagini della polizia non avevano ancora imboccato alcuna pista - ricostruì che cosa era accaduto nella villetta di via della Pergola indicando in un giovane di colore l’assassino di Mez. Davanti ai poliziotti della squadra mobile di Perugia la giovane di Seattle entrò nei dettagli, disse che Patrick Lumumba voleva avere un rapporto sessuale con la sua amica, che si erano chiusi in camera e poi lei si era tappata le orecchie perché non voleva sentire «ma avevo capito che cosa stava accadendo». Decise anche di scriverlo a mano, in bella grafia su alcuni fogli a righe che poi consegnò agli agenti. Non era Patrick, ma Rudy. E proprio lui, unico ad aver ammesso di essere stato quella sera con Mez pur negando di averla uccisa, ha confermato ogni particolare di quella ricostruzione. Avvalorando l’ipotesi che Amanda abbia accusato uno per coprire l’altro, così sperando di salvare anche se stessa. Una tesi che la Cassazione aveva in qualche modo confermato affermando: «È vero che si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale, ma è anche vero che non potevano essere liquidate - come furono - sul presupposto della pressione psicologica a cui fu sottoposta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato nella piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne utilizzato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto, oltre che sulla base di quanto raccontato ancora una volta in piena autonomia e al riparo da interventi pressanti, alla madre, nel corso di un colloquio con lei». Quanto bastava per evidenziare «una palese contraddittorietà nella valutazione della stessa prova, che mette in discussione la coerenza strutturale della decisione» e invitare «il giudice di rinvio a formulare nuovo giudizio, con maggiore coerenza argomentativa, trattandosi anche in questo caso di un passaggio significativo del discorso giustificativo, afferente la presenza o meno della giovane presso la sua abitazione al momento del fatto». E poi c’è la sentenza che ha condannato Guede a 16 anni di carcere, diventata ormai definitiva, per concorso in omicidio. Su questo la Cassazione era stata lapidaria, specificando come «il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con quello sulla disponibilità della casa» dove fu compiuto il delitto e dunque sulla presenza di Amanda. Dna, testimoni, interrogatori: la partita tra accusa e difesa non è conclusa, si giocherà nuovamente tra qualche mese davanti alla Corte di Cassazione. Ma la sentenza di ieri sera sembra aver segnato inesorabilmente il futuro di Amanda e Raffaele.
Dopo sei anni vissuti come una comparsa all’ombra di Amanda, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”, Raffaele Sollecito diventa protagonista all’ultima udienza del quarto processo, in un modo semplice, e ben prima della condanna: lei è in America, a Seattle, a casa, e invece lui arriva in aula al mattino coi capelli lunghi e gli occhiali da sole, i lineamenti tesi, «essere qui è la risposta migliore per chi sosteneva che sarei scappato», ringhia, e quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, alle dieci e un quarto del mattino, lui si dissolve. E da quel momento, fino a sera, nessuno sa dire con certezza dove sia. «È in camera, comprendetelo - spiegava il padre al mattino nella hall dell’albergo - la tensione è tanta, ha attacchi di panico, forse verrà stasera per la lettura della sentenza, forse no, non so, non è facile». Da quel momento in poi, tutti lo cercano: c’è chi dice sia a Roma, dalla sorella del padre, c’è chi dice sia tornato in Puglia, chi crede sia in un albergo tra la capitale e Bari. Non è in aula quando i giudici rientrano per la sentenza, e alle 10 di sera, oltre alla condanna e al ritiro del passaporto, è l’unica certezza. Del suo stato d’animo, di come ha vissuto le ore che lo separavano dal verdetto, aveva detto al mattino: «È uno stillicidio, mai avrei pensato di arrivare a questo punto, è il quarto grado di giudizio, questa storia va avanti da quasi sette anni». Al mattino Raffaele è con la nuova fidanzata, Greta, una ragazza di Treviso che gli è vicina da un po’: all’avvocato Giulia Bongiorno aveva detto che non sarebbe mai stato presente alla lettura della sentenza, per mesi glielo aveva ripetuto, poi due giorni fa aveva cambiato idea. Invece no. «Siamo a casa di parenti - dice il padre, Francesco Sollecito, a metà pomeriggio - l’attesa era snervante, non potevamo rimanere in hotel». Infatti, nell’albergo dei Sollecito non c’è traccia, né Raffaele né il padre né gli zii, nessuno. Le uniche parole di Raffaele sono del mattino, uscendo dal tribunale: «Non ho niente da aggiungere a quello che ho sempre detto: sono innocente». Ha la pelle chiara, Raffaele, ma mentre sfila via dal Tribunale il colorito pare quello della camicia e del maglione, viola. Stringe la mano a Patrick Lumumba, l’uomo accusato da Amanda di essere l’assassino di Meredith e liberato dopo l’arresto di Guede. È braccato da decine di operatori tv, fotografi, giornalisti: rispetto a sei anni e mezzo fa, all’inizio di questa storia terribile, è cambiato completamente, perfino nei lineamenti, che ora sono più duri, gli zigomi a spigoli, il volto scavato. Ha un giaccone blu che lo fa sembrare massiccio, ha una faccia che lo fa sembrare sfinito. Dribbla i cronisti e sale su un taxi con la fidanzata, direzione albergo, che però è a 300 metri dal tribunale, due minuti a piedi. Invece i due se ne vanno sull’auto bianca: in fuga dai giornalisti e dalle telecamere, certo. Ma è evidente, anche, che questa giornata sia una specie di incubo per lui, un’attesa di dodici ore - tanto dura la camera di consiglio - nella quale, di colpo, tutti vogliono sapere dove sia. Davanti al suo albergo, fin dal mattino, ci sono poliziotti in borghese. Il procuratore generale Alessandro Crini, del resto, aveva chiesto alla corte di disporre, in caso di condanna, una misura cautelare tale da assicurare alla giustizia i due imputati. In quel momento Amanda era (ed è anche ora) in America, Raffaele era in aula: istintivamente s’è voltato verso uno dei suoi legali, Luca Maori, e ha sussurrato una frase impaurita, «e adesso cosa mi succede?». Quella domanda deve essergli girata in testa per tutta la giornata di ieri, per tutta la notte, senza dargli scampo. Ovunque fosse, ovunque andrà.
Ha aspettato il verdetto barricata con la sorella e la madre nella casa di quest’ultima a Seattle, dove studia Scrittura Creativa all’Università di Washington e dove ieri anche l’appartamento nell’International District che condivide con la sua migliore amica Madison Paxton (talvolta col fidanzato James Terrano, chitarrista newyorchese) è stato preso d’assalto da paparazzi e troupe televisive di ben tre nazioni, scrive Alessandra Farkas su “Il Corriere della Sera”. «Amanda è rimasta impietrita ma non ha pianto e non ha parlato» ha rivelato il suo avvocato Carlo Dalla Vedova, che ha avuto l’ingrato compito di comunicare per telefono la sentenza di condanna alla studentessa americana che dopo l’ennesima notte insonne ha preferito spegnere la tv, scegliendo di rimanere aggiornata con gli sms dei suoi legali in aula a Firenze. «Oggi Amanda non concederà interviste», mette in guardia da Seattle il suo pr David Marriott che alle 22 e 25 (ora italiana) invia un messaggio in cui Amanda si dice «impaurita e rattristata da questo ingiusto verdetto», spiegando che «una condanna errata è terribile non solo per chi viene accusato erroneamente ma anche per la vittima, i suoi famigliari e la società». «Sono stanca. Cerco pace», si era sfogata ore prima in uno dei suoi tanti messaggi mentre i siti di mezzo mondo diffondevano le immagini del suo «nuovo, drammatico look»: caschetto corto castano, occhiali e abbigliamento casual, più da secchiona che da biondissima femme fatale Foxy Knoxy di un tempo. In realtà sono mesi che la 26enne, finita su Wikipedia nella top list dei Vip di Seattle, si appellava ai media italiani e americani, forse nel tentativo di influenzare il processo. «Voglio provare la mia innocenza», ha ribadito nell’ultima intervista, concessa mercoledì via skype al New York Times . Nel suo ultimo post sull’account Twitter #amandu_knoxx, lo scorso 13 gennaio, era stata ancora più lapidaria: «Non mi consegnerò volontariamente in mano all’ingiustizia». Anche se in un recente sondaggio Abc-Washington Post il 73% degli americani over-50 continua a crederla innocente (si scende al 56% tra i suoi coetanei) e su Twitter i suoi seguaci hanno fatto quadrato intorno a lei, il suo dramma continua a dividere. «Ho ricevuto minacce di morte», ha confessato al New York Post . «Ogni volta che esco di casa mi guardo alle spalle», ha incalzato, spiegando di avere dovuto apprendere il Krav Maga, tecnica israeliana di autodifesa. Dopo l’uscita di «Waiting To Be Heard», che le è valso quasi 4 milioni di dollari («già tutti spesi per pagare agenti, avvocati, tasse e collaboratori, oltre ai debiti accumulati dalla mia famiglia») Amanda ha lanciato il sito web amandaknox.com dove, oltre a presentarsi come «scrittrice di bestseller del New York Times », si è trasformata in paladina di tutti i «giovani innocenti finiti ingiustamente dietro le sbarre», dall’italiano Chico Forti alla canadese Nyki Kish. Mentre in patria psicologi e sociologi si interrogano sull’effetto che il nuovo verdetto colpevolista avrà sul suo futuro, in una «lettera aperta a mio figlio mai nato» pubblicata sul sito del famoso Today show, Amanda si immagina tra 50 anni, vecchia, rugosa e sdentata in un penitenziario italiano, dove il suo desiderio di maternità è stato soffocato per sempre. «Soffro di disturbo post traumatico», racconta al Post , «Piango molto spesso e non riesco a respirare, muovermi e parlare, non posso leggere, né studiare e voglio solo fuggire dalla vita per raggomitolarmi in un buco senza più uscirne».
Notificato nelle prime ore del mattino dopo il divieto di espatrio a Raffaele Sollecito, scrive “La Repubblica”. Secondo quanto appreso, Sollecito è stato raggiunto da agenti della squadra mobile di Firenze e di Udine a Venzone in un paese tra Udine e Tarvisio, uno degli ultimi paesini vicino al confine austriaco. Sollecito lo aveva raggiunto nel primo pomeriggio di ieri in attesa della sentenza. In serata, dopo quasi 12 ore di camera di consiglio, Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati a, rispettivamente, 28 anni e sei mesi e 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel 2007. Sollecito, sorpreso dalla polizia in albergo, ora si trova negli uffici della Questura del capoluogo friulano per la notifica del provvedimento del divieto di espatrio emesso nei suoi confronti a seguito della sentenza di condanna a 25 anni pronunciata ieri sera nell'appello bis dalla Corte d'Assise di Firenze. Per Amanda, che ha seguito il processo dalla sua casa a Seattle, non è stata disposta nessuna misura cautelare. Amanda è una cittadina americana che si trova "legittimamente" nel suo Paese dopo una sentenza di assoluzione. Per Raffaele Sollecito, invece, "è concreto e attuale il pericolo che possa sottrarsi con la fuga dalla giurisdizione italiana" e da qui la decisione della Corte d'Assise d'appello di Firenze di emettere il divieto di espatrio. Una decisione a due facce che il giovane pugliese ha probabilmente cercato di scongiurare fino in ultimo. Secondo il collegio fiorentino Sollecito "pur non sottraendosi alla partecipazione al giudizio ha evidenziato la disponibilità di supporti logistici in Paesi con cui l'Italia non è legata da rapporti di assistenza giudiziaria". Quali la Corte non li ha citati, ma recentemente il giovane è stato fotografato in vacanza a Santo Domingo o indicato in Svizzera alla ricerca di lavoro. Per Sollecito, quindi, i giudici considerano "concreto e attuale" il pericolo di fuga. L'unico che la Corte ha ritenuto si possa ipotizzare per la richiesta di misura avanzata dal pg per "garantire l'esecuzione della sentenza". Di qui il divieto di espatrio. Il giovane non potrà quindi uscire dall'Italia "senza autorizzazione del giudice" di Firenze. Gli verrà ritirato il passaporto ma il suo nome è già nella banca dati nella quale sono inseriti i nominativi di coloro che non possono espatriare. "Amanda è sconvolta. Tutti noi siamo sconvolti e scioccati, ma siamo anche pronti a combattere". Così la madre di Amanda Knox, Edda Mellas, nella sua prima intervista alla Abc dopo la sentenza di condanna da parte della Corte d'Appello di Firenze. "Tutti in famiglia, anche nella nostra famiglia allargata, siamo pronti a continuare a lottare per la verità e per la sua libertà, e nessuno di noi - conclude la madre di Amanda - ha intenzione di mollare".
Sollecito fermato al confine con l’Austria. Il padre: Amanda non tornerà in Italia. La polizia lo ha rintracciato ieri sera a Tarvisio: «Voleva varcare il confine». La polizia gli ha ritirato il passaporto. Lui: adesso la mia battaglia continua, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. La fuga di Raffaele Sollecito accompagnato da Greta, la sua fidanzata, è durata quasi un giorno e si è conclusa stamani all’alba nell’hotel Carnia, di Venzone, in Friuli. Quando gli uomini della Mobile di Firenze gli hanno notificato il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto e dei documenti utili all’espatrio. Gli uomini della Mobile nelle prossime ore porteranno una informativa alla procura generale che dovrà valutare se chiedere alla Corte d’assise d’appello che ha giudicato Amanda e Raffaele, una misura cautelare di custodia in carcere. Nella ricostruzione delle ore concitate che hanno preceduto la sentenza emessa l’altra notte, Raffaele ha abbandonato l’aula del Tribunale intorno a mezzogiorno. Un’ora dopo era già in macchina della fidanzata. Hanno pranzato a Venezia, nelle prime ore del pomeriggio in Friuli. Naturalmente Raffaele veniva costantemente «monitorato» a distanza. Il problema per gli investigatori era quello di aspettare la decisione della Corte d’assise d’appello. Intorno a mezzanotte la misura interdittiva del divieto di espatrio e del ritiro del passaporto è stata consegnata agli uomini della Mobile. «Non ha avuto alcuna reazione». Chi gli ha notificato il provvedimento nega che Raffaele abbia avuto una reazione». Ora Sollecito è trattenuto in questura, a Udine. Per pratiche burocratiche. I l suo nome è già nella banca dati nella quale sono inseriti i nominativi di coloro che non possono espatriare. «Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti»: a dirlo è stato stamani il ragazzo ad uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio. I genitori di Amanda, intanto, hanno annunciato che non tornerà in Italia per scontare i 28 anni e sei mesi a cui è stata condannata. Lo assicura, all’indomani della sentenza della Corte d’assise d’appello di Firenze, il padre Curt. «Se si usa il buon senso, se si guardano le prove...no, non ci aspettavamo (questa sentenza), assolutamente no», ha detto all’Abc.
Ritirato il passaporto a Sollecito. Era a 30 km dal confine con l'Austria. Il giovane pugliese: "Avvocato, sono innocente. La battaglia va avanti". La polizia gli ha notificato il divieto di espatrio a 30 km dal confine, scrive Franco Grilli Ieri sera i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno ribaltato la sentenza di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, condannando la prima a 28 anni, il secondo a 25, per la morte di Meredith Kercher. Al giovane pugliese, svegliato all’alba dalla polizia in un albergo della provincia di Udine, è stato notificato il divieto di espatrio e gli è stato ritirato il passaporto. Nei suoi confronti, inoltre, è stato disposto anche il divieto di lasciare l’Italia. Sollecito è stato fermato dalla polizia in un albergo di Venzone, a una trentina di chilometri dal confine con l'Austria. Ieri sera aveva raggiunto la fidanzata dopo aver partecipato ieri mattina alla prima parte dell’udienza fiorentina. "Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti": Sollecito lo ha detto a uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri, con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio. La Knox, che ha commentato la nuova sentenza come "ingiusta", potrà rimanere negli Stati Uniti in attesa del ricorso in Cassazione e di una sentenza definitiva. I familiari di Meredith Kercher hanno annunciato per oggi una conferenza stampa. All’incontro parteciperanno il fratello e la sorella di Meredith, Lyle e Stephanie, ed il loro legale Francesco Maresca. Il legale di Sollecito, Giulia Bongiorno, ha riferito alla stampa che ha sentito il suo assistito per telefono. È "incredulo" ha detto la Buongiorno. La reazione negli Stati Uniti. Se da una parte i principali giornali americani riportano la notizia della condanna senza prendere una posizione netta (almeno nelle prime ore e a parte un titolo sibilino di Cnn, "Colpevole, ancora"), sui social network americani esplode la polemica. In centinaia di migliaia hanno difeso Knox su Twitter e su Facebook criticando il sistema giudiziario italiano. "Vergogna è innocente, sistema italiano non funziona", scrive AdamB. E ancora "Il sistema giudiziario italiano? Amanda Knox ha mai sentito parlare di Berlusconi?", scrive Jasmine Merryweather. "Il noto sistema giudiziario a canguro ha tirato un’altra volta uno scherzo. Richiamate il mostro di Firenze", scrive Kataisa. Come funziona l'estradizione con gli Usa. Quasi sicuramente il ministero della Giustizia italiano non richiederà l'estradizione per la Knox prima che il verdetto venga confermato dalla Cassazione. Se la condanna dovesse essere confermata, inizierebbe un lungo processo legale. La decisione finale spetterebbe al dipartimento di Stato e, in seconda istanza, al dipartimento Giustizia. L'accordo sull'estradizione tra Italia e Stati Uniti prevede questo: affinché una persona venga estradata deve aver commesso una violazione considerata un reato in entrambi i Paesi e per la quale la legge prevede una pena superiore a un anno di carcere. Il dipartimento di Stato Usa valuterà se ci siano motivazioni sufficienti per chiedere il trasferimento della 26enne. Se il dipartimento di Stato lo ritiene opportuno, trasferirà il caso al dipartimento della Giustizia, che rappresenterà gli interessi del governo italiano ordinando l'arresto della Knox e conducendola davanti a una Corte distrettuale Usa. I tribunali americani hanno una capacità limitata di valutare richieste di estradizione in Paesi stranieri e il loro compito è piuttosto quello di garantire che la richiesta rispetti i requisiti di base. "I tribunali americani non danno giudizi sui sistemi legali di altri Paesi", ha spiegato l'ex procuratrice federale Usa Mary Fan, che insegna diritto all'Università di Washington a Seattle.
Processo Meredith, Lele e Amanda condannati ma liberi. La giustizia cambia ancora idea dopo il quinto processo: 28 anni a lei, 25 a lui. Ma niente arresto. Per Sollecito divieto d'espatrio, scrive Massimiliano Mugnaini su “Il Giornale”. Colpevoli. Allo stesso modo. Sei anni, due mesi e 29 giorni dopo quella maledetta notte del 1 novembre 2007, il giallo di Perugia è risolto. Almeno per la giustizia italiana, Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno aiutato l'ivoriano Rudy Guede - già in carcere - ad uccidere Meredith Kercher. L'ex studentessa americana è stata condannata a 28 anni e sei mesi di carcere, l'ingegnere pugliese a 25, con il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto. Accolte in pieno dunque, in pratica, le richieste dell'accusa (30 e 26 anni di reclusione): la differenza di pena è determinata solo dalla condanna Ad Amanda per calunnia contro Patrick Lumumba, il musicista che aveva accusato ma poi risultato estraneo all'indagine. Cancellata dunque l'assoluzione in secondo grado: per Amanda e Raffaele ricomincia il calvario. Ci sono voluti quattro processi, varie sentenze ribaltate, una lunga serie di interrogatori, perizie e controperizie: il verdetto è arrivato alle 21,55 di ieri, mentre all'esterno del Palazzo di Giustizia di Firenze diluviava. Iniziata alle 10,15, la camera di consiglio è durata più del previsto, oltre 11 ore: evidentemente non c'era accordo neppure tra i 12 giudici. Sentenza attesa per le 17, poi si sono susseguiti vari annunci di slittamento. Un'attesa davvero spasmodica ma quando il presidente della Corte d'Assise d'appello del tribunale toscano, Alessandro Nencini, è rientrato in aula per leggere il dispositivo ha trovato ad attenderlo uno stuolo di giornalisti, avvocati e di gente comune. Non c'erano invece loro. Né Amanda - rimasta negli Usa per tutto il processo - né, a sorpresa, Raffaele. Accompagnato dal padre Francesco, il giovane ingegnere pugliese era stato tra i primi a presentarsi ieri mattina. Elegante nel suo cappotto blu e maglioncino viola, Raffaele era sembrato abbastanza tranquillo, quasi baldanzoso. Poi però in tribunale non si è più visto: è tornato in albergo, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia, ma non si è ripresentato in aula al momento della lettura della sentenza come aveva assicurato anche in mattinata. Amanda Knox invece non ha mai messo piede in Toscana. Ha atteso la sentenza a Seattle, sempre on line ma anche «attaccata» al telefono coi propri avvocati. Anche ieri, prima del verdetto, i legali hanno chiesto in aula che venisse assolta per mancanza di prove. Raccontando di una Knox agitatissima e tutt'altro che intenzionata a tornare in Italia, sempre vista come un Paese ostile, come ha spiegato ieri in un'intervista al New York Times in cui ha ribadito per l'ennesima volta di essere diversa da come è stata dipinta. In giornata sono sbarcati a Firenze i familiari di Meredith Kercher che dopo la sentenza hanno commentato: «Non festeggiamo». La sorella Stephanie aveva anticipato come la famiglia fosse pronta ad accettare qualsiasi decisione, pur ritenendo «irricevibile» una lettera scritta da Amanda, ovviamente prima di venire a conoscenza del verdetto che lei ha seguito in tribunale. Amanda non avrebbe tradito emozioni durante la lettura delle sentenza, ma più tardi alla Abc ha detto di «essere rattristata e spaventata da un verdetto ingiusto». «Solo un passaggio doloroso», ha commentato il suo avvocato Giulia Bongiorno, preannunciando ricorso in Cassazione. In aula a Firenze c'era anche Patrick Lumumba, il musicista coinvolto nell'indagine sull'omicidio di Meredith per le dichiarazioni di Amanda, poi risultato estraneo al delitto. Lui ha avuto parole positive per Sollecito cui in mattinata aveva stretto la mano, accusando la Knox per la sua assenza. «Scappa: se non ha fatto niente doveva essere qua. Mi aspetto che sia condannata, lei è un lupo travestito da agnello». I giudici hanno dato credito a questa tesi e a quella secondo cui il movente dell'omicidio di Amanda non fu un gioco erotico finito male. Hanno creduto che quella sera, nella casa di via della Pergola, esplosero conflitti irrisolti tra Amanda e Meredith sulla pulizia dell'appartamento. E che Sollecito e Amanda avrebbero preso le difese di Rudy Guede aiutandolo ad uccidere Meredith.
Colpevoli per l’omicidio di Meredith: la sentenza su Amanda Knox e Raffaele Sollecito, scrive Maddalena Balacco su “Giornalettismo”. Si chiude anche l'appello Bis di Firenze, i due dichiarati colpevoli: la corte ha inoltre imposto il divieto di espatrio per Raffaele Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda Knox. Condannati a 25 e 28 anni. La sentenza su Amanda Knox e Raffaele Sollecito è infine arrivata. Amanda Knox è stata condannata a 28 anni e sei mesi e Raffaele Sollecito a 25 per l’omicidio di Meredith Kercher. E ‘la Sentenza della Corte d’appello di Firenze. La corte ha inoltre imposto il divieto di espatrio per Raffaele Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda Knox. Impassibili i familiari di Meredith Kercher alla lettura della Sentenza di condanna. Hanno stretto le mani ai loro legali e hanno scambiato qualche parola con il pg. Amanda Knox è rimasta ”impietrita” appena saputa la sentenza di condanna, ma non ha pianto e non ha parlato. Così uno dei suoi legali, Carlo Dalla Vedova, che ha comunicato, via telefono alla studentessa americana che è a casa della madre, la decisione della corte d’appello di Firenze. ”Essendo stata in passato giudicata innocente, mi aspettavo di meglio dal sistema giudiziario italiano. Contro di me un apparato accusatorio inesistente”. Così Amanda Knox commenta, in una nota, la condanna dalla Corte d’Appello di Firenze. ”La mia famiglia ed io – sottolinea Amanda in una nota – abbiamo sofferto molto da questa persecuzione ingiusta. Quindi ha attaccato il sistema giudiziario italiano, osservando che è stata vittima di ”indagini grette e piene di pregiudizi, della riluttanza ad ammettere errori”. Contro di lei, secondo Amanda s’è ricorso a ”testimonianze inattendibili e un apparato accusatorio e probatorio inconsistente e infondato”. “Impugneremo la sentenza”. Così Giulia Buongiorno, legale di Raffaele Sollecito, al termine della sentenza. Un processo “vuoto di prove e di indizi. Lo abbiamo dimostrato. Questo è solo un passaggio”. Intanto la notizia fa il giro del mondo. Rispetto alla sentenza di condanna di primo grado emessa nel dicembre 2009 dalla Corte di primo grado di Perugia, i giudici d’appello di Firenze hanno aumentato di due anni e sei mesi la pena inflitta ad Amanda Knox perché hanno ritenuto aggravato il reato di calunnia commesso dalla ragazza americana nei riguardi di Patrik Lumumba. A poche ore dal verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Firenze per l’omicidio di Meredith Kercher, Amanda Knox racconta in un’intervista via Skype pubblicata dal New York Times le sue sensazioni. “Nulla potrà cancellare l’esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata”, afferma la giovane di Seattle. Amanda è stata descritta come una persona diabolica, scrive il giornale: “Ma io non sono così, sono diversa da come mi hanno dipinta”, afferma. La studentessa americana spiega perché ha deciso di non essere in aula per la sentenza, a differenza del suo ex fidanzato Raffaele Sollecito: “Mi sarei messa nelle mani di persone che hanno dimostrato chiaramente di volermi in carcere per qualcosa che non ho fatto – racconta – E io non posso farlo. Proprio non posso”. “Le persone che mi accusano – conclude – sostengono che non può essere fatta giustizia per Meredith sino a che io non verrò condannata”. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia la sera del primo novembre del 2007 e la vicenda giudiziaria legata al delitto è una delle piu’ controverse degli ultimi anni. Queste le tappe del giallo.
AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO, LA STORIA DEL CASO: Ecco la cronistoria, riportata dall’Ansa:
1 NOV 2007
– Meredith,
studentessa inglese di 22 anni, in Italia per Erasmus, viene uccisa con una
coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno
dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la
polizia con la squadra mobile del capoluogo umbro e il Servizio centrale
operativo.
6 NOV – In carcere finiscono
Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba Diya.
Amanda, americana, di Seattle,
all’epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all’Universita’ per
stranieri di Perugia. Sollecito,
24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una
storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell’ex Zaire, dal 1988 vive in
Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano
estranei all’omicidio. Contro Patrick ci sono le dichiarazioni di Amanda, ma lui
sostiene che si trovava nel suo locale.
9 NOV – Il gip convalida i fermi.
SOLLECITO KNOX, LE PRIME TRACCE: 15 NOV – Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.
20 NOV – Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa.
6 DIC – Rudy è trasferito in Italia.
27 MAG 2008 – Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.
19 GIU – I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l’atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Amanda, Raffaele e Rudy per futili motivi.
16 SET – Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.
18 OTT – I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all’ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.
AMANDA, RAFFAELE E RUDY, LE PRIME CONDANNE - 28 OTT – Il Gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.
18 GEN 2009 – Inizia il dibattimento per Sollecito e per la Knox.
18 NOV
– Si apre davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Perugia il processo d’appello
nei confronti di Rudy Guede.
5 DIC – La corte d’Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna
Amanda a 26 anni di carcere e Raffaele a 25.
22 DIC – La corte d’Assise d’Appello riduce da 30 a 16 anni la pena inflitta a Rudy. Concesse le attenuanti generiche.
4 MAR 2010 – Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente ”erotico, sessuale, violento”.
22 MAR – Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Rudy Guede: ”concorse pienamente”, scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello, all’omicidio di Meredith. 24 NOV – Si apre il processo d’appello per Amanda e Raffaele.
16 DIC – La Cassazione conferma la condanna a 16 anni per Rudy Guede. La pena diventa così definitiva.
18 DIC – La Corte d’assise d’Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l’arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della corte, ”non sono attendibili”.
4 OTT 2011 – La corte d’Assise d’appello assolve i due imputati dall’omicidio ”per non avere commesso il fatto” e ne dispone la scarcerazione. Il pg ne aveva chiesto l’ergastolo. 15 DIC 2011 – Depositate le motivazioni. Secondo i giudici di secondo grado i ”mattoni” su cui si e’ basata la condanna ”sono venuti meno”: c’e’ una ”insussistenza materiale” degli indizi, dalle tracce di Dna all’arma del delitto. E l’ordinamento ”non tollera la condanna dell’innocente”.
25 MAR 2013 – Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l’annullamento della sentenza di assoluzione, definita un “raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità”.
26 MAR 2013 – La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo.
30 SET 2013 – A Firenze si apre il nuovo processo di appello. Amanda è negli Stati Uniti, Raffaele non è in aula.
6 NOV – Sollecito rilascia dichiarazioni spontanee: “Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso”.
26 NOV
– Il pg Alessandro Crini chiede condanne a 30 anni per
Amanda Knox (compresi i tre
già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per
Raffaele Sollecito. Secondo il
pg il movente non è un gioco erotico finito male ma una lite legata anche a
vecchie ruggini fra Amanda e Meredith
per le pulizie di casa.
17 DIC – Amanda
invia una lettera alla Corte: “Non sono presente in aula perché ho paura. Ho
paura che la veemenza dell’accusa vi impressionerà”.
20 GEN 2014– Il pg Alessandro Crini chiede ”l’applicazione di una misura cautelare” nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito in caso di condanna.
AMANDA, RAFFAELE E I PROTAGONISTI - Questi i protagonisti della vicenda processuale relativa all’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera dell’1 novembre 2007.
Meredith SUSANNA CARA KERCHER – Era nata il 28 dicembre 1985 a Londra. In Inghilterra aveva frequentato l’Università di Leeds. Giunta a Perugia circa un mese prima del suo omicidio grazie al programma Erasmus, all’Università del capoluogo umbro studiava storia del cinema, letteratura inglese e lingua francese. La sua salma riposa ora in un cimitero alle porte di Londra dove vive la famiglia.
AMANDA KNOX - Nata a Seattle il 9 luglio del 1987 è cresciuta nella città americana dove seguiva un corso di lingua e letteratura creativa nella locale Università per stranieri. Appassionata di yoga e calcio, a Perugia viveva nella casa di via della Pergola insieme a Meredith e a due coinquiline italiane. Nel capoluogo umbro frequentava un corso di scrittura creativa. Durante il processo di primo grado, al termine del quale è stata condannata a 26 anni di reclusione, ha mostrato in aula maglie dedicata ai Beatles dei quali è appassionata. Nel giudizio di secondo grado, conclusosi con l’assoluzione, è invece apparsa sempre tesa. Vive a Seattle dove è tornata appena scarcerata.
RAFFAELE SOLLECITO - Nato a Bari il 26 marzo del 1984 è l’ex fidanzato della Knox che ha conosciuto a un concerto di musica classica. Nel 2003 si è iscritto all’Ateneo perugino laureandosi in informatica in carcere dopo il suo arresto. Sta seguendo ora il corso di specialistica in realtà virtuale all’Università di Verona e si laureerà alla fine di marzo. I giudici della corte d’assise l’hanno condannato a 25 anni di carcere. Anche lui è stato assolto in appello. Lo scorso settembre ha pubblicato negli Usa il libro ”Honor bound” in cui racconta la sua versione dei fatti.
RUDY GUEDE - Originario di Agou, in Costa d’Avorio, dove é nato il 26 dicembre del 1986 è arrivato in Italia all’età di sei anni. Arrestato in Germania dopo l’omicidio è stato processato con il rito abbreviato e condannato definitivamente a 16 anni di carcere che sta scontando a Viterbo, dove studia.
PATRICK LUMUMBA - Nato a Kindu, in Congo, il 5 maggio del 1969, è giunto in Italia all’età di 15 anni lavorando inizialmente nel settore della produzione di abbigliamento. Musicista, ha a lungo gestito un pub, chiuso dopo il suo coinvolgimento nell’inchiesta sull’omicidio Kercher. Venne arrestato in seguito alle dichiarazioni di Amanda e passò circa due settimane in carcere prima di essere riconosciuto estraneo alla vicenda e prosciolto. La Knox è stata condannata a tre anni, già scontati, per calunnia nei suoi confronti.
Una verità in fondo al pasticcio, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Sei anni e mezzo di processi avvitati sugli errori dell'inchiesta. E ancora una camera di consiglio che si trasforma in un bivacco fino oltre l'ora di cena. È il solito pasticcio all'italiana, sia detto senza ironia verso i giudici costretti a mettere toppe e pezze su un vestito comunque sformato. Amanda e Raffaele sono quasi colpevoli, ma fino a ieri quasi innocenti e chissà che altro succederà nel pendolo impazzito delle sentenze. Ad incastrare lui c'è, per i giudici dell'appello bis, il famoso gancetto del reggiseno, che però fu repertato 46 giorni dopo il primo sopralluogo e infatti non aveva convinto la corte di Perugia. E Amanda? Qui c'è in ballo il coltello da cucina con tracce della vittima sulla lama e dell'americana sul manico. Tutto chiaro? Neanche per idea, perché pure quelle prove sarebbero contaminate. Intanto, la solita giustizia a doppio taglio ha condannato in via definitiva Rudy Guede per «concorso in omicidio». Con Amanda e Raffaele? Forse sì, forse no. Ora più sì che no, ma non è detto che i colpi di scena siano terminati. Aspettiamo le motivazioni e incrociamo le dita. Sembra di stare in un girotondo che si presta a tutte le soluzioni. Come tanti altri gialli italiani che hanno inquietato l'opinione pubblica ma, purtroppo, senza un finale consolatorio o con una conclusione ancora oltre l'orizzonte: basta citare la tragedia di Garlasco, con Alberto Stasi imputato unico ad un passo dall'innocenza e ora di nuovo a rischio condanna, o il dramma infinito di Yara, il caso di nera più nera della nostra storia recente, una successione interminabile di errori, incertezze e balbettii dell'intero apparato investigativo. Ma purtroppo la Spoon River delle croci che aspettano un verdetto è lunga e molte lapidi sono ormai sbiadite e fuori dai radar della nostra memoria: nessuno si ricorda più, ad esempio, di Serena Mollicone e dell'incredibile guazzabuglio giudiziario seguito a quell'atroce omicidio. Con tanto di mostro sbagliato, Carmine Belli, il carrozziere di Arce, sventolato davanti a tv e giornali nell'ormai lontano febbraio 2003, salvo poi riabilitarlo nell'imbarazzo generale; esattamente come è accaduto nella vicenda di Meredith Kercher, con l'arresto dell'incolpevole Patrick Lumumba, peraltro sulla base delle dichiarazioni di Amanda. Circostanza che non può non suscitare foschi retropensieri. E che rende più sensata la condanna rispetto alla precedente assoluzione, ma non cancella i punti ti di domanda. Così, fra sbandate e passi falsi, il cittadino medio si convince che la giustizia sia una sorta di lotteria, o peggio, una sorta di quiz. E dove alla fine dilaga la dietrologia che tutto abbraccia e nulla spiega. Burattinai, trame oscure, 007 deviati per definizione, collegamenti cervellotici con altri misteri italiani fino a scoprire, vedi l'Olgiata, che l'assassino della contessa Alberica Filo della Torre era il maggiordomo. E che le prove, addirittura le intercettazioni, c'erano ma rigorosamente chiuse in un cassetto. Contrappasso beffardo per un Paese che ogni giorno svela in tempo quasi reale squarci di conversazioni. Le sentenze, quando arrivano, sono comunque in ritardo. E si resta basiti nel leggere quel che Stephanie Kercher, sorella di Meredith, ha dichiarato al Corriere della sera: «In America e in Gran Bretagna molti pensano che la famiglia Kercher vuole portare avanti questo giudizio infinito verso i due imputati». Come se si trattasse di una vendetta personale e non di una vergogna corale. Ora i Kercher hanno almeno un punto fermo. In attesa del nuovo round, l'ultimo?, in Cassazione.
Omicidio Meredith: Amanda e Raffaele condannati. La corte d'Assise d'Appello di Firenze ha deciso: 28 anni ad Amanda, 25 a Raffaele scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Dopo 11 ore di camera di Consiglio i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno condannato Amanda Konx a 28 anni e sei mesi di carcere e Raffaele Sollecito a 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher. Una sentenza che accoglie la tesi della Cassazione, che aveva respinto la condanna d'Appello della corte di Perugia di assoluzione per i due giovani che si sono sempre detti innocenti. Nessuno dei due imputati era in aula. Amanda si trova dal giorno dopo la sentenza di assoluzione nella sua casa a Seattle. Raffaele Sollecito invece dopo aver sostenuto la sua innocenza in tutte le fasi del processo ha preferito attendere la sentenza lontano dall'aula e dalle decine di telecamere e giornalisti che hanno affollato l'aula. Ma la battaglia legale non è ancora finita. E' certo infatti che i due condannati faranno a loro volta ricorso in Cassazione. "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda è innocente". Così ha commentato uno dei difensori di Amanda Knox, Luciano Virga, alla lettura della sentenza. La parola fine quindi a questo processo non è stata ancora scritta e non mancheranno le polemiche. Certo, sono già in molti a chiedersi come si comporterà il nostro paese e soprattutto come si comporteranno gli Stati Uniti in caso di richiesta di estradizione per Amanda. Soddisfatti i familiari della vittima. Il fratello e la sorella di Meredith, presenti in aula, sono apparsi sorridenti dopo la lettura della sentenza. In primo grado, a Perugia, Amanda venne condannata a 26 anni e Raffaele a 25. In Appello vennero assolti. La Cassazione ha poi annullato quella seconda sentenza ordinando un nuovo appello, quello in corso a Firenze. La Corte di Cassazione ha deciso: il processo d'appello per l'omicidio di Amanda Kercher nel corso del quale sono stati assolti Raffaele Sollecito ed Amanda Knox, è stato annullato e quindi deve ricominciare da capo. Una decisione a sorpresa che riapre uno dei fatti di cronaca più intricati degli ultimi anni, cominciato la notte del 1 novembre del 2007 con l'omicidio della giovane inglese. Meredith Susanna Cara Kercher era nata il 28 dicembre 1985 a Southwark, Londra ed era residente a Croydon, Londra. Studentessa presso l'Università di Leeds dove frequentava un corso di laurea in Studi Europei, aveva aderito al programma Erasmus e per questo motivo era giunta in Italia, a Perugia, nel settembre 2007 per completare proprio il corso di laurea in "European Studies”.
1 novembre 2007: Meredith venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti. La causa della morte fu un'emorragia dovuta alla perdita di sangue da una ferita al collo, provocata da un oggetto acuminato usato come arma. La mattina seguente un'anziana signora, residente nelle vicinanze dell'abitazione di viale Sant'Antonio in cui è stato ritrovato il cadavere di Meredith, chiama la polizia, insospettita dal ritrovamento di due cellulari abbandonati all'interno della sua proprietà. Le informazioni ricavate da uno dei due cellulari indirizzano gli agenti della Polizia Postale di Perugia verso la casa di Meredith Kercher. Al loro arrivo i poliziotti trovano fuori della casa Amanda Knox, coinquilina di Meredith Kercher, e il suo amico italiano, Raffaele Sollecito, con il quale aveva di recente iniziato una relazione. I due giovani dichiarano di essere in attesa dell'arrivo dei carabinieri, da loro chiamati perché, avendo trovato il vetro di una finestra rotto e la porta di casa aperta, avevano sospettato un furto. Il corpo di Meredith è stato sepolto nel piccolo cimitero di Croydon, alla periferia sud di Londra.
IL PROCESSO: secondo la Knox e Sollecito, la sera dell’omicidio hanno appuntamento in piazza Grimana con Guede, conoscente della Knox, il quale decide di unirsi a loro per la serata. I tre si recano nella casa della studentessa, dove la sua coinquilina Meredith Kercher, dopo una serata trascorsa con delle amiche britanniche, era da poco rientrata. La Knox e Sollecito si scambiano effusioni intime e tenerezze, mentre Guede si trova in bagno, come riscontrato in sede di indagini. Guede, probabilmente eccitato dalle effusioni tra Sollecito e la Knox, sarebbe entrato nella camera della Kercher per tentare un approccio, ma, di fronte al suo rifiuto, avrebbe assunto atteggiamenti violenti fino a tentare di violentarla. Alle grida della Kercher, Knox e Sollecito si sarebbero uniti a Guede nell'azione criminosa, in quella che avrebbero trovato una "situazione eccitante", tentando così di immobilizzarla con la minaccia di un coltello. La perizia sulle ferite inferte evidenzia che l'arma in possesso di Sollecito era verosimilmente piccola, mentre la Knox impugnava un coltello da cucina, successivamente ritrovato, sul quale sono state trovate le sue tracce genetiche insieme a quelle della Kercher. Questa perizia, però, è stata "neutralizzata" da ulteriori perizie, effettuate per il processo di secondo grado, che hanno dimostrato come su quel coltello da cucina non ci sia mai stato il DNA della Knox né si possa considerare l'arma del delitto. La situazione sarebbe degenerata per il persistere della resistenza della Kercher. La Knox con il coltello da cucina avrebbe colpito al collo la vittima arrecandole ferite mortali, seppure il decesso sia avvenuto dopo una lunga ed atroce agonia. I tre imputati, subito dopo l'omicidio, le avrebbero sottratto i telefoni cellulari, per timore di generare allarme da parte di qualcuno che la chiamasse senza avere risposta. I tre si sarebbero diretti in direzioni diverse, Guede in una discoteca, la Knox e Sollecito a casa di quest'ultimo. La mattina seguente i due avrebbero tentato di cancellare le tracce del delitto e poi avrebbero rotto una finestra dell'abitazione per inscenare un finto furto per depistare le indagini.
Nel marzo 2010 attraverso i media si diffonde la notizia su una presunta confidenza che, secondo il racconto, Guede avrebbe proposto alla Kercher di partecipare ad un festino erotico, ma al rifiuto di lei sarebbe seguito un tentativo di stupro da parte di un misterioso uomo, degenerato con una ferita mortale con arma da taglio. Guede avrebbe tentato di soccorrere la ragazza ma l'altro, minacciandolo, gli avrebbe intimato di uccidere la ragazza, ciò che egli avrebbe poi fatto.
16 dicembre 2010: la Prima Sezione penale condanna Rudy Guede. Per gli altri due imputati, si è richiesto il processo d'appello. Le sentenze ricostruiscono dettagliatamente le modalità e le circostanze dell'omicidio, definito a movente "erotico sessuale violento".
I tre condannati nella sentenza di primo grado:
- 25 anni di carcere a Raffaele Sollecito, nato il 26 marzo 1984 a Giovinazzo, Bari, studente universitario di 23 anni all'epoca dell'omicidio.
- 26 anni di carcere a Amanda Knox nata il 9 luglio 1987 a Seattle (Usa) studentessa ventenne che con Sollecito aveva una relazione al momento del delitto.
- 16 ani di carcere a Rudy Hermann Guede nato il 26 dicembre 1986 in Costa d’Avorio.
Poi, solo un anno dopo la condanna di primo grado, l'assoluzione in appello di Amanda Knox e Raffaele Sollecito.
- 3 ottobre 2011, alle ore 21:43, la Corte di Assise di Appello di Perugia, presieduta da Claudio Pratillo Hellmann, dopo aver disposto la parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato Amanda Knox a 3 anni di reclusione per il reato di calunnia, già scontati dall'imputata, ma ha assolto con la formula di non aver commesso il fatto entrambi gli imputati dalle accuse di omicidio e di violenza sessuale, e per insussistenza del fatto dall'accusa di simulazione di reato, e ne ha ordinato conseguentemente la scarcerazione immediata.
- 4 ottobre 2011 alle ore 11:45 : Amanda Knox lascia l'Italia diretta a Seattle facendo scalo proprio nel Regno Unito, nella sala riservata alle alte personalità, per motivi di sicurezza, dell'aeroporto internazionale di Heathrow. Lo stesso giorno, prima della partenza, la Knox ha scritto una lettera al segretario generale della Fondazione Italia USA, Corrado Maria Daclon, nella quale ringrazia pubblicamente gli italiani che le sono stati vicini.
Il secondo processo ad Amanda Knox per calunnia.
- 15 novembre 2011: Amanda Knox è stata anche rinviata a giudizio, in prima udienza, per calunnia nei confronti di alcuni poliziotti della Questura di Perugia e una interprete. La Knox ha accusato in più circostanze, anche durante il dibattimento in primo grado, di aver subito percosse dalla Polizia durante l'interrogatorio che ha preceduto il suo arresto. I magistrati non hanno trovato riscontro per tali affermazioni e hanno chiesto ed ottenuto un nuovo processo per la cittadina americana con l'accusa di calunnia, reato per il quale rischia una condanna da due a sei anni di carcere.
- 14 febbraio 2012: Il Procuratore Generale di Perugia, Giovanni Galati, in occasione del deposito del ricorso ha affermato che la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito "è una sentenza da cassare e che deve essere annullata". Per il Procuratore generale, infatti, si tratta di una sentenza con "tantissime omissioni" ed "errori".
Galati ha quindi parlato di "inconsistenza delle motivazioni" della sentenza di II grado.
- 26 marzo 2013: la Corte di Cassazione annulla il processo d'Appello che quindi deve essere rifatto; la sede scelta sarà quella di Firenze.
Perché Meredith e Raffaele sono innocenti. La tesi di Elena Colombo, giornalista di Quarto Grado che ha seguito il processo sin dalle sue prime battute, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Sembra che Firenze non si sia accorta del processo Kercher. Forse la città non lo sente suo. In una sola occasione c'è stato il tutto esaurito nell’aula del Tribunale: accadde quando, per la prima volta, si presentò Raffaele Sollecito. Ma la curiosità è durata poco. Non così altrove, dove - da sette anni - “innocentisti” e “colpevolisti” continuano a battagliare quasi come il primo giorno. Anzi, di più. Un solo dato: alla prima udienza, nel 2007, si accreditarono 400 giornalisti di tutto il mondo, oggi sono oltre 500.
Elena Colombo, giornalista di Quarto Grado, tu hai seguito fin dall’inizio la vicenda processuale sull’omicidio di Meredith Kercher e sei convinta che Amanda e Raffaele siano innocenti. Perché?
Perché sulla scena del delitto, ovvero nella stanza di Meredith non ci sono tracce della presenza di Amanda e Raffaele. Durante le udienze del precedente processo è stato detto più volte che la scena del delitto è stata ripulita ma anche questo punto non è vero in quanto sono state rilevate chiaramente le tracce di Rudy Guede. Dunque come è possibile pulire una scena del crimine di alcune tracce e lasciarne altre? Poi dobbiamo prendere in considerazione l’arma del delitto: un coltello trovato a casa di Raffaele. Questa era una delle prove a carico di Amanda perché su quell’arma era stato trovato il dna della studentessa americana ma anche una piccolissima traccia di dna di Meredith. Poi ulteriori perizie hanno sconfessato la presenza di sangue di Meredith. Ovviamente le tracce di Amanda c’erano in quanto, frequentando la casa di Sollecito, più volte aveva mangiato e dunque toccato quel coltello. Inoltre a suffragio della tesi innocentista c’è il movente: un movente camaleontico. Talmente camaleontico da definirlo “inesistente”. Nel primo processo si parlava di “gioco erotico” finito tragicamente, adesso nel processo “bis” di “attriti tra le due ragazze per la pulizia della casa” e della presunta rabbia di Meredith scoppiata dopo l'utilizzo del bagno da parte di Rudy Guede, bagno che avrebbe lasciato sporco. Direi che anche questo movente è del tutto inconsistente. Ed infine le prove a carico di Raffaele. Secondo l’accusa sul gancetto del reggiseno di Meredith ci sarebbe il dna di Raffaele. Ma quel gancetto è stato repertato dai Ris ben 46 giorni dopo il delitto e in un luogo diverso dalla scena del delitto. Quindi con probabilità è stato “contaminato”. Inoltre è poco probabile che Raffaele possa aver lasciato le sue tracce solo sul gancetto e non su altre parti del reggiseno. Insomma in questo processo non ci sono prove.
Che cosa farà Amanda se verrà condannata?
Non tornerà sicuramente in Italia. Lei dell’Italia non ne vuole più sapere come ci ha detto nell’intervista che ci ha rilasciato per Quarto Grado. Amanda è difesa da un’intera nazione e non rientrerà mai nel nostro Paese per scontare un’eventuale pena.
E se invece verrà prosciolta la vedremo attrice di se stessa in un film-story?
Non lo so, ci può anche stare. Libro che ha scritto le ha fatto guadagnare moltissimi soldi, denaro che lei ha detto servirà per ripagare i propri genitori per le spese processuali. Lei ha voglia di rivalersi quindi non è escluso che possa decidere di diventare attrice in un film su se stessa.
Secondo te, dunque, l’unico colpevole è Rudy Guede?
Sì, solo lui. Guede aveva alcuni precedenti penali per furti in abitazione. Le modalità erano quelle di spaccare una finestra con un sasso ed entrare in casa. Anche nella casa di Perugia c’è una finestra rotta con un sasso quindi io credo che l’unico colpevole sia davvero Rudy Guede. Va precisato però che lui è stato condannato per “concorso in omicidio” quindi la giustizia sta cercando “per forza e con forza” gli “altri colpevoli”.. e in questo caso non possono che essere Amanda e Raffaele. Ma i due ragazzi sono innocenti.
Una condanna a ogni costo, scrive Alessandro Perissinotto su “La Stampa”. C’era una volta l’assoluzione per insufficienza di prove. Era una macchia che ti portavi dietro per tutta la vita, più di una condanna. La condanna era il preludio alla redenzione, era il castigo dopo il delitto; l’insufficienza di prove era il sospetto che non ti scrollavi di dosso. E se per qualcuno l’insufficienza di prove corrispondeva a una sconfitta della giustizia, per altri rappresentava il momento più alto, quello in cui la giustizia stessa accetta i propri limiti, ammette che non si è in grado di andare oltre ogni ragionevole dubbio: una giustizia senza deliri di onnipotenza. Oggi, sebbene l’articolo 530 del Codice di Procedura Penale faccia ancora riferimento all’insufficienza della prova, sembra che nessuno sia più disposto a riconoscere che esiste un confine sul quale bisogna arrestarsi e il processo ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito lo dimostra. Condannati, poi assolti e poi condannati un’altra volta. E a ogni grado di processo, le prove diventano sempre più esili; ci si aggrappa a una piccola traccia del Dna di Amanda su un coltello da cucina che la ragazza può avere utilizzato per sgozzare l’amica o per tagliare le cipolle. Eppure, quelle tre lettere, Dna, sembrano essere la parola magica per aprire sempre e comunque lo scrigno della verità. Idolatriamo il dato scientifico come se questo, da solo, fosse capace a spiegare ogni cosa e dimentichiamo che i dati vanno interpretati. Arriviamo addirittura a mettere in secondo piano i moventi. Nel corso dei vari processi, il delitto di Perugia è stato presentato come esito di un festino erotico finito male, come violenza sessuale, fino a divenire, nella requisitoria del Procuratore Generale Alessandro Crini, l’epilogo di una lite per la pulizia della casa. Difficile, in queste condizioni, credere che la giustizia sapesse davvero dove stava andando. Ma non importa, basta un frammento di Dna a salvare la dignità della pubblica accusa. Nel marzo 2009, la casa di via della Pergola dove avvenne il delitto fu visitata dai ladri che rubarono il materasso su cui Meredith era stata uccisa e questo fu possibile perché la procura di Perugia, per non alterare la scena del crimine (!), aveva vietato che venissero apposte delle inferriate alle finestre. Ma si va avanti ugualmente, appellandosi all’evanescenza di qualche molecola, perché la pressione mediatica è troppo forte e nessuno vuole fare un atto di umiltà confessando che la verità può anche sfuggire. Abbiamo messo in piedi una vera industria mediatica del crimine: non c’è emittente televisiva che non abbia la propria trasmissione di «real crime». La cronaca nera diventa spettacolo, intrattenimento, morbosa esibizione di dolore; gli investigatori veri devono reggere il paragone con quelli della fiction, che non sbagliano mai, che risolvono tutto: chi mai vorrà ammettere di non essere alla loro altezza? E allora si va avanti. Enzo Tortora disse una volta che, in Italia, si sarebbe dovuta proibire la messa in onda di Perry Mason perché, guardando la Tv, gli italiani si facevano un’idea sbagliata della giustizia. Non immaginava che le cose avrebbero potuto ancora peggiorare. Certo, dovremo leggere le motivazioni per capire se è bastata una traccia di Dna per emettere una sentenza così pesante, ma l’impressione di una condanna ad ogni costo è forte. E a questa amarezza se ne aggiunge un’altra, più sottile: a Raffaele Sollecito verrà tolto il passaporto, mentre per Amanda, ci dice la corte, non sono necessarie misure restrittive, tanto è già a Seattle: che tu sia sospettato di aver sgozzato una ragazza a Perugia, o di aver abbattuto una funivia a Cavalese, o di aver ucciso un funzionario italiano in Iraq, il fatto di essere cittadino statunitense dà sempre una certa tranquillità. La situazione inversa, quella di straniero accusato negli Stati Uniti, è molto più scomoda: ce lo ricorda il più che controverso caso di Chico Forti, condannato per omicidio a Miami, nonostante che la giuria stessa abbia ammesso l’inesistenza di prove.
L'intervista, parla il giudice: "Ecco perché ho assolto Amanda". Prove mancanti, perizie, errori d'indagine: il giudice Pratillo Hellmann spiega a "Libero" perché in Appello ha scagionato la Knox e Raffaele Sollecito. Intervista di Roberta Catania su “Libero Quotidiano”. Claudio Pratillo Hellmann è un giudice in pensione. Non un giudice qualunque: lui, il 3 ottobre del 2009, aveva letto la sentenza (annullata l’altro ieri dalla Cassazione) con la quale Amanda Knox e Raffaele Sollecito erano stati assolti per non avere commesso l’omicidio di Meredith Kercher. All’epoca Pratillo era il presidente della Corte d’Assise d’appello di Perugia, chiamata a pronunciarsi sull’efferato delitto della studentessa inglese trovata morta il 2 novembre del 2007. A fare ricorso erano stati gli imputati, condannati in primo grado a 25 e 26 anni di carcere. Lunedì scorso, ripercorrendo la vicenda in Cassazione, per smontare l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello, il procuratore generale Luigi Riello ha usato parole forti: «Il giudice che ha preso quella decisione ha perso la bussola», quella sentenza d’assoluzione «è un concentrato di violazioni di legge e di illogicità». Ebbene, ecco che cosa ne pensa il giudice che avrebbe perso la bussola: «Quella del pm è sempre un’opinione, è il giudice che emette la sentenza. Perciò è nelle motivazioni della Cassazione che bisognerà leggere se la Corte da me presieduta avesse perso la ragione. Ad ogni modo il pg avrà letto e interpretato i fatti in modo diverso dal nostro, ma le parole che ha usato nei nostri confronti mi sembrano eccessive. E soprattutto, quale legge avremmo violato?»
Appunto, presidente, ce lo dica lei. Ci sono state violazioni di legge? È vera la storia delle pressioni dall’America perché Amanda tornasse a casa da cittadina libera?
«Assolutamente no. Basta tenere presente che noi abbiamo ereditato un processo “tutto in fatto”, nel quale cioè dovevamo solo valutare le prove. Non abbiamo disposto alcun supplemento di indagine, l’unica mossa avanzata da noi è stata quella di chiedere una perizia sulle prove genetiche, poiché sia l’accusa che la difesa consideravano il Dna sui reperti la prova regina per vincere il processo».
Cioè, sostanzialmente vi siete basati sulle stesse prove che ai giudici di primo grado avevano ispirato condanne esemplari, a 26 e 25 anni di carcere, ma che per voi valevano un’assoluzione piena?
«Esattamente. Abbiamo esaminato quelle prove, che a nostro giudizio non erano convincenti. Non erano convincenti soprattutto alla luce di un’attenta rilettura del codice di procedura penale, che obbliga “all’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”, che - in questo caso - la Knox e Sollecito fossero colpevoli. Per questo in coscienza sono a posto. Lo siamo tutti. Eravamo consapevoli di andare incontro alle contestazioni che infatti ci sono state la sera stessa fuori dal tribunale, o a diverse interpretazioni come quella della Cassazione. Ma noi abbiamo agito secondo la nostra coscienza».
Secondo lei Amanda e Raffaele sono innocenti?
«Non è questo il punto. Noi abbiamo cercato “la verità processuale”, che non è detto coincida con la verità oggettiva, ma che di sicuro ha bisogno di prove certe. In questo caso non c’erano prove. C’erano solo indizi e anche labili».
Quali erano questi indizi traballanti che in primo grado erano stati considerati prove schiaccianti?
«Tutto si fondava sul coltello trovato a casa di Sollecito e il reggiseno della vittima recuperato, in un secondo tempo, sulla scena del delitto. Tutti gli altri elementi a carico erano sciocchezze».
Il Dna degli imputati sull’arma del delitto e sulla biancheria di Meredith non era una prova?
«No. Spiego il perché. Il giudice di primo grado non aveva ritenuto di dover chiedere una perizia tecnica. Si era basato su quella della Polizia Scientifica. Ai pm era bastata per chiudere il quadro d’accusa, ma quando la difesa degli imputati - in secondo grado - ha puntato proprio sulle contestazioni delle incongruenze riscontrate in quella perizia, abbiamo deciso di chiedere anche noi una consulenza super partes. I professori, a nostro avviso i migliori a disposizione, hanno però completamente smontato le prove biologiche».
Non c’era il Dna degli imputati?
«Sì, ma sulla lama del coltello le tracce erano talmente labili che la mappa genetica dei Dna a cui potevano essere ascritte era troppo ampia. Quelle tracce leggere - oltre alla Knox e a Sollecito - potevano essere ricondotte perfino a me, cioè in grado di compatibilità con il Dna del presidente della Corte».
E il gancetto del reggiseno di Mez?
«È vero che c’era un Dna ascrivibile a Sollecito, ma compariva anche quello di altri tre uomini. Dimostrando che la prova era stata compromessa dall’inquinamento della scena del delitto. Quel reperto, fotografato il primo giorno di indagini, era stato lasciato lì, nella camera da letto. Solo un mese e mezzo dopo è stato deciso di recuperarlo e analizzarlo. Ma si era subito notato che, rispetto alle foto della scena del delitto, il reggiseno era stato spostato di oltre un metro ed era finito sotto un tappeto».
Però, anche se gli altri tre Dna maschili potevano essere quelli dei poliziotti entrati successivamente nel corso di quel mese e senza le tute bianche, le tracce di Sollecito erano comunque sul reggiseno.
«Ma Sollecito frequentava quella casa. Era il fidanzato della Knox, coinquilina della Kercher. E proprio il giorno del delitto era stato a pranzo nella villetta di via della Pergola».
Ma non avrebbe avuto ragione di toccare la biancheria intima della coinquilina della fidanzata.
«Non è detto che lo abbia fatto. Le tracce di Dna vengono lasciate anche da frammenti di cellule della pelle. Sostanze organiche infinitamente piccole, che possono essere state trasportate su quel gancetto in un secondo tempo. Dalla scarpa di un poliziotto entrato nella casa in quel mese e mezzo o anche da un colpo d’aria».
E il famoso memoriale di Amanda dal quale pare che la Cassazione chiederà di ripartire? La confessione scritta con la quale accusava nei dettagli Patrick Lumumba?
«Non era tra le carte del processo e non ne conosco i contenuti».
Infatti il memoriale non era stato allegato al fascicolo del dibattimento, il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inammissibile. Altro punto oscuro.
«Non sapevo neanche che esistesse. Ma se questo memoriale fosse stato tanto importante, i pm avrebbero chiesto di acquisirlo nel dibattimento d’appello».
Secondo il pg, e forse anche secondo la Cassazione che ha accolto la richiesta di rifare il processo, le accuse a Lumumba sarebbero prova della colpevolezza di Amanda. Se innocente, non si accusa un altro.
«Condannando la Knox per calunnia, abbiamo spiegato che la ragazza era stata sottoposta a un interrogatorio molto duro da parte della polizia. Senza difensore. Senza dormire e con un interprete che la invitava a porre fine a quel lungo confronto. In quel contesto, ha fatto il nome di Patrick. Non è uscito dal nulla, ma dopo che le era stato contestato uno scambio di sms con lui. Lumumba era il suo datore di lavoro, per questo si erano scritti. Accusarlo le potrebbe essere sembrata una via di uscita per scappare da quel confronto serrato. Ricordiamoci che Amanda era una ragazza molto giovane, arrivata da poco in Italia e che non parlava bene la nostra lingua. Per me era logico che in quel contesto potesse straparlare. Aspettiamo le motivazioni della Cassazione per capire cosa non abbia convinto quei giudici».
In questa Italia di m….. devi subire e devi tacere.
Ilaria Cucchi indagata dalla Procura di Roma per diffamazione degli agenti di polizia, scrive Paolo Brogi su “Il Corriere della Sera”. A chiederlo con una denuncia presentata in giugno è stato Franco Maccari, segretario di quel sindacato di polizia Coisp che a Ferrara è andato a manifestare sotto l’ufficio comunale di Patrizia Aldrovandi, la madre del giovane Federico morto durante un controllo di polizia. Il pm Luigi Fede ha dato seguito ora con un’istruttoria che vede indagata la sorella di Stefano Cucchi, per la cui morte sono stati condannati solo i medici e non gli agenti della penitenziaria. Ilaria Cucchi è stata convocata, come da prassi, per eleggere il domicilio. Ne è uscita con una determinazione ancor più rafforzata nella sua lunga battaglia. Anche perché con lei sono indagate Lucia Uva (sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo essere stato fermato dai carabinieri) e Domenica Ferrulli (figlia di Michele, deceduto nel 2011 mentre quattro agenti lo stavano arrestando), che giovedì 30 hanno eletto domicilio rispettivamente a Varese e a Milano. Domani, venerdì 31, l’avvocato di Ilaria, di Lucia e di Domenica, Fabio Anselmo, andrà in Procura. Ilaria Cucchi ha appena affidato a Facebook alcune considerazioni, la cui sostanza ripete volentieri al telefono. Dice: «Ebbene si! Sono sottoposta ad indagini dalla Procura della Repubblica di Roma. Ho appena eletto domicilio, naturalmente non so neanche a che cosa devo questa querela. So solo che mi ha querelato il signor Maccari del sindacato Coisip. Sarei indagata per aver offeso l’onore della polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte. Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato. Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello. Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia. Io voglio confessare tutto, ogni cosa. Queste morti offendono la polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti».
«Quella è una putt.., una zoccola. Il padre rompe sempre, è un coglione». Frasi pesantissime quelle pronunciate da due carabinieri che in una telefonata parlano del caso di Provvidenza Grassi, la donna messinese di 27 anni scomparsa a luglio e trovata morta pochi giorni fa a pochi passi dalla sua auto. La conversazione tra i due militari è stata registrata per caso e mandata in onda dalla trasmissione di RaiTre Chi l'ha visto?.
Filippo Facci: Va bene così. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso.
Parlare di Amanda e di Raffaele e come parlare dei tanti Amanda e Raffaele figli di una giustizia schizofrenica.
MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE. Guerra aperta contro alcuni magistrati di Taranto: denuncia per calunnia e diffamazione alla Procura di Potenza, richiesta di ispezione ministeriale al Ministro della giustizia e richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati al Presidente del Consiglio dei Ministri. «Non meditar vendetta! Ma siedi sulla riva del fiume e aspetta di veder passare il corpo del tuo nemico! Ed io ho aspettato…..affinchè una istituzione, degna dell’onor di patria, possa non insabbiare una mia legittima ed annosa aspettativa di giustizia. Perché se questo succede a me, combattente nato, figuriamoci a chi è Don Abbondio nell’animo. Già che sono in buona compagnia. Silvio Berlusconi: "Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti" ». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici. «Puntuale anche quest’anno è arrivato il giorno dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un appuntamento che, da tempo immemore ripropone un oramai vetusto ed urticante refrain: l’aggressione virulenta ai magistrati portata da tutti coloro che non fanno parte della casta giudiziaria. Un piagnisteo continuo. Un rito liturgico tra toghe, porpore e carabinieri in alta uniforme. Eppure qualche osservazione sulle regole che presidiano e tutelano l’Ordine giudiziario italiano dovrebbe essere fatta. Faccio mie le domande poste da L’Infiltrato Speciale su Panorama. Quale sistema prevede una “sospensione feriale” per 3 mesi filati? Quale organizzazione non prevede un controllo sul tempo effettivo trascorso in ufficio ovvero regola e norma ogni forma di…telelavoro da casa? Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso? Ma, soprattutto, può il dovere di imparzialità del giudice sposarsi con lo svolgimento di vera e propria attività politica entro le varie “correnti” interne alla magistratura? Qualcuno potrà negare che diversi esponenti di magistratura democratica abbiano rivendicato apertamente le radici nel pensiero marxista leninista della propria corrente? Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Detto questo premetto che la pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art. 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603).
Ed allora ecco alcuni brani dell’atto presentato alle varie istituzioni.»
"Si presenta, per fini di giustizia ed a tutela del prestigio della Magistratura oltre che per tutela del diritto soggettivo dell’esponente, l’istanza di accertamento della responsabilità penale ed amministrativa e richiesta di risarcimento del danno, esente da ogni onere fiscale, in quanto già ammesso al gratuito patrocinio nei procedimenti de quo. Responsabilità penale, civile ed amministrativa che si ravvisa per i magistrati nominati per azioni commesse da questi in unione e concorso con terzi con dolo e/o colpa grave. Elementi costitutivi la responsabilità civile dei magistrati di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 17:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
PER IL PRIMO FATTO
L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli.
Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste.
Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.
La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.
Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.
Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è stralciata per vizi di notifica.
Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06, dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19 luglio 2010, disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8 novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di calunnia.
Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di calunnia.
Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova della sua colpevolezza. Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web.
Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero, due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi.
Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande. Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi motivi di illogicità della motivazione.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.
PER IL SECONDO FATTO
In questo procedimento risultano esserci due querelanti e quindi due persone offese dal reato:
Dimitri Giuseppe querela in data 19/07/2004 Corigliano Renato perché si ritiene vittima di Falsa Perizia giudiziaria. Corigliano Renato controquerela Dimitri Giuseppe per calunnia e diffamazione per aver pubblicato la querela, in cui si producevano le accuse di falsa perizia contro il Corigliano ledendo il suo onore e la sua reputazione. Corigliano Renato non querela Antonio Giangrande. Dimitri Giuseppe per la diffamazione subita dal Corigliano controquerela Antonio Giangrande, pur non avendo il Dimitri Giuseppe legittimità a farlo, non essendo egli persona offesa.
Insomma: la querela di diffamazione da parte della persona offesa contro Antonio Giangrande non esiste.
Pur mancando la prova della diffamazione, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.
Il Dr. Enrico Bruschi apre il fascicolo n. 3015/06 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta egli stesso la citazione a giudizio saltando l’Udienza Preliminare.
Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10244/10 RGDT si apre con l’udienza del 05/10/2010 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è inviata al Giudice per le Indagini Preliminari per l’Udienza di Rito.
Il Dr Pompeo Carriere il 26/11/12 apre il procedimento Gip n. 243/12. Sostenuto dalla richiesta del PM Enrico Bruschi il dr. Pompeo Carriere, ciononostante non vi sia la querela di Corigliano Renato contro Antonio Giangrande e pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di Diffamazione.
Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10403/12 RGDT si apre presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di Diffamazione.
Solo in data 18 aprile 2013 Corigliano Renato è stato sentito ed ha confermato di non aver presentato alcuna querela contro Antonio Giangrande. Corigliano Renato e Dimitri Giuseppe hanno rimesso la querela, il primo perché non l’aveva presentata e comunque non aveva alcuna volontà punitiva contro Antonio Giangrande, il secondo non aveva addirittura la legittimità a presentarla. Il giudice Giovanni Pomarico non ha potuto non acclarare il non doversi procedere nei confronti di Antonio Giangrande per remissione delle querele.
Declaratoria di NON DOVERSI PROCEDERE PER REMISSIONE DI QUERELA. Ma di fatto per difetto di legittimazione ad agire. Dopo 4 anni, un pubblico Ministero, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti ed a sua volta sostituita da Giovanni Pomarico.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.
PER IL TERZO FATTO
L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.
La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.
La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.
In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.
Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.
Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.
Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.
Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.
Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.
Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.”
« Pare evidente la tricotomia della responsabilità penale: il movente, il mezzo, l’opportunità. Per questo si chiede la condanna per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative. Altresì si chiede il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, liquidato in via equitativa dal giudice competente, per la sofferenza che si è riservata al sottoscritto ed alle persone che mi stimano per la funzione che io occupo e l’umiliazione e, soprattutto, per il dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di essere accusato di calunnie tanto ingiuste quanto infondate. Nessuna Autorità degna del mio rispetto ha tutelato la mia persona. Le mie denunce contro queste ed altre ingiustizie sono state sempre archiviate. E’ normale allora che io diventi carne da macello penale. E’ normale che io sia lì a partecipare da 16 anni all’esame forense, sempre bocciato, se poi i magistrati, commissari di esame, contro di me fanno questo ed altro.»
Notificato nelle prime ore del mattino il divieto di espatrio a Raffaele Sollecito. Secondo quanto appreso, Sollecito è stato raggiunto da agenti della squadra mobile di Firenze e di Udine a Venzone, un paese tra Udine e Tarvisio, che aveva raggiunto nel primo pomeriggio di ieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Secondo quanto si è appreso i poliziotti hanno notificato a Raffaele Sollecito la misura cautelare, emessa dopo la condanna nella sentenza di appello bis per l’omicidio di Meredith Kercher, e ritirato il passaporto. “L'ordinanza è stata eseguita. Basta. Lui sta in Italia, la questione è chiusa qua”, ha detto il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, spiegando che al momento non sono previste altre misure nei confronti di Raffaele Sollecito. “Non c'è motivo di immaginare altro”, ha aggiunto Nencini. Venzone, dove si è recato Sollecito dopo la sentenza, è un comune della Carnia che dista circa cento chilometri da Villach, confine tra Italia e Austria. Da Venzone è anche facilmente raggiungibile il confine con la Slovenia, che dista una cinquantina di chilometri. Gli investigatori – secondo quanto si è appreso – hanno valutato se il giovane, condannato ieri in secondo grado a 25 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher, avesse intenzione di lasciare l’Italia nel caso fosse stata applicata nei suoi riguardi la misura cautelare della custodia in carcere. Raffaele Sollecito era in viaggio con la fidanzata, una ragazza di 31 anni di Oderzo (Treviso). Viaggiavano a bordo di una Mini Cooper intestata alla ditta del padre della ragazza. L’auto è stata notata in transito in direzione Nord attorno alle 15.00 al rilevamento autostradale di Palmanova (Udine). I due, secondo la ricostruzione della Polizia, sono arrivati intorno all’una di notte in albergo a Venzone (Udine), località situata a circa 60 chilometri dal confine austriaco e 40 chilometri dal confine sloveno. La Mini Cooper con cui Raffaele Sollecito e la ragazza sono stati intercettati ieri era già transitata in Friuli Venezia Giulia il 28 gennaio. Sull'auto era stata apposta, in quella stessa data, la vignetta autostradale per l’ingresso in Austria. "Non ho mai pensato di fuggire. Nè prima nè tantomeno ora": a sottolinearlo è Raffaele Sollecito, attraverso uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori. Il legale ha spiegato che il giovane si è recato "spontaneamente" dalla polizia per consegnare il passaporto. "Ho fatto un giro in Austria. Poi sono rientrato in Italia. Mi sono fermato lì a riposare". "Appena ho saputo della sentenza mi sono spostato in territorio italiano". "Da uomo libero – ha poi detto personalmente il giovane - potevo spostarmi come volevo. Poi ho saputo della sentenza e sono subito tornato in Italia. Ero stanco – ha concluso Sollecito – e mi sono fermato nel primo posto utile". Al suo legale, l’ingegnere pugliese aveva ribadito di avere "mai pensato di fuggire, tanto meno ora". L'avvocato Maori ha spiegato che Sollecito ha raggiunto la fidanzata in Friuli perchè "stressato" dalle sue vicende processuali. "Il nostro assistito – ha ribadito il legale – non ha mai pensato alla fuga e ha consegnato spontaneamente il passaporto." "L'abbiamo svegliato questa mattina in albergo. Ci ha seguito spontaneamente in Questura dove a breve gli verrà notificato il provvedimento di divieto di espatrio" ha poi dichiarato confermando la versione il Vicequestore aggiunto Massimiliano Ortolan, capo della Squadra Mobile di Udine. Una volta espletate le formalità, Sollecito lascerà la Questura di Udine. Potrà recarsi ovunque nel territorio italiano. "Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti": a dirlo è stato stamani Raffaele Sollecito ad uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio disposto dalla Corte d’assise d’appello di Firenze dopo la condanna per l’omicidio di Meredith Kercher. "Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...". Il giovane ingegnere risponde con poche parole alle domande. E subito sottolinea: "della sentenza non parlo"."E' stato come essere travolta da un treno, non potevo credere a quello che stava succedendo...ora aspetto le motivazioni, ma è stata una cosa orribile. Ora ho bisogno dell’aiuto di tutti". Lo ha detto Amanda Knox, capelli corti, maglietta rosa, piangendo durante la sua prima intervista alla Abc dopo la sentenza. "La mia prima reazione è stata: 'Oh no, questo è sbagliato, non è possibile, è una cosa orribile". "Mi dovranno prendere e trascinare mentre scalcio e urlo in prigione, dove non merito di stare", aveva dichiarato Amanda Knox nei giorni scorsi al Guardian in una intervista che il giornale britannico pubblica oggi dopo la condanna dell’americana per il delitto di Meredith Kercher. "Non voglio assolutamente tornare indietro in Italia per mia volontà", ha detto Amanda, che spera che le autorità americane non autorizzino la sua estradizione. "Combatterò per provare la mia innocenza", ha aggiunto l’americana. La Knox ha detto anche al Guardian che in queste settimane prima della sentenza è stata in contatto con Raffaele Sollecito, anch’egli condannato dal tribunale di Firenze per l’omicidio della studentessa inglese, ma che non sono vere le voci secondo cui lui le avrebbe chiesto di sposarla per acquisire la cittadinanza Usa e sfuggire al carcere. "Non è vero – ha detto Amanda – Non capisco da dove la notizia arrivi". Risponde per un istante al cellulare Greta, la nuova fidanzata di Raffaele Sollecito, e poi chiude subito la conversazione: "..sì? chi parla? Sono io – dice all’ANSA – ma mi spiace, ora ho da fare, non posso rispondere..". L’audio della telefonata fa pensare che la ragazza sia ancora in viaggio, probabilmente assieme a Sollecito, con cui ha lasciato la Questura di Udine. Ha poco più di 20 anni e fa la hostess di terra per una compagnia aerea, al Marco Polo di Tessera, la nuova fidanzata di Raffaele Sollecito, Greta, di Ponte di Piave, che era assieme a lui in Friuli non distante dal confine. I due nei giorni scorsi erano stati visti diverse volte passeggiare amorevolmente per il centro di Oderzo, un comune che dista una decina di chilometri da dove l’assistente di volo vive assieme con i genitori. Il flirt tra i due è noto nella zona dove è conosciuta la giovane, una ragazza bionda e con gli occhi castani. Pare che si frequentassero da qualche settimana: l'incontro tra Greta e Raffaele sarebbe avvenuto a bordo di un aereo in un periodo in cui la ragazza faceva la hostess di volo. Della loro storia Sollecito ha parlato sul proprio profilo di Facebook, con frasi nelle quali l’ex fidanzato di Amanda Knox non nasconde il suo innamoramento. Così ieri, dopo la condanna, il primo pensiero è andato alla giovane trevigiana, che ha raggiunto a Ponte di Piave per poi intraprendere il viaggio verso l’Austria. "Penso che il peso politico degli Usa lo abbiano sentito i giudici, i giudici popolari". Lo ha detto il legale della famiglia Kercher, l’avvocato Francesco Maresca. "Può non dare serenità a chi deve giudicare – ha aggiunto – la pressione mediatica, specie per dei giudici non di professione". "Se è stato un processo mediatico questo è dovuto agli imputati, non alle parti civili" ha poi detto il legale commentando il processo. "Gli imputati – ha giunto – devono prendere atto della condanna, anche se sono negli Stati Uniti". "Può essere che non sapremo mai cosa è veramente successo quella sera. Ci dobbiamo mettere il cuore in pace" ha detto invece la sorella di Meredith Kercher, Stephanie, in una conferenza stampa convocata a Firenze per commentare la sentenza di ieri. In attesa della Cassazione "siamo ancora in viaggio verso la verità – ha aggiunto – ma possiamo sperare di esserle vicini". "Niente ci riporterà Meredith – ha continuato il fratello Lyle - la cosa migliore che possiamo sperare è portare a conclusione questa vicenda, così tutti potranno andare avanti con la loro vita". "Non possiamo parlare di felicità, non è il momento della felicità". ha detto Lyle. "Prendiamo atto di una sentenza e del passo in avanti – ha aggiunto – ma per poter scrivere la parola fine dovremo aspettare ancora del tempo", ha detto riferendosi al fatto che le difese hanno annunciato ricorso in Cassazione. Uno dei loro legale, l’avvocato Francesco Maresca ha poi spiegato che i familiari di Meredith chiedono spesso informazioni sulla durata del procedimento esprimendo perplessità "sulla lunghezza dei tempi". La lettera che le avrebbe scritto Amanda Knox "non l’ho vista. Mi hanno detto che c'è, ma non voglio leggerla, non ne ho bisogno". ha detto Stephanie. Anche entrare in contatto con Amanda e tantopiù vederla "sarà difficile – ha continuato – non tanto per la condanna quanto perchè tante cose sono successe. Forse non vorremo farlo mai". Amanda Knox conferma in tv che attraverso i suoi legali ha inviato una sua lettera ai familiari di Meredith. "Auguro a loro – ha detto in lacrime – ogni bene". "Professionalmente sono molto soddisfatto per una sentenza giusta e condanne adeguate alla gravità del fatto, pensando alla povera Meredith Kercher che ha subito una morte orrenda": il sostituto procuratore generale di Perugia Giancarlo Costagliola commenta così la sentenza della corte d’assise d’appello di Firenze. E all’ANSA dice "è stata premiata la tenacia mia, del procuratore generale Giovanni Galati e dei colleghi Manuela Comodi e Giuliano Mignini che hanno gestito con me il processo di secondo grado a Perugia". Il magistrato ha comunque sottolineato di "non potersi mai dire contento per una condanna e quindi anche in questo caso". Secondo Costagliola "già l’appello di Perugia doveva mettere la parola fine a questa vicenda e invece c' è stata una sentenza poi giustamente annullata dalla Cassazione". "Il nostro ricorso - ha proseguito – è stato integralmente accolto in tutti i suoi punti anche per l’impegno del procuratore generale presso la Suprema Corte Luigi Riello". "Ora la pronuncia di Firenze – ha sottolineato – restituisce serenità ai nostri uffici. Accumuno ai pm la polizia, che ha fatto nel corso delle indagini un lavoro approfondito e puntuale che ha avuto meritato riconoscimento nella sentenza di primo grado di Perugia e in quella di ieri sera a Firenze".
Quel che resta di Amanda, Raffaele e Perugia. Il ritratto di due giovani e di una città rovinata da questa storia ma non solo, scrive Gabriella Mecucci su “Panorama”. Vite parallele. Roba da non crederci, eppure la sorte di una città italiana, la medievale Perugia è strettamente legata a quella di una bella ragazza nata nell'avveniristica Seattle, Amanda Knox. L'omicidio di Meredith Kercher è finito sotto i riflettori di mezzo mondo e da allora il capoluogo umbro non ha avuto più pace. Gli inviati l'hanno definito “una sorta di Ibiza, con una trasgressività però più cupa, più violenta, più densa di peccato”, con i cervelli dei ragazzi fatti “volare fra le canne d'hashish e le sniffate di coca” e poi “risciacquati nell'alcol”. E' dal 2007, da quella terribile notte di Halloween che Perugia è diventata la “capitale della droga e del crimine”. Dietro il volto dolce e inquietante di Amanda e dietro quello un po' imbambolato di Raffaele Sollecito, è spuntata l'ombra di Sodoma e Gomorra. Quando lei arrivò, Corso Vannucci era ancora il centro di uno scrigno d'arte e di buon vivere in una provincia tranquilla. Lei, con quell'espressione angelicata, ebbe l'impatto di un uragano: in quattro e quattr'otto ne mutò l'immagine. I ragazzi facevano la fila pur d'invitarla a cena. E lei li sconvolgeva tenendo ben in vista sul divano di casa un vibratore. Andava a ballare sino all'alba alla Red Zone di Casa del Diavolo. Si chiama proprio così la piccola frazione a pochi chilometri da Perugia dove si consumavano le notti brave della ragazza di Seattle. Di giorno studiosetta e gentile, col buio aggressiva, sessuomane, impasticcata. E' l'epoca dell'Amanda perversa. Almeno così la raccontano. Il popolo dei pub di una città piena di universitari ne è affascinato ma anche un po' spaventato. Raffaele ne viene catturato. Lei impazza, è il vero dominus di quella vita spericolata. E sempre più le cresce intorno gelo e diffidenza. La terribile morte di Meredith fa calare su Perugia l'ombra lunga del male. Diventa la “casa del diavolo”. Poi iniziano le indagini. Amanda è davvero strana. In questura appare molto disinibita: fa la spaccata, straparla, mette su un'aria da consumata seduttrice, racconta che l'amica è stata sgozzata. Voglia di protagonismo di una personalità borderline? Oppure ha assistito all'agonia di Meredith? Così ragionano gli inquirenti che vogliono chiudere il caso prima possibile. I “palazzi” politici ed economici della città non tollerano quella sovraesposizione che distrugge il mito della Perugia felix. Ma non c'è verso di finirla con quella brutta faccenda. Dopo gli articoli arrivano i libri. Negli Usa si è aperta la campagna pro Amanda. La raccontano chiusa nel carcere di Capanne che piange, prega, si affida alla guida spirituale del cappellano. Arriva il torrente di immagini da brava ragazza e arrivano gli sponsor della sua innocenza: fra questi nientemeno che Hillary Clinton. Scompare la “Venere in pelliccia” del primo 'periodo e affiora, fra i colori pastello, il volto sofferente, dolce, bellissimo di una povera giovane finita in mezzo per sbaglio. Per eccesso di ingenuità. Nasce l'Amanda indifesa e dal cuore d'oro. Il prestigioso “New Yorker” manda una grande inviata che scrive un libro per raccontare di una città chiusa e sessuofoba che non ha sopportato e non sopporta il fascino, la schiettezza, la femminilità di stampo americano. Perugia, da Ibiza viziosa e rumorosa, viene trasformata in una comunità immersa nell'esoterismo massonico e nel cattolicesimo integralista. Il sostituto Giuliano Mignini diventa un uomo del Vaticano, di quelli ottusi e reazionari. Amanda, sia demoniaca o angelicata, regala insomma al capoluogo umbro sempre e solo discredito. Il fastidio nei suoi confronti cresce e si moltiplica. Nel 2011 spunta l'Amanda numero tre. Dopo l'assoluzione in Appello se ne torna in America e – passeggiando per i prati di Seattle - inanella giudizi brucianti sull'Italia. Il processo di Perugia diventa nelle sue interviste una sequela di forzature e di trabocchetti. La ragazza ha trovato un nuovo fidanzato, accoglie con amicizia Raffaele, ma di rinverdire la loro love story non ne vuole sapere. Poi, finalmente, cala il silenzio. Perugia sembra dimenticare, persino la casa di via della Pergola cambia. Il nuovo proprietario che l'ha acquistata, la risistema al meglio e l'affitta. La faccenda è chiusa? Pia illusione. Il tribunale di Firenze ha emesso una nuova condanna: 28 anni per Amanda, 25 per Raffaele. Lei se ne sta tranquilla a Seattle. Lui rischia di tornare nel carcere di Capanne. E forse per questo, l'hanno riacciuffato ad Udine poche ore dopo la sentenza. Il sostituto Mignini e gli inquirenti tutti vengono riabilitati. Finisce così? Neanche a pensarci, adesso si torna di nuovo in Cassazione. Perugia è diventata ormai una città piena di pericoli e di incubi. La sua immagine è a pezzi. Il delitto Meredith ne svelò la decadenza che era iniziata però ben prima di Amanda e Raffaele. C'è poco da arrabbiarsi, la crisi è reale e ha molti responsabili. E la ricostruzione non dipende dalle sentenze. Sarà lunga, tortuosa, difficile.
Il ruolo dei mezzi d’informazione. Il processo è stato al centro di molte polemiche, soprattutto per l’esposizione mediatica dei protagonisti. I giornali statunitensi hanno accusato i mezzi d’informazione italiani di influenzare i giudici attraverso una rappresentazione negativa di Amanda Knox e la copertura troppo sensazionalista del caso. Timothy Egan sul New York Times ha criticato duramente il sistema giudiziario italiano: troppo lento e pieno di negligenze. “Il sistema italiano non è giusto. Il destino di una ragazza è nelle mani di sei giurati e due giudici, che si vedono due volte a settimana e che si prendono delle lunghe vacanze prima di decidere il verdetto”.
La malattia di Amanda Knox, scrive Claudio Giusti. Una virulenta malattia infettiva ha colpito in forma grave le morbose trasmissioni televisive del pomeriggio e della tarda serata. La liberazione di Amanda Knox ha dato il via ad una incredibile quantità di sciocchezze che si sono rincorse da una parte all’altra dell’Atlantico. I commentatori americani, scambiando per giurati i giudici popolari, hanno mostrato di sapere ben poco del sistema giudiziario italiano, mentre i nostri hanno ancora una volta dimostrato la loro assoluta ignoranza di quello statunitense. Non ho alcuna speranza di riuscire a cambiare questo stato di cose, ma per puro puntiglio voglio ancora una volta ricordare che quella che gli americani chiamano giustizia è molto, ma molto diversa da quanto si vede nei telefilm. Il Sistema giudiziario americano sembra funzionare così bene perché non fa i processi, non fa gli appelli e non motiva le sentenze. Infatti codesto sistema non rimane schiacciato dai 15 milioni di arresti che ogni anno compiono le 18.000 polizie americane perché il 95% del milione e duecentomila condanne annuali è ottenuto (senza contare i piccoli reati) con il patteggiamento. Le giurie, nel raro caso in cui qualcuno si prenda il disturbo di interrogarle, non devono argomentare le loro decisioni. L’appello è concesso molto raramente e consiste nella revisione meramente formale del verbale del processo di merito, senza la presunzione d’innocenza. Per le condanne a morte l’appello è invece obbligatorio, complesso e lunghissimo e questo è possibile perché la prescrizione americana si interrompe con l’inizio dell’azione giudiziaria e NON riparte più. Qualcuno pensa che Foxy Noxy sia stata vittima di un errore giudiziario. Lo penso anch’io, ma questo errore lo colloco al secondo processo. Comunque siamo stati costretti ad assistere alla solita manfrina dell’ “adesso chi paga”. Ovviamente nessun americano avrebbe detto una cosa così stupida. Intanto per non trovarsi davanti a un giudice a rispondere di insulto alla corte, poi perché, proprio nei giorni gloriosi di Amanda, l’America era squassata da una raffica di liberazioni, infine perché Giudici e Procuratori sono assolutamente immuni da cause civili. Anche se hanno commesso dei reati nell’esercizio delle loro funzioni non possono essere chiamati a rispondere civilmente delle loro decisioni. Possono essere perseguiti per via amministrativa o penale, ma NON possono esserlo in via civile. P.S. Il sistema giudiziario penale americano si caratterizza per la sua assoluta arbitrarietà, incoerenza e imprevedibilità ed è impossibile dire cosa sarebbe accaduto all’attraente americanina se l’assassinio di Meredith Kercher fosse avvenuto nello Stato di Washington, ma ho ipotizzato due scenari. Inizio togliendo di mezzo la polemica sulla polizia scientifica e i forensic laboratories e ribadendo che gli americani farebbero meglio a guardare in casa loro, dove una quantità di laboratori di polizia sono stati investiti da furiose polemiche e da inchieste che hanno riempito le pagine dei giornali. Mi limito a ricordare che il laboratorio dello Houston Police Department è stato chiuso d’autorità. Fra le molte ragioni quella che ci pioveva dentro, come del resto pioveva in quello di Dallas. Quelle due contee hanno avuto fatto più del 10% delle esecuzioni americane e la condizione della scienza forense texana (vedi Cameron Todd Willingham) è così penosa da avere indotto il Parlamento del Texas a istituire una commissione d’inchiesta. Tornando a Perugia iniziamo notando che il sistema giudiziario americano è completamente diverso dal nostro (come lo è dagli altri sistemi di common law) ed è basato sull’assoluta libertà d’azione di cui dispone il District Attorney. E’ il Procuratore che decide chi incriminare e per quali reati ed è sempre lui che decide se patteggiare e in che termini. Questa incondizionata autonomia consente una enorme pressione sugli accusati e produce una totale arbitrarietà nell’imposizione della pena. La Procura ha il completo controllo della situazione e decide se chiedere o meno la pena di morte (magari dopo essersi consultata con la famiglia della vittima) o se utilizzarne la minaccia per spingere a un patteggiamento. In Europa lo chiamiamo torturare la gente, ma in America accade spesso che le cose vadano così: ”Sei in prigione da due anni in attesa del processo quando si presenta un tizio che dice: - Se ti dichiari colpevole questa è la condanna e fra due anni sei fuori, ma, se ti ostini a proclamarti innocente, fra un anno c’è il processo e se vinciamo noi ti ammazziamo - Voi cosa fareste?” Questo immenso potere consente di patteggiare il 70% delle condanne per omicidio e il 95% di quelle per i felonies (crimini che prevedono una pena superiore all’anno). Il processo americano è da tempo una specie in via d’estinzione e i 15 milioni di arresti si riducono a 100.000 processi penali. Nei casi di omicidio con più complici la funzione del Procuratore è stata accostata a quella di un regista che assegna le parti in una recita teatrale. Il paragone è calzante, non tanto perché è lui che decide tutto, quanto perché gli americani spezzettano il processo in tanti procedimenti quanti sono gli imputati, ognuno dei quali avrà il suo dibattimento. In ognuno di questi la Procura si sente libera di presentare alle giurie una versione dei fatti completamente diversa dalle altre, come di costringere un imputato, in cambio del patteggiamento, a fornire la testimonianza adatta alla sua parte. (vedi Jesse DeWayne Jacobs e Napoleon Beazley). Questa recita è allestita a beneficio di un pubblico esiguo ma scelto: i dodici giurati, le loro fobie e pregiudizi: con il vantaggio che il loro gradimento non è motivato, perché essi non devono spiegare le ragioni per cui accettano le tesi di una parte e non quelle dell’altra. I giurati decidono all’unanimità se l’imputato è colpevole o non colpevole del reato ascrittogli, ma non devono spiegare il ragionamento che li porta a tale conclusione. Nel processo americano (che non conosce la parte civile) vince chi inizia con gli opening statements più facilmente comprensibili e conclude con l’arringa (closing argument) che racconta una storia semplice da capire e ricordare. Quello che convince una giuria non è la solidità delle prove, ma la coerenza del racconto. Se la storia che le viene presentata funziona sotto l’aspetto narrativo è difficile che la giuria vada a vedere se ci sono prove sufficienti della colpevolezza dell’imputato. Solo così si spiegano certe condanne: la giuria ha gradito di più il racconto che le ha fatto l’Accusa. Più che un processo un premio letterario. In America, i tre di Perugia, sarebbero stati passibili di pena capitale, ma ben difficilmente questa sarebbe chiesta per tutti e gli scenari possibili erano almeno due. Nella prima sceneggiatura, che chiameremo “Impicca il negro”, la parte principale è assegnata all’imputato di colore, per il quale si chiede la pena di morte. Al ragazzo bianco sarà invece data la parte del complice pentito che, in cambio di una condanna all’ergastolo, fornisce alla giuria una versione concordata con l’Accusa. La ragazza, in questa versione della recita, se la caverebbe con poco o nulla; l’importante è che si atteggi a vittima delle circostanze. La seconda sceneggiatura è ben più intrigante e originale della prima e ha per titolo “Morte alla strega”. In essa la parte principale è assegnata alla ragazza (che l’Accusa chiamerà sempre Foxy Knoxy), mentre i due maschi reciteranno quella dei poveri coglioni irretiti dalla dark lady. La biondina dallo sguardo di ghiaccio sarà dipinta come una perversa mangiatrice di uomini che, nel suo delirio di onnipotenza, non si ferma davanti a nulla. Una sadica pervertita che merita la morte. Queste sono ovviamente le mie invenzioni di studioso, ma occorre tenere presente che la realtà supera sempre la fantasia. Non per nulla a Washington (lo Stato di Amanda Knox) un serial killer ha patteggiato 48 omicidi. Ricordo infine che in America l’appello non è un diritto previsto dalla Costituzione e che i nostri ragazzotti, non essendo stati condannati a morte, non avrebbero nemmeno goduto del beneficio della revisione formale del verbale del processo da parte della locale Corte Suprema. Dott. Claudio Giusti, Membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla Legalità e i Diritti, Claudio Giusti ha avuto il privilegio e l’onore di partecipare al primo congresso della sezione italiana di Amnesty International ed è stato uno dei fondatori della World Coalition Against The Death Penalty.
Processo Kercher, il perché di due sentenze opposte, scrive Luca D'Auria su “Il Fatto Quotidiano”. La Corte d’appello di Firenze ha giudicato Amanda Knox e Raffaele Sollecito colpevoli di concorso nel reato di omicidio ai danni di Meredith Kercher, la giovane inglese uccisa nella notte di Halloween del 2007. La sentenza pareva scontata dopo che la Cassazione, nelle “istruzioni” di rinvio alla Corte fiorentina, aveva tracciato una rivalutazione del materiale probatorio in senso fortemente penalizzante per i due imputati. Normale dialettica processuale, regolata dal codice di rito; è vero. Ma il punto è un altro: com’è possibile che gli stessi elementi di prova siano stati valutati in maniera così diametralmente opposta da due Corti di Appello? La sensazione è che il giudice brancoli nel buio quando deve stendere la sentenza; che il nostro codice non gli fornisca gli strumenti per decidere nel modo più corretto. Invece non è vero, anzi. La regolamentazione prevista dal codice per la valutazione della prova è una delle più sofisticate nel panorama processuale internazionale. Non è questa la sede per snocciolare le disposizioni stringenti che impongono (o imporrebbero) al giudice decisioni logiche e giuste. È lecito chiedersi: ma cosa capita al giudice? Come possono giudici diversi avere pareri così radicalmente opposti sulle stesse prove? Credo che la risposta possa essere all’interno di quattro ambiti, diversi tra loro: uno antropologico-culturale, uno psicologico, uno sociale ed uno linguistico. Il primo: gli antropologi culturali ritengono che l’evoluzione delle idee (che prende il nome di innovazione) si generi darwinianamente come quella genetica, laddove gli apporti modificativi del codice di partenza divengono patrimonio del nuovo solamente se utili all’organismo (la sola differenza tra evoluzione ed innovazione è che la prima è rara e lentissima mentre la seconda continua e rapida). Ebbene, come mai l’evoluzione giuridica, seppure costituita da secoli di rinnovamento e modifica delle regole, pare relegare il diritto a corpo estraneo rispetto alla giustizia applicata? La risposta antropologica è chiara: la giustizia applicata non recepisce come utili le innovazioni giuridico-culturali in quanto potrebbero deviare da una gestione della giustizia in nome del “sentire popolare”, del “crime control” oppure del “sentire” del giudicante. Il secondo: la psicologia del ragionamento insegna come, sia il ragionamento induttivo (tipicamente processuale) ma anche quello deduttivo, soffrano di soggettivismi incontrollabili e del tutto istintivi che possono far deviare il giudizio dal binario più corretto. I due più comuni sono la ipervalutazione o ipovalutazione di taluni elementi che portano poi a creare dei sillogismi errati perché errate sono le premesse. Il terzo: tale ambito è definito sociale perché attiene alle ripercussioni sociali delle sentenze, cioè dire che il giudice non si sente tanto investito della soluzione giuridica della vicenda in oggetto, quanto della soluzione sociale riferibile a quella ipotesi di reato di cui l’imputato è accusato. Questa distorsione sociale incide profondamente nel giudizio sui reati ad alto tasso di coinvolgimento pubblico come quelli che afferiscono la criminalità organizzata. L’ultimo ambito è detto linguistico in quanto riguarda la modalità con la quale la norma scritta è in grado di esprimere la retrostante volontà del legislatore. Vi sono norme fondamentali del codice di cui c’è stato uno scarso sviluppo applicativo proprio per la criticità del loro “dire” e per la scarsa chiarezza del messaggio verso il giudicante. Tutti questi elementi, unitamente ad altri possibili, possono essere la risposta al vero “mistero del processo” (per parafrasare un testo di qualche decennio fa) che sembra togliere certezza al diritto, anche se la colpa non va ricercata nel diritto stesso.
Tutti i giudici di Amanda Knox, scrive Giancarlo Costa su “Il Fatto Quotidiano”. Conosco molti ragazzi che studiano da diversi anni per diventare magistrati o avvocati. A dirla tutta, anche io studio da diversi anni, fra tutto ormai sono quasi dieci, per lo stesso obiettivo. Si tratta di una fatica mica da poco. In Italia siamo così bravi a trovare l’inganno, che siamo diventati anche estremamente raffinati nel pensiero giuridico. E di leggi ne abbiamo un sacco, e dunque a farla facile, è tutto davvero estremamente difficile. Prendi la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Perugia. Il caso di Amanda, Raffaele e Rudy, per gli amici. I primi due assolti per non aver commesso il fatto, il terzo condannato a 16anni per l’omicidio di Meredith in concorso con ignoti. Ne ha parlato praticamente tutto il mondo, e io che ho seguito poco la vicenda, mi sono sentito un po’ tagliato fuori, come quando non hai visto la partita del Mondiale. Così sono corso ai ripari e ho guardato la tv, letto qualche giornale, cercando di farmi un’idea. Ho capito che Amanda ha comprato le mutandine sexy dopo che è morta Meredith. Ho capito che questa Meredith, inglese, era una brava ragazza acqua e sapone, mentre quest’altra Amanda, era una più furba e più bella. Ho anche capito che per gli americani, essendo americana, Amanda è innocente, mentre per gli inglesi, essendo inglese Meredith, Amanda è una scaltra assassina. Ho visto che agli americani la sentenza è piaciuta un sacco. Amanda assolta. Un’altra guerra vinta. Le troupe delle tv statunitensi hanno perfino fatto festa. Agli inglesi invece la sentenza è piaciuta meno, specie alla famiglia di Meredith, che ha mantenuto però un stranissimo contegno, accettando la decisione “senza nessuna critica alla giustizia italiana.”
Una buona fetta di italiani è invece molto arrabbiata. Fuori dall’aula si sente gridare “vergogna, bastardi”. Qualcuno saluta gli amici a casa. Io proprio non sapendo per chi tifare, aspetto di leggere le motivazioni della sentenza, o gli esiti del ricorso in Cassazione, anche se questi giudici devo proprio averla fatta grossa, se tutti gli altri giudici, decisamente popolari, manifestano di non condividere la decisione. Tantissime le sentenze emesse sui social network e tantissimi ovviamente i giudici. C’è il razzista al contrario, che considera Rudy innocente e Amanda e Raffaele colpevoli, perché, scrive, “vogliono farci credere che è stato il ragazzo di colore…andiamo aprite gli occhi”. C’è il perito della scientifica wannabe che contesta tutte le perizie, alla luce delle tante puntate di C.S.I visionate. C’è il rocambolesco fatalista, che sottolinea come “se in primo grado fosse stata assolta, in appello sarebbe stata condannata, la giustizia è davvero un terno al lotto”. E poi ci sono gli immancabili giudici della morale, profondi conoscitori dell’animo umano, ai quali di dettagli come le prove e regole procedurali non importa nulla, al cospetto di succosi dettagli erotico-sentimentali. Non manco i veri tifosi. Di Rudy, Amanda, o Raffaele. Dipende dalle bandiere e dai gusti. ( ma va detto che Amanda, molto bellina, la fa da padrona con migliaia di fans.). Occasione ghiotta anche per i censori della malagiustizia, pronti ad accodarsi al coro degli indignati, solidali alle vittime in quanto vittime anch’essi. Si passa dalla solidarietà del parente del carcerato, al furioso condomino che ha perso nella lite civile col vicino di casa e cova vendetta contro la casta dei magistrati. Scandali a go-go, e visto il clima, e’ intervenuto anche il ministro Alfano. “I giudici non pagano mai”. Piatto ricco, mi ci ficco. Io invece non so cosa dire, non me la sento di dire assassini a due dichiarati innocenti, non sento tutto questo desiderio di vendetta – giustizia, non mi ritengo capace di giudicare i giudici, né di spacciare verità di cui so poco o nulla. Certo leggi che ti rileggi, un’ idea sul ferretto del reggiseno col DNA me la sono fatta pure io. Ma poi a buttarla lì nel mucchio, niente, proprio non mi sento capace di giudicare tragedie di cui ho solo sentito parlare davanti un piatto di spaghetti. Devono essere state tutte quelle cretinate che mi fanno studiare, tipo questa storia del ragionevole dubbio, del favorire la libertà, perché stupidamente, meglio un colpevole fuori, che un innocente all’ergastolo. Sarà che le decisioni della magistratura, mi hanno detto, si aspettano, si appellano, si criticano volendo, ma dove aver almeno letto cosa dicono, e che in ogni caso almeno un po’ , giuste o sbagliate ai nostri occhi, poi alla fine si rispettano. In verità, credo che non avendo seguito molto la cosa in tv, io di questo processo potrò comunque capire davvero poco. Forse il processo doveva svolgersi direttamente in televisione, senza robaccia da azzeccagarbugli di mezzo. Sarebbe davvero più semplice fare così, e molti sarebbero più soddisfatti. In futuro faremo così. Si organizzerà una grande diretta tv , tipo Forum ma più serio, e i personaggi della storia raccontano i fatti, le emozioni. Li interroga un conduttore, con le domande da casa e l’aiutino,sempre facendo attenzione agli aspetti morbosi: share assicurato. Così se ne parla un pò, si sente qualche criminologa in minigonna, qualche ombroso psicanalista, un’attrice, un po’ di gente così a casaccio, e alla fine col televoto si decide. Colpevoli o innocenti, pena a piacere del pubblico.
Delitto
Meredith, condanna per la Knox e Sollecito. Parla il giudice Nencini: ho la
coscienza tranquilla, scrive “Il
Giornale di Sicilia”. Aveva annunciato almeno sette ore di camera di
consiglio. Ma alla fine sono state 12. Tanto che, durante il pomeriggio, ieri la
segretaria si è dovuta affacciare più volte in aula per comunicare che la
lettura della sentenza sarebbe slittata. Il giorno dopo le condanne ad Amanda
Knox e a Raffaele Sollecito, il presiedente della Corte d'assise d'appello di
Firenze, Alessandro Nencini, spiega il perchè di tanta attesa per la decisione:
«La mia logica è stata: prendiamoci il tempo che serve, dobbiamo uscire con la
coscienza pulita. Così è stato». Intanto, nelle lunghe ore di "presidio" in
aula, fra avvocati, giornalisti e pubblico partiva il gioco delle congetture:
liti con i giudici popolari, liti sulle misure da disporre per i due imputati,
reati da modificare, capi di imputazione da riscrivere. Nencini non ha gradito
il chiacchiericcio di questi mesi attorno al processo, specie quello su giornali
e tv. «I processi si fanno nelle aule, non sui media», dice. Poi sottolinea un
aspetto di cui va orgoglioso. Nonostante i tempi della giustizia siano
notoriamente lunghi, stavolta «in quattro mesi abbiamo fatto un processo con
rinnovazione del dibattimento».
Durante il processo Nencini ha dimostrato di essere un tipo spiccio. Più volte
ha interrotto gli avvocati con brusca schiettezza. Oggi non racconta cosa sia
successo ieri, però, «non ci sono da fare dietrologie - spiega - è stata una
camera di consiglio normale, con una discussione normale. Il tempo è servito per
l'esame degli atti: 12 ore non devono fare effetto». In fondo, basta fare due
calcoli: «Il processo è composto 64 faldoni e 36 perizie - ricorda Nencini - e
c'erano da valutare le ordinanze cautelari. La durata della camera di consiglio
è stata fisiologica. I giudici popolari devono dare il loro contributo. Se non
vogliamo che siano solo fantocci, dobbiamo metterli in condizione di
confrontarsi con gli atti processuali, per far sì che possano pervenire a una
decisione ragionata. È stata una camera di consiglio vera». Quando si è diffusa
la notizia che per notificargli il divieto di espatrio, la polizia ha dovuto
raggiungere Raffaele in un albergo alle porte con l'Austria, qualcuno ha pensato
che la Corte potesse rivedere la misura, magari disponendone una più "pesante".
Per ora non c'è bisogno. Per ora. «L'ordinanza è stata eseguita. Basta - ha
detto Nencini - Lui sta in Italia, la questione è chiusa qua. Non c'è motivo di
immaginare altro».
Omicidio Meredith, parla il giudice: «Amanda e Raffaele l'hanno uccisa perché quella sera non avevano niente da fare». Alessandro Nencini, il giudice dell’appello, spiega a Cristiana Mangani de “Il Messaggero” la sentenza. «I giurati erano bombardati dalla tv, facevano tante domande». Di questo processo ricorderà la tensione di Raffaele Sollecito, le dichiarazioni scritte via e-mail da Amanda Knox, le continue domande dei giudici popolari, le dodici ore di Camera di consiglio.
Presidente Nencini è finita.
«È stato faticoso, ma il giorno dopo ci si sente liberati. Sono vicende drammatiche, che hanno sconvolto delle vite. Ho anche io dei figli e una famiglia. Arrivare alla decisione è stato pesante, ma una volta che il verdetto è stato emesso ci si sente sgravati». È la mattina successiva alla nuova condanna per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, è già nel suo ufficio. Nella stanza al nono piano dell’iper moderno palazzo di giustizia, con ampie vetrate sulla città.
Dodici ore di Camera di consiglio, come mai così tanto tempo?
«Era il tempo necessario, c’era la necessità che i giudici popolari prendessero cognizione degli atti. I documenti di questo processo occupano mezza stanza. Si avvertivano due cose: la gravità della situazione. E poi, devo essere onesto, la sovraesposizione mediatica di questo caso, che non ha giovato. I giurati tornavano a casa e venivano bombardati da informazioni. E quando ci vedevamo, volevano sapere: "presidente, ma in tivù dicevano in un altro modo. Come è andata veramente?" Allora la mia logica è stata: prendiamoci il tempo che serve, dobbiamo uscire con la coscienza pulita. Così è stato».
Le motivazioni della Cassazione sembrano aver indicato un sentiero su cui procedere. Non saranno entrati un po’ troppo nel merito?
«Hanno solo spiegato che, in più occasioni, la sentenza di assoluzione mancava di argomentazioni e presentava difetti di logica. Non si poteva far finta di non vederle. Si può ritenere che siano condivisibili o meno, ma si deve anche spiegare perché».
La difesa di Sollecito ha suggerito la possibilità che i ruoli e le responsabilità dei due giovani venissero ben individuati e distinti. Avete preso in considerazione questa eventualità?
«Le difese di Knox e Sollecito sono state ad altissimo livello, hanno fatto delle scelte strategiche, ma i processi vanno fatti con le regole. Le due parti sono effettivamente diverse dal punto di vista processuale, perché Raffaele non è mai stato interrogato. C’è solo l’interrogatorio davanti al gip, fatto dopo l’arresto, ma non è utilizzabile. L’esame dell’imputato in questi anni, non è mai stato chiesto».
Pensa che sarebbe cambiato qualcosa?
«La facoltà di non farsi sentire nel processo è un diritto, ma priva il soggetto di una voce. La Knox ha parlato in vari modi, ha fornito diverse versioni, ha scritto memoriali. Per Sollecito si è ritenuto di non farlo parlare. Non abbiamo un suo contraddittorio processuale. Quanto questo abbia influito sulla decisione della Corte lo leggerete nelle motivazioni».
C’è poi il movente del delitto: a sfondo sessuale o per questioni legate alla pulizia della casa e a un litigio tra Mez e Amanda?
«Il movente è un problema che la sentenza affronterà. A livello generale, quando un fatto di sangue nasce all’interno di un’organizzazione criminale, è facile. Qui è nato e maturato in una serata tra ragazzi. Non c’è un movente prevalente che si possa desumere da un contesto. Fino alle 8 e un quarto della sera del primo novembre, Amanda doveva andare a lavorare al pub di Lumumba, e Raffaele doveva andare alla stazione a prendere la valigia di un’amica. Poi la situazione è cambiata. L’episodio nasce in una sera in cui nessuno aveva più da fare».
Un gioco del destino, come nel film Sliding doors? Una casualità? Un impulso?
«Non vorrei banalizzarlo con l’idea della casualità, ma se Amanda fosse andata a lavorare, probabilmente l’omicidio non sarebbe mai successo. Non si sarebbe creata questa occasione, e oggi non saremmo qui a discuterne. Cercare moventi può essere interessante, e negli atti vengono fornite diverse indicazioni. Sono consapevole che sarà la parte più discutibile delle motivazioni».
Pensa che la procura generale le chiederà l’arresto per Sollecito?
«L'ordinanza con il divieto di espatrio è stata eseguita. Lui sta in Italia, la questione è chiusa, non c'è motivo di immaginare altro».
«Mi sento liberato perché il momento della decisione è il più difficile. Ho anche io dei figli e infliggere condanne da 25 e 28 anni a due ragazzi è una cosa emotivamente molto forte», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Alle 10 del giorno dopo il giudice Alessandro Nencini è nel suo ufficio. Il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze che due sere fa ha ritenuto Amanda Knox e Raffaele Sollecito colpevoli dell’omicidio di Meredith Kercher è consapevole che «la sentenza aprirà un nuovo dibattito, soprattutto mediatico», ma proprio per questo accetta di spiegare come si è arrivati al verdetto.
Siete stati dodici ore in camera di consiglio. Il collegio era diviso?
«Gli atti di questo processo occupano mezza stanza, ci sono 30 perizie. I giudici popolari, che non sono addetti ai lavori, dovevano prendere cognizione del fascicolo per arrivare a una decisione condivisa, come deve essere quella di una Corte d’Assise. Bisogna esaminare i documenti, ragionarci sopra. Lo abbiamo fatto prendendoci tutto il tempo necessario tenendo conto che anche la vittima era una ragazza».
E poi avete raggiunto l’unanimità?
«Ho parlato di decisione condivisa. Posso dire che in tutti questi mesi e in particolare al momento dell’ultima riunione abbiamo avvertito la gravità di una sentenza che coinvolge ragazzi persone giovani e intere famiglie. Questa è una vicenda che ha stravolto molte vite».
Il vostro era un sentiero stretto, la Cassazione aveva sollecitato a «porre rimedio» rispetto alla sentenza di secondo grado che a Perugia aveva assolto i due imputati.
«Non è così, noi avevamo massima agibilità. Il vincolo era solo che in caso di assoluzione avremmo dovuto motivare in maniera logica. Non c’era alcun paletto».
Neanche rispetto alla sentenza emessa nei confronti di Rudy Guede?
«Effettivamente la particolarità del processo era proprio questa: una persona già condannata con rito abbreviato e in via definitiva per concorso nello stesso omicidio. La Cassazione ci chiedeva di valutare il ruolo dei concorrenti. Noi avremmo potuto dire che non erano i due imputati, motivandolo in maniera convincente. Ma non abbiamo ritenuto fosse questa la verità».
Perché avete deciso di non interrogare Guede?
«A che pro? Lui non ha mai confessato e anche se l’avessimo convocato aveva la facoltà di non dire nulla. Non l’abbiamo ritenuto necessario. Invece ci sembrava importante approfondire altri aspetti e infatti abbiamo disposto una perizia e ascoltato i testimoni sui quali c’erano dubbi. È il ruolo dei giudici di appello. In quattro mesi siamo riusciti ad arrivare alla definizione».
I legali di Sollecito vi avevano chiesto di separare le posizioni.
«Motiveremo in maniera approfondita sul punto spiegando perché non abbiamo ritenuto di accogliere questa impostazione. In ogni caso Sollecito ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo».
E questo ha influito sulla scelta di condannarlo?
«È un diritto dell’imputato, ma certamente priva il processo di una voce. Lui si è limitato a dichiarazioni spontanee, ha detto soltanto quello che voleva senza sottoporsi al contradditorio».
Negli anni sono stati ipotizzati moventi diversi. Voi che idea vi siete fatti?
«Abbiamo una convinzione e la espliciteremo nella sentenza. Al momento posso dire che fino alle 20,15 di quella sera i ragazzi avevano programmi diversi, poi gli impegni sono saltati e si è creata l’occasione. Se Amanda fosse andata al lavoro probabilmente non saremmo qui».
Vuol dire che l’omicidio è stata solo una casualità?
«Voglio dire che è stata una cosa tra ragazzi, ci sono state coincidenze e su questo abbiamo sviluppato un ragionamento.
Sono consapevole che sarà la parte più discutibile».
La Cassazione ha demolito la sentenza di assoluzione. Lo farete anche voi?
«Non ne parleremo, noi dobbiamo concentrarci sul primo grado che nei fatti abbiamo confermato».
E non crede che ci siano stati degli errori?
«Non ho detto questo. Qualche cosa credo ci sia stata e la evidenzierò».
Avete condannato Amanda Knox ma non avete emesso alcuna misura cautelare nei suoi confronti. Perché?
«È legittimo che lei sia negli Stati Uniti. Al momento del delitto era in Italia per motivi di studio ed è tornata a casa sua dopo essere stata assolta. Lei è una cittadina americana. Il problema si porrà qualora dovesse esserci la necessità di esecuzione della pena. Adesso non credo fosse necessario un provvedimento».
E allora perché avete ritirato il passaporto di Raffaele Sollecito?
«Era il minimo sindacale. In questi casi l’ordinanza serve a prevenire qualcosa e noi dovevamo evitare che si rendesse irreperibile in attesa del giudizio definitivo».
E crede basti il divieto di espatrio?
«Sì, ci è sembrato più che sufficiente. Se poi dovessero esserci sviluppi li valuteremo».
Altro che Giuria pluricratica e popolare. E’ solo e sempre uno al comando, anche nell’errore/orrore.
Filippo Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare...". È vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». Parla di Vincenzo Scarantino, falso pentito che per infiniti anni fu accreditato da investigatori e giudici - in particolar modo dal pm Nino Di Matteo - ma che si era inventato tutto e cercò pure di ritrattare, ma gli fu regolarmente impedito. Un depistaggio? Un’oscura manovra di cui furono vittime, oltre alla verità, anche Di Matteo e gli altri pm che indagavano su via D’Amelio? Un complotto, cioè, ordito in primo luogo dall’allora questore Arnaldo La Barbera, investigatore morto nel 2002 e oggi obliquamente accusato? «Il dominus dell’indagine resta sempre il pm, mai l’investigatore», ha detto la Boccassini ai giudici, «e sono i pm che devono aver deciso di andare avanti con Scarantino». Peraltro La Barbera, ha fatto capire il procuratore, di dubbi su Scarantino ne aveva a sua volta.
I DUBBI
Dunque vediamoli, questi dubbi e segnali che sono stati ignorati per anni - dai pm, dai processi e dalla stampa antimafia - al prezzo di undici processi inutili e di ergastoli affibbiati a innocenti.
1993. Compare Vincenzo Scarantino, meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera diranno che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, quella che uccise Paolo Borsellino. Ma fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma fa niente. Il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l’ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano.
1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrive la citata relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c’è da fidarsi - scrive assieme al collega Roberto Saieva. Durante l’estate il pm si rende disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le risponde che non è necessario. Un vertice per valutare le incongruenze di Scarantino viene rinviato di continuo, e non ci sarà mai. Sinché la Boccassini riparte per Milano e le sue indagini sono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo.
IL SUPERPOLIZIOTTO
1995. Alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La prospettiva che possa crollare il castello istruttorio costruito attorno a Scarantino, tuttavia, sembra terrorizzare la procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli: è lui, in luglio, a convocare i giornalisti e a parlare di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, è spettacolare e vi partecipa anche il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore». Aggiunge il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Insiste Caselli: «È inaccettabile e calunnioso... il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio». Sempre in luglio, il 26, la procura di Caltanissetta ordina di distruggere una duplice intervista che Studio Aperto aveva appena fatto a Scarantino: un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Il falso pentito aveva raccontato ai giornalisti che fu torturato nel carcere di Pianosa e la sua deposizione fu tutta una montatura. Notevole che Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti: in ogni caso l’intervista sparì perché la magistratura la fece sequestrare. Non solo. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto - ufficialmente - quasi vent’anni dopo.
1998. Ogni dubbio su Scarantino viene tacitato assieme ai suoi tentativi di ritrattare. Dice il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Dice il pm Antonino Di Matteo in una requistoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra... Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario».
Eppure altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale - reso da Scarantino nel 1994 - che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta. Eppure, sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura».
2008. Per far luce su via D’Amelio, 17 anni dopo la strage, compare il pentito Gaspare Spatuzza: e cambia tutto. L’uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati - Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni - diventano spazzatura, un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell’autunno 2010.
LE SEVIZIE
2009. Ma intanto un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, racconta ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, conferma tutto. Nel settembre successivo tocca a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che lo avevano seviziato perché dicesse il falso. Va ricordato che nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto. Nel frattempo il fronte mediatico-giudiziario dell’antimafia corre ai ripari. Scarantino viene progressivamente indicato come uno strumento innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio: e uno è paradossalmente il pm Di Matteo, che oggi istruisce il processo sulla «trattativa» e forse dovrebbe interrogare se stesso.
Amanda Knox potrà essere estradata. Ecco perché, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”."Mi vogliono in prigione. Ma io sarò latitante". Queste sono state le parole, poche ore prima del verdetto della Corte d'Assise d'Appello di Firenze per l'omicidio di Meredith Kercher, di Amanda Knox pronunciate in un'intervista via Skype al New York Times. Amanda, davanti alla telecamera, è convinta e decisa. "Nulla potrà cancellare l'esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata e per questo io non tornerò mai più in Italia" ha continuato la giovane di Seattle che, in attesa della lettura del verdetto, non ha resistito alla tentazione di cambiare il proprio look facendosi persino accompagnare dal parrucchiere. Ma la studentessa americana che per anni ha convito un’intera nazione della sua innocenza, negli ultimi mesi ha cominciato a perdere credibilità anche tra l’opinione pubblica americana. Per i media statunitensi, infatti, l’immagine granitica della ragazza accusata ingiustamente ha cominciato a sgretolarsi. Molti giornali e tv, che per anni l’avevano difesa descrivendola come una “vittima” del sistema giudiziari italiano, hanno cominciato a parlare di lei come una persona diabolica, come una perfetta assassina. Una definizione che la ragazza dal look camaleontico, però, non ha mai accettato. "Io non sono così- ribadisce nell’intervista al NY Times - sono diversa da come mi hanno dipinta". Ma adesso c’è una sentenza, quella del processo “bis”, che la condanna a 28 anni e sei mesi di carcere. E' adesso, però, in considerazione delle sue dichiarazioni e di alcuni precedenti storici tra Italia e Usa che iniziano gli interrogativi: Amanda Knox sconterà la pena nelle strutture penitenziarie italiane? La magistratura italiana riuscirà a riportarla nel Belpaese oppure come pensano la maggior parte degli italiani la bella studentessa americana riuscirà a “farla franca”? Proprio sull’esecuzione della pena, la storia di Amanda Know sarà destinata a creare polemiche e probabilmente anche attriti diplomatici tra il nostro Paese e gli Usa, come è già avvenuto in passato per altri due casi: la strage del Cermis e l’omicidio dell’agente del Sismi, i servizi segreti italiani, Nicola Calipari. In entrambi i casi le diplomazie dei due Paesi hanno dovuto ‘lavorare’ per riconoscere le colpe ai cittadini americani. E nel caso del Cermis i quattro ufficiali colpevoli della morte di 20 persone, non hanno mai sostenuto un processo in territorio italiano, Paese dove era avvenuta la strage. Strage del Cermis: il 3 febbraio 1998 un aereo militare Grumman EA-6B Prowler statunitense trancia il cavo della funivia del Cermis, in Val di Fiemme a Cavalese e provoca la morte di 20 persone. L’aereo era decollato dalla base aerea di Aviano alle 14:36. Durante un volo di addestramento a bassa quota, tranciò le funi del tronco inferiore della funivia del Cermis. La cabina, al cui interno si trovavano venti persone, precipitò da un'altezza di circa 150 metri schiantandosi al suolo dopo un volo di 7 secondi. Il velivolo, danneggiato all'ala e alla coda, fu comunque in grado di far ritorno alla base. Nonostante la presenza di testimoni, la dinamica dei fatti non apparve subito chiara. Solo la prontezza dei magistrati trentini, che sequestrarono immediatamente l'aereo incriminato nella base di Aviano, ha permesso di chiarire le responsabilità. In effetti l'aereo era già pronto per essere smontato e riparato. I pubblici ministeri italiani richiesero di processare i quattro marines in Italia, ma il giudice per le indagini preliminari di Trento ritenne che, in forza della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 sullo statuto dei militari NATO, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscersi alla giustizia militare statunitense. L'episodio creò un clima di forte tensione tra statunitensi e italiani. Il presidente degli Stati Uniti d'America Bill Clinton si scusò per l'incidente solo alcuni giorni dopo, e promise alle famiglie delle vittime risarcimenti in denaro.Dopo poche settimane il Presidente del Consiglio, all’epoca Romano Prodi assieme ad una rappresentanza del governo italiano, volò in terra statunitense. Caso Calipari: Nicola Calipari viene ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005 da un soldato statunitense duranti le fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista de Il Manifesto, Giuliana Sgrena.La vicenda crea immediatamente forti attriti diplomatici fra Italia e Stati Uniti d'America, come nel caso del Cermis. La magistratura italiana apre subito un'inchiesta sulla vicenda, incriminando il soldato Mario Lozano per l'omicidio di Calipari e il tentato omicidio di Giuliana Sgrena e dell'autista, Andrea Carpani, maggiore dei Carabinieri in forza al SISMI, entrambi rimasti feriti. Ma furono prodotte due versioni dell'accaduto, una italiana ed una americana, fra loro contrastanti in molti punti. La Procura della Repubblica di Roma il 19 giugno 2006 formalizza la richiesta di rinvio a giudizio per il militare americano Mario Lozano. Ma Mario Lozano risulta irreperibile: è mancata la collaborazione richiesta e non ottenuta dagli Stati Uniti. Le autorità americane respingono anche una rogatoria internazionale presentata dalla Procura di Roma. Con sentenza del 19 giugno 2008, la I Sezione penale della Corte di Cassazione rigetta il ricorso della Procura di Roma, confermando la mancanza di giurisdizione italiana sul caso. E adesso c’è un altro caso giudiziario che lega l’Italia all’Usa, quello di Amanda Knox.
Avvocato Stefano Toniolo, penalista dello studio legale Martinez e Novebaci, Amanda knox è stata condannata ma lei da Seattle è stata categorica e ha fatto sapere che non tornerà in Italia. Adesso tecnicamente Amanda è latitante?
“No, non è latitante fino a sentenza passata in giudicata, fino alla sentenza della Cassazione. I giudici della Corte d’Assise e d’appello di Firenze nella lettura della sentenza di condanna sono stati molto chiari e hanno specificato che Amanda Knox si trova “legittimamente” nel suo Paese”.
Quali strumenti ha a disposizione la magistratura italiana per pretendere il rientro in Italia di Amanda affinché sconti la pena nelle carceri italiane?
“Occorrerà attendere il giudizio della Cassazione e se verrà confermata la sentenza del tribunale di Firenze, potrà essere applicata una Convenzione stipulata con gli Usa nel 1983 ed entrata in vigore l’anno successivo, che regola l’estradizione nel caso in cui la condanna superi un anno di carcere. Non solo, l’estradizione è prevista anche per tutti quei reati che sono considererai tali anche negli Usa, quindi anche il caso di Amanda Knox, fatta la sola eccezione per i reati di tipo politico e militare”.
Molti italiani credono e temono che possa verificarsi un Cermis “bis”?
“La Convenzione del ’83 esclude dal trattato i reati di tipo militare e la strage del Cermis rientrava in questa fattispecie. Questo è un caso completamente diverso e credo che sia difficile che non venga concessa l’estradizione considerando anche i rapporti tra i due Stati anche se in rete, in queste ore, circolano pareri discordanti. Illustri penalisti sostengono che l’estradizione potrebbe essere ostacolata da una incompatibilità tra i trattati Usa-Italia e la Costituzione americana sul giusto processo. In tal caso, se Amanda non venisse estradata, l’Italia ha la possibilità di chiedere l’esecuzione della condanna nelle carceri americane. Credo che quest’ultima sia l’ipotesi più probabile”.
C’è il rischio di una tensione diplomatica tra Italia e Usa?
“E’ molto difficile che questo accada ma adesso siamo ancora nel campo delle ipotesi. Forse qualche tensione potrebbe anche verificarsi in considerazione dell’impegno molto forte da parte dei media americani nella lotta per l’innocenza della Knox. Ma ripeto, adesso è ancora molto presto. Dobbiamo aspettare la sentenza della Cassazione”.
Amanda Knox: “Sono innocente. Ecco perché non torno in Italia”. L'Amanda che compare nel video girato da Oggi ha un viso più rilassato, ma la paura non è ancora stata cancellata dai suoi occhi. Per l'accusa nel processo è ancora colpevole «ma come può essere visto che non ci sono tracce della mia presenza nella stanza dove è stato commesso l'omicidio?», si chiede. Per Amanda è questa la vera prova della sua innocenza. Quattro anni della sua vita, racconta ancora, le sono stati rubati, ma continua ad avere «massima fiducia nella giustizia italiana, ecco perché sto qua a combattere ancora». L'Italia per Amanda è sinonimo di carcere e accuse. «Non ho più niente là, anni di terapia non mi hanno aiutato, neppure scrivere un libro mi ha liberato. Starei molto meglio solo se il giudice ammettesse di avere sbagliato». Abbiamo incontrato Amanda Knox a Seattle, alla vigilia del nuovo processo d'Appello per l'omicidio di Meredith Kercher. Ecco l'intervista esclusiva a Oggi. Amanda Knox parla a cuore aperto in un’intervista esclusiva che pubblica il settimanale Oggi in edicola. Svela di avere ancora paura, di essere stata dallo psicologo, di voler incontrare la famiglia di Meredith Kercher. Poi, ammette di essere “imbranata a letto”. E svela perché è innocente: “Sul luogo non c’è una sola mia traccia. Non una. Tornerei in Italia solo se gli inquirenti ammettessero di aver fatto un errore”. Ecco che cosa ci ha detto a Seattle, dove l’abbiamo incontrata alla vigilia del nuovo processo di Appello che si aprirà il 30 settembre a Firenze. «Sto cercando di ricostruirmi una vita», esordisce Amanda Knox nell’intervista esclusiva a Oggi in edicola. «Ne ho una sola, non posso permettermi di esporla al pericolo di un’altra ingiustizia. Mi hanno già rubato quattro anni, non ho più niente in Italia: tutto quello che potevo dire l’ho detto in un centinaio di udienze, tutto quello che possedevo – l’allegria, l’ingenuità, la fiducia negli altri - mi è stato portato via. Ero una ragazzina quando mi hanno sbattuto in carcere. Ora mi sento come se avessi 40 anni in più di quelli che ho». «Io non ho ucciso Meredith», continua Amanda Knox nell’intervista a Oggi. «Non ho ucciso la mia amica e ho anche pensato di andarci, a Firenze, perché mi fa impazzire l’idea che qualcuno possa gonfiare il petto, puntare il dito contro la mia sedia vuota e dire che mi sono macchiata di un crimine che non ho commesso. Io posso capire che si possa costruire un’accusa, e una condanna, anche se manca la prova fumante, se manca il movente. Ma contro di me hanno esagerato». Nell’intervista al settimanale Oggi, Amanda Knox dice: «Dallo psicologo ci sono stata due volte, mia madre ha insistito tanto… Io non volevo, perché conoscevo solo gli psicologi del carcere e non posso dire che mi abbiano aiutato: pensavano solo a riempirmi di antidepressivi… La prima volta non sono riuscita a dire una parola. La seconda ho parlato per 15 minuti di fila e alla fine ho avuto un attacco di panico: non riuscivo, e non riesco ancora, a tirare fuori la tristezza, a cancellare la sensazione di essere braccata. Mi sento sempre come quegli animali che sono cacciati dagli animali più grandi. Dopo l’assoluzione, pensavo che sarei stata bene, che sarei tornata com’ero prima, allegra, spensierata. Cercavo di convincermi che stavo bene, che era questione di tempo, che la tristezza sarebbe passata. Ma non passava, la tristezza, i mesi scivolavano e io ero sempre spaventata, esausta. Ora ho accettato questo limbo, anche se forse ci tornerò, dallo psicologo. Neppure aver scritto il libro mi ha “curato”». «Io capisco gli inquirenti», prosegue Amanda Knox nell’intervista a Oggi. «Erano sotto pressione, dovevano trovare subito i colpevoli. Per me si sono fatti un’idea frettolosa e sbagliata del mio comportamento, della mia presunta freddezza, e hanno deciso che avevo qualcosa a che fare con l’omicidio: non sapevano cosa, esattamente, ma in qualche modo io c’entravo, ero colpevole e meritavo il carcere. Io sono molto arrabbiata con il pm Giuliano Mignini e con gli investigatori, ma li perdonerei in un istante se ammettessero di aver sbagliato. Non devono neanche dirmi sorry, mi dispiace. Non voglio vendette. Sentirei una tale pace, se Mignini ammettesse di aver sbagliato». Prosegue Amanda: «Dire che sono innocente, significherebbe ammettere non solo che è stato fatto un errore, ma che è stato fatto un errore sopra un errore, sopra un altro ancora, e tutto per coprire un mucchio di altri errori. E gli investigatori, i giudici, non vogliono ammettere a se stessi e al pubblico di aver sbagliato. È una questione di reputazione… Ma la giustizia è fatta di esseri umani, e gli esseri umani possono sbagliare». Nell’intervista a Oggi, Amanda Knox dice anche di non sentirsi in colpa nel lasciare il suo coimputato Raffaele Sollecito solo nell’aula del nuovo processo, che si aprirà il 30 settembre. «In colpa? E perché? Io faccio di tutto per stargli vicino: ci sentiamo sempre, gli faccio coraggio, dico a tutto il mondo che è innocente. Come potrei aiutarlo, tornando? Lui soffre più di me, perché tutto questo – la condanna ingiusta, l’accanimento dei pm e dei media – glielo sta facendo il suo Paese, la sua gente. Ma io non ho alcun potere… Sono semplicemente la sua amica. Un’amica orgogliosa: ho saputo solo leggendo il suo libro, che gli era stato offerto di distruggere il mio alibi in cambio della libertà, e che lui ha rifiutato. È una persona straordinaria. Gli voglio un bene enorme. È rimasto questo, l’affetto, ed è importante… Lui ha detto a Oggi che a letto ero imbranata? Raffaele sa di cosa parla. Certo, avrei preferito che proteggesse di più la mia privacy». «Contattare i Kercher? Non ci sono ancora riuscita», spiega Amanda Knox nell’intervista esclusiva a Oggi. «C’è questo abisso di dolore che ci separa, che è cresciuto durante processo: non ho avuto il coraggio di attraversarlo. Milioni di volte, ho pensato di avvicinarli, e in milioni di modi diversi: non l’ho fatto perché ho paura che loro la considerino una strategia legale o mediatica. Non voglio che pensino questo di me. Leggo le loro dichiarazioni sul processo, su Meredith. Ho letto il libro di John Kercher. Sono stata assorbita e annientata dalle udienze, dalla prigione. Non ho ancora avuto la forza di piangere, di metabolizzare la perdita di Meredith. Ma voglio essere in grado di incontrarli, un giorno, voglio andare con loro sulla tomba della mia amica. Senza “impormi” sul loro dolore: spero di incontrarli a metà strada. Anche se ora è presto: continuano a pensare che io sia colpevole, ed è una cosa che mi fa un male enorme».
"Quarto Grado" dedica una puntata al giallo di Perugia, scrive “La Stampa”. Intanto l'ex fidanzato Raffaele Sollecito scrive un sms alla trasmissione Mediaset dando il suo punto di vista della vicenda: "Siamo innocenti". Il nuovo Appello si sposta a Firenze. Sull'omicidio di Meredith Kercher avvenuto a Perugia, torna a dire la sua Raffaele Sollecito, assolto con Amanda Knox nel processo di appello. Processo che ora è da rifare, visto che la Cassazione ha annullato quella sentenza. "Qualsiasi teoria accusatoria è solo frutto di una fantasia torbida ed un accanimento insensato - dice Sollecito - Spero che questa Corte voglia approfondire e accettare le nostre richieste, non tenendo conto di pregiudizi e di giudizi sulla personalità, oltretutto deviati dalla stampa avida di gossip, che non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia responsabilità". Ma la vera attenzione di Quarto Grado è su Amanda. Che è stata intervistata a Seattle, dove il programma l'ha raggiunta. Lei racconta la sua versione di quelle ore di incubo, nel 2007, quando il corpo di Meredith fu scoperto. "Non si pensa mai che vedrai una persona per l'ultima volta ma con Meredith fu così - dice Amanda - Con Raffaele quel giorno siamo usciti, volevo vedere il film Amelie con Raffaele e lui non lo aveva mai visto. Abbiamo visto la fine di questo film, cucinato un pesce, abbiamo mangiato e abbiamo fumato uno spinello insieme. Abbiamo chiacchierato e fatto l'amore e poi ci siamo addormentati". Poi la scena si sposta: "Il giorno dopo volevamo andare a Gubbio, quindi sono andata a casa mia per cambiare i vestiti. La porta della casa era aperta. Ho gridato "c'è qualcuno?" ma nessuno mi rispondeva. Sono andata per fare la doccia e cambiare i vestiti. C'erano delle macchioline di sangue dentro il rasoio. Quando sono uscita dalla doccia ho visto una macchia di sangue più grande su un tappetino". Qui inizia il terrore. "Ho chiamato mia madre che mi ha detto di parlare con Raffaele di questa macchia. Non sapevo come chiamare la polizia. Ho spiegato a Raffaele cosa ho visto. Sono tornata con Raffaele e guardando in giro la casa ho visto qualcosa che mi ha spaventata". Poi Amanda dice: "C'era una finestra rotta dappertutto, i vestiti lasciati in giro, le cose spostate. La porta della stanza di Meredith era chiusa a chiave. A quel punto abbiamo chiamato la polizia". Ma intanto arrivano gli amici di Filomena Romanelli, l'altra coinquilina di Meredith, con la stessa Filomena. Tutti entrano forzando la porta di casa, "e Filomena gridava: un piede, un piede. Ho chiesto a Raffaele che significava un piede, mentre le forze dell'ordine ci facevano uscire dalla stanza. Non riuscivo a credere che Meredith fosse morta, perché, come poteva essere successo. Speravo che qualunque cosa avessero trovato non fosse lei. Ero persa. Mi sono appiccicata a Raffaele perché mi dava sostegno e siamo andati in questura". Don Saulo è l'unica persona di cui Amanda parla quando il giornalista Mediaset va a Seattle. "Raccoglievo le confidenze di Amanda - dice don Saulo - La prima volta che l'ho vista le ho chiesto come chiedo a tutti se vogliono parlare anche con il cappellano. Poi con lei nascerà un rapporto importante". "Hanno detto che avevo due anime, che avevo una parte di me maledetta, che ero fissata con sesso e violenza. Non c'era nessuna evidenza di questo, non c'è mai stato. La Cassazione ha sbagliato, hanno completamente ignorato prove di innocenza". E poi continua: "Oltre a tutte le prove c'è la prova che io non sono in quella stanza, non c'è una traccia di me. Se io ho partecipato a un'orgia, a un accoltellamento, a un attacco di una persona ci sarebbe una traccia di me e non c'è. Comunque non faccio pregiudizi su questa corte. Io ho molta speranza che loro vedranno la prova di innocenza, che il processo finirà e che possa andare avanti. Resto qua primo perché non ho risorse finanziarie per andarci. Tutto quello che ho guadagnato lo ho speso per ricompensare la mia famiglia, per pagare i miei avvocati. Inoltre c'è la paura che non potrei offrire in aula nient'altro che una distrazione, nel senso che ho già fatto la mia testimonianza. Ogni volta che entravo in quella stanza tutti i media guardavano me, non ascoltavano quello che diceva la difesa, era secondario tutto il resto. Inoltre sono stata in carcere quattro anni ingiustamente e non posso conciliare questo fatto con la scelta di tornare. Si può dire che un innocente non deve avere paura del carcere, ma mi è già successo e non voglio tornare a quello". Amanda parla del carcere: "Avevo poco tempo per parlare con la mia famiglia. Penso che chiunque mediti il suicidio in quella situazione. Ero esausta e triste per quella esistenza. Non c'era privacy. Loro possono vederti e toccarti nuda come vogliono. Non c'è sicurezza rispetto alla violenza, sei un cane, non esisti come una persona normale. Un agente una volta mi ha seguito in bagno e mi ha preso tra le sue braccia. Sono riuscita a scappare. Altre volte venivo chiamata giù nella parte amministrativa. Il vicecomandante mi chiedeva quale biancheria intima portavo, in che posizioni volevo fare sesso, se avessi fatto sesso con qualcuno come lui. Questo è un uomo con le stellette sulle spalle". Il rapporto con Dio: "Ho pregato certe volte nel modo che don Saulo mi ha indicato. Dio, se ci sei, per favore aiutami. Lui mi ha regalato un ciondolo con una colomba, che rappresenta lo spirito santo che è la mia chiesa ma per te rappresenta la libertà". Don Saulo interviene in trasmissione: "Mi raccontò molte cose, tristezze e speranze. Ho condiviso le une e le altre. E poi questa colombina per ognuno ha un significato particolare". Amanda parla di Raffaele: "Sono triste per lui, la gente dovrebbe accogliere la prova che anche lui è innocente. Sta provando a ritrovare un posto da chiamare casa. Non si sente più accettato. La nostra relazione non è innamoramento. Abbiamo passato un incubo insieme, siamo come soldati che hanno attraversato una guerra insieme, siamo uniti e possiamo fidarci l'uno dell'altro. Io speravo che sarei stata più felice di quanto sono. Ogni cosa che vivo ogni giorno ha un riflesso su cosa ho imparato in Italia". E ancora: "Ho imparato cose brutte. Non mi piace imparare che non mi posso fidare della gente. Voglio parlare agli italiani, non è giusto lasciarli giudicare me senza sapere chi sono". La ragazza si presenta: "Ciao sono Amanda, mi piace cercare il meglio in ogni persona. Vorrei più di un bambino, non importa che sesso. Sto facendo pratica con due gattini che hanno bisogno di amore e sostegno. Io vedo nel mio futuro la possibilità di essere madre, non mi vedo in prigione". Su Meredith: "Mi ha accolta dal primo giorno, mi portava in giro dal primo giorno, era gentile e aperta. Come non avrei potuto prendere a cuore questa persona? Vorrei andare sulla tomba di Meredith. La sua tomba è come parte della famiglia, è un posto intimo che non voglio invadere se loro non mi accolgono. Ho letto il libro di John Kercher (il padre) e ho trovato l'amore per Meredith e ho visto anche la loro inabilità di vedere oltre l'accusa. Affrontarli ora sarebbe affrontarli vedendomi come la persona responsabile della morte della loro figlia e questo non è affrontarli. Voglio che capiscano che sono innocente e vorrei che mi dessero una chance".
Amanda Knox ha scelto di parlare a Quarto Grado, in un’intervista esclusiva, che è stata mandata in onda la sera del 20 settembre 2013. La ragazza di Seattle, nell’ambito dell’omicidio di Meredith Kercher, era stata condannata in primo grado e poi ha ricevuto l’assoluzione in appello. La Cassazione ha deciso di annullare la sentenza dei giudici di secondo grado e ha previsto un nuovo processo, che inizierà il 30 settembre a Firenze. Amanda Knox, prima dell’inizio di questo nuovo procedimento giudiziario, ha voluto rivolgersi agli italiani tramite le telecamere della trasmissione su Rete 4 condotta da Gianluigi Nuzzi. Amanda ha chiarito esplicitamente di non avere intenzione di ritornare in Italia per affrontare il nuovo processo. In questo momento la ragazza di Seattle ha dichiarato di avere paura. Ha affermato di aver trascorso 4 anni in carcere ingiustamente. Ha raccontato che, secondo lei, in quei 4 anni avrebbe subito abusi e umiliazioni: “Il ricordo peggiore del carcere non è un episodio violento: avevo la possibilità di telefonare alla famiglia per 10 minuti, una volta sola a settimana. Un giorno ho chiamato l’agente per telefonare, ma nessuno mi ha risposto. Ho pianto e urlato per mezz’ora, sbattendo la testa contro le sbarre e chiedendo di fare la mia telefonata, senza avere risposte. Mi sentivo come un cane e nessuno capiva perché ero così esausta, stanca e triste, perché piangevo e urlavo“. Amanda ha raccontato che in carcere un agente l’avrebbe seguita in bagno e l’avrebbe presa tra le braccia. Ogni sera sarebbe stata chiamata dal dirigente carcerario, il quale avrebbe avuto delle conversazioni con lei da solo nel suo ufficio. Gli argomenti sarebbero stati incentrati sul sesso e sul suo fisico. Il dirigente le avrebbe domandato che tipo di biancheria intima indossasse, che posizione sessuale preferisse e se avesse potuto avere rapporti sessuali con uno come lui. Amanda non lo avrebbe denunciato per paura di non essere creduta. Non riesce, in questo momento della sua vita, a conciliare l’idea di poter ricominciare e allo stesso tempo di ritornare nel nostro Paese. Qui sarebbe stata, sempre secondo la sua opinione, presa di mira dai mass media, catalizzando la loro attenzione. Amanda ha avuto l’impressione che quasi il suo atteggiamento e l’attenzione nei suoi confronti abbiano avuto la meglio sull’andamento del processo: “Mi ha condannata il giornalismo da tabloid, che ha focalizzato l’attenzione delle persone su cose irrilevanti e non vere. Tra le accuse più offensive che ho ricevuto, ricordo ‘gatta morta’, ‘luciferina’, ‘demone’, ‘strega’. Mi hanno accusata di avere uno spirito maledetto e di essere posseduta, di manipolare le persone, di essere fissata con il sesso e la violenza“. Nell’intervista Amanda ha parlato anche di Raffaele Sollecito. Lo ha definito una brava persona, sulla quale può contare. Ha detto di fidarsi di lui e poi ha specificato i termini della loro relazione, che non può essere definita amore, in quanto entrambi da Amanda sono stati paragonati a dei soldati “che hanno attraversato una guerra“. Amanda ha fatto riferimento anche alla vittima, Meredith. Secondo i suoi desideri, vorrebbe che i genitori di Meredith capissero la sua innocenza e avrebbe piacere di andare sulla sua tomba insieme alla sua famiglia, anche se non vorrebbe rendersi colpevole di un’invasione di un posto intimo. La ragazza statunitense ha ricordato anche Don Saulo, il suo padre confessore in carcere. Riguardo a lui ha detto: “Lui è una persona vera, che sa che esiste la sofferenza nella vita e ha capito come affrontarla. Ho trascorso tutto il giorno del verdetto d’Appello nell’ufficio del cappellano, a suonare assieme a lui. In quell’occasione mi ha regalato una catenina dicendomi “Questa è una colomba, che rappresenta lo Spirito Santo, la mia Chiesa. Per te è la libertà: la libertà che hai dentro, qualunque sia il verdetto“.
Gli occhi cerulei fissano la telecamera, poi si abbassano rapidi. E si riempiono di lacrime. Ma è difficile scrutarli a fondo: sembra ancora inaccessibile il mistero nascosto dietro allo sguardo di Amanda Knox, la ragazza di Seattle accusata di aver ucciso Meredith Kercher. Lei, l’americanina dissimulatrice ed astuta, è tornata a dichiarare la propria innocenza e lo ha fatto in un’intervista esclusiva a Quarto grado, la prima rilasciata ad un’emittente italiana. A dieci giorni dal nuovo processo d’Appello, previsto per il 30 settembre 2013 a Firenze, la ragazza si è confidata ai microfoni del programma di Rete4 condotto da Gianluigi Nuzzi. Lo scoop, messo a segno dal popolare giornalista, verrà trasmesso integralmente questa sera, in prime time.
Amanda Knox a Quarto Grado – Intervista e dichiarazioni.
“Se fossi condannata, sarebbe un’esistenza terribile e scappare non sarebbe vita (…) non voglio che qualcuno punti il dito indicandomi come un’assassina. Ma non temo la condanna: so che è possibile un verdetto giusto. Mi aspetto l’assoluzione” ha affermato Amanda a Quarto Grado.
“Sono stata in carcere ingiustamente per quattro anni, non posso conciliare questo fatto con la scelta di tornare” ha poi aggiunto la ragazza, che non sarà presente alle udienze del nuovo processo. Davanti a Nuzzi, Amanda ha lamentato di essere già stata condannata dal giornalismo dei tabloid, che “ha focalizzato l’attenzione delle persone su cose irrilevanti e non vere. Mi hanno accusata di avere uno spirito maledetto e di essere posseduta…”. Secondo la Knox, questo sistema mediatico, sarebbe nato per giustificare il lavoro della giuria: “altrimenti, come si spiegherebbe che una ragazza normale uccida brutalmente un’amica?“.
“In Italia ho imparato cose brutte: ad avere paura ed a non fidarmi delle persone” ha detto l’ex studentessa a Quarto Grado, rivelando che i quattro anni trascorsi in carcere le hanno procurato depressione, attacchi panico, e continui incubi. Nel documento televisivo, Amanda ha anche riservato un pensiero all’amica Meredith, che secondo l’accusa sarebbe morta sotto i colpi delle sue coltellate.
“Penso sempre a Meredith: vorrei andare sulla sua tomba con la sua famiglia, ma non voglio invadere un posto intimo come quello, se loro non mi accolgono. Voglio che i Kercher capiscano che sono innocente“.
Drammatico, e interrotto da ripetuti sospiri, il racconto che la ragazza ha fatto del periodo trascorso in carcere. “Un giorno ho chiamato l’agente per telefonare alla mia famiglia, ma nessuno mi ha risposto. Ho pianto e urlato per mezz’ora, sbattendo la testa contro le sbarre” ha ricordato Amanda, gettando poi ombre sulla condotta del dirigente carcerario: “Chiedeva di parlarmi in un ufficio, solo lui ed io. Gli argomenti erano il sesso e il mio fisico: mi domandava che tipo di biancheria intima indossassi, che posizioni preferissi, se avrei potuto fare sesso con uno come lui. Non sapevo cosa fare. Non l’ho denunciato perché pensavo: “Chi crederebbe ad una persona accusata di omicidio e calunnia“.
"Io ed Amanda siamo innocenti e, più delle nostre parole, la nostra innocenza è chiara come la luce del sole nelle carte processuali. Qualsiasi teoria accusatoria è solo frutto di una fantasia torbida ed un accanimento insensato spinto dall'orgoglio e dall'avidità". E' il testo della dichiarazione inviata da Raffaele Sollecito via sms a Quarto Grado. Il messaggio verrà mostrato nel corso della puntata. "Spero che questa Corte voglia approfondire e accettare le nostre richieste, non tenendo conto di pregiudizi e di giudizi sulla personalità, oltretutto deviati dalla stampa avida di gossip, che non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia responsabilità", aggiunge Sollecito.
«Io e lei abbiamo bisogno l'un dell'altra», racconta in esclusiva su Oggi il ragazzo pugliese che per l'intervista indossa lo stesso giaccone che era finito nel fascicolo processuale. Scopri perché... Raffaele Sollecito parla in esclusiva a Oggi: «Certo che andrò a trovare Amanda a Seattle. È stata lei a invitarmi. Io ho accettato con gioia. E non è detto che aspetti Natale. Potrei farlo anche prima. In qualunque momento. Ho voglia di rivederla, di parlare, di guardarla negli occhi». Il settimanale Oggi pubblica alcune confidenze del ragazzo pugliese assolto in secondo grado dall’accusa di avere ucciso, insieme con la fidanzatina americana, la povera Meredith Kercher. Queste sono le sue prime dichiarazioni in assoluto dopo la scarcerazione. Dice Raffaele : «Ci telefoniamo o ci scriviamo tutti i giorni, abbiamo bisogno l’uno dell’altra sia per tentare di capire cosa è successo sia per guardare avanti, verso un futuro che sembrava spezzato per sempre e che invece possiamo ancora costruire. Abbiamo tante cose da dirci, dopo aver passato quattro anni in un girone infernale che ci ha stritolato, ci ha procurato sofferenze indicibili, ci ha rovinato la vita». Sollecito durante l’intervista a Oggi indossa un cappotto grigio foderato di pelo. Lo stesso che aveva addosso Amanda Knox il 3 novembre 2007, quando la polizia scientifica compiva rilievi nella villetta di via della Pergola, Amanda e Raffaele aspettavano sull’uscio. Lei aveva freddo, lui si sfilò il giaccone, glielo mise, la abbracciò. Raffaele ha voluto indossare lo stesso giaccone durante il suo incontro con il nostro giornalista perché quel capo d’abbigliamento è finito nell’impianto probatorio e “racconta” il pressapochismo con cui sono state condotte le indagini. Marco Quintavalle, proprietario di un minimarket a Perugia, disse che, il giorno dopo l’omicidio di Meredith, Amanda si presentò la mattina presto nel suo negozio, a comprare candeggina (per lavar via le tracce, era il sottinteso). Il Pm Mignini gli chiese com’era vestita la Knox. Quintavalle non esitò: «Con un cappotto grigio», disse. Forse il negoziante, che si presentò a deporre un anno dopo la morte di Mez, aveva visto la foto del 3 novembre, e fece confusione, mischiò ricordi e ritagli di giornale. Perché Amanda in realtà non ha mai avuto cappotti: «Li odia», dice Raffaele. Raffaele Sollecito torna a parlare. Di Amanda Knox, di Meredith Kercher, dell' "incubo" in cui vive da 6 anni e delle prospettive per il suo futuro in un momento in cui gli manca la concentrazione necessaria per trovare un lavoro e la cattiva reputazione lo perseguita ovunque vada e, tuttavia, non intende andar via dall'Italia. In un'intervista alla BBC del 6 settembre Sollecito dice di essere ancora buon amico di Amanda e, anzi, di conoscerla molto meglio di prima. Racconta di esser stato respinto dai familiari di Meredith la ragazza inglese uccisa nel 2007 in quella serata ancora avvolta nel mistero, l'1 novembre, a Perugia. Nuove rivelazioni su Amanda che scardinerebbero l'immagine della studentessa di Seattle descritta fino ad oggi come una sorta di dark lady. A parlare attraverso un'intervista a Oggi sarebbe lo stesso Raffaele Sollecito "era timida, inesperta, un po' imbranata". Questo riporterebbero le colonne del noto settimanale in edicola domani. Sollecito attualmente si trova in America, in cerca di un lavoro nel settore dell'informatica ma il 30 settembre sia per lui che per l'ormai ex fidanzata americana si riapre il processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. "Amanda dea del sesso? Qui è la radice dell'errore degli inquirenti - ha affermato -, di quel teorema ridicolo dell'orgia. Amanda era timida, inesperta, un po' imbranata: come me, d'altronde. Non voglio entrare nei dettagli, perchè non sarebbe giusto. Ma le dico, a titolo di esempio, che molte volte preferiva che le pettinassi per ore i capelli piuttosto che fare altro". Al settimanale Sollecito ha confidato che dopo Amanda si è innamorato "una sola volta, di una ragazza straniera". "Non è durata: se non ho una vita - ha aggiunto -, come posso condividerla? La mia vita sentimentale è un casino. Spostandomi spesso, passo da una relazione all'altra. Finiscono tutte male. Ora sono single". "Sto girando gli Stati Uniti - ha detto ancora Sollecito a Oggi -, cerco lavoro. Sono un programmatore informatico, e la Mecca per me sarebbe la Silicon Valley, in California. Ma sono come in stand by, mi sento "congelato", immobile. Annullando la sentenza di assoluzione, la Cassazione mi ha di fatto rimesso in carcere". Secondo il settimanale il giovane ha deciso di restare negli Stati Uniti e dice che diserterà le prime udienze di appello a Firenze. "Saranno molto tecniche - sostiene Sollecito -, con la mia presenza distoglierei le attenzioni dai fatti". Ma ha spiegato che poi tornerà in Italia per difendersi. Sollecito ha anche lanciato un appello alla famiglia Kercher. "Ricevetemi - la sua richiesta - datemi la possibilità di parlare con voi. So che è difficile: se quel che è successo a Meredith fosse successo a mia sorella Vanessa, sarei impazzito, non vorrei sentire nessuno. Ma io chiedo ai Kercher di avere una visione razionale dei fatti. Se mi assolvono - ha concluso Sollecito - cercherò di costruirmi una vita e una carriera fuori dall'Italia".
Un delitto che Sollecito continua a giurare di non aver commesso e non riesce tuttavia a togliersi dal pensiero, specialmente in vista della riapertura del processo, il 30 settembre 2013, davanti alla seconda sezione della Corte di assise di appello di Firenze dopo che la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione di secondo grado della Corte d'Assise d'Appello di Perugia, scrive Antonio Laterza su “L'Huffington Post”. Sollecito, però, non si pente di aver incontrato Amanda nella propria vita, un amore "adolescenziale", "interrotto dagli eventi" anche se, dice "so che se non l'avessi conosciuta avrei avuto un destino differente". Eppure, continua "questo non cambia il fatto che non è stata lei a fare degli errori". Ma è stanco, dice, di vedere il proprio nome comparire assieme a quello di "Foxy Knoxy" com'è stata ribattezzata la giovane americana. Spiega che sono rimasti amici e sono ancora in contatto ma che, rispetto ai sentimenti, "sono andati avanti", passati oltre. Ed è proprio questo il desiderio del ragazzo italiano, potersi dedicare ad altro oggi che non passa un giorno senza che si debba preoccupare di quella vicenda. "La mia vita è in standby". "E' stato tutto molto surreale quella notte", ricorda Sollecito riferendosi a quel 1 novembre. "Non capivamo la gravità della situazione. Non abbiamo visto né capito niente. Avevo solo 23 anni e non vidi la scena del delitto. Non conoscevo Meredith così bene". E conferma nuovamente la stessa versione che i due ex-fidanzati hanno sostenuto in tutti questi anni: lui e Amanda si trovavano insieme da un'altra parte quando l'omicidio di Meredith è avvenuto. "Ne sono certo, Amanda era con me e non eravamo lì. E' assurdo che ci accusino". Riguardo la ragazza inglese rimasta uccisa - per il cui omicidio al momento si trova in carcere solamente un ragazzo ivoriano che all'epoca faceva lo spacciatore, Rudy Guede - Sollecito sostiene di aver tentato di riconciliarsi con i familiari della Kercher. Racconta di aver inviato una lettera, una settimana dopo l'accaduto, a cui non ha mai ricevuto alcuna risposta. Nel messaggio, gli comunicava "simpatia e compassione" e gli diceva di "esser certo che la verità sarebbe presto venuta fuori" ma specificava di "non aver niente a che fare, in alcun modo, con l'omicidio di vostra figlia". Perfino la sorella del ragazzo ha scritto alla famiglia inglese, senza successo. Parla, infine, della prigione: "un'esperienza forte" dove però ha trovato anche persone che lo hanno aiutato ed è diventato, dice, la "mascotte" di tutti i detenuti, per i suoi modi gentili ed educati. Amanda e Raffaele rischiavano, con la prima sentenza, 26 e 25 anni di reclusione ciascuno. Oltre al libro della Knox (Waiting to be heard) uscito ad aprile scorso, anche Sollecito ha pubblicato la propria versione dei fatti in un testo intitolato "Patto d'onore: i miei giorni all'inferno e ritorno con Amanda Knox" (Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox) uscito per ora solo negli States. "Non mi sento in colpa ad aver guadagnato dei soldi raccontando questa vicenda. Tutto il mondo ha parlato di me ed ho il diritto di parlarne anch'io", dice Raffaele che spiega anche di aver usato il ricavato del libro per ripagare i tantissimi debiti che ancora lo attanagliano: "Non riesco nemmeno a pagare le bollette". La data della prossima udienza si avvicina ma il legale di Amanda Knox ha fatto sapere che la ragazza non tornerà in Italia per prendere parte al processo, com'era stato previsto quando si annunciò la riapertura del caso. La riapertura del processo ai due ex amanti, per l'omicidio della studentessa 21enne del Surrey, è stato ordinato a marzo dalla Cassazione a causa di errori processuali. Raffaele, però, che pure potrebbe trasferirsi in un paese dove sia al sicuro dall'estradizione, ha deciso "senza dubbi" di rimanere in Italia dove la famiglia tuttora vive e dove intende proseguire la propria vita. "Non sono preoccupato. La verità, i fatti sono lì. Sono ancora dentro un tunnel, anche se intravedo la luce".
Incontro al Palazzo di Vetro dell'Onu con l'ex studente pugliese che con Amanda Knox venne condannato per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher avvenuto a Perugia nel 2007, delitto per il quale vennero poi entrambi assolti nel 2011. Ora, dopo l'annullamento di quella sentenza da parte della Cassazione, Sollecito verrà sottoposto ad un altro processo assieme alla sua ex fidanzata americana. Ai lettori de La VOCE di New York , scrive Stefano Vaccara, presentiamo il trascritto dell’intervista con Raffaele Sollecito realizzata lunedì all’interno del Palazzo di Vetro dell’ONU, intervista concessa in esclusiva a Radio Radicale. Raffaele, che in queste settimane si trova negli Stati Uniti, aveva già concesso delle interviste ai network tv americani, e ha accettato di parlare con la Radio quando, venerdì 28 giugno, avevamo avvicinato Sollecito dopo averlo riconosciuto ad una importante conferenza sulla pena di morte che si è tenuta al Palazzo di Vetro. All’Onu Sollecito doveva tornare lunedì per altri incontri, non ci ha voluto dire con chi, ma sospettiamo con organizzazioni che si occupano di giustizia internazionale e diritti umani. Ovviamente molti lettori conoscono la vicenda dell’allora laureando Raffaele Sollecito e della studentessa americana Amanda Knox, coppia di giovani innamorati finiti in carcere nel 2007 a Perugia con l’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher, che condivideva con Amanda l’appartamento. Poi i ragazzi furono assolti in appello nell’ottobre 2011 ma, notizia di queste ultime settimane, saranno sottoposti di nuovo a processo, questa volta a Firenze, dopo che la Cassazione ha annullato quella sentenza di secondo grado. Il loro caso ha diviso l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti tra innocentisti e colpevolisti, per un processo giudiziario che sembra infinito e che continua a trascinarsi con tempi che proprio non hanno nulla a che fare con quella giustizia “pronta” di cui parlava un certo Cesare Beccaria oltre due secoli fa. Eccovi il trascritto dell’intervista avuta con Raffaele Sollecito al Palazzo di Vetro e andata in onda giovedì su Radio Radicale.
Raffaele, sei qui a New York da circa un mese e mezzo, perchè sei venuto negli Stati Uniti?
«Prima di tutto vorrei dire che concedo questa intervista pro bono, perchè da quando ero un adolescente sono sempre stato un sostenitore dei radicali e quindi di Radio Radicale. Sono venuto qui ormai da un mese e mezzo, prima di tutto per visitare una parte della mia famiglia che è americana e che diversi membri della nostra famiglia in Italia non avevano mai conosciuto. Dall’altra parte sto tirando su i fondi necessari per la mia difesa attraverso la rete di sostenitori che ho qui negli Stati Uniti. Sto facendo interviste appunto, per rendere pubblica la situazione e spiegare la tremenda ingiustizia che sto vivendo. E dall’altra parte anche per riuscire a sostenermi economicamente per la prossima battaglia che dovrò affrontare.»
Quindi per la tua battaglia legale tu pensi che restare qui negli Stati Uniti ti possa dare più possibilità di trovare, oltre che dal lato economico, un supporto anche dal lato morale, emotivo? Ti senti qui in una situazione più a tuo agio che stando in Italia per quanto riguarda la tua vicenda, ti senti meglio in America che in Italia in questo momento?
«In questo momento direi che gli italiani sono molto condizionati dalla pessima pubblicità che si è sempre fatta su questo caso da parte dei media italiani, e qui ricevo molto supporto sia perchè ho scritto un libro, con la casa editrice americana Simon and Schuster, e sia perchè sono molto sensibili ai casi di ingiustizia qui, in quanto le regole, le leggi che ci sono negli Stati Uniti per quello che riguarda i diritti civili, sono molto più restrittive e chiare... Invece in Italia a quanto sembra si può andare avanti facendo processi contro una persona ad ampio raggio, senza che nessuno possa mai mettere la parola fine appunto, così c’è qualcuno che nell’alto del suo potere può continuare a reiterare nei processi nei confronti dell’accusato.»
Anche se, per la verità, venerdì hai assistito ad una conferenza qui all’ONU dove sotto accusa e sulla pena di morte sono stati messi gli Stati Uniti, con ad esempio il caso dei tre di West Memphis, di quei condannati a morte che dopo 18 anni di galera, sono stati trovati non colpevoli. Quindi diciamo che anche qui negli Stati Uniti c’è un problema giustizia...
«Si certamente il problema giustizia c’è ovunque. Io parlo della sensibilità ai casi. Perchè, nel caso di West Memphis, dove ho notato che ci sono delle analogie su come è stata condotta l'indagine, come il pubblico ministero ha condotto le accuse, ci sono delle analogie che sono sconcertanti.»
Ci puoi dire qualcosa su queste analogie col tuo caso?
«L’ossessione della teoria accusatoria nei confronti di questi ragazzi, che per vie circostanziali purtroppo non si riuscivano a trovare delle prove solide anche perchè questo delitto è stato fatto all’aperto non al chiuso e ci sono molte differenze sul delitto stesso. Ma proprio la strategia accusatoria e la volontà accusatoria, che si è protratta con una teoria quanto meno, poco plausibile e assurda contro questi ragazzi, fino al punto di non dargli spazio per nessun tipo di teoria diversa e c’era appunto l’ostinazione dell’accusa stessa. Questi ragazzi non hanno avuto la possibilità di difendersi, ma ovviamente il caso di per sè è molto diverso. Però una volta che si è fatta chiarezza dopo anni e anni, lo Stato ed il sistema hanno cercato di porre rimedio al danno, nel caso mio invece, lo Stato sta perpetuando nell’errore e questa cosa è abbastanza deplorevole.»
Quindi tu in questo momento non ti fidi della giustizia italiana?
«Io non… semplicemente la giustizia italiana è diventata come una roulette, nel senso che non si sa mai quello che ti capita, perciò ho paura di come queste persone che mi accusano, abbiano questo enorme potere ed usano questo potere per distruggermi la vita, tenendo questo caso come molto personale. Ho visto ultimamente il capo della magistratura di Perugia, sarebbe il procuratore capo, che in una conferenza stampa ha affermato parole del tipo “abbiamo vinto” o “la corte di cassazione ci ha dato ragione”. Sono stato sconcertato da queste parole, perchè non ho capito che tipo di lotta è questa o se magari è una partita dove ci sono persone in squadre che si fanno gol vicendevolmente, questa cosa mi lascia alquanto perplesso e disarmato perche si parla di vite umane. Non è una battaglia. Ed il fatto che loro l’abbiano presa così personalmente, mi fa tremendamente paura di come stanno affrontando la cosa. Oltretutto c’è da considerare un’altra cosa che per me è degna di nota, è che durante il processo di appello quando c’è stata la sentenza, molte persone provenienti dalla questura di Perugia, e dagli ambienti della procura perugina erano tutti in fila dietro, appoggiati al muro, in divisa, ad aspettare la sentenza in segno di disapprovazione. Questa cosa è un segno chiarissimo della loro presa di posizione personale nella vicenda ed è stato, posso elencare anche altri episodi, dove si è visto chiaramente che la polizia di Perugia e gli investigatori nel mio caso, hanno preso di petto la questione come se dovessero in qualche maniera vincere la battaglia o dimostrare qualcosa per forza per poter essere, in qualche maniera….per avere ragione in quello che dicono.»
Da quando sei arrivato negli Stati Uniti hai avuto contatti con Amanda? Vi siete sentiti?
«Certamente, ci siamo visti a New York per puro caso perchè lei doveva venire qui per parlar con la sua pubblicista ed io ero qui dai miei familiari.»
Perche lei è appena uscita da circa un mese col suo nuovo libro...
«Si ci siamo incontrati, ci siamo visti un giorno, e per puro caso è successo che ci siamo visti proprio il giorno che è uscita la sentenza, cioè che sono uscite le motivazioni della sentenza della Cassazione e questa cosa ovviamente non ci ha dato un buon incontro, nel senso che è stata una giornata un po’ travagliata e proprio perchè ci stavamo chiedendo come mai c’è questo accanimento.»
Ma lei ha capito, lei riesce, dato che ha passato tanti anni ormai in Italia, riesce a capire il sistema giudiziario italiano oppure ancora per lei è un oggetto misterioso?
«Ma diciamo che è un oggetto misterioso un po' per tutti penso. Dall’altra parte ovviamente lei era molto più sconcertata dall’atteggiamento e dalla decisione in sè, che non nel capire il sistema stesso. Anche perchè di questo passo, una persona può… diciamo che per l’accusa non fa niente quante volte una persona può essere assolta, tanto può sempre fare ricorso fino a che la Cassazione può rimandare tutto il processo, perchè magari non gli è piaciuta la sentenza.»
Da quando sei qui, negli Stati Uniti, tu ovviamente sei in contatto con i tuoi avvocati, con la tua famiglia, con i tuoi amici, ma da quando guardi alla tua vicenda dall’America cosa è cambiato, c’è qualcosa che vedi di diverso, c'è qualcosa di cui magari ti rendi più conto da qua, che ti risulta più lucida, più chiara, oppure al contrario ti si è complicato ancora di più tutto?
«Diciamo per come sono andati i fatti, li conosco perfettamente quindi non c'è nessuna complicanza sui fatti di per sè. E' che guardando alle cose in modo più razionale, sono ancora più sconcertato e sono ancora più in disapprovazione rispetto alle metodologie e da come vengono condotte le cose nel nostro caso. Il pubblico fin dall’inizio in questo processo... io sono stato messo in carcere per degli indizi che non avevano nessuna sostanza e le prove, contro di me le hanno cambiate durante la mia detenzione. Cioè hanno fatto le indagini e sono venuti fuori con altre prove durante la mia incarcerazione, non prima di mettermi in carcere. Ho passato più di una settimana senza parlare con nessun avvocato, perchè mi è stato vietato da un documento che il pubblico ministero non ha mai messo agli atti e che ha sempre detto di aver avuto ma che non è mai uscito. Non mi è stata data la possibilità di discutere le prove del DNA durante tutti gli anni della mia incarcerazione fino all’appello. Il preciso momento in cui ho avuto la possibilità di avere una perizia da parte di persone indipendenti chiamate dalla corte sul DNA e sulle prove è stata soltanto in appello, non c’ è mai stata prima per me la possibilità di poter discutere di quello che la polizia aveva fatto, visto che ci è stata sempre negata anche la possibilità di accedere ai dati grezzi che riguardano le perizie stesse fatte dalla polizia scientifica.»
L’ultima domanda. Tu sei ancora giovane, hai 29 anni, da qui a 10 anni Raffaele Sollecito dove lo vedi? Cosa pensi farà? Sei ottimista o pessimista sul tuo futuro e dove ti vedi, in Italia o in un altro paese?
«Io sinceramente non so cosa pensare del mio futuro. Prima di tutto ne voglio costruire uno, a prescindere da quello che sia, devo avere la possibilità di farlo. Io sono ottimista altrimenti non sarei qui a combattere questa battaglia, sono ottimista di carattere e vivo per… Fondamentalmente la mia personalità è basata sui miei sogni e sulle emozioni che posso avere durante la vita quotidiana che possono essere una carezza, un abbraccio, l’avere una persona accanto che condivide con te ogni momento della vita come può essere una donna che ami. E quello che sono i sogni nella mia vita son sempre stati, cose semplici, tipo ad esempio avere una bella famiglia. Avere una donna che amo e che mi ricambia nell'amore o avere un grosso cane e tanti figli, o avere la possibilità di fare nel mio lavoro quello che più mi piace. Tipo ho sempre sognato di programmare i videogiochi e di riuscire ad avere successo in questo, con la mia creatività e con la mia fantasia e i miei sogni e le mie speranze.»
AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO: C'E' UN GIUDICE A PERUGIA.
«Amanda, c’è un giudice a Perugia».
Così, Vladimiro
Zagrebelsky intitolava un articolo pubblicato su La Stampa nell’ottobre 2011
che, ora che sulla vicenda si è già pronunciata la Corte di Cassazione, qui
riproponiamo. Le tappe del processo sono note: il 3 ottobre 2011 la Corte di
Assise di Appello di Perugia aveva assolto con la formula “di non aver commesso
il fatto” Amanda Knox e Raffaele Sollecito dalle accuse di omicidio e di
violenza sessuale, e per insussistenza del fatto dall’accusa di simulazione di
reato. Il 26 marzo 2013 la Cassazione ha poi annullato le sentenze di
assoluzione del grado di giudizio precedente, rinviando lo stesso dinanzi alla
Corte d’assise d’appello di Firenze.
A distanza di un mese dal deposito delle motivazioni (clicca
qui per leggerle), riproponiamo questo interessante articolo pubblicato sul
quotidiano “La Stampa” nell’ottobre 2011 (pochi giorni dopo la sentenza emessa
dalla Corte di assise di appello di Perugia) da Vladimiro Zagrebelsky (fino al
2010 giudice italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di
Strasburgo). Si tratta di un articolo molto interessante, oltre che per
l’interesse mediatico della vicenda, anche per meglio comprendere le differenze
esistenti tra il nostro sistema processuale e quello statunitense.
“Amanda, c’è un giudice a Perugia”, di
Vladimiro Zagrebelsky, 6 ottobre 2011,
La Stampa. Le reazioni alla sentenza della Corte di assise di appello di
Perugia sono andate oltre l’immaginabile. Il Dipartimento di Stato americano si
è compiaciuto (un’imputata è americana), il primo ministro britannico si è
rammaricato (la vittima era inglese), la piazza di Perugia ha insultato i
giudici, la folla di Seattle ha accolto l’imputata come un’eroina. Nessuno ha
ancora letto la motivazione della sentenza (che non c’è ancora) e pochissimi
hanno letto quella di segno contrario pronunciata dalla Corte di assise di primo
grado. Ma molti evidentemente hanno la loro ferma opinione, non solo
sull’innocenza o la colpevolezza degli imputati, ma anche sulle colpe dei
giudici e del sistema in cui operano. Un sistema «medievale», si è detto, mentre
è il sistema alternativo che affonda le sue radici nell’Inghilterra del
dodicesimo secolo. Prima di dir qualcosa sul sistema italiano, va
brevemente detto che negli Stati Uniti un’accusa come quella portata nel
processo di Perugia avrebbe esposto gli imputati al rischio della condanna alla
pena capitale e il giudizio sulla loro colpevolezza sarebbe stato reso da una
giuria popolare con le semplici parole di «guilty» o di «not guilty», colpevoli
o non colpevoli. Ben difficilmente l’appello sarebbe stato ammesso e comunque
solo su questioni di procedura. Nessuna motivazione sulla valutazione della
prova, nessun controllo o rinnovo del giudizio da parte di un altro giudice.
Semplice e rapido, ma, come tutti sanno, non esente dal rischio di errore
(tragico nel caso della condanna a morte). In Italia, ma anche in altri
Paesi europei, come la Francia o il Belgio, i delitti più gravi, come
l’omicidio, sono giudicati dalla Corte di assise, che da noi è un collegio di
otto giudici, due magistrati e sei giudici popolari, estratti a sorte sulle
liste elettorali. Ogni decisione è presa a maggioranza dei voti e, in caso di
parità, prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Dopo letto in aula il
dispositivo della sentenza, segue la redazione e la pubblicazione della
motivazione. Secondo la nostra Costituzione, tutti i provvedimenti giudiziari
devono essere motivati. La motivazione obbliga il giudice a render conto
dell’uso che ha fatto del potere pubblico che gli è assegnato, permette il
controllo e la critica da parte dell’opinione pubblica e, infine, consente il
controllo in appello e poi eventualmente in Cassazione. Motivazione e controllo
vanno di pari passo, infatti dove, come nel sistema di giuria, non c’è
motivazione non c’è nemmeno appello. Qui la legittimità della sentenza si fonda
sulla motivazione, controllata da un altro giudice in un nuovo processo, là
risiede invece nel giudizio immotivato «dei pari» (Medioevo, appunto).
Il sistema processuale italiano, fondato sulla motivazione delle sentenze e sul
loro controllo in appello e in Cassazione, tiene conto della problematicità e
dell’opinabilità della valutazione delle prove. Accade (tanto più in un collegio
ampio come quello della Corte di assise) che la conclusione sia adottata a
maggioranza, sulla colpevolezza o la pena. Il pubblico non lo sa e si stupirebbe
chi crede che la valutazione delle prove sia qualcosa di meccanico e matematico,
che porta a un risultato che tutti dovrebbero condividere. Talora invece il
collegio giudicante si divide. Accade anche, come in questo caso, che la
conclusione raggiunta dai giudici di primo grado non sia condivisa da quelli di
appello. Il sistema suppone che talora sia necessario correggere, che il
giudizio di appello sia più attendibile di quello di primo grado e che il
giudizio definitivo sia quello successivo della Cassazione. Ma
l’esistenza della motivazione delle sentenze e lo svolgimento di un nuovo
giudizio davanti ai nuovi giudici mette in luce la problematicità della
valutazione della prova: la possibilità di conclusioni diverse ne è la
conseguenza. Chi non ha esperienza del giudicare può essere sconcertato e
chiedersi chi sbaglia. In realtà normalmente la questione non si pone in termini
di giusto/sbagliato. Essa però richiede una soluzione del contrasto. Nel nostro
sistema, come in tanti altri, la soluzione deriva dalla presunzione di non
colpevolezza, dal principio «in dubio pro reo». La condanna viene pronunciata se
i giudici concludono che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio.
Essendo stata abolita dal nuovo codice di procedura penale (1989) la formula di
assoluzione per insufficienza di prove, i giudici pronunciano sentenza di
assoluzione, non solo quando vi sia la prova dell’innocenza, ma anche quando
manchi, sia insufficiente o sia contraddittoria la prova. Ciò che spesso accade.
La difficoltà dell’opera dei giudici in casi come quello di Perugia e la
presunzione di innocenza degli imputati richiederebbero, attorno al processo, un
poco di silenzio. Silenzio certo da parte dei magistrati, prudenza anche da
parte degli avvocati e della stampa. Si tratta di esigenze fondamentali
dell’equo processo, così come lo si intende in Europa. E’ in gioco
l’indipendenza di giudizio dei giudici, che devono essere tenuti al riparo da
pressioni e suggestioni esterne. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più
volte notato che il clamore esterno e i «giudizi tramite stampa» possono
influenzare i giudici, particolarmente quelli non professionali, e incidere
sull’equità del processo. Ciò che è avvenuto attorno al processo di Perugia (e
spesso accade in Italia) è lontano anni luce dal clima richiesto. Nell’altro
sistema di cui si è parlato e in Europa particolarmente nel Regno Unito, si
sarebbe più volte parlato di «contempt of court». Se non quel reato, almeno il
costume che lo esprime potrebbe essere utilmente copiato.
Un sistema così garantista ha dei prezzi. Produce
fisiologicamente casi in cui un delitto resta impunito. Il delitto è stato
commesso, ma non è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che una
persona identificata ne sia responsabile. Donde il dolore delle vittime. Qui
poi, come in tanti altri casi, vi è anche la lunga detenzione degli imputati nel
corso del procedimento. La legge prevede un indennizzo in questi casi (se la
sentenza di assoluzione diverrà definitiva). Si tratta di una somma di denaro a
carico dello Stato. Le sofferenze, che la sentenza di assoluzione certifica
essere state ingiuste, non possono essere riparate.
PARLIAMO DI MASSONERIA E DI MAFIA.
In internet un file ‘anonimo’ con tutti i dati. Ma non è aggiornato. 32 logge in Umbria fra Perugia, Terni, Spoleto, Foligno, Castello e Umbertide.
E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto.
Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.
LA LISTA UMBRA: nel 1992 erano poco più del 4% gli umbri iscritti alle varie logge. 845 quelli residenti nella provicnia di Perugia, 232 in quella di Terni. La parte del leone la facevano i nati nel capoluogo di regione (562), seguiti da Terni (156), Città di Castello (65), Foligno (35), Gubbio (17), Spoleto (16), Bastia Umbra (13), Assisi (11), Amelia (7) etc..
LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.
G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.
G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.
G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.
L'INCHIESTA di CURZIO MALTESE su “La Repubblica”: Chi comanda nelle città. Perugia, il potere soft tra Medioevo e futuro.
Un viaggio in Umbria è sempre un viaggio nel tempo, in molti sensi. Anzitutto, non bisogna aver fretta. Il cuore d'Italia ha il battito lento, la terra dove "la calma si trova a due passi dalla passione" (De Musset) attira più pellegrini che turisti. Non solo ad Assisi. In fondo anche i milioni di visitatori di Umbria Jazz, di Eurochocolat, di "Cantine Aperte" e della marcia della Pace, a modo loro sono in pellegrinaggio verso santuari laici. Disposti a perdersi nell'incanto dei paesaggi, nelle valli belle come la Toscana, ma meno oleografiche, più ruspanti e segrete. Di gran moda fra le star, come Sting e Bruce Springsteen, che hanno appena traslocato famiglie e clan dal Chiantishire a Montone. Ed è un viaggio nelle epoche, in una regione sospesa fra Medioevo e futuro. Come la pittura umbra, che salta dal Perugino a Burri. Perugia, l'"Oxford italiana" di Indro Montanelli, con la sua università antica di sette secoli, le mura alte e perfette, la Rocca Paolina, è un museo vivente ma anche il laboratorio sociale di un felice "melting pot" all'italiana, con una popolazione di immigrati fra le più alte e un indice di criminalità fra i più bassi. Non esiste consiglio comunale che non abbia consiglieri immigrati ed è palestinese il deputato di Perugia, Ali Rashid di Rifondazione. L'università per gli stranieri è il miglior ponte culturale fra Italia e Cina, per non dire l'unico, visto che qui studia la metà degli studenti cinesi presenti nel nostro Paese. L'euforia di un'aria pulita, il carezzevole tratto degli orizzonti, lo splendore dell'arte, il profumo stordente dei fiori e delle utopie, tutto rende questa terra a prima vista paradisiaca. Perfino la globalizzazione in Umbria è stata dolce. E' arrivata prima che altrove, con i due colossi industriali, la Buitoni-Perugina e le acciaierie di Terni, finite nelle mani di Nestlè e Krupp. In compenso la perugina Colussi è diventata una multinazionale e fa shopping nel mondo dei marchi (Misura, Liebig, Sapori, Flora) e le medie imprese innovative si sono organizzate per rispondere con guizzi di originalità e oggi c'è chi vende frigoriferi agli eschimesi, legno ai canadesi, energia solare agli spagnoli, cioccolata agli svizzeri, cashmere agli indiani, jazz agli americani. Medioevo e futuro s'intrecciano nelle strutture del potere. Perugia è un groviglio di circoli chiusi, impenetrabili come fortezze, con una massiccia presenza della massoneria: trentaquattro logge in una città di 160 mila abitanti. Il tradizionale legame fra università e massoneria si attiva molto in queste settimane di campagna elettorale per i rettorati. Sono favoriti gli uscenti, il microbiologo Francesco Bistoni all'università per italiani e l'italianista Stefania Giannini agli stranieri, ma si combatte a colpi di comizi e riunioni. E' la vera campagna elettorale perugina. Le altre si chiudono di fatto quando i Ds locali comunicano i nomi dei candidati alle poltrone di sindaco, presidenti di provincia e regione, seggio alla Camera e al Senato. E' diviso in feudi anche il potere nell'informazione, con i due giornali di Perugia, il Giornale dell'Umbria e il Corriere dell'Umbria, in mano a due cementieri, entrambi eugubini, il gruppo Colaiacovo (colosso con tremila dipendenti) e il concorrente Barbetti, che li usano per farsi la guerra, in omaggio a un vecchio adagio umbro: "Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte". Con una netta prevalenza di Carlo Colaiacovo, al centro di un sistema di potere che comprende anche tre tv locali, la presidenza dell'associazione industriali e della fondazione bancaria, senza farsi troppi scrupoli di conflitto d'interessi. Eppure nel Medioevo umbro si aprono squarci di modernità. Non c'è forse un'altra regione in Italia, per esempio, dove s'incontrino altrettante donne nei posti di comando. Tutte nipotine di Luisa Spagnoli, la pioniera che nel 1907 fondò la Perugina, inventò il celebre "Bacio", si dice per amore di Francesco Buitoni, e poi la celebre catena di negozi, oggi gestita con talento dalla pronipote Nicoletta. Sono le sorelle Maria Grazia e Teresa a mandare avanti la Lungarotti, colosso del vino. Una quarantenne di Foligno, Catia Bastioli, amministratore delegato della Novamont, ha progettato una plastica biodegradabile e per questo è candidata al premio di inventore europeo dell'anno. Sono donne i sindaci di Todi e Città di Castello, la rettore dell'università degli stranieri e naturalmente lei, la "regina dell'Umbria", la presidente Maria Rita Lorenzetti. Contraria alle "quote rosa" perché non ne ha mai avuto bisogno. A meno di trent'anni era sindaco di Foligno, a trentacinque presidente della commissione parlamentare dell'ambiente, a quaranta (nel 2000) prima e unica governatrice d'Italia, riconfermata nel 2005 con un plebiscito, il 63,2 per cento, record nazionale. A conferma di una regione al femminile, come testimonial della Regione Umbria si è offerta Monica Bellucci, nata a Città di Castello. La popolarità della "regina" Lorenzetti si spiega con la ricostruzione dopo il terremoto del 1999 e con la fama di politico più antiberlusconiano d'Italia per via di alcune clamorose polemiche con l'ex presidente del Consiglio, sulla marcia Perugia-Assisi, sul 25 aprile e appunto sul terremoto. "Quando crollò quella scuola in Molise, Berlusconi ebbe il coraggio di dire: non faremo come l'Umbria. Perché non viene adesso a vedere come sono stati restaurati i borghi, più belli di prima?". Tutto vero, con qualche eccezione. Per esempio il centro storico di Nocera Umbra, ancora in macerie. "Guarda caso, l'unico dove c'è un sindaco di destra", risponde pronta. "Siamo circondati da una fama di regione vecchia, bella ma immobile. I problemi ci sono, a partire dall'invecchiamento della popolazione, duecentomila pensionati su ottocentocinquantamila abitanti. Ma guardi Perugia, il modo in cui ha integrato gli stranieri, eliminato il traffico cittadino con le scale mobili che ci copiano da tutto il mondo, inventato manifestazioni di successo nel mondo. Provi a visitare i nuovi distretti tecnologici verso il Trasimeno, a parlare con i giovani imprenditori e vedrà che stiamo vivendo una piccola rivoluzione". Seguo il consiglio e a una decina di chilometri da Perugia, vicino Corciano, visito quella che è forse la più piacevole fabbrica del mondo, la Cucinelli. Un borgo del '300, Solomeo, del tutto restaurato, dove le operaie lavorano nei casolari, all'ombra degli affreschi, guadagnano il doppio delle colleghe dei maglifici senza mai fare un'ora di straordinario e mangiano in una mensa da Gambero Rosso. Brunello Cucinelli, 43 anni, è il re del cashmere, esporta in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, ora in Cina e India, ma è l'esatto contrario dell'esangue e manierato stilista. Figlio di contadini, un passato di estremista, ha l'aria del francescano di sinistra e ricorda da vicino Mario Capanna. La sua rivoluzione l'ha fatta con i colori e il cashmere, ma ora si preoccupa "di restituire alla società una parte della mia fortuna". Ha salvato Solomeo dalla distruzione, adesso pensa a costruire un teatro neoclassico, che Luca Ronconi dovrebbe inaugurare, parchi per la meditazione religiosa, fondazioni benefiche. Cita Sant'Agostino, San Benedetto e Aristotele molto più di quanto non parli del bilancio consolidato o delle sfilate milanesi. In maniera perfino sospetta per uno che aumenta il fatturato del 20 per cento all'anno. E' presidente dei quindici teatri umbri, uno più bello dell'altro, e direttore dello Stabile di Perugia. Come quasi tutti gli industriali umbri, coltiva ulivi e vigne. "L'amore per il territorio era un lusso e oggi è diventato un marchio di garanzia nei mercati internazionali". Un altro imprenditore filosofo è Gianluigi Angelantoni, erede di Giuseppe, a capo di un'altra fabbrica-convento, sullo splendido Cimacolle davanti a Todi, che è un gioiello della tecnologia italiana. L'Angelantoni è specializzata in ingegneria del freddo, ha costruito simulatori ambientali usati in cinque continenti, il più avanzato simulatore per testare i satelliti, venduto all'India e inaugurato nel febbraio scorso a Bangalore durante il viaggio di Prodi, il sistema per conservare l'Uomo di Similaun e altro ancora. La prossima scommessa di Gianluigi Angelantoni è il progetto Archimede, in collaborazione col premio Nobel Rubbia. "E' un nuovo sistema di produzione di energia solare mutuato dallo stesso concetto degli specchi ustori di Archimede" spiega. "Sarà destinato ad abbattere i costi dell'energia solare. Gli spagnoli l'hanno già prenotato su vasta scala. In Italia, come sempre, siamo molto prudenti...". La terza tappa dell'Umbria Jazz Economy mi porta in una specie di giardino dell'Eden, a Montefalco, la terra del Sagrantino. Le industrie Caprai, settore tessile, hanno trasformato in business il tradizionale hobby degli industriali umbri per la vinificazione. Marco Caprai ha investito sul Sagrantino, vino originalissimo e fra i migliori d'Italia, quando nessuno ci credeva. Il risultato è un boom paragonabile a quello del Brunello negli anni Novanta. E' appena tornato dalla California, dove due produttori gli hanno chiesto una consulenza per riprodurre il Sagrantino: "Avevo soltanto capito che prima o poi la gente si sarebbe stufata di bere soltanto Merlot, Cabernet e Chardonnay, bastava aspettare e resistere". Al ritorno a Perugia incontro Eugenio Guarducci, 42 anni, autentico mito nascente dell'imprenditoria umbra. E' l'uomo che ha inventato Eurochocolate, un milione di visitatori, una sagra della cioccolata moltiplicata per mille. "Sono uno che ha inventato l'acqua calda" dice lui. "Che cosa ci voleva? Perugia è la città dei baci di cioccolata, la capitale della dolcezza. La città è bellissima e gli stranieri ci vengono sempre volentieri. Bastava soltanto mettere i manifesti". Peccato che nessuno ci avesse pensato prima. Dopo il successo di Eurochocolate, anche gli svizzeri si sono accorti di non averci pensato prima e hanno chiamato Guarducci per organizzare la festa europea della cioccolata. Intanto a Perugia, con gli incassi della fiera, ha aperto un centro congressi e una catena di alberghi tematici, uno dedicato naturalmente alla cioccolata, un altro al vino e il terzo, appena inaugurato, al jazz. Grazie ai Cucinelli, Angelantoni, Caprai, Guarducci, alla vivacità dell'imprenditoria al femminile, l'Umbria cresce più del resto d'Italia e ha l'indice di disoccupazione più basso al di sotto della pianura padana. Qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia, in un lungo dialogo con il deputato diessino Stramaccioni, dedicò un pamphlet ("Rossi per sempre") all'Umbria come metafora del declino nazionale. Se questo è il declino, ci possiamo stare.
I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato. Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini? Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso. Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."
MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA, di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010) su “La Voce delle Voci” e ripreso da tantissimi siti web.
Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.
ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.
ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.
ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione».
Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.
ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.
CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.
D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.
DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.
FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.
LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.
MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.
MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo.
Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.
MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino.
La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.
MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.
MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.
MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.
NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.
PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.
PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.
RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.
RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…
ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.
ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.
SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.
SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.
SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.
SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.
SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.
TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.
TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.
VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.
VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.
Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.
Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica.
Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”.
A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria. Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero. Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare. Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini». A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti. Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale. Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco». Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».
PARLIAMO DI MAFIA.
Secondo la Fondazione Caponnetto: L'UMBRIA NON E’ TERRA DI MAFIA MA LA MAFIA C'E' E FA OTTIMI AFFARI. La Fondazione Antonino Caponnetto, da quando è nata, segue con attenzione i fenomeni criminali ed esamina i fatti di cronaca avvenuti. Dalle attività svolte emerge una situazione delicata in merito alla presenza di organizzazioni mafiose attive in Umbria. L'analisi che segue, di natura socio-politica, basata sull'osservazione del territorio, si auspica possa servire a contrastare i fenomeni criminali, sia comuni che mafiosi, servendo da sprone a tutti e a ciascuno, per non far mai abbassare la guardia davanti a questi avvenimenti. Non si può non notare che i segnali presenti da tempo in Umbria sono probabilmente stati sottovalutati, confidando nel fatto che tale territorio, storicamente non mafioso, possedesse un tessuto sociale in grado di respingere i tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata. Diversi fattori devono essere presi in considerazione. I primi contatti sono avvenuti con tutta probabilità attraverso soggetti appartenenti a organizzazioni criminali inviati in Umbria in soggiorno obbligato. Scelgono altresì l'Umbria sodalizi mafiosi in fuga od in cerca di silenzio per la tranquillità che tale territorio offre e per la facilità nel riciclaggio del denaro sporco. Inoltre il dramma del terremoto ha permesso ad imprese mafiose provenienti da altre regioni di infiltrarsi nella ricostruzione. A preoccupare negli ultimi anni è soprattutto la possibilità e la capacità delle mafie italiane di realizzare sodalizi affaristici anche con le mafie straniere presenti sul territorio. Il tutto s'inserisce in un quadro economico internazionale che mostra una ripresa instabile, con la possibilità di rischi recessivi. La crescita degli Stati Uniti risulta essere lenta e l’incertezza sulla possibilità di tenuta di economie trainanti quali quelle emergenti dipinge un affresco economico globale ancora fragile. In Europa ha particolarmente pesato il debito pubblico dei singoli stati membri che ha costretto ad interventi di rientro dai disavanzi. Anche l’Italia ha fortemente risentito di una manovra finanziaria decisamente restrittiva. L’analisi della situazione sullo stato economico della regione Umbria considerando le rilevazioni Istat, mostra come siano state le imprese artigiane quelle maggiormente investite dalla crisi, le quali pur tornando a crescere nel 2010 non sono riuscite a compensare la flessione iniziale. Anche il settore edile ha attraversato un periodo assai negativo e la produzione industriale registra una situazione di difficoltà. Non stanno meglio il settore agricolo e quello turistico anche se quest'ultimo è in leggera ripresa. Tale quadro economico in crisi rappresenta il terreno ideale per l'infiltrazione criminale di tipo mafioso mirante all'investimento di soldi provenienti dalle attività illegali. Altro fattore di debolezza è la propensione al consumo delle droghe da una parte della popolazione. Ciò comporta, oltre agli inevitabili problemi di gestione sociale del problema il finanziamento diretto delle organizzazioni criminali organizzate mafiose e non da parte dei consumatori spesso vittime di overdose.
I sodalizi criminali presenti sul territorio sono numerosi. In particolare risultano presenti: Cosa Nostra, l'ndrangheta, i Casalesi, i colombiani, gli albanesi, i rumeni, i nigeriani, i nordafricani ed i cinesi. Siamo quindi di fronte alla classica situazione dei territori in origine non mafiosi dove, in mancanza di un gruppo autoctono, convivono diversi sodalizi venuti da fuori. In particolare i rapporti della DIA segnalano già da diversi anni la presenza mafiosa di esponenti campani collegati agli Schiavone, di Calabresi del gruppo Farao, di pugliesi e siciliani. I Casalesi per la DIA hanno una capacità criminale elevata in Umbria. Non mancano i traffici di donne e di droga gestiti dagli albanesi ed i traffici internazionali gestiti da colombiani e nordafricani. Tutti questi gruppi si mimetizzano molto bene in un contesto tranquillo. Il rapporto AISI del 2010 mostra, tra i suddetti sodalizi, in ascesa l'ndrangheta.
Il rapporto del DIS di inizio 2011 rileva un'influenza notevole delle varie forme di mafia con un'attenzione particolare all'arrivo dei cinesi in grado di approfittare della situazione economica arrivando ad impiantare imprese commerciali pulite anche in centri minori. Tale criminalità crea insediamenti propri ma mira al contempo ad imporsi nel controllo di tutte le attività economiche dei cinesi mettendo in difficoltà gli onesti. Sempre in questo rapporto in Umbria Cosa Nostra viene data in difficoltà, l'ndrangheta viene considerata solida ed i Casalesi in declino. Inquieta inoltre il fatto che le cosche italiane per rafforzarsi mirano ad infiltrarsi negli appalti pubblici nel comparto sanitario, agrituristico e nell'energia oltre che nelle grandi opere. (Perugia-Ancona) Le mafie straniere vengono definite dal rapporto maggiormente dinamiche ed in grado di ricorrere spesso a gang giovanili per condizionare la concorrenza.
Le numerose operazioni contro la mafia in tutte le sue forme messe assieme danno un quadro della situazione sul territorio.
1. Febbraio 2008 . Operazione “Naos” dei R.O.S., coordinata dalla DDA di Perugia, ha evidenziato la presenza di una sorta di alleanza sinergica tra camorra e l 'ndrangheta mirante ad impadronirsi di aziende pulite. In questo modo i sodalizi espandevano le proprie attività e miravano ad occuparsi di ambiziosi progetti infrastrutturali relativi ad appalti pubblici, anche per il tramite di politici “amici”. Il sodalizio mafioso era collegato al clan camorristico dei Casalesi e alla cosca della 'ndrangheta dei Morabito – Palamara -Bruzzaniti.
2. Ottobre 2008 . Operazione dei CC a Terni con l'arresto del latitante DI CATERINO inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi, appartenente alla fazione stragista dei casalesi.
3. Maggio 2009 . Operazione DIA /CC relativa ad un ingente quantitativo di droga proveniente dall'Afghanistan all'Umbria e gestito da gruppi napoletani ed albanesi.
4. Giugno 2009 . Operazione contro il clan Terracciano della camorra, del valore di oltre 20 milioni di euro (immobiliare e non). Le città coinvolte sono: Perugia, Città di Castello e Monteleone di Orvieto.
5. Gennaio 2010 . Operazione Pandora contro il clan Gallo della camorra. I camorristi in un'intercettazione ritenevano che in Umbria gli affari sono buoni. Il valore dell'operazione è di svariati milioni di euro.
6. Febbraio 2010 . Dal rapporto DIA. Sequestro a Spoleto di un appezzamento di terreno e relativo casolare di proprietà di un ergastolano mafioso di Agrigento.
7. Febbraio 2010 . Dal rapporto DIA. Conclusione indagini “Little”, “Smeraldo 1” e “Smeraldo 2” su traffico droga criminalità albanese.
8. Marzo 2010 . Dal rapporto DIA. Sequestro a Foligno di alcuni beni e di una società di costruzioni riconducibili ad un mafioso di Carini.
9. Marzo 2010 . Operazione DIA/CC contro il clan di Cosa Nostra di Lo Cricchio collegato ai Lo Piccolo. Beni confiscati pari ad un milione e mezzo di euro. Alcuni dei quali a Terni.
10. Marzo 2010 . Dal rapporto DIA. Operazione “Iktus” inerente la criminalità rumena dedita alle truffe informatiche.
11. Agosto 2010 . Operazione CC/GDF di Montepulciano. Due residenti a Spoleto fra gli arrestati avevano messo una base dell'ndrangheta in Umbria per invadere la Toscana. Indagini partite da un incendio nel senese.
12. Dicembre 2010 . Aperta indagine su infiltrazione 'ndrangheta negli alberghi in Umbria collegata alle vicende che hanno portato l'ex senatore De Girolamo in carcere.
13. Febbraio 2011 . Operazione PS Black Passenger. Scoperto traffico di droga gestito da nigeriani passanti per l'Olanda.
14. Febbraio 2011 . Arrestato ad Orvieto Maurizio Sangermano esponente in passato collegato alla banda della magliana.
15. Febbraio 2011. Arrestato in Romania grazie ai contatti che teneva a Terni il latitante dell'ndrangheta Cosimo Scaglione.
Dai capitoli pregressi si evince che le attività scelte dalle organizzazioni criminali variano in più settori. Il sistema di libero mercato non ne trae in alcun modo beneficio, anzi al contrario ne è notevolmente danneggiato. Nel corso del tempo il sistema delle economie mafiose è cambiato; esso è complesso, quanto “virtuosamente” sinergico. Il mafioso non agisce personalmente e per il suo diretto profitto, ma operando attraverso dei prestanome, e richiamando l’intervento di specialisti dei vari settori economico – amministrativi crea una vera e propria impresa a partecipazione mafiosa. Nasce così, un'azienda apparentemente legale, i cui capitali mafiosi attraverso i prestanome, tramite l'acquisto di azioni e quote societarie, penetrano nell'impresa. In questo modo la mafia si presenta sul mercato con un aspetto legale, avvalendosi del “know-how” che l'impresa mafiosa, rispetto alla normale azienda, non possiede. Così facendo, la mafia altera le regole del mercato, mirando ad avere il monopolio o l'oligopolio in particolari settori e ambiti territoriali. In particolare le attività predilette sono:
1. Night/Locali notturni. Sinergia tra casalesi e calabresi.
2. Sfruttamento prostituzione. Soprattutto albanesi.
3. Riciclo denaro sporco. Tutti i gruppi presenti.
4. Traffico di rifiuti. Soprattutto i camorristi come si evince da numerose inchieste ed in particolare da quella di Bonini del 2008 su “La Repubblica”. Degne di nota anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia di Cosa Nostra relativamente ad un traffico di rifiuti proveniente da Trapani.
5. Agriturismi ed alberghi. Cosche italiane.
6. Appalti pubblici. Cosa Nostra ed 'ndrangheta.
7. Narco traffico. Tutti i gruppi presenti.
8. Ambiente ed Energia. Cosche italiane.
LUOGHI COMUNI
In un'apparente isola felice come l'Umbria è importante conoscere quali sono I luoghi comuni sulla mafia. Vediamo quali sono.
1) la mafia non esiste. Oramai è stato appurato il contrario. Ma fino al maxiprocesso del 1986 di Caponnetto era il più diffuso.
2) la mafia se esiste è puramente un fenomeno criminale. Persiste ancora e favorisce la sottovalutazione del problema. Se fosse un puro e semplice fenomeno criminale sarebbe stata già debellata da tempo.
3) si ammazzano tra di loro a noi non interessa. Errato. Quando c'è una guerra di mafia chi rimane vivo rafforza il proprio gruppo ed aumentano i problemi.
4) di mafia non bisogna parlarne perché si rovina la reputazione di un territorio. Errore gravissimo che tuttora persiste in quasi tutto il nord ed in parte del centro e del sud. Non parlare della mafia significa aiutare la sua espansione.
5) teoria dell'isola felice. Non esistono luoghi nel nostro paese ed in Europa ove la mafia in qualche sua forma non sia presente. Questo errore di valutazione ad oggi persiste specialmente nel centro nord.
6) la mafia nasce dalla povertà. Al contrario la mafia nasce nei territori potenzialmente ricchi e li rende poveri. In Sicilia Cosa Nostra ha iniziato nella conca d'oro con il traffico di limoni.
7) teoria della totale sconfitta dopo gli ultimi arresti. Errore strategico già commesso nel 1996. Mai vendere prima della sua morte la pelle dell'orso.
8) la mafia una volta era buona. Falso non lo è mai stata.
9) di mafia straniera non bisogna parlarne perchè si rischia il razzismo. Errore grave perchè parlarne significa aiutare gli stranieri onesti.
10) non si fanno passi avanti. Falso in Italia ne sono stati fatti molti. Non bastano però in quanto bisogna agire sul piano internazionale. In Europa sono messi peggio.
11) ci prendiamo solo i soldi del riciclo dei mafiosi. Tanto i mafiosi non arrivano. Falso. I mafiosi dopo arrivano. 12) la mafia è invincibile. Non è vero. I danni che ha subito sono notevoli.
La mafia è un virus. Un virus mutante. Superare i luoghi comuni è come un vaccino e rappresenta un primo passo per sconfiggerla.
L'Umbria per fortuna è una regione non abituata alla mafia. L'Umbria per fortuna non è un territorio mafioso, ma purtroppo la mafia c'è e non va in alcun modo sottovalutata. L'analisi contenuta nel dossier, che si fonda solo su notizie basate su rapporti pubblici o su fonti giornalistiche, serve a puntare l'attenzione sui fenomeni mafiosi presenti in regione. Al momento si può considerare verosimile un fatturato delle organizzazioni criminali pari a c.a. 2 miliardi di euro e pertanto, se non si interviene in tempo, l'economia di una bellissima regione come l'Umbria rischia di essere divorata dalla mafia. Non siamo ancora a questo punto ma vista la crisi economica attuale bisogna intervenire. A tal proposito è importante il fatto che il consiglio regionale si sia dotato di una commissione antimafia interna.
FAVORITISMI E RACCOMANDAZIONI. VOTO DI SCAMBIO: IN ALTRI POSTI E' CONSIDERATA MAFIA.
Un nuovo terremoto scuote la sinistra. Umbria, arrestato il vicepresidente del Consiglio regionale Orfeo Goracci (Prc). Da “ Il Corriere della Sera”: Il vicepresidente del Consiglio regionale dell'Umbria Orfeo Goracci (Prc) è stato arrestato in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Perugia. A Goracci è stato imposto il divieto di colloquio con i suoi difensori, gli avvocati Franco Libori e Marco Marchetti, per cinque giorni. Goracci è accusato di una serie di «assunzioni facili» nel periodo in cui è stato - per due mandati, nel 2001 e nel 2006 - sindaco di Gubbio con un monocolore di Rifondazione comunista. Per questa vicenda era stato sospeso dal partito già da diversi mesi: dopo i primi avvisi di garanzia su assunzioni mirate in Comune e cambi di posto su presunte pressioni e i sospetti alimentati da denunce e lettere anonime sulla sua decennale attività del sindaco, il segretario regionale del Prc Stefano Vinti aveva chiesto a Goracci maggiore trasparenza. I vertici di Rc ne avevano quindi auspicato le dimissioni da vicepresidente del Consiglio regionale, incarico che invece ricopre tuttora. Oltre a Goracci, eletto sindaco nel 2001 e nel 2006, sono state arrestate altre otto persone: quattro finite in carcere - tra cui Maria Cristina Ercoli, ex-vice sindaco di Gubbio e Lucio Panfili nella giunta comunale all'epoca dei fatti - e altre quattro ai domiciliari, tra cui Nadia Ercoli e Antonella Stocchi entrambe in consiglio comunale a Gubbio nel periodo al vaglio degli investigatori. Sono in corso anche perquisizioni al Comune di Gubbio e negli uffici del Consiglio regionale dell'Umbria. A loro carico verrebbe ipotizzata - secondo quanto si è appreso finora - l'accusa di associazione per delinquere finalizzata all'abuso di ufficio e ad altri reati. Sull'inchiesta viene mantenuto il riserbo assoluto. Goracci, 53 anni, maestro elementare, venne eletto sindaco nel 2001 e confermato nel 2006, dimettendosi dopo la sua elezione a consigliere regionale nel 2010. In passato è stato anche parlamentare nonchè vicepresidente della Giunta umbra.
Da “Il Giornale”: Una nuova tegola sulla sinistra. L'ex sindaco di Gubbio Orfeo Goracci (Rifondazione comunista) è stato arrestato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'abuso di ufficio e altri reati. Già in passato Goracci aveva ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, concussione e abuso d'ufficio. Manette anche per l'ex vicesindaco di Gubbio, Maria Cristina Ercoli e per altri ex collaboratori ed ex assessori della giunta di Gubbio, tra cui alcuni esponenti dell'Idv. Una nuova tegola sulla sinistra. Un nuovo terremoto che scuote la rossa Umbria. In arresto il vicepresidente del consiglio regionale, Orfeo Goracci, fermato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'abuso d'ufficio e ad altri reati. In contemporanea sono finite in manette altre otto persone. Goracci (Rifondazione Comunista) è stato sindaco della città di Gubbio e le accuse che gli vengono rivolte sono legate a una serie di assunzioni facili e di avanzamenti di carriera, avvenute proprio nel periodo in cui era primo cittadino. Già in passato Goracci aveva ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, concussione e abuso d'ufficio, nell'ambito di un'indagine coordinata dai pm Mario Formisano e Antonella Duchini. In manette è finita anche l'ex vice-sindaco di Gubbio, Maria Cristina Ercoli, sindaco pro-tempore al posto di Goracci in un breve periodo del suo mandato, quando era stato eletto al Consiglio Regionale. Goracci si era autosospeso dal Prc nello scorso mese di novembre, poco dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. E il partito lo aveva messo ai margini, contestando la scarsa aderenza alla linea e la mancanza di trasparenza sulla gestione comunale. Oltre a Goracci e a Ercoli, in carcere a Capanne sono finiti Graziano Cappannelli, ex assessore al Commercio al Comune di Gubbio, ora consigliere comunale dell’Idv sempre a Gubbio; l’ex assessore all’Ambiente e consigliere del Prc Lucio Panfili; la dirigente comunale Lucia Cecili. Ai domiciliari invece l’ex assessore a Lavori pubblici e Urbanistica del Prc Marino Cernicchi, l’ex dirigente della Polizia municipale Nadia Ercoli (sorella di Maria Cristina), l’ex presidente del Consiglio comunale Antonella Stocchi e l’ex segretario generale del Comune Paolo Cristiano. Al vicepresidente è stato impedito per cinque giorni di vedere i suoi avvocati difensori. Sono nel frattempo in corso una serie di perquisizioni al Comune di Gubbio e negli uffici del Consiglio regionale dell’Umbria.
Commento di “La Repubblica”: LA STORIA di MATTEO PUCCIARELLI. C'era un volta Gubbio la rossa fiore all'occhiello di Rifondazione. La città amministrata da Goracci è stata per lungo tempo un punto di riferimento per la sinistra radicale. L'arresto dell'ex sindaco pone fine ad una delle poche esperienze di governo post-comuniste. Era il 28 maggio 2001 e quel giorno nacque la leggenda della cittadina più rossa d'Italia. A Gubbio, provincia di Perugia, poco più di trentamila abitanti, aveva sede la scuola di formazione di Forza Italia. Il sindaco Ds ex Pci Ubaldo Corazzi si ritrovava al ballottaggio. Ma - incredibilmente - mica contro il centrodestra. No. Contro un ex maestro di campagna allora 44enne, Orfeo Goracci, già deputato di Rifondazione Comunista. Al primo turno Corazzi in testa con quasi il 40%, a ruota il rifondarolo con il 37%, Forza Italia e An ferme al 21%. Il Prc, da solo, prese il 20%. Due settimane dopo finì con Goracci vittorioso con il 55, e con 13 consiglieri comunali tutti rifondaroli, più altri 5 di maggioranza. Una piccola Stalingrado. Un monocolore che più rosso non si poteva. Quasi undici anni dopo, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia dell'arresto di Goracci per concussione e abuso di ufficio. Goracci non è più sindaco di Gubbio, ma comunque la sua carriera l'aveva fatta: era vicepresidente del Consiglio Regionale, sempre con il Prc. E dentro Rifondazione i "compagni" di Gubbio erano portati come il fiore all'occhiello di un partito che negli ultimi anni se l'è passata brutta. Quando a novembre arrivò l'avviso di garanzia all'ex sindaco, Rifondazione lo sospese e gli chiese di dimettersi. Lui rimase al suo posto e commentò così: "Ad oggi parlano per me i quasi 30 anni di impegno e di militanza politica, i molteplici livelli istituzionali svolti sempre con correttezza, onestà e trasparenza, avendo come obiettivo solo e sempre l'interesse dei cittadini. Forse il decennio eugubino 2001-2011 è stato scomodo per qualcuno". L'inaspettata vittoria del 2001 fu condita da polemiche tra gli eredi del Pci. Con il diessino Corazzi che accusò Rifondazione di aver incassato circa 2 mila voti del Polo, al ballottaggio. "Berlusconi vi ha fatto un favore", sentenziò. "Sei amico dei poteri forti", rispose l'altro. Il segretario Fausto Bertinotti non ci mise bocca: "Questo partito non è una monarchia, i responsabili locali sono liberi". E via così per altri cinque anni. All'appuntamento del 2006, altro giro altre elezioni, stesso schema. E stesso risultato. Sfida fraticida, riformisti contro radicali. Il candidato ulivista al 40%, Goracci al 48%. Al ballottaggio fu un altro trionfo: vittoria con il 60%, e la lista del Prc si era portata a casa il 25%. Primo partito della città, più forte di Ds e Margherita insieme. Bertinotti era da poco presidente della Camera, Prodi al governo con il Prc, forse il momento più alto della storia di chi si oppose alla svolta di Occhetto. Poi, piano piano il sol dell'avvenire di Gubbio ha cominciato a tramontare. Ma molto più lentamente rispetto alle dinamiche nazionali, dove nel frattempo Rifondazione si era ritrovata fuori dal Parlamento e poi dilaniata per gli scontri interni fra Nichi Vendola e Paolo Ferrero. Finiti con la scissione di Sinistra e Libertà del governatore pugliese. Solo un anno fa, la sinistra stavolta tutta unita a Gubbio e capitanata dal Pd, vinse al primo turno con il 57%. Federazione della Sinistra e Sel, sommando i voti, presero il 20%. Come ai bei tempi di Goracci. Quando cominciò l'avventura della rossissima Gubbio Goracci si domandava "Sarò all'altezza?". E - profeticamente? Chissà - ammise: "Della nobiltà della politica è rimasto poco: amministrare ormai significa solo alchimia". Undici anni dopo, oggi, un freddo comunicato del Prc recita così: "Abbiamo fatto della questione morale una delle principali bandiere ed elementi identitari. Per tale ragione riteniamo politicamente che i rappresentanti dei cittadini nelle istituzioni debbano sempre dimostrare una specchiata ed incontrovertibile etica pubblica". La favola si chiude definitivamente così. Senza lieto fine.
Si insiste sulla questione, non per accanimento soggettivo, ma per dimostrare che non ci sono unti dal signore e che le disgrazie giudiziarie, come le collusioni e le omerta', ci sono in tutti i partiti politici.
L' inchiesta: Goracci accusato anche di violenza sessuale.
I carabinieri hanno bussato all'alba del 14 febbraio 2012 a casa di Orfeo Goracci, tra le mani cinquantacinque pagine di ordinanza e un bel paio di manette. «Associazione a delinquere», l'accusa principale per l'ex sindaco di Gubbio, ribattezzato lo «zar» tra i fedelissimi del suo partito, Rifondazione comunista. Insieme con lui arrestate altre otto persone, tutte appartenenti alla giunta di Rifondazione comunista in piedi fino al 2011, la più importante che il partito abbia mai amministrato in Italia. Un'inchiesta partita dalla denuncia di assunzioni facili in comune e arrivata a scoperchiare un sistema di potere che, secondo l'accusa, sarebbe in piedi dal 2002 «ed ancora in essere» finalizzato a commettere «una serie indeterminata di reati», abuso d'ufficio, concussione, falso in atti pubblici, soppressione di atti pubblici. Per Goracci, ex sindaco e poi vicepresidente del Consiglio regionale umbro, c'è anche un'accusa personale: violenza sessuale. A denunciare lo «zar», un'ausiliaria del traffico del comune di Gubbio, anche se il suo non sembrerebbe un caso isolato. C'è una testimone, ascoltata dai magistrati, che ha sintetizzato con una frase il sistema di potere: «La logica era chiara: o eri donna e cedevi alle avance del sindaco, o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia con Goracci o con persone riconducibili al suo gruppo, oppure eri fuori dai giochi». Già, il «gruppo». Sembrerebbe essere stato arrestato in blocco. Una sfilza di reati che il gip di Perugia Carla Giangamboni ha contestato oltre all'ex sindaco, anche all'ex vicesindaco Maria Cristina Ercoli; agli ex assessori poi consiglieri comunali Lucio Panfili e Graziano Capannelli (Italia dei Valori); a Lucia Cecili, funzionaria comunale; ad Antonella Stocchi, consigliere comunale; Paolo Cristiano, già segretario generale e dirigente del comune di Gubbio; Marino Cernicchi, ex assessore; Nadia Ercoli sorella dell'ex vicesindaco. Nelle pagine dell'ordinanza del gip e di quelle della richiesta dei pm di Perugia Antonella Duchini e Mario Formisano, non vengono usati mezzi termini: il «gruppo» agiva instaurando «un clima di intimidazione e di paura all'interno del comune di Gubbio» e «piegando lo svolgimento delle pubbliche funzioni al perseguimento di interessi privati, consistenti in vantaggi politico-elettorali, mantenimento delle posizioni di potere e sviluppo della carriera, vantaggi economici per se stessi e per soggetti loro legati da vincoli di vicinanza politica, amicizia e sentimentali (per il Goracci)». Difficile aver conto dei vincoli sentimentali dello «zar», secondo l'accusa. L'uomo che aveva battezzato «Lenin» il circolo di Rifondazione comunista di Gubbio, avrebbe inanellato relazioni sentimentali (extraconiugali) come perle. L'indagine, iniziata per denunce di dipendenti, genera imbarazzo nelle file di Rifondazione comunista. Paolo Ferrero, segretario nazionale del partito, prende le distanze dalla vicenda: «Per quanto riguarda i rapporti tra Rifondazione comunista e gli indagati, il partito ha immediatamente sospeso chi ha ricevuto avvisi di garanzia già nel mese di novembre e abbiamo chiesto pubblicamente a Goracci di dimettersi dalla sua carica di vicepresidente del Consiglio regionale dell'Umbria in quanto chi è indagato non deve, a nostro parere, ricoprire incarichi istituzionali».
Doveroso dare spazio anche alla difesa: Ha respinto tutte le accuse davanti al gip, Orfeo Goracci. "Ha contestato ogni addebito in modo convincente sostenendo la legittimità del suo operato", riferisce l'avvocato Franco Libori. Goracci, sempre secondo quanto detto dal legale, ha negato l'esistenza di un "gruppo Goracci" alla guida del Comune di Gubbio, come ipotizzato nella ricostruzione accusatoria. "Al gip - sostiene l'avvocato Libori - il mio assistito ha ribadito di non aver mai voluto favorire o sfavorire nessuno. La nostra ricostruzione è diversa da quella dei pm e la sosterremo con prove documentali".
Il commento di Alessandra Arachi sul “La 27esimaora” de “Il Corriere della Sera”.
C’era una volta Gubbio la Rossa, hanno titolato i giornali in questi giorni. Ma a dispetto dell’incipit, la storia non ha certo i contorni di una favola. E adesso che a Gubbio la magistratura ha decapitato i vertici di Rifondazione comunista, c’è una domanda che sorge spontanea: le donne dov’erano in tutti questi anni? Già, perché la storiaccia giudiziaria di Gubbio la Rossa passa tutta per le vicende umane di Orfeo Goracci, l’ex-sindaco di Rifondazione che a Gubbio ha governato indisturbato per un decennio. Generando un clima di intimidazione, sostiene l’accusa. Ma, soprattutto, approfittando del suo potere per approfittare delle donne che gli stavano intorno. Secondo il più antico dei clichè maschilisti: o ci stai o sei tagliata fuori. Non era un mistero il comportamento di Goracci, fra le mura eugubine. Anzi. Lo sapevano tutti. Ne parlavano tutti. Marito e padre di una figlia adolescente, di Orfeo Goracci era praticamente l’intero paese a vociferare. A vociferare del suo sport preferito: le avances. Chi si è opposta alle sua attenzioni, ha pagato. Come ha raccontato ai giudici un’ausiliaria del traffico del comune, una storia di molestie vissute e respinte, sulla sua pelle. L’ausiliaria per fare quella denuncia ha avuto coraggio. Ma non ha trovato sponde, da nessuna parte. A quanto pare, è stata lasciata sola.
Dov’erano le donne di Gubbio la Rossa?
C’è un circolo di Rifondazione comunista intitolato a Lenin nella cittadina dei ceri. E’ il circolo di Goracci. Ma è popolato da tante donne: nessuna ha mai parlato. Denunciato. Reagito. E le donne del Pd? C’è una sede dei democratici a Gubbio: hanno sempre chiuso gli occhi in questi anni? Come mai? In queste ore, poi, il silenzio più assordante è quello dell’unica donna della giunta a guida Pd, quella che ha sostituito la giunta di Goracci: Michela Tinti, di Sinistra e libertà, ha anche la delega alle pari opportunità. Neanche i comitati di “Se non ora quando” sono riusciti ad intercettare questo fenomeno eugubino. Cinzia Guido, del comitato promotore e responsabile dei territori, allarga le braccia: “Quando c’è di mezzo il potere le donne fanno fatica a parlare. E’ triste e grave, ma è così. Sulla gestione femminile, poi, l’Umbria ha un profilo assolutamente a sé. E’ l’unica regione dove un presidente donna è succeduta ad una donna, ma non c’è minimamente spazio per un percorso di genere. I nostri comitati sono transitati per Gubbio, ma non hanno trovato alcun terreno fertile”.
Clamoroso da Panorama. I guai giudiziari del Partito democratico stanno diventando un feuilleton estivo. Le procure di mezza Italia sembrano avere rinunciato alle vacanze appositamente per partecipare a quest’opera collettiva sul presunto lato oscuro delle amministrazioni a guida Pd. L’ultimo episodio della saga è ambientato in Umbria, dove l’inchiesta dei pm Sergio Sottani e Mario Formisano, soprannominata Sanitopoli, non riguarda il finanziamento illecito al partito o ai suoi dirigenti e funzionari (su cui indagano, per esempio, le procure di Roma e Monza), ma un tema altrettanto avvincente per gli amanti del genere: il voto di scambio e le amministrazioni pubbliche usate come uffici di collocamento.
Sottani (neoprocuratore di Forlì) e Formisano nei giorni scorsi hanno inviato l’avviso di chiusura indagini a 21 persone; tra questi almeno cinque politici di rango: l’ex governatrice Maria Rita Lorenzetti, oggi presidente di Italferr, società partecipata di Ferrovie dello Stato, l’ex vicepresidente della giunta Carlo Liviantoni, l’ex assessore al Bilancio (appena nominato assessore allo Sviluppo economico) Vincenzo Riommi, l’ex assessore alla Sanità Maurizio Rosi e il consigliere regionale Luca Barberini (già presidente della Valle umbra servizi). Tra gli indagati anche il direttore generale della Asl 3 Maria Gigliola Rosignoli e l’ex capo di gabinetto di Lorenzetti, Sandra Santoni. Nel nuovo capitolo i reati più citati sono l’abuso d’ufficio, la falsità ideo-logica e quella materiale. Ma partiamo dal principio.
La storia diventa intrigante quando entra in scena un militante del Pd, il 27enne David Alpaca, indagato per tentata estorsione e turbativa d’asta insieme con un amico imprenditore. Le intercettazioni sembrano scritte da uno sceneggiatore. Il giovanotto è in contatto con i dirigenti del Pd locale e si preoccupa di rastrellare nuovi iscritti in vista delle primarie. In cambio di questo lavoro Alpaca accampa pretese. Per esempio afferma che bisogna dire al sindaco di Foligno che «deve sistemare chi ha fatto anche 100 tessere». I carabinieri del nucleo investigativo di Perugia trascrivono le sue parole: «Adesso ci sono le regionali bimbi miei, lì non si fanno scherzi, io non posso fare nomi, ma c’è qualcuno che ha cacciato 2 mila euro e non c’entrava nulla con la politica».
Gli investigatori annotano i vizi del ragazzo: gioca con le macchinette nei bar e «conta i soldi in tasca per la droga». Diventa una mina vagante per il Pd umbro. Prima chiede lavoro per un amico, poi per se stesso. E inizia a minacciare: «In particolare faceva presente in più occasioni di essere a conoscenza che diverse persone erano state assunte in amministrazioni pubbliche senza concorso, in quanto legate da vincoli di parentela con alcuni amministratori o perché vicini politicamente agli stessi e in grado di procurare voti» scrivono gli inquirenti. Promette al telefono di rivelare la cosa «agli organi di stampa»: «Prima di picchiarli li mando in galera» sbotta. Risultato: il capo di gabinetto della giunta regionale Santoni e il direttore della Asl 3 Rosignoli si attivano per procurare ad Alpaca un impiego alla Sogesi (1.400 euro al mese per sterilizzare i ferri chirurgici), una società di servizi per la sanità. Un favore che la Sogesi non può rifiutare visto che, annotano i magistrati, «la richiesta proveniva dal direttore della Asl 3» e la società «gestiva diversi appalti per le aziende sanitarie e ospedaliere della Regione Umbria».
Le minacce di Alpaca (che riceve oltre al posto di lavoro anche una testa di cane mozzata in giardino) incuriosiscono i pm che iniziano a scavare. Alpaca, accusato di estorsione, in procura, però, perde la loquacità e non collabora. Sottani e Formisano individuano ugualmente una pista e si concentrano sulla Webred servizi, società pubblica di proprietà della regione, dove sarebbero state pilotate diverse assunzioni. Negli atti è citata la vicenda di Isabella M., raccomandata da Barberini. Nel suo caso una manina «provvedeva a correggere il voto riportato dalla candidata in una delle prove orali, consentendo così il superamento della prova selettiva» sostiene l’accusa. Lo stesso escamotage sarebbe stato adottato per almeno altre cinque persone segnalate da Riommi. E visto che un buon posto di lavoro in Umbria non si nega a nessuno, anche Santoni, terminata l’avventura a fianco del presidente Lorenzetti, si adopera per non tornare a fare l’impiegata al Comune di Foligno e in un’intercettazione spiega a Rosignoli che se «la fa andare là con 1.500 euro al mese poi non sa cosa mangiare». Il registro cambia, da noir diventa strappalacrime. Per questo la giunta guidata da Lorenzetti (indagata per abuso d’ufficio) si mette una mano sul cuore e il 5 ottobre 2009 delibera la sua assunzione come dirigente della Asl 3. Per raggiungere l’obiettivo, ecco spuntare un’altra manina: questa volta viene alterato «l’atto di richiesta di autorizzazione di assunzione del personale»: l’efficiente Soccorso rosso modifica il numero di dirigenti, portandolo da tre a quattro «mediante una correzione a penna». Il posto in più è di Santoni.
Che per i pm queste non siano eccezioni, ma spie di un sistema emerge da un altro capo d’imputazione: Liviantoni, Rosi e altri sono accusati di falsità ideologica per avere indotto la giunta regionale ad approvare la delibera numero 46 del gennaio 2009 relativa alla «autorizzazione alle aziende sanitarie locali e ospedaliere ad assumere personale» nonostante «tale provvedimento risultasse mancante dei suoi contenuti essenziali». Insomma la festa in Umbria doveva avere più invitati possibile. Per i magistrati gli amministratori del Pd hanno gestito la sanità pubblica come una «cosa loro» e per dimostrarlo citano anche episodi minori, come le visite specialistiche ottenute da Lorenzetti e Barberini presso la Asl 3 «violando il corretto iter amministrativo e burocratico», quello cioè che ogni cittadino deve seguire.
I risultati delle indagini della procura di Perugia non sorprendono l’avvocato Fiammetta Modena, candidata governatrice alle ultime elezioni regionali per Pdl e Lega nord: «La filosofia messa in luce dalle inchieste è chiara: posti di lavoro in cambio di voti, per le elezioni e per le primarie. Solo così si spiega l’ipertrofia degli apparati regionali: la piccola Umbria (900 mila abitanti) ha 5 aziende sanitarie locali, 2 aziende ospedaliere, 1 agenzia sanitaria per gli acquisti e 5 comunità montane, una persino del lago Trasimeno, con soli 525 mila ettari di monti e ben 964 dipendenti». Nel frattempo Sanitopoli dalle assunzioni si sta estendendo agli appalti pubblici. Un filone che potrebbe dare materia per un nuovo paragrafo sulle disavventure del Pd. E altri dispiaceri ai vertici del partito.
E poi ci meravigliamo che il cattivo esempio della classe dirigente venga emulato dai cittadini.
Ci voleva l’assassinio di una povera ragazza inglese (da parte di un italiano, un’americana e un congolese) per aprire gli occhi ai tetragoni amministratori umbri. Adesso finalmente è un coro di voci di uomini politici che mettono al centro il problema sicurezza.
Ma che Perugia fosse una città invivibile si sapeva da tempo. Da quando venne fuori nitidamente che era diventata una delle tre o quattro piazze più importanti dello spaccio della droga. Un fiume di cocaina solcava il centro storico dove dopo le dieci di sera non è più possibile passeggiare. C’è stata la protesta dei cittadini del quartiere dove ha sede l’Università per Stranieri, sempre più spaventati dal degrado. Nel silenzio di tanti, troppi amministratori e anche della stessa opposizione è toccato ad Italia Nostra protestare per la pericolosa involuzione di una fra le città più belle e più civili d’Italia. Basta scorrere qualche dato – proprio fornito dal Ministero degli Interni: una volta la capitale degli scippi era Napoli, adesso Perugia le contende il primato.
Il traffico della droga – come è noto – è in mano ai nordafricani, sempre più numerosi e difficili da controllare. Ma la droga è solo uno dei problemi. Di recente sono stati fermati – con una operazione per la verità eccessivamente spettacolare – un gruppetto di anarchici che si dilettavano a mandare in giro lettere con all’interno qualche pallottola. Il capoluogo umbro è diventato anche una sorta di capitale del terrorismo islamico: basti ricordare gli arresti a Ponte Felcino dove vivevano e operavano uomini che, mentre invocavano Allah, arruolavano kamikaze. E il campo antimperialista di Assisi - nel silenzio del centrosinistra locale e di tanti altri - tutte le estati diventa un punto di aggregazione di loschi figuri, ricercati un po’ ovunque per le loro gesta di violenza.
Insomma, si può sommessamente dire che Perugia è ormai una città con tassi di presenza straniera pericolosi, simili a quelli di alcune realtà del Nord, tipo Brescia. E si può dire che fra extracomunitari e non, questi si annidano personaggi pericolosi: spacciatori, terroristi e quant’altro. Il lassismo della sinistra di governo ha favorito tutto ciò: il Comune di Perugia addirittura pagava una quota d’affitto dell’imam di Ponte Felcino che addestrava uomini per fare attentati. In nome di un buonismo peloso è stato attaccato duramente chiunque ponesse il problema dell’eccessiva densità di stranieri e del clima insopportabile che - fra droga e islamisti - si veniva creando. I giornali – pochi per la verità – che nel recente passato lanciarono l’allarme, sono stati accusati di allarmismo. E un trattamento analogo lo ebbe il vescovo di Perugia quando fra il 2003 e il 2004 sollevò il tema della sicurezza e della circolazione della droga nel centro storico e nell’intera città.
Adesso la gente è veramente spaventata, gli amministratori locali piangono le lacrime del coccodrillo, e l’opposizione, solo da poco, ha cominciato a farsi sentire. Il guasto è fatto. Una delle più belle e più vivibili città d’Italia, un tempo colta e sicura, è stata trasformata in un luogo pericoloso per incapacità e per eccesso di demagogia. Una brutta fine che era evitabile.
Ma questo non è il solo cruccio di Perugia.
Blitz delle forze dell'ordine per arrestare 30 tra dirigenti pubblici, imprenditori e altri personaggi legati al mondo degli appalti umbri finiti nel mirino della Procura della Repubblica che ha ipotizzato, da due settimane, un' associazione a delinquere e altri reati del tipo turbativa d'asta e frode.
L'azione coordinata dal Pm Comodi ha fatto già una vittima illustre il vice-presidente di Confindustria, Carlo Carini, nonchè presidente dell'Ance - i cementieri e costruttori - che proprio mercoledì aveva consegnato le proprie dimissioni da tutti i ruoli istituzionali. Dimissioni che non sono state accolte.
Sarebbero 8 le persone portate al carcere di Capanne; a tutti gli altri - 30 le ordinanze di custodia cautelare emesse - sarebbero stati concessi gli arresti domiciliari. Secondo alcune indiscrezioni provenienti dalla Procura, il motivo della custodia cautelare scattata molto tempo dopo l'avvio degli avvisi di garanzia sarebbe stata determinata dal rischio sia di inquinamento di prove che dalla possibilità di una fuga all'estero di alcuni indagati. Non sono stati ufficializzati gli altri nomi degli arresti.
Il procuratore della Repubblica, Nicola Miriano, con una nota è intervenuto per precisare i numeri dell'azione portata avanti questa mattina dalla Squadra mobile a riguardo dell'inchiesta sugli appalti truccati in provincia di Perugia. Il Procuratore ha precisato che al di là delle 35 custodie cautelari, sono 51 i funzionari della Provincia di Perugia coinvolti a vario titolo nell'operazione. I reati: associazione a delinquere finalizzata alla ridistribuzione di appalti ad uno stretto cerchio di imprenditori, truffa e turbativa d'asta.
Nelle rete della Procura sono caduti esponenti di spicco delle istituzioni perugine.
E non è la sola indagine attivata.
Ventiquattro avvisi di garanzia, un assessore provinciale del Pd, Riccardo Fioriti, coinvolto, e tra i presunti imprenditori favoriti dalla macchina pubblica spunta persino il nome dell'imprenditore più importante della regione, Carlo Colaiacovo, in qualità di presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia.
Il magistrato Manuela Comodi sta indagando su appalti stradali che riguardano gran parte dei comuni dell'Umbria nord: da Perugia, passando per Gubbio-Gualdo, toccando Pietralunga, Città di Castello e Umbertide. Nel fascicolo compare anche il progetto del "Nodo di Perugia" offerto dalla Fondazione Cassa di Risparmio alla Regione.
Il teorema è quello degli appalti e delle bitumature affidate ad imprenditori vicini al dirigente o all'amministrazione comunale, provinciale e regionale: il reato ipotizzato è quello di concussione e corruzione. Al momento non ci sono elementi che permettano di fare collegamenti maggiori.
Resta ancora da capire il fascicolo riguardante l'avviso di garanzia ad un dirigente del comune di Perugia su un abuso edilizio che riguarda le torri residenziali di via del fosso della Oikos; società dove compare il nome dell'imprenditore Leonardo Giombini - già inquisito per fatturazioni false e per corruzione nei confronti di alcuni magistrati tra cui esponenti della Cassazione -. L'imprenditore non ha ricevuto però avviso di garanzia.
E poi la ciliegina sulla torta.
Avvocati armati di cronometro piazzati davanti ai semafori per misurare la durata del giallo, una psicosi da incrocio e atti di teppismo che dalle parti di Perugia sono cosa rara, scrive Antonio Signorini su "Il Giornale". Poi, soprattutto, un malcontento sconosciuto in una città che in sessant’anni non ha mai voluto cambiare colore all’amministrazione. La causa è un’epidemia di multe.
Uno «tsunami» di verbali, tutti figli degli stessi genitori: il Foto-red e il T-red. Nomi entrati nel gergo dei perugini e che indicano due apparecchi posti negli incroci tra le strade più trafficate della città, installati da una società, la Citiesse, su incarico del Comune. Il meccanismo è lo stesso dell’Autovelox: le telecamere inquadrano le vetture che passano con il rosso e scattano la foto. Il comune intasca la multa tranne una parte che va alla società.
All’inizio i due cilindri piazzati sopra i semafori non hanno preoccupato più di tanto gli automobilisti perugini. Poi sono cominciate ad arrivare le multe: tante (tra 15 e 20mila su una popolazione di 160mila abitanti) e salatissime (158 euro e sei punti di patente in meno). Ci sono automobilisti che si sono visti recapitare anche quattro verbali, che significano uno stipendio polverizzato e la certezza di avere la patente ritirata.
Troppo anche per i pacifici perugini che si sono ammassati davanti all’ufficio dei vigili urbani per chiedere spiegazioni e ricevere copia dell’immagine incriminata, sostenuti da alcuni consiglieri dell’opposizione di centrodestra che si sono piazzati con un camper davanti al municipio per dare assistenza legale. Anche le associazioni dei consumatori si sono mobilitate e sono fioccati i ricorsi.
La temperatura è salita a livelli critici quando è scoppiato il caso del «giallo». Il sospetto che si è fatto strada è che la durata del tempo intermedio tra il verde e il rosso sia stata artificiosamente diminuita in modo da cogliere in fallo gli automobilisti umbri, forse troppo disciplinati per far scattare un numero soddisfacente di sanzioni. Quando l’assessore alla Mobilità, Antonello Chianella, ha smentito («nessuna manipolazione, basta controllare la scatola nera presente in ogni semaforo»), un avvocato perugino - racconta il Corriere dell’Umbria- si è munito di cronometro e telecamera e ha documentato l’anomalia: «Nei semafori con il Foto-red T-red, il giallo dura tre secondi e non quattro come è stato detto dal comune». Senza contare che in altri incroci sprovvisti di telecamere, il giallo dura fino a cinque secondi. Fondata o no, la tesi del giallo ha spinto i multati più arrabbiati a darsi al teppismo. Armati di bastoni, hanno sabotato le telecamere, puntandole verso il cielo.
Sulle ragioni di un’applicazione tanto rigida e sistematica del Codice della strada l’opposizione ha pochi dubbi. Il Comune guidato dal sindaco Ds, Renato Locchi, questa in sintesi la tesi del centrodestra, sta cercando di ripianare il buco nei conti. Un altro modo di fare cassa, dopo l’aumento delle addizionali Irpef. È di questa idea il capogruppo di Forza Italia in Regione, Fiammetta Modena, che in qualità di avvocato, insieme alla sorella Laura, è andata oltre il ricorso per annullare multe e ha chiesto il risarcimento dei danni al comune per un suo cliente.
Il sindaco Locchi ha lasciato ancora una volta rispondere l’assessore Chianella: «Nessun secondo fine, se non quello di salvaguardare vite umane». Se questo era l’obiettivo è stato mancato, ha protestato il consigliere di An, Daniele Porena, che ha notato un aumento dei tamponamenti in prossimità degli incroci a causa di automobilisti che inchiodano al primo accenno di giallo.
Una situazione imbarazzante anche per il centrosinistra. Tanto che ieri i principali esponenti hanno preso le distanze. A partire dalla potentissima presidente della Regione, Rita Lorenzetti, che si è chiesta se «gli automobilisti che circolano per Perugia siano davvero quelli che risultano dal numero delle infrazioni».
PERUGIA INSICURA.
Perugia ostaggio degli spacciatori. Viaggio nella capitale italiana della droga raccontato da Antonio Libonati su “Agora Vox”. Un morto per overdose ogni 15 giorni. Quasi 300 arresti all’anno. Più di 100.000 siringhe da insulina, quelle usate per iniettarsi l’eroina, vendute nelle farmacie comunali, e oltre 200 interventi del 118 che hanno salvato la vita a persone che rischiavano la vita per overdose. Questi dati non si riferiscono a Scampia o a Quarto Oggiaro, ma a quella che fino a pochi anni fa era considerata una delle città più vivibili e tranquille d’Italia: Perugia. Perugia è ormai la capitale della droga. In qualunque altra regione o provincia del Nord e del Sud i morti per overdose scendono anno dopo anno e qui invece salgono. Nel 2011 il capoluogo umbro ha raggiunto il non invidiabile primato europeo del consumo di eroina, con ben 5 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti, e se si pensa che al terzo posto si è piazzata Terni con 3 dosi al giorno, si capiscono le dimensioni di un problema che ha ormai da moltissimo tempo superato la soglia di guardia. Corso Garibaldi, Via dei Priori, Parco Santa Giuliana, Parco del Pellini, Piazza Grimana, Arco di Porta Pesa, Corso Bersaglieri, la Stazione, sono solo alcune delle piazze di spaccio a Perugia. Ma il punto nevralgico è il centro della città, proprio davanti al Duomo, dove può capitare che i pusher ti offrano direttamente la droga, per poi vendertela nei vicoli lì vicino. La città è letteralmente assediata dagli spacciatori, e non si esagera. La Polizia calcola che ogni giorno a Perugia venga spacciato oltre mezzo chilo di eroina al giorno, e che siano più di 500 gli spacciatori quotidianamente attivi su piazza, per lo più tunisini. Sono i numeri di una guerra. Le cause sono molteplici: la presenza di migliaia di studenti, la centralità geografica della città, la scarsità di risorse delle forze dell’ordine, l’immigrazione clandestina. Ma la diffusione così ingente di questo fenomeno fa emergere anche un altro dato, se possibile ancor più allarmante, per non dire deprimente. La città quasi sempre, davanti a una situazione così grave, troppo spesso preferisce voltare la testa da un’altra parte. I commercianti e i frequentatori del centro tollerano che lo spaccio e il consumo avvenga a cielo aperto, forse temendo ritorsioni. Accanto alla “Perugia omertosa” c’è poi la “Perugia complice”, una zona grigia della città che guadagna con l’indotto della droga e, quindi, ha convenienza a tacere su tutto. Si tratta di avvocati che adottano ogni escamotage per proteggere gli spacciatori con alta disponibilità di liquidi, di commercialisti pronti a offrire contratti di lavoro fittizi per coprire l’attività di spaccio dei pusher, di proprietari di casa che affittano scantinati senza chiedere spiegazioni. Salvo poi lamentarsi della situazione ormai insostenibile. A questo si aggiunga che l’80% dei consumatori sono persone residenti in Umbria. Quando arriva la sera, a Perugia c’è il coprifuoco, la gente si chiude dentro casa. I residenti vanno via, lasciando il centro in mano ai tunisini. Al posto degli eleganti negozi e cioccolaterie di Corso Vannucci, sempre di più aprono paninoteche, kebabbari e baretti che vendono alcolici a basso prezzo. Lo spaccio porta altra criminalità, come dimostrato nei video. Le risse e gli atti vandalici in pieno centro storico sono ormai all’ordine del giorno. Il 9 maggio c’è stata anche una sparatoria, una faida tra spacciatori tunisini e albanesi per un mancato pagamento. Il tutto davanti al Duomo della città. Quella stessa città che ha ormai smarrito sé stessa, e che viene abbandonata dai suoi stessi cittadini. Un incubo, da cui Perugia non sembra saper uscire.
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO KERCHER.
26 marzo 2013. Raffaele Sollecito: Oggi è il suo compleanno, compie 29 anni. Tutto da rifare, scrive “Il Corriere della Sera”. Torna alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007. I due imputati, Raffaele Sollecito e Amanda Knox, dovranno comparire nuovamente davanti ai giudici, ma questa volta a Firenze perché a Perugia c'è un solo collegio di Corte d'Assise d'Appello. Si sgretola la sentenza di assoluzione di secondo grado che, sulla base di un'articolata perizia tecnica, aveva assolto i due ragazzi indicati dall'accusa come gli autori del delitto in complicità con l'ivoriano Rudy Guede. Amanda, che ha seguito le fasi finali del processo dalla sua abitazione di Seattle, negli Usa, ha confidato al proprio avvocato: «Continuano a non credermi». Raffaele Sollecito, che nel giorno della sentenza ha compiuto 29 anni, ha invece confidato all'avvocato Luca Mauri: «Sono deluso. Ma io sono innocente e posso continuare ad andare avanti a testa alta». «Pensavo si potesse mettere la parola fine a questa vicenda»., ha aggiunto. Sollecito ha telefonato ad Amanda, come ha riferito la compagna del giovane rispondendo al citofono ai cronisti: «Vedranno cosa fare». La ragazza, sentita dal Tg3 Veneto, ha poi detto che Raffaele è distrutto e «non sta parlando con nessuno. Ricominciare è dura». Nella sua requisitoria, il procuratore generale della Cassazione, Luigi Riello, aveva duramente criticato i giudici d'appello: «In questo processo il giudice di merito ha smarrito la bussola», ha detto Riello. «Ci sono tutti i presupposti perché non cali il sipario su un delitto sconvolgente di cui per ora resta come unico condannato Rudy Guede». La Cassazione ha anche confermato la condanna a tre anni inflitta ad Amanda Knox per il reato di calunnia ai danni di Patrick Lumumba, il musicista del Congo da lei inizialmente indicato come autore dell'omicidio di Meredith. La condanna a tre anni risulta già scontata, perché compresa nel periodo che la studentessa americana ha passato sotto custodia cautelare in carcere, prima di essere assolta con il verdetto d'appello dall'accusa di omicidio. Lumumba era, dopo le accuse di Amanda, risultato completamente estraneo al delitto. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dai difensori della Knox per questo capo di imputazione.
E' da rifare il processo d’appello a Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher: lo ha deciso la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del Pg che ha chiesto l’annullamento della sentenza di secondo grado con cui erano stati assolti i due ex fidanzati «perchè il fatto non sussiste», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si celebrerà a Firenze il nuovo processo d’appello per l’omicidio di Meredith Kercher. Lo ha deciso la Cassazione. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Amanda Knox contro la condanna a tre anni di reclusione per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, da lei accusato del delitto di Meredith Kercher. La condanna diventa così definitiva. La Knox ha già interamente scontato la pena. Il gesto del pugno in segno di vittoria: così l’avvocato Francesco Maresca, difensore della famiglia Kercher, ha accolto la sentenza di annullamento da parte della Cassazione dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio della studentessa inglese Meredith. Assente in aula, al momento della lettura del dispositivo della sentenza sull'omicidio Meredith, il padre di Raffaele, che ieri invece aveva trascorso la giornata in attesa al Palazzaccio. “Non per pessimismo” ma Francesco Sollecito, papà di Raffaele, che ieri ha seguito tutto il giorno l’udienza in Cassazione, stamane invece era assente perchè “è una persona stanca che si è battuta come un leone. E non se la sentiva di essere ancora aggredita dai giornalisti”, lo ha detto il legale di Raffaele, l’avvocato Luca Maori, commentando la sentenza dei giudici della Cassazione. “Del resto – ha aggiunto l’avvocato – questo non è un processo, ma un processo mediatico” e “il padre di Raffaele non vuole più essere oggetto del clamore mediatico di questi cinque anni”, ha concluso il legale. «Pensavo si potesse mettere la parola fine a questa vicenda». Lo ha detto Raffaele Sollecito, parlando con l’avvocato Luca Mauri, uno dei suoi difensori. «Ho parlato con lui poco fa ed è deluso», ha aggiunto Mauri. «Oggi è il suo compleanno, compie 29 anni, ma non deve essere deluso perchè è innocente».
La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»
Il racconto di Raffaele Sollecito: "Amanda in questura chiedeva aiuto". In un libro pubblicato solo negli Stati Uniti, la versione del ragazzo che dovrà affrontare un nuovo processo per l'assassinio di Meredith Kercher, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. Raffaele Sollecito non parla. In compenso scrive. Anzi ha già scritto un libro "Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox" ( Patto d'onore: i miei giorni all'inferno e ritorno con Amanda Knox). E' il racconto della vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista a partire dal novembre 2007 dopo la scoperta del cadavere di Meredith Kercher nella casa di via Della Pergola 7. Il libro, inedito per ora in Italia, è uscito negli Usa dove è atteso anche quello di Amanda. La donna ha firmato con Harper Collins un contratto in esclusiva per quattro milioni e 300mila dollari; nei giorni scorsi ha incassato la prima rata, un milione. Repubblica è in grado di anticipare un brano del libro di Sollecito. Si tratta probabilmente delle pagine più drammatiche del volume, quelle in cui Raffaele ricostruisce la notte in questura, il suo interrogatorio e quello di Amanda senza risparmiare pesanti accuse alla polizia. Quella notte si concluse con la confessione di Amanda che accusò del delitto Patrick Lumumba (poi scagionato da un testimone, un professore svizzero) e con l'arresto della ragazza di Seattle e di Raffaele.
«Appena i miei inquirenti aumentarono la pressione, mi chiesero di vuotare le tasche. Io capii immediatamente che questo non era un buon segno. Io ho tirato fuori un fazzoletto, il mio portafoglio, il mio cellulare e alla fine, con tutta l'attenzione su di me, il coltellino tascabile. Uno di loro prese il coltellino con un panno e lo portò rapidamente fuori dalla stanza. Ho provato a spiegare che era qualcosa che portavo con me in giro, ma che non avevo lavato. Mi rendevo conto che le cose non sarebbero andate bene a lungo. "Non ho il diritto di avere un avvocato?" Io chiesi. Mi risposero di no. "Posso almeno chiamare mio padre?", "Tu non puoi chiamare nessuno". Mi ordinarono di mettere il mio cellulare sul tavolo. Le persone entravano ed uscivano dalla stanza con grande intensità. Ad un certo punto, mi sono trovato solo con un poliziotto. Questi si chinò verso di me e mi disse: "Se provi ad alzarti e ad andartene, ti riduco in poltiglia e ti uccido. Ti lascio in un bagno di sangue." La serata è stata descritta in maniera molto diversa dagli ufficiali di polizia in Tribunale. Essi negarono che io avessi richiesto un avvocato o che fossi stato sottoposto a violenza. Daniele Moscatelli, il poliziotto di Roma, disse: "Qualsiasi cosa domandò, acqua o altro, gli fu messa completamente a disposizione." Ma, posso garantire, che io ero spaventato a morte e completamente frastornato. Ero stato educato a pensare che la polizia è onesto difensore della sicurezza pubblica. Mia sorella faceva parte dei carabinieri, nientemeno! Al momento mi sembrò che si comportassero più come gangster. Poi arrivò un suono che gelò le mie ossa: la voce di Amanda che chiedeva aiuto nella stanza a fianco. Lei gridava in italiano "Aiuto!Aiuto!". Io chiesi che cosa stava succedendo e Moscatelli mi disse che non c'era niente di cui preoccuparsi. Ma questo era assurdo. Io potevo sentire gli ufficiali di polizia urlare e Amanda singhiozzare e pianger per altre tre o quattro volte. Che cosa stava succedendo? Quando tutto ciò sarebbe finito? A questo punto, Amanda era già crollata. Come più tardi racconterà, gli inquirenti sostenevano di avere concrete prove che lei si trovasse nella casa di via della Pergola la notte che Meredith fu uccisa. Quando lei disse di non ricordare tutto ciò, loro la minacciarono con trenta anni di carcere e la colpirono ripetutamente alla testa. (La polizia ha negato di averla minacciata in qualsiasi modo). Per almeno un'ora, Amanda fu interrogata in italiano. Gli ufficiali di polizia dissero che Amanda sembrava capire abbastanza bene le domande, ed il verbale che loro redassero descriveva le sue capacità lessicali relative alla lingua italiana come adeguate. Poi, alcuni minuti dopo la mezzanotte, arrivò un interprete. Lo stato d'animo di Amanda era peggiorato. Lei non ricordava affatto di aver inviato un messaggio a Patrick, non era, dunque, nella posizione di analizzare il contenuto del messaggio. Quando le fu suggerito che lei non solo avevo inviato a lui un messaggio ma che aveva anche organizzato un incontro, la sua serenità venne meno; lei scoppiò in un pianto incontrollabile, e portò le sue mani sulle sue orecchie come per dire, io non voglio più sapere niente di tutto questo. Per me la notte non era ancora terminata. Mentre Amanda viveva il suo incontro faccia a faccia con Mignini, io fui portato in un'altra stanza e fui coperto di minacce ed di insulti. "Tu non sai cosa hai fatto" disse qualcuno. "La tua famiglia sarà distrutta. Tu passerai i prossimi 30 anni in prigione". O ancora: "Il tuo povero padre, come prenderà questa storia. Cosa ha fatto per meritarsi un figlio come te? Tu devi dirci cosa è successo!". Ripensandoci, io non sono sicuro che essi volessero spingermi a confessare il crimine. Il loro interesse più urgente era che io fornissi testimonianza che incriminassero Amanda. Ad un certo punto uno degli inquirenti apri la porta rumorosamente, si avvicinò e mi schiaffeggiò. "Tuo padre è una persona onesta", egli disse. "Non si sarebbe mai meritato un figlio come te, uno che sta con una puttana come Amanda". Le persone entravano ed uscivano. Qualche volta venivo lasciato solo. Alcune volte venivo sgridato. E poi giunse il mattino. Io fui portato al reparto medico della Questura e mi fu detto di spogliarmi. "Levati tutto," mi dissero, "anche le tue mutande". Io ero già stato senza scarpe per la maggior parte della notte, ma questo fu un nuovo livello di umiliazione. Mi fu chiesto del mio tatuaggio manga giapponese che ricopre la maggior parte della mia scapola sinistra - un regalo che mi feci dopo aver passato un brutale programma d'esame nel 2004 - e mi fecero camminare attorno di fronte ad un dottore donna. Mi sono sentito così imbarazzato che non l'ho neanche guardata. Dopo alcuni minuti, lei prese un paio di forbici e mi tagliò alcuni capelli dalla testa e un campione del mio pelo pubico. Questo fu fatto per stabilire il mio profilo del DNA, essi dissero. Di certo, avrebbero potuto prelevare un campione con un tampone dalla mia bocca. O prendere i campioni di peli con i miei vestiti ancora addosso. Così io fui accompagnato in un'altra parte della Questura. Attraversai una cella di custodia e all'interno udii Amanda piangere come una bambina. Io non potevo vederla, ma si riusciva a sentire bene attraverso la piccola fessura della porta. Le chiesi velocemente sugli eventi della notte, ma lei era troppo isterica per ragionare.
L'intervista, parla il giudice: "Ecco perché ho assolto Amanda". Prove mancanti, perizie, errori d'indagine: il giudice Pratillo Hellmann spiega perché in Appello ha scagionato la Knox e Raffaele Sollecito. Intervista di Roberta Catania su “Libero Quotidiano”. Claudio Pratillo Hellmann è un giudice in pensione. Non un giudice qualunque: lui, il 3 ottobre del 2009, aveva letto la sentenza (annullata dalla Cassazione) con la quale Amanda Knox e Raffaele Sollecito erano stati assolti per non avere commesso l’omicidio di Meredith Kercher. All’epoca Pratillo era il presidente della Corte d’Assise d’appello di Perugia, chiamata a pronunciarsi sull’efferato delitto della studentessa inglese trovata morta il 2 novembre del 2007. A fare ricorso erano stati gli imputati, condannati in primo grado a 25 e 26 anni di carcere. Lunedì scorso, ripercorrendo la vicenda in Cassazione, per smontare l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello, il procuratore generale Luigi Riello ha usato parole forti: «Il giudice che ha preso quella decisione ha perso la bussola», quella sentenza d’assoluzione «è un concentrato di violazioni di legge e di illogicità». Ebbene, ecco che cosa ne pensa il giudice che avrebbe perso la bussola: «Quella del pm è sempre un’opinione, è il giudice che emette la sentenza. Perciò è nelle motivazioni della Cassazione che bisognerà leggere se la Corte da me presieduta avesse perso la ragione. Ad ogni modo il pg avrà letto e interpretato i fatti in modo diverso dal nostro, ma le parole che ha usato nei nostri confronti mi sembrano eccessive. E soprattutto, quale legge avremmo violato?»
Appunto, presidente, ce lo dica lei. Ci sono state violazioni di legge? È vera la storia delle pressioni dall’America perché Amanda tornasse a casa da cittadina libera? «Assolutamente no. Basta tenere presente che noi abbiamo ereditato un processo “tutto in fatto”, nel quale cioè dovevamo solo valutare le prove. Non abbiamo disposto alcun supplemento di indagine, l’unica mossa avanzata da noi è stata quella di chiedere una perizia sulle prove genetiche, poiché sia l’accusa che la difesa consideravano il Dna sui reperti la prova regina per vincere il processo».
Cioè, sostanzialmente vi siete basati sulle stesse prove che ai giudici di primo grado avevano ispirato condanne esemplari, a 26 e 25 anni di carcere, ma che per voi valevano un’assoluzione piena? «Esattamente. Abbiamo esaminato quelle prove, che a nostro giudizio non erano convincenti. Non erano convincenti soprattutto alla luce di un’attenta rilettura del codice di procedura penale, che obbliga “all’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”, che - in questo caso - la Knox e Sollecito fossero colpevoli. Per questo in coscienza sono a posto. Lo siamo tutti. Eravamo consapevoli di andare incontro alle contestazioni che infatti ci sono state la sera stessa fuori dal tribunale, o a diverse interpretazioni come quella della Cassazione. Ma noi abbiamo agito secondo la nostra coscienza».
Secondo lei Amanda e Raffaele sono innocenti? «Non è questo il punto. Noi abbiamo cercato “la verità processuale”, che non è detto coincida con la verità oggettiva, ma che di sicuro ha bisogno di prove certe. In questo caso non c’erano prove. C’erano solo indizi e anche labili».
Quali erano questi indizi traballanti che in primo grado erano stati considerati prove schiaccianti? «Tutto si fondava sul coltello trovato a casa di Sollecito e il reggiseno della vittima recuperato, in un secondo tempo, sulla scena del delitto. Tutti gli altri elementi a carico erano sciocchezze».
Il Dna degli imputati sull’arma del delitto e sulla biancheria di Meredith non era una prova? «No. Spiego il perché. Il giudice di primo grado non aveva ritenuto di dover chiedere una perizia tecnica. Si era basato su quella della Polizia Scientifica. Ai pm era bastata per chiudere il quadro d’accusa, ma quando la difesa degli imputati - in secondo grado - ha puntato proprio sulle contestazioni delle incongruenze riscontrate in quella perizia, abbiamo deciso di chiedere anche noi una consulenza super partes. I professori, a nostro avviso i migliori a disposizione, hanno però completamente smontato le prove biologiche».
Non c’era il Dna degli imputati? «Sì, ma sulla lama del coltello le tracce erano talmente labili che la mappa genetica dei Dna a cui potevano essere ascritte era troppo ampia. Quelle tracce leggere - oltre alla Knox e a Sollecito - potevano essere ricondotte perfino a me, cioè in grado di compatibilità con il Dna del presidente della Corte».
E il gancetto del reggiseno di Mez? «È vero che c’era un Dna ascrivibile a Sollecito, ma compariva anche quello di altri tre uomini. Dimostrando che la prova era stata compromessa dall’inquinamento della scena del delitto. Quel reperto, fotografato il primo giorno di indagini, era stato lasciato lì, nella camera da letto. Solo un mese e mezzo dopo è stato deciso di recuperarlo e analizzarlo. Ma si era subito notato che, rispetto alle foto della scena del delitto, il reggiseno era stato spostato di oltre un metro ed era finito sotto un tappeto».
Però, anche se gli altri tre Dna maschili potevano essere quelli dei poliziotti entrati successivamente nel corso di quel mese e senza le tute bianche, le tracce di Sollecito erano comunque sul reggiseno. «Ma Sollecito frequentava quella casa. Era il fidanzato della Knox, coinquilina della Kercher. E proprio il giorno del delitto era stato a pranzo nella villetta di via della Pergola».
Ma non avrebbe avuto ragione di toccare la biancheria intima della coinquilina della fidanzata. «Non è detto che lo abbia fatto. Le tracce di Dna vengono lasciate anche da frammenti di cellule della pelle. Sostanze organiche infinitamente piccole, che possono essere state trasportate su quel gancetto in un secondo tempo. Dalla scarpa di un poliziotto entrato nella casa in quel mese e mezzo o anche da un colpo d’aria».
E il famoso memoriale di Amanda dal quale pare che la Cassazione chiederà di ripartire? La confessione scritta con la quale accusava nei dettagli Patrick Lumumba? «Non era tra le carte del processo e non ne conosco i contenuti».
Infatti il memoriale non era stato allegato al fascicolo del dibattimento, il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inammissibile. Altro punto oscuro. «Non sapevo neanche che esistesse. Ma se questo memoriale fosse stato tanto importante, i pm avrebbero chiesto di acquisirlo nel dibattimento d’appello».
Secondo il pg, e forse anche secondo la Cassazione che ha accolto la richiesta di rifare il processo, le accuse a Lumumba sarebbero prova della colpevolezza di Amanda. Se innocente, non si accusa un altro. «Condannando la Knox per calunnia, abbiamo spiegato che la ragazza era stata sottoposta a un interrogatorio molto duro da parte della polizia. Senza difensore. Senza dormire e con un interprete che la invitava a porre fine a quel lungo confronto. In quel contesto, ha fatto il nome di Patrick. Non è uscito dal nulla, ma dopo che le era stato contestato uno scambio di sms con lui. Lumumba era il suo datore di lavoro, per questo si erano scritti. Accusarlo le potrebbe essere sembrata una via di uscita per scappare da quel confronto serrato. Ricordiamoci che Amanda era una ragazza molto giovane, arrivata da poco in Italia e che non parlava bene la nostra lingua. Per me era logico che in quel contesto potesse straparlare. Aspettiamo le motivazioni della Cassazione per capire cosa non abbia convinto quei giudici».
Ma Amanda e Raffaele quante volte bisognerà processarli? Si chiede a Giorgio Dell'Arti. Il processo d’appello ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito dovrà essere fatto daccapo, la Cassazione ha dato ragione al procuratore generale Luigi Riello, autore di una requisitoria durissima contro i suoi colleghi che avevano assolto i due ragazzi. «Il giudice di merito ha perso la bussola, ha smarrito l’orientamento. I colleghi di secondo grado hanno frantumato gli elementi indiziari, hanno rivelato una buona dose di snobismo. Hanno travisato la prova. Hanno sposato una non logica valutazione dei plurimi indizi. La sentenza è un raro concentrato di violazioni di leggi e illogicità e credo che debba essere annullata». E infatti è stata annullata.
Senta, ma quanti processi si fanno intorno allo stesso fatto? «È uno dei mali gravi della giustizia italiana e riguarda tutti i procedimenti, specialmente quelli che suscitano l’interesse dell’opinione pubblica. Non per cambiare argomento, ma Dell’Utri, per esempio, è in ballo di 22 anni e di processi ne ha subìti 18. Sarà pure colpevole (e per giunta accusato di mafia), ma la giustizia non può funzionare così. Le faccio lo schemino per farle capire a che punto siamo nella procedura di Perugia. Nel primo processo Amanda e Raffaele erano stati condannati a 26 e 25 anni. La difesa dei due imputati ricorse in Appello. Ci fu una superperizia e basandosi su questa, i giudici di questo secondo grado di giudizio invece li assolsero. Amanda tornò felice in America e adesso sta per pubblicare un libro grazie al quale ha già incassato quattro milioni di dollari dalla HarperCollins. Raffaele ha ripreso a Verona gli studi sulla realtà virtuale e ha scritto un libro anche lui, però destinato ai soli americani (in questo libro racconta che i giudici gli chiesero di testimoniare il falso e incastrare Amanda). Naturalmente, dopo l’assoluzione in Appello, l’accusa ricorse e il terzo grado di giudizio è la Cassazione. La Cassazione ha sentenziato, dopo quell’impressionante requisitoria del procuratore generale che abbiamo riassunto all’inizio, che la sentenza di assoluzione del secondo grado non sta in piedi e che l’Appello va rifatto. Il delitto risale alla sera del 1° novembre 2007. Cioè siamo in ballo già da cinque anni e mezzo, e non si vede la fine. Dopo questo secondo Appello, la parte soccombente ricorrerà di nuovo in Cassazione. E così via.»
Sa che il delitto non me lo ricordo bene? C’era di mezzo una qualche pratica sessuale…«Un’orgetta in questa casa di Perugia finita col taglio della gola di Meredith, studentessa inglese nell’università per stranieri, 22 anni. Nella casa, Meredith abitava con Amanda Knox, americana, iscritta anche lei all’università e appena ventenne. Una bellissima ragazza, questa Knox, fidanzata in quel momento con un giovane barese, Raffaele Sollecito. Non è provato che Raffaele fosse in casa quella sera. È certo invece, in base alle tracce organiche, che all’orgetta parteciparono – con Meredith – Amanda e un cittadino della Costa d’Avorio, Rudy Guede. Costui ebbe con Meredith, forse semiconsenziente, un rapporto sessuale. Guede, riacchiappato in Germania dove era fuggito, è stato condannato a 16 anni per «concorso in omicidio». Come dissero subito i genitori della povera Meredith – persone che in tutta la vicenda hanno conservato un senso della misura esemplare – se si trattava di “concorso”, vuol dire che qualcun altro aveva partecipato al delitto. Quindi l’assoluzione di Raffaele e di Amanda, concessa dai giudici dell’Appello, sembrò subito insensata. Badi che non era solida nemmeno la sentenza di primo grado, quella che aveva condannato i due: la ricostruzione dell’accusa – posizione dei protagonisti al momento fatale, movente, ecc. – era assai poco credibile. Nessuna prova vera, poi, sull’arma del delitto.»
Perché, se la sentenza di prima grado era discutibile, la sentenza d’assoluzione di secondo grado è parsa tanto scandalosa? «L’assoluzione si basò su una superperizia condotta con metodo piuttosto discutibile. Per esempio, i reperti furono raccolti, invece che con pinzetta sterile e monouso, con guanti di lattice, che si sporcano subito e inquinano irrimediabilmente il contesto. Scrivemmo questo anche allora, basandoci sulle dichiarazioni di Edoardo Mori, un luminare di queste materie.»
Sarà possibile ottenere dagli Stati Uniti l’estradizione di Amanda? «Non credo. La stampa americana – tranne Barbie Latza Nadeau, corrispondente di News- week – prese subito le difese della ragazza, montando una campagna sensazionale e, a occhi neutri, molto poco credibile. Gli americani non vogliono mai che i loro cittadini siano processati da qualcun altro. Valga l’esempio terribile del Cermis.»
La giustizia italiana ne esce male, eh? «Meglio tacere. Il processo Stasi, quello dei due ragazzini finiti nel pozzo in Puglia, il caso Scazzi, il caso Claps, la persecuzione di Enzo Tortora, il caso di via Poma. Mi basta questo elenco, stilato a memoria, per risponderle.
Amanda Knox, la giustizia italiana e le accuse dei media Usa. 27/03/2013 - L'Atlantic definisce il nostro sistema giudiziario "carnevalesco", dopo la decisione della Cassazione. Non è il solo, scrive Alberto Sofia. Un sistema giudiziario italiano definito “carnevalesco”, dopo la sentenza della Cassazione sul caso del delitto Meredith e le assoluzioni annullate per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Negli Stati Uniti parte dei media non ha ben accolto il verdetto: lo dimostra soprattutto un articolo dell’Atlantic, dove viene contestata la decisione della Corte suprema, con il processo da rifare. Quello con protagonista la studentessa americana accusata di aver ucciso la sua compagna di stanza, la britannica 21enne Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia. Ma l’Atlantic non è il solo a criticare: pesanti anche i media di Seattle, dove adesso la ragazza vive, con le accuse del Seattle Post-Intelligencer che parla di “ennesima svolta sorprendente”. Più misurato il Nyt: si ricorda comunque come i media locali abbiano spesso dipinto Knox come vittima delle disfunzioni nel nostro sistema giudiziario, mentre si parla di nuova “svolta drammatica” nel caso. Non sono quindi mancate le accuse dei media statunitensi, che hanno sempre seguito con attenzione il caso del delitto Meredith. Il giudizio più pesante arriva proprio dall’Atlantic, che definisce “carnevalesco” il nostro sistema e parla di “un’intera indagine viziata da errori impressionanti”. In un articolo di Olga Khazan, si ripercorrono le tappe della vicenda, riprendendo spunto anche da articoli italiani. Non è un caso che venga citato il Giornale, non proprio benevolo solitamente nei confronti della magistratura e delle decisioni della giustizia. Si ricorda come, nel 2011, quattro anni dopo l’iniziale arresto per l’accusa di omicidio della studentessa, il quotidiano italiano avesse commentato il verdetto spiegando: “Amanda e Raffaele assolti: sono i magistrati che dovrebbero essere condannati”. Dopo la decisione della Cassazione – che ha accolto il ricorso del Pg che chiedeva l’annullamento della sentenza di secondo grado con cui erano stati assolti i due fidanzati, ndr – il nuovo processo si terrà a Firenze, dato che a Perugia esiste soltanto una sezione del collegio di secondo grado. Il riesame del caso avverrà entro la fine dell’anno. Per l’Atlantic non è la prima volta: “A quanto pare, questa improvvisa rivisitazione del verdetto di appello non è qualcosa di insolito nei grandi casi giudiziari d’Italia”. Si riportano anche le parole del giornalista Tobias Jones, che sul Guardian, subito dopo il verdetto di assoluzione del 2011, spiegò come nel nostro paese “quello che succede di solito è lasciare la porta aperta fino al successivo grado di giudizio. Così tra appello e Cassazione, tutto può essere stravolto”. Un eccesso di “garantismo” o un sistema contorto, secondo i media americani. La Cassazione ha accolto il ricorso della famiglia Kercher, che aveva dichiarato come la sentenza di assoluzione fosse “contraddittoria e illogica” (in primo grado erano arrivate pesanti condanne, 26 anni per Knox, 25 per Sollecito, ndr). Ma l’Atlantic critica questa ricostruzione, affermando come ai pubblici ministeri mancasse un motivo o una prova evidente che collegasse Amanda Knox alla scena del delitto. E si spiega come Knox fosse stata “lasciata per quattro anni dietro le sbarre”: va ricordato però come Knox sia stata condannata anche a tre anni di reclusione per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, accusato del delitto. Una condanna diventata definitiva – la Knox ha già scontato la pena – dopo il rigetto del ricorso. Vengono forniti altri dettagli: “Quando Sollecito chiama i carabinieri, arrivarono due ufficiali, ma erano soltanto due membri della polizia postale, che di solito si occupa soltanto di frodi in Rete”, si legge. E vengono accusati di non aver protetto la scena del delitto, evitando che le prove venissero inquinate. Ma l’accusa più pesante arriva proprio quando il nostro sistema viene definito “carnevalesco”: “I processi in Italia non finiscono mai, avvocati e imputati possono costantemente interrompere il procedimento con gemiti e fischi e gesticolazioni selvatiche”. Vengono poi citati diversi sondaggi realizzati in Italia, dove si spiega come la maggioranza degli italiani ritenga Knox e Sollecito colpevoli. Così nel 2011, quando fu annunciato il verdetto, non pochi fuori dall’aula “gridarono in coro appellativi come “bastardi” e parlarono di “vergogna”. Si rincara la dose: “Gli incarichi giudiziari in Italia sono decisi con logiche nepotistiche, mentre le giurie non sono preparate: tutto il sistema ha bisogno di una riforma rapida e totale”, si conclude. Non meno critici altri quotidiani, compresi quelli di Seattle, dove la ragazza vive: il Seattle Post-Intelligencer commenta il verdetto parlando di “svolta sorprendente”: “L’annullamento della sentenza prolunga una questione ormai diventata celebre anche negli Usa”, si legge. Altri parlano di verdetto ribaltato, come il Seattle Times, mentre il New York Times ricorda come la ragazza nei media locali sia stata spesso definita come una vittima del nostro sistema giudiziario. Si spiega infine come non sia ancora chiaro se Knox tornerà volontariamente dagli Stati Uniti, oppure se ci sarà una richiesta di estradizione: “Se non comparirà in aula, il caso potrebbe andare comunque avanti in sua assenza”, si conclude.
AMANDA MARIE KNOX: giocatrice di calcio, appassionata di yoga ma anche amante della lettura e delle scrittura, Amanda nasce a Seattle il 9 luglio del 1987. Adora la musica dei Beatles e suona la chitarra. Cresce a West Seattle e qualche anno dopo la sua nascita si trova a vivere in una famiglia allargata. La madre, Edda Mellas, insegnante di matematica alle scuole primarie e il padre, Curt Knox, si separano. Frequenta un liceo privato e poi si iscrive alla locale università, al corso di lingue e scrittura creativa. Agli inizi di ottobre 2007 arriva a Perugia per seguire un corso di italiano e prende in affitto una stanza del casolare di via della Pergola, dove conosce Meredith. Poco dopo conosce Raffaele Sollecito, con il quale inizia una relazione.
RAFFAELE SOLLECITO: nasce il 26 marzo del 1984 a Bari e trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Giovinazzo. I genitori si separano quando lui ha appena otto anni. La madre muore nel 2005, a seguito di un arresto cardiaco. Raffaele rimane con il padre, il medico urologo Francesco Sollecito e la sorella più grande Vanessa. Tra le sue passioni quella per la kick boxing, il computer, i videogiochi e i fumetti manga. Raffaele frequenta e si diploma al liceo scientifico di Molfetta e, nel 2003, si iscrive ad Informatica, all'Università degli studi di Perugia. Si laurea in carcere, dopo il suo arresto. Attualmente frequenta il corso di specialistica in realtà virtuale all'Università di Verona.
Lunedì 25 marzo 2013, quando i giudici della Cassazione si sono riuniti, Raffaele Sollecito era nervoso, ma non lo dava a vedere, scrive Andrea Priante su “Il Corriere della Sera”. «Tengo tutto dentro, sono fatto così», spiegava a chi, riconoscendolo, lo avvicinava per scambiare qualche parola d’incoraggiamento. Perché, tra i suoi compagni di università, nessuno ha mai avuto paura di lui né ha ceduto alla tentazione di considerarlo un mostro: nessun dubbio sulla sua innocenza. E forse è proprio per questo che il 29enne ha scelto di non aspettare la sentenza nella sua Giovinazzo, in Puglia, ma di rimanere con gli amici di Verona, la città nella quale si è trasferito lo scorso anno per concludere gli studi. In mattinata aveva svolto alcune commissioni e poi era andato nella sede del Dipartimento di Scienze per incontrare i professori. È lì che, per qualche minuto, aveva parlato con i compagni. Poi, poco dopo mezzogiorno, era entrato in un bar di Borgo Roma e ne era uscito solo per salire in auto e dirigersi fuori città, ad attendere la decisione circondato dalle persone più fidate. Troppa tensione per restare da solo e troppi giornalisti in giro restare a casa. «Tutti mi cercano per parlare con me...». È inevitabile, ormai l’ha imparato, da quando il volto di questo ragazzo e quello della sua ex fidanzata Amanda Knox sono stati associati all’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera dell’1 novembre 2007. Arrestati pochi giorni dopo, vennero condannati in primo grado ma assolti «per non aver commesso il fatto» dalla Corte d’Appello. Lunedì, Sollecito era convinto di potersi finalmente lasciare alle spalle quell’orrendo delitto. Invece i giudici avevano spiazzato tutti, rinviando la sentenza al giorno successivo. E così per lui è iniziata un’altra giornata da incubo: nel giorno del suo compleanno i giudici hanno annullato l’assoluzione, rinviando a un nuovo processo d’Appello. «Non me l’aspettavo, anche se inevitabilmente avevo pensato a questa eventualità. Dicono che ci sono alcuni aspetti della precedente sentenza che vanno approfonditi, ma fino a quando non leggerò le motivazioni non so proprio quali possano essere. Dopo tutti questi anni pensavo fosse finita, non è così: continuerò la mia battaglia per avere giustizia e la porterò fino in fondo», ha spiegato prima di contattare Amanda Knox negli Stati Uniti, per commentare la sentenza. Poi è ricominciata la fuga dai giornalisti, mentre i siti internet di mezzo mondo diffondevano la notizia. Tutti a commentare la decisione dei giudici: parenti, professori e avvocati. Perfino una fantomatica nuova compagna veronese che raccontava in tivù di un Raffaele disperato: «Non sta parlando con nessuno. Ricominciare è dura». E lui che al telefono col suo avvocato Giulia Bongiorno è costretto a smentire: «Non ho alcuna fidanzata e vivo da solo». In serata è tornato a casa. Presto raggiungerà i genitori, in Puglia, per trascorrere la Pasqua. Ma prima di partire deve sistemare le ultime cose, incontrare i professori. Perchè a Verona ci tornerà solo per affrontare i quattro esami che gli mancano per conseguire la laurea specialistica in ingegneria informatica. La decisione l’aveva presa già da tempo, quando ancora pensava che la Cassazione avrebbe definitivamente sancito la sua innocenza: dire addio al Veneto e trasferirsi in Svizzera, a Lugano. Lontano dall’Italia, dove tutti hanno imparato a conoscere il suo volto e a etichettarlo come «quello dell’omicidio di Metz». Se non ci saranno impedimenti legali, è possibile che l’annullamento della sentenza d’appello non lo costringa a cambiare i piani, ma per ora ha rassicurato i compagni di studi: «Tornerò a Verona per gli esami e per rivedervi». Ieri è apparso scoraggiato. Credeva di potersi costruire un futuro, invece i fantasmi di Perugia sono tornati. L’aveva scritto anche sulla sua pagina Facebook, poche settimane fa: «Non voglio dimenticare, ma prima devo riavere quello che mi hanno tolto».
L'omicidio di Meredith Kercher
l'ha convinto a lanciarsi nella sua nuova avventura. Che però è finita ancor
prima di iniziare, visto che la Corte di Cassazione ha sentenziato che il
processo d'Appello è da rifare. E per Raffaele Sollecito significa tornare in
aula con Amanda Knox per difendersi dall'accusa di aver ucciso la studentessa
inglese.
Quasi una beffa del destino, visto che il 29enne, che in primo grado era stato
condannato a 25 anni di reclusione, ha scelto proprio di aprire una società che
si occupi di casi giudiziari irrisolti. A scoprire il business di Sollecito è
stato il Corriere della Sera, secondo cui il giovane ha iscritto il 21
novembre 2012 l'azienda all'Ufficio del registro del commercio del Canton
Ticino. La sede della Exprerience teller media & web - che si propone di
raccogliere informazioni, testimoni rilanciando mediaticamente i cold case
- è infatti a Lugano e il 29enne figura come l'amministratore delegato.
L'azienda sarebbe anche il motivo per cui Sollecito, proprio nel giorno in cui
la Cassazione riapriva il caso Kercher, era pronto per partire verso la
Svizzera. E questo l'ha costretto a rinviare il progetto di aprire altri cold
case. A confermare i progetti del giovane laureando all'Università di Verona
in Ingegneria e scienze informatiche, è il docente che l'ha seguito negli studi.
«Per partire concretamente, stava solo aspettando la conferma dell'assoluzione»,
ha detto Roberto Segala al Corsera che conferma come l'idea «sia molto
legata alla sua esperienza personale». L'azienda di Lugano ha un capitale
azionario di 100 mila franchi svizzeri (circa 82 mila euro) e per offrire
«l'estensiva raccolta di informazioni su casi giudicati irrisolti» e «suscitare
nuovi interesse su larga scala», si ispira alla raccolta dei fondi con «contatti
con case editrici, di produzione cinematografiche». In fondo un po' di
esperienza l'ha maturata nel settore: a dicembre 2012 ha pubblicato il suo libro
Honor bound scritto con il giornalista americano Andrew Gunter. Avrebbe
voluto riaprire i cold case. Ma il caso irrisolto più importante, per
Sollecito, rimane quello di Kercher, uccisa il 1 novembre 2007 e ancora senza il
nome dell'assassino. Visto che Rudy Guede è stato condannato per concorso in
omicidio. Con chi? Solo i giudici possono dirlo. O forse un giorno l'azienda del
29enne.
Amanda Knox chiede
"un'inchiesta oggettiva", definendo "dolorosa" la notizia dell'annullamento
dell'assoluzione in secondo grado per l'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto
nel 2007 a Perugia, deciso dalla Corte di Cassazione, scrive
Tmnews. "E' stato doloroso apprendere che la Corte Suprema italiana
ha deciso di rinviare il mio processo per una revisione, nonostante la teoria
dell'accusa di un mio coinvolgimento nella morte di Meredith si sia rivelata a
più riprese interamente infondata e ingiusta" ha dichiarato Knox in un
comunicato diffuso dal suo portavoce a Seattle, negli Stati Uniti, dove abita.
"Credo che tutte le questioni relative alla mia innocenza debbano essere
esaminate con un'inchiesta oggettiva e dei procuratori competenti" ha aggiunto.
Amanda, 25 anni, era stata assolta nell'ottobre 2011, dopo una prima condanna a
26 anni di carcere. Il suo ex fidanzato, Raffaele Sollecito, condannato a 25
anni, dovrà a sua volta affrontare un nuovo processo. L'avvocato della ragazza
Carlo Dalla Vedova, parlando alla Cnn dopo la sentenza ha definita la Knox
"sconvolta" dalla decisione della Cassazione, aggiungendo che "è pronta ad
andare avanti e noi siamo pronti a combattere". Il libro di memorie di Amanda
Knox "Waiting to be heard" verrà pubblicato nei tempi prestabiliti nonostante
l'annullamento dell'assoluzione per l'omicidio della studentessa Meredith
Kercher. Come scrive il Mirror online, tra l'altro, verrà modificato il
capitolo sulla giustizia italiana (e tolte le critiche ai pm, ai giudici e alla
polizia). "Verranno abbassati i toni, per evitare ritorsioni", raccontano gli
avvocati della ragazza americana. HarperCollins, la casa editrice della 25enne
di Seattle, ha confermato quindi i piani per il lancio del libro e per le
interviste promozionali: Waiting to be heard sarà nelle librerie a
partire dal prossimo 30 aprile.
La Knox, che dovrà affrontare nuovamente il processo di secondo grado dopo
l'annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza di assoluzione
per lei e Raffaele Sollecito, ha firmato un contratto editoriale da quattro
milioni di dollari nel 2012 per la pubblicazione delle sue memorie. Nel testo la
ragazza racconta la sua esperienza in carcere, il rapporto con la polizia
italiana, oltre a nuovi dettagli sul caso che l'ha vista coinvolta. La sera del
30 aprile verrà trasmessa anche la prima intervista televisiva di Amanda sulla
rete Abc, con la giornalista Diane Sawyer.
Amanda Knox protagonista di un libro shock, scrive Annalisa su “Quotidianamente”. Come si costruisce una strega nel Duemila e come la si getta in pasto alla gente. La strega è Amanda Knox, accusata con il fidanzato Raffaele Sollecito di aver assassinato, il 1° novembre 2007, Meredith Kercher durante un’orgia a base di sesso, sangue e stupefacenti. Quattro anni di carcere, sofferenze e una condanna a 26 anni prima dell’assoluzione con formula piena in Appello. La sua bellezza? Uno svantaggio «Amanda era la strega perfetta: americana, giovane, bella, disinibita, dissoluta, peccatrice, infida, dedita ad ogni vizio e ad ogni eccesso, dal sesso agli stupefacenti e soprattutto capace di dominare il maschio, di farne uno strumento nelle sue mani. Ricordate come Giulia Bongiorno, nella sua arringa, definì il “maschio” Raffaele Sollecito? Un allegato di Amanda», dice Mario Spezi, giornalista e scrittore fiorentino che ha pagato a caro prezzo il suo giornalismo investigativo sui delitti del Mostro di Firenze: 23 giorni di carcere con l’accusa di essere stato uno dei mandanti degli omicidi delle coppiette. Poi, un anno fa, il proscioglimento da ogni accusa. Adesso Amanda e Raffaele contano le ore che li separano dall’ultimo appuntamento con la giustizia: il 25 marzo si pronuncerà la Corte di Cassazione. Sapranno se saranno finalmente due ragazzi innocenti oppure se ricomincerà il calvario perché il processo d’Appello dovrà essere rifatto. Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone» Per il 30 aprile 2013 ha già fissato due appuntamenti: la sua prima intervista in esclusiva per l’emittente televisiva Abc e il lancio del suo libro Waiting to be heard («Aspettando di essere ascoltata»). Ma intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce».
L’ex fidanzato di Amanda Knox, Raffaele Sollecito, racconta in un libro la sua storia con la studentessa americana accusata, insieme a lui, di aver ucciso la studentessa britannica Meredith Kercher. Raffaele Sollecito, che insieme ad Amanda Knox è stato accusato e condannato in primo grado per l'omicidio di Meredith Kercher prima di essere assolto in secondo grado, ha scritto un libro, Honor bound. Sulla notte dell'omicidio Sollecito ammette di ricordarsi poco poiché lui e Amanda avevano fumato marijuana. Vi si raccontano le incomprensioni tra i due, l'effetto che gli fecero i ritratti confezionati dai tabloid. E poi Amanda che diventa 'Knoxy Foxy' dopo aver acquistato biancheria intima dopo l'uccisione dell'amica. Ricorda Sollecito di quando l'accarezzò e si baciarono, ignari che le telecamere dei notiziari televisivi li stessero riprendendo dall'altra parte della strada. Anche Amanda Knox sta scrivendo un libro, che uscirà successivamente. Ha firmato un accordo con Harper Collins per 4 milioni di dollari. Sollecito critica spesso la polizia per la gestione del caso, e secondo lui la vicenda si spiega con un furto andato male commesso da Rudy Guede, il terzo imputato condannato dopo aver patteggiato. Sollecito ricostruisce anche com'è nato il rapporto con Amanda, conosciuta dopo aver finito i suoi studi universitari in informatica ad un concerto di musica classica il 25 ottobre 2007, una settimana prima della morte della Kercher. Raffaele le ha chiese il numero di telefono e lei gli disse di tornare al bar dove lavorava più tardi, quella stessa notte. Alla fine del turno, scrive, fecero una passeggiata, si tennero per mano e ad un certo punto la baciò. Accettò l'invito a recarsi a casa sua e trascorse lì la notte. La coppia divenne inseparabile. Sollecito descrive anche la sua prima notte in carcere, dicendo che oscillava tra "grandi ondate di indignazione e un fastidioso senso di colpa". Era arrabbiato con se stesso per avere un ricordo fumoso della notte dell'uccisione, colpa della marijuana. Dopo l'assoluzione in secondo grado Sollecito ricorda di aver sentito "una gioia indescrivibile". Amanda quel giorno gli strinse la mano e gli disse che non vedeva l'ora di vedere la sua casa e gli amici. Ma la Knox, com'è noto, è subito tornata a Seattle. La coppia è stata imprigionata per la morte nel novembre 2007 ed in primo grado i due sono stati condannati rispettivamente a 26 anni e 25 anni. La corte d'appello li ha assolti il 3 ottobre 2011, data in cui sono tornati liberi. Nel libro, continua a sostenere la sua innocenza e quella della ex e cerca di ricostruire i malintesi che hanno provocato il coinvolgimento della coppia nel caso. Ma, per la prima volta, ammette di essersi comportato stranamente durante le indagini. Raffaele e Amanda, infatti, erano stati visti per le strade di Perugia mentre si scambiavano effusioni, con l’indagine della Polizia ancora in corso. La loro indifferenza aveva portato gli inquirenti sulle loro tracce. Maurizio Molinari sul “La Stampa” rendiconta da New York su un vicenda che mai in Italia si sarebbe potuta analizzare. Durante il processo di Perugia sull’assassinio di Meredith Kercher vi fu una trattativa segreta che vide il pubblico ministero Giuliano Mignini far conoscere, attraverso intermediari, alla famiglia di Raffaele Sollecito l’offerta di una pena più mite se il coimputato avesse avvalorato le accuse di omicidio nei confronti di Amanda Knox. A rivelarlo è lo stesso Sollecito nel libro «Honor Bound» che esce negli Stati Uniti per i tipi di Gallery Book, scritto assieme al giornalista inglese Andrew Gumbel, ex corrispondente dall’Italia per «Reuters» e «The Independent». Con le 270 di pagine «Honor Bound» Sollecito anticipa Amanda nella pubblicazione di un libro-verità sul processo e la maggiore novità si incontra quando racconta che dopo la conclusione del processo di primo grado «la mia famiglia venne a contatto con il mondo della giustizia di Perugia pieno di buchi e fughe di notizie» riuscendo a sapere «dietro le quinte» di «discussioni all’interno dell’ufficio del procuratore». Si resero conto che la determinazione di Mignini a far condannare Raffaele era solo tattica per tentare di far crollare Amanda Knox. Fu in tale contesto che «venne detto alla mia famiglia che Mignini non era interessato a me se non come canale per arrivare ad Amanda» fino al punto che «Mignini sarebbe stato disposto anche a riconoscere che ero innocente se gli avessi dato qualcosa in cambio, incriminando direttamente Amanda oppure semplicemente non sostenendola più» nella ricostruzione di quanto avvenuto. Si trattò di «discussioni» delle quali Sollecito, che si trovava in prigione, non venne messo al corrente mentre il protagonista fu lo zio, Giuseppe, che «venne contattato dall’avvocato di uno studio privato di Perugia a cui chiese cosa avrei potuto fare per mitigare la sentenza. L’avvocato gli disse che avrei dovuto accettare un accordo, confessando di aver avuto un ruolo minore, come ad esempio aver aiutato a ripulire la scena del delitto pur non avendovi avuto alcun ruolo» si legge a pagina 220. «Raffaele potrebbe ricevere una condanna da 6 a 12 anni - disse l'avvocato allo zio - ma poiché non ha precedenti penali avrebbe la condizionale e dunque uscirebbe senza fare altra prigione». La sorella di Raffaele, Vanessa, affermò che «non era moralmente possibile» accettare di confessare reati mai commessi ma la trattativa dietro le quinte andò avanti ed ebbe una seconda fase grazie a «un altro avvocato, che aveva rapporti stretti con Mignini che lo aveva perfino invitato al battesimo del figlio più piccolo in estate». Fu questo secondo legale che disse con franchezza alla famiglia Sollecito: «Credo che Raffaele sia innocente e Amanda colpevole». Il risultato fu di dare alla famiglia Sollecito l’impressione che il procuratore la pensava nella stessa maniera anche perché il legale si offrì di «intercedere con Mignini» pur «senza fare alcuna promessa». L’accelerazione della trattativa avvenne nell’estate del 2010 quando il padre di Raffaele sfruttò il canale informale fino al punto da ritenere possibile un incontro di Mignini e la vice Manuela Comodi con Giulia Bongiorno, difensore di Raffaele, per verificare la possibilità di un accordo. Ma quando la Bongiorno comprese di cosa si trattava «fu inorridita e minacciò di lasciare l’incarico perché una trattativa segreta costituiva la violazione della procedura legale». Fu allora che il padre di Sollecito fece marcia indietro e «si mostrò mortificato» pregando la Bongiorno di non lasciare la difesa e spiegando che non si era reso conto di cosa stava facendo. Raffaele Sollecito seppe tutto a posteriori ma la vicenda lo ha segnato molto perché, come confessa nel libro, «mi chiedo come sia possibile per un pm credere nell’innocenza dell'imputato e al tempo stesso tentare di convincere la giuria a condannarlo alla pena dell’ergastolo». La trattativa dietro le quinte viene indicata da Sollecito per dimostrare quali e quante furono le pressioni da lui ricevute per spingerlo a far crollare l’alibi di Amanda, come ad esempio avvenne durante i primi interrogatori subiti quando «mi chiesero in continuazione di ricordare i tempi della notte del delitto fino a farmi cadere in contraddizione con Amanda» o allorché l’arresto venne minacciato, schiaffeggiato e denudato. Oppure il tentativo della polizia di provare che la madre nel 2005 era morta «non di cuore ma per suicidio» per dimostrare «insanità mentale nella storia di famiglia» con l’intento di fiaccare la sua credibilità e dunque l’alibi di Amanda. Nelle ultime pagine Raffaele si sofferma sulla vacanza in America dopo l’assoluzione con l'incontro con Amanda a Seattle. «Mi sembrò di essere nella tana del Leone» scrive, facendo capire di aver preso atto che la storia d’amore era finita. Come dire, entrambi guardiamo avanti senza però dimenticare Perugia.
Intanto da Giuseppe Caporale su “La Repubblica” una denuncia: Che spreco quel video su Meredith e la Corte dei conti chiede i danni ai pm.
A Perugia, 182mila euro per la ricostruzione del delitto da mostrare in udienza. I magistrati contabili aprono un fascicolo per verificare se la spesa per il filmato sia stata congrua. I magistrati che al processo per l'omicidio Meredith Kercher avevano chiesto l'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, sono ora sotto inchiesta contabile. E rischiano una condanna per danno erariale. Così, mentre i due giovani imputati - assolti in appello con formula piena "per non aver commesso il fatto" - attendono il definitivo pronunciamento della Cassazione, i loro accusatori, il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini e il pubblico ministero, Manuela Comodi, si trovano al centro di un'indagine della Corte dei conti dell'Umbria. Sotto la lente d'ingrandimento della procura contabile c'è una fattura da 182mila euro. Si tratta di una consulenza richiesta, nel corso del processo di primo grado, dai due magistrati perugini a una società specializzata nella video-grafica (la Nventa Id srl). Il risultato è stato un'animazione in 4D della dinamica del delitto, costruita in base alle tesi dell'accusa. Il filmato fu proiettato in aula durante la requisitoria della procura, ma non fu mai reso disponibile come copia agli avvocati della difesa. La scelta fu motivata dagli inquirenti che precisarono di voler "evitare le speculazioni dei media e l'utilizzo televisivo del filmato". Il video - rimasto dal primo grado in poi nei cassetti della procura di Perugia - dura circa venti minuti e ricostruisce il delitto partendo dal pomeriggio del primo novembre 2007. Il filmato inizia con alcune immagini tratte da Google Maps per poi, con il passare dei secondi, arrivare a inquadrare la casa del delitto. Mez, Amanda, Raffaele e Rudy Guede (l'ivoriano processato con rito abbreviato e, dopo l'assoluzione di Knox e Sollecito, unico condannato per l'omicidio) nel video sono mostrati in forma stilizzata, quasi da cartone animato. Meredith indossa una felpa Adidas (che sarà poi ritrovata in terra insanguinata) e un paio di jeans. Amanda compare invece con jeans e maglia a collo alto, Raffaele con una giacca sportiva. La scena dell'aggressione è stata riprodotta al rallentatore e per realizzarla sono state utilizzate anche diverse foto scattate sul luogo del delitto. Nel video si vede Mez sbattuta contro il muro e che cerca di reagire, compressa tra Amanda con il coltello in mano e Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Nel filmino dell'orrore Mez, una volta aggredita, crolla sul fianco destro, subito dopo Amanda e Raffaele prendono i telefonini e fuggono, mentre resta in casa solo Rudy che, dopo la scena dell'aggressione, si porta le mani alla testa. Ed è sempre Rudy - secondo la ricostruzione - che prova ad aiutare Mez a rialzarsi e poi se ne va. Il filmato termina la mattina del 2 novembre con l'arrivo di Sollecito e Knox nella casa di via della Pergola, con le telefonate - fasulle, secondo l'accusa - di Sollecito al 112: l'audio integrale chiude il video del delitto. Ora il procuratore della Corte dei conti, Agostino Chiappiniello, con questa istruttoria sui costi del processo Meredith vuole capire se la fattura da 182mila euro per il video in 4D sia stata una spesa "congrua" e necessaria per le casse pubbliche, o se si sia trattato di spreco di denaro pubblico. Certo è che se la Cassazione dovesse confermare la sentenza d'appello il costo del video (182 mila euro) resterà a carico dello Stato, quindi dei cittadini.
Lunedì 3 ottobre 2011 Amanda e Raffaele: innocenti!!!
Da “Il Giornale”. Non ci sono vincitori, ma un solo sconfitto: la giustizia italiana. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti dalla Corte d’assise d’appello di Perugia dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nel 2007 a Perugia. La gioia e le lacrime degli imputati, arrivati in aula visibilmente tesi. In primo grado i due erano stati condannati a 26 e 25 anni di reclusione. Ora sono stati scarcerati, dopo quattro anni di detenzione.
Amanda Knox ha lasciato il carcere perugino di Capanne a bordo di una Mercedes di colore nero. La giovane americana ha passato la notte con la famiglia in un agriturismo e farà ritorno a casa a Seattle. Partirà stamani per gli Stati Uniti con un volo della British Airways. Raffaele Sollecito invece è tornato in Puglia, protetto da amici e parenti.
"Rispettiamo la decisione dei giudici ma non comprendiamo come sia stato possibile modificare completamente la decisione di primo grado". Così la famiglia di Meredith Kercher, in una nota diffusa subito dopo la sentenza. "Restiamo comunque fiduciosi nel sistema giudiziario italiano sperando che la verità possa finalmente essere accertata".
In carcere per il delitto, avvenuto quasi quattro anni fa, rimane quindi solo Rudy Guede, l’ivoriano che sta scontando 16 anni di reclusione. L’assoluzione degli ex "fidanzatini" era, in un certo senso, attesa, tanto che nel pomeriggio la famiglia Kercher ha tenuto una conferenza stampa in cui, pur ribadendo la propria fiducia nella magistratura italiana, ha lamentato il fatto che Meredith fosse stata "dimenticata" dai mass media.
La studentessa inglese era stata uccisa nel capoluogo umbro la notte del 1 novembre 2007. In primo grado Amanda e Raffale erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni. Nel dibattimento in appello, le prove fornite dall’accusa erano state giudicate in più occasioni imprecise e non decisive. La Knox (condannata a tre anni già scontati per il reato di calunnia) e Sollecito hanno assistito in aula alla lettura della sentenza.
La decisione dei giudici della corte d’Appello del tribunale di Perugia è arrivata dopo oltre 10 ore di camera di consiglio. Il presidente della Corte, Claudio Pratillo Hellmann aveva chiesto, prima di entrare in camera di consiglio, di evitare "fazioni" e "tifo da stadio".
Amanda, già tesissima all’inizio della lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime. Alla lettura della sentenza l’aula è esplosa in un boato. Amanda ha pianto e ha abbracciato la sorella, presente in aula con gli altri familiari. Grande la gioia anche di Raffaele. Entrambi si svegliano da un incubo durato 1.448 giorni.
"Torniamo a casa, è finalmente finita...". Così Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, alla domanda dell’Agi su quale sarà la prima cosa che la famiglia farà dopo questa sentenza assolutoria. "Lo ripeto, torniamo a casa. Raffaele è stato assolto per non aver commesso il fatto, non so se questo lo abbiate capito o meno. Voglio che sia chiaro, deve essere chiaro per tutti".
"Amanda ha sofferto per 3 anni per un crimine che non ha commesso. Siamo grati ai legali per la loro assistenza. Loro non hanno solo difeso Amanda, ma le hanno voluto bene. Grazie a tutte le persone che si sono prese del tempo per analizzare il caso. Li ringraziamo per avere avuto il coraggio di portare alla luce la verità. Ora chiediamo che ci venga concessa la privacy per riprenderci da questo periodo che per noi è stato un incubo", ha dichiarato la sorella di Amanda Knox, Deanna, all'uscita dal tribunale di Perugia.
"E' il verdetto che ci aspettavano, se la perizia fosse stata disposta anni fa non ci sarebbero stati anni di sofferenza e dolore". Così Giulia Bongiorno, avvocato di Raffaele Sollecito commenta la sentenza che ha assolto con formula piena il suo assistito e Amanda Knox. "Voglio porre l’accento sul risultato estremamente positivo- ha aggiunto - Un sentenza che non si è fermata all’apparenza e ha tolto ogni dubbio. C’è stato in questo caso un pieno e assoluto riconoscimento dell’estraneità di Raffaele Sollecito".
"Gli Stati Uniti apprezzano lo scrupoloso riguardo con cui il caso (di Amanda Knox) è stato trattato dal sistema giudiziario italiano". Così il portavoce del dipartimento di Stato, Victoria Nuland ha commentato la notizia dell’assoluzione in appello di Amanda dall’accusa di omicidio della britannica Meredith Kercher. Nuland ha aggiunto che l’ambasciata a Roma continuerà a fornire assistenza consolare ad Amanda e alla sua famiglia.
Il resoconto da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 ottobre 2011. Non sono stati Raffaele Sollecito e Amanda Knox a uccidere Meredith Kercheril 1° novembre di quattro anni fa. Lo ha stabilito la Corte di assise di appello di Perugia che ha assolto il 27enne ingegnere di Giovinazzo e la 24enne studentessa di Seattle (Stati Uniti), che invece furono condannati rispettivamente a 25 e 26 anni in primo grado dalla Corte di assise dello stesso capoluogo umbro. Sollecito e Knox sono stati assolti per non aver commesso il fatto loro addebitato (omicidio aggravato, violenza sessuale, furto e simulazione di reato) mentre la sola Amanda è stata condannata a 3 anni di reclusione, già ampiamente scontati, per aver calunniato Patrick Lumumba, il gestore di un pub che fu arrestato, e poi rilasciato, a causa delle dichiarazioni della ragazza.
La sentenza è stata letta dal presidente della Corte in un’aula nella quale il silenzio la faceva da padrone. Quando il presidente ha pronunciato la parola «assolve», Amanda è scoppiata in un pianto a dirotto mentre all'esterno del palazzo di giustizia scoppiavano liti e tafferugli tra innocentisti e colpevolisti.
Quello di Perugia è stato un processo che si è giocato soprattutto sulla prova chimica legata alle tracce di Dna rilevate sui vari oggetto repertati dagli agenti della Polizia Scientifica sul luogo del delitto e in quelli frequentati dagli imputati. La Corte d'assise d'appello, accogliendo la richiesta formulata dai difensori dei due giovani, ha disposto la perizia sollecitata già in primo grado ma rifiutata allora dai giudici. Il nuovo esame, depositato lo scorso 29 giugno, ha ritenuto «non attendibili» gli accertamenti tecnici della Scientifica, per il Dna attribuito alla Kercher sul coltello considerato l'arma del delitto e a Sollecito sul gancetto di reggiseno indossato dalla studentessa inglese quando venne uccisa, su cui ci sono tracce genetiche «di più individui di sesso maschile»; ed inoltre «non si può escludere» che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione. Dopo aver stabilito di non poter ripetere le analisi sulle tracce, Stefano ContieCarla Vecchiotti dell'Istituto di Medicina legale dell'Università La Sapienza di Roma hanno riassunto in 145 pagine le loro valutazioni sul lavoro della Polizia Scientifica. A loro avviso nelle indagini chimiche in via della Pergola «non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli di raccolta e campionamento». Riguardo al coltello i periti hanno sottolineato che «il reperto 36 è stato inserito, anche per le analisi, in un contesto ove erano già stati analizzati un numero rilevanti di campioni appartenenti alla vittima e pertanto non si può escludere che possa essersi verificata una contaminazione». Dopo avere esaminato i tracciati elettroforetici, Conti e Vecchiotti hanno concordato con la Scientifica nell'attribuire alla Knox la traccia di Dna sull'impugnatura del coltello (sequestrato in casa di Sollecito, allora suo fidanzato con il quale talvolta viveva) ma non alla Kercher quella sulla lama ritenuta indicativa di un campione «Low copy number» (rilevabile da pochissima quantità di «materia prima»). Per il gancetto di reggiseno, 165B, i periti non hanno invece condiviso la conclusione su un profilo genetico compatibile con l'ipotesi di una mistura di sostanze biologiche «solo» di Sollecito e della Kercher, parlando di «non corretta interpretazione degli elettroferogrammi ». Per gli esperti la componente maggiore è rappresentata da Dna della vittima, quella minore dal codice genetico «proveniente da più individui di sesso maschile». Conti e Vecchiotti hanno sottolineato quindi che il gancetto venne recuperato 46 giorni dopo l'omicidio. «Sul pavimento - hanno scritto -, ove era prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli di origine umana ». Che «in ambienti chiusi può contenere decine di microgrammi di Dna per grammo».
«Un colpo secco alla prova scientifica» lo aveva definito Luciano Ghirga, uno dei difensori della Knox, ricordando che nelle 427 pagine della sentenza di primo grado, invece, si fa esplicito riferimento alla prova scientifica quando si sostiene che «i due fidanzati ferirono al collo Mez: prima Sollecito, dopo avere tagliato il reggiseno, provocando la ferita più piccola con un coltello che portava sempre con sé e quindi la Knox, che provocò la lesione maggiore con quello da cucina poi sequestrato in casa del giovane pugliese dopo un ultimo grido fortissimo di dolore».
Ai difensori aveva risposto, in aula, il Pm Manuela Comodi chiedendo, senza successo, una nuova perizia, istanza poi riproposta in sede di conclusioni al termine della requisitoria (per una valutazione biostatistica del lavoro svolto dalla scientifica e per l'esame di una nuova traccia individuata sulla lama del coltello). Per il magistrato c'erano «dati oggettivi che rendono irrimediabilmente lacunosa» la perizia di Conti e Vecchiotti. E questo perché gli esperti avrebbero «omesso di riferire alla Corte» di macchinari in grado di leggere tracce anche minime di Dna sul coltello. «I periti - aveva sottolineato il magistrato - non hanno risposto ai quesiti ma lanciato dubbi».
Il processo di Perugia è un problema serio, al di là delle stesse vicende drammatiche, che hanno investito la vittima, i due giovani condannati ed un colpevole riconosciuto, che si proclama innocente.
Arriva fino a Hillary Clinton il caso di Amanda Knox, la ragazza americana giudicata “colpevole”, insieme a Raffaele Sollecito, dell’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher. La sentenza del tribunale di Perugia ha fatto il giro del mondo in poche ore: del caso si sono occupate testate come il Washington Post e il New York Times. L’America grida allo scandalo e proclama l’innocenza della studentessa di Seattle. La senatrice democratica Maria Cantwell cavalca l’onda: “È una sentenza oltraggiosa” dice, sostenendo che “non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che Amanda fosse colpevole”. E interessa il Segretario di Stato Hillary Clinton. Che prima ammette: “Non ho un’opinione sul caso” perché “impegnata ad occuparmi di Afghanistan”. Poi apre. In una intervista al programma domenicale della rete televisiva Abc, This Week, assicura che sarà disposta a incontrare chiunque abbia dei timori riguardo al modo in cui è stato gestito il processo: “Ascolterò il senatore Cantwell, o chiunque altro abbia preoccupazioni” sulla gestione del processo.
Al di là di ogni ragionevole dubbio è chiaro come il pessimo lavoro fatto dai mezzi di informazione abbia nutrito la confusione di indagini approssimative, non solo nel caso Kercher, ma anche per quanto riguarda la signora Franzoni o Alberto Stasi.
Per tutti e tre quei processi, amatissimi dai salotti tv, dai cronisti di giornali in crisi di vendite e dagli assetati di gossip si è assistito ad un balletto di presunte prove scientifiche che cambiavano dalla mattina alla sera, di armi del delitto mai trovate, di computer analizzati in modo non sempre avveduto, di contaminazioni della scena del crimine, di plastici, biciclette e zoccoli negli studi televisivi, di ‘opinionisti’ all’oscuro dei fatti, ma messi a cercare colpevoli quasi fossero l’ispettore Derrick. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.
Anna Maria Franzoni, Amanda Konx, Raffaele Sollecito sono i casi noti di un universo molto più vasto di processi nei quali la certezza assoluta della colpevolezza non c’è. Decine di cittadini in carcere in attesa di giudizio, condannati per errore, assolti in secondo grado o in cassazione.
Invece di cercare le prove e le confessioni, le televisioni e le aule dei tribunali si sono riempite di discussioni su profili psicologici, comportamenti, preferenze sessuali, persino analisi sulle espressioni del volto o sul tipo di abbigliamento.
In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.
Anna Maria Franzoni doveva piangere al funerale del piccolo figlio assassinato, Alberto Stasi essere più discorsivo, Amanda Knox “morigerata” e Raffaele Sollecito “pentirsi”, secondo le bislacche valutazioni di non pochi ‘esperti’.
La sentenza del processo di Perugia per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che ha visto condannare la coinquilina Amanda Knox e il suo ex-fidanzato Raffaele Sollecito rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, non solo ha suscitato grande scalpore nel mondo anglosassone, ma ha anche acceso un dibattito su quanto i giudici italiani siano stati influenzati da fattori esterni nel trarre le proprie conclusioni e nell’esprimere il verdetto di colpevolezza.
Ne parla esplicitamente il giornale britannico della domenica “The Observer”, in un articolo di John Hooper, che scandaglia l’iter delle indagini e del dibattimento per dimostrare come la sentenza di primo grado sia, in realtà, poco risolutiva e, soprattutto, non chiarisca fino in fondo come siano andati i fatti.
Il dubbio di fondo insinuato da Hooper è che per «salvare la faccia» di chi ha condotto le indagini e, più in generale, dell’Italia come Paese in cui i delitti vengono risolti e puniti, i giudici e la giuria abbiano ignorato la sostanziale mancanza di prove decisive contro la Knox, influenzati dai racconti dei media che spesso l’hanno dipinta come una spietata assassina.
Macchie di sangue e dna, contraddizioni e omissioni sospette, non sarebbero stati, insomma, gli unici elementi a condizionare l’esame della corte e, forse, una loro analisi più approfondita sarebbe stata rimandata al processo d’appello, sempre, secondo Hooper, per salvare la reputazione del sistema di giustizia italiano. Se, infatti, la sentenza venisse rovesciata in appello, sostiene il giornalista, l’opinione pubblica non imputerebbe il fatto agli errori commessi durante le indagini o il processo, bensì alle «pressioni internazionali» che sono arrivate dagli Stati Uniti.
Del resto, l’accusa ha sì ricostruito minuziosamente le modalità dell’aggressione a Meredith Kercher (con l’ivoriano Rudy Guede che tentava di violentarla, mentre Sollecito la pungolava con un coltello con cui Amanda le avrebbe dato il colpo di grazia), ma non avrebbe accertato con precisione il movente, legato a un imprecisato odio della Knox nei confronti della coinquilina, forse scatenato dai differenti stili di vita (Meredith si sarebbe scocciata delle frequentazioni maschili dell’amica, che spesso portava uomini a casa) o da questioni economiche (dalla camera di Meredith potrebbero essere spariti dei soldi, un “furto” di cui avrebbe accusato la compagna).
Comunque sia, anche in questo caso, non sarebbe chiaro come mai Guede (peraltro giudicato con rito abbreviato, che avrebbe dovuto assicurargli uno sconto di pena) sia stato condannato a 30 anni di carcere, pur non essendo considerato il killer materiale, mentre Amanda (ritenuta la mano assassina e calunniatrice) soltanto a 26 anni.
Resta inoltre da capire come sia possibile, nel caso Sollecito e Knox siano davvero colpevoli, che nella camera dove la vittima è stata uccisa non ci siano impronte digitali dei due ragazzi, mentre abbondino quelle di Guede. Se i due ex-fidanzati avessero cancellato le proprie, infatti, inevitabilmente avrebbero fatto sparire anche quelle dell’ivoriano, mentre così non è stato. «Solo una libellula avrebbe potuto entrare in quella stanza senza lasciare impronte – ha sottolineato Giulia Bongiorno, avvocato difensore di Sollecito – e siccome i due ragazzi non sono certo libellule, bisogna concludere che siano innocenti».
In un caso ancora pieno di ombre e misteri, insomma, anche all’indomani della sentenza di primo grado, l’unica certezza che rimane è che ci sia ancora molto da scavare.
Esemplare è la presa di posizione di Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera, che sul caso ha scritto un libro”Amanda e gli altri” di stampo colpevolista. “Per Amanda e Raffaele l'effetto della sentenza è stato comunque devastante. Il loro appello finale per proclamarsi ancora una volta innocenti ha commosso i giurati, però non è servito a convincerli. E questo nonostante i punti oscuri che il processo ha contribuito a evidenziare. Perché la maggior parte dei testimoni sono apparsi confusi, contraddittori. E perché gli elementi offerti dalle prove scientifiche non hanno fornito la certezza sulla presenza dei due giovani nella casa, come invece era accaduto per Rudy. Certamente hanno pesato le contraddizioni emerse nelle versioni fornite da tutti e due subito dopo l'omicidio, la mancanza di un alibi, la personalità complessa che entrambi hanno. Ora sperano nell' appello. Ma sanno bene che la strada per uscire dal carcere diventa sempre più impervia”.
«Ritengo che le cose siano andate in maniera prevedibile. Hanno avuto uno sconto della pena, la Knox è stata condannata a 26 anni, Sollecito a 25, invece che all'ergastolo. L'opinione pubblica li ha già condannati, ma spero che in appello la ragionevolezza consenta di condannare le persone che sono realmente colpevoli. Credo che la sentenza vada rispettata, ma non c'è una certezza delle prove sulle quali si basa, non c'è nulla». Lo ha detto il criminologo Francesco Bruno, commentando la sentenza. «Gli indizi che ci sono, sono dubbi. Indicano la loro presenza in quella casa, ma non indicano con certezza la loro partecipazione all'omicidio».
«Non abbandonerò mai mio figlio in carcere e lo difenderò finchè avrò forza». Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, ha il piglio deciso e il cuore in subbuglio. «La Corte – dice il medico pugliese – ha sposato in toto la tesi dell’accusa, non si è spostata di una virgola. Come difese potevamo anche non esserci. E questo è davvero scandaloso. Hanno ragione certe posizioni americane ». Il padre di Raffale si chiede perchè i giudici non abbiano disposto le perizie alle quali avevano fatto riferimento i legali del figlio. «Sarebbero state dirimenti – afferma – perchè in questa vicenda ci sono ancora aspetti non spiegati. Perchè non abbiamo diritto a sapere cosa è successo?». Riguardo alla pena che è stata inferiore alle richieste dei pm (ergastolo con isolamento per Sollecito e per Amanda Knox), secondo Francesco Sollecito «la Corte dopo avere sposato le tesi dell’accusa ha dovuto almeno concedere le attenuanti generiche».
Quali sarebbero quindi i vostri «diritti negati»?
«L’analisi sul computer di Raffaele è stata compiuta dalla polizia postale con un software che rileva solamente l’ultima operazione effettuata. Ci è stata negata l’analisi del pc con un programma che leggesse l’intera memoria. Noi sosteniamo che all’ora del delitto Raffaele stava utilizzando il computer in casa sua. E c’è un altro computer di Raffaele, che la Corte ci ha negato di far ispezionare. Quindi ci sono stati negati esami più approfonditi sul dna trovato sulla scena del delitto, sul gancetto del reggiseno della vittima, sull’impronta e sulla compatibilità del coltello sequestrato con la ferita mortale».
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO BIANZINO.
L'arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname “morto di carcere” a Perugia in circostanze misteriose nell'autunno 2007, quando Aldo Bianzino fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato “strappato”, come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c'era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza.
La prima volta però la richiesta di archiviazione – è l'ottobre del 2008 – viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. La famiglia di Aldo (la sua compagna Roberta è mancata qualche mese fa) non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi. I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia “minore” non registrò l'attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull'oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano.
Tutti i media hanno parlato della terribile vicenda accorsa a Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti e deceduto dopo una settimana in circostanze non ancora chiarite. Altrettanto scalpore hanno destato le immagini - diffuse dai mezzi d'informazione - del suo corpo e del suo volto, in cui erano ben visibili lesioni e traumi di grave entità. Mauro Casciari delle “Iene” di Italia 1 decide di occuparsi di un caso di cronaca analogo, quello di Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora sconosciute. Due giorni prima del decesso, Aldo e la compagna Roberta, residenti a Capanne - nell'Appennino umbro marchigiano - vengono arrestati e portati presso il carcere di Capanne perché, in seguito ad una perquisizione, vengono trovate nella loro tenuta alcune piante di marijuana. La mattina del 14 ottobre Roberta viene scarcerata e solo in quel momento apprende della morte del marito. Tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere il certificato medico dimostra che entrambi godevano di perfette condizioni di salute. Il medico legale nominato dalla famiglia assiste alla prima autopsia dichiarando che il corpo dell'uomo presentava lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Dell'argomento si era già interessato Michele Pietrelli, un collaboratore attivo sul blog di Beppe Grillo il quale aveva raccolto la testimonianza della moglie della vittima, scomparsa nel 2009, di cui le Iene mostrano il filmato. Un servizio di denuncia ma non solo; la coppia aveva un figlio che , dopo la morte della madre, vive con lo zio, tornato dalla Germania apposta per accudire il nipote e che, per questo, ha perso il suo posto di lavoro.
«In limine vitae» è scritto nella relazione finale dei due medici legali Luca Lalli e Anna Aprile. Le «evidenti lesioni viscerali di indubbia natura traumatica» che Aldo Bianzino riportava la mattina del 14 ottobre 2007, il giorno del suo oscuro decesso nel carcere di Capanne a Perugia, erano da collocarsi «in limine vitae». Letteralmente sulla soglia della vita, l’attimo tra la vita e la morte. Quelle lesioni, cioè il completo distacco del fegato, per la perizia ordinata dalla procura di Perugia sarebbero frutto di un disperato tentativo di rianimare Aldo in seguito a un aneurisma cerebrale. Per la famiglia la prova evidente di un pestaggio mortale. Nel limbo del «limine vitae» Aldo, che aveva quarantaquattro anni, pesava non più di 50 chili e faceva il falegname, è rimasto 22 minuti. Suo figlio Rudra, invece, due anni interi. Passati a combattere la morte che si è portata via, oltre al padre, anche la madre e la nonna, e a cercare la vita, la verità su Aldo.
Quando scende dall’autobus che lo riporta a casa, Rudra, per gli induisti «colui che allontana i dolori», ha una felpa bianca, un giaccone nero al braccio e due occhi che riflettono il colore del cielo. A Pietralunga sono otto gradi e piove leggero. Il paese è adagiato sopra il fianco di una collina. Dietro l’Appennino e le Marche, davanti l’Alta valle del Tevere e, sessanta chilometri più giù, Perugia. Lontana. Rudra ha sedici anni, frequenta con profitto il liceo scientifico di Umbertide ed è magro come un chiodo. Possiede un Ape 50 con il quale da casa raggiunge il paese e poi con l’autobus, dopo un’ora, la scuola. «Quel giorno ce l’ho scolpito nella mia testa» ricorda. Quel giorno, il 12 ottobre del 2007, un venerdì, arrivarono in cinque a casa dei Bianzino, un rudere ristrutturato in mezzo al nulla. Quattro poliziotti (tre uomini e una donna), un finanziere e un cane anti droga. Bussarono alle porta alle 6,30 del mattino. Cercavano 100 piante di marijuana che Aldo coltivava non distante dall’abitazione. Tra una fitta vegetazione andarono a colpo sicuro. «Mio padre si accusò subito». La polizia se lo portò via, assieme alla compagna Roberta Radici, la mamma di Rudra. Lui restò solo per tre giorni con la nonna novantenne. «La domenica sera mia madre tornò». Senza il compagno. Aldo era già morto, la mattina. Lo trovarono agonizzante nella sua cella di isolamento solo con una t-shirt bianca addosso. Colpito da un aneurisma due, forse nove, ore prima. «In verità quando lo soccorsero era già deceduto» dice l’avvocato Massimo Zaganelli, «il tentativo di rianimazione è una farsa».
Al cimitero di Pagialla, tra le querce dell’Appennino, Aldo è sepolto vicino a Roberta. L’uno di fianco all’altra, a terra, in fila. Sopra la tomba di Aldo una croce di legno, su quella di Roberta dei fiori gialli. Nonostante la venerazione per Sai Baba e l’India entrambi hanno avuto il rito cristiano per la sepoltura. «Mia madre è morta a giugno» dice Rudra. Di epatite «C». Era in lista per un trapianto. «Se non avessero ammazzato mio padre sarebbe ancora viva, di questo sono sicuro». È lei che si rivolse per la prima volta a Zaganelli, uno degli avvocati più in vista di Città di Castello, e quest’ultimo al professore Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale all’Università di Bologna. Il quale eseguì, dopo molti giorni dalla morte, una perizia sul corpo di Aldo. Non l’unica per la verità. Aldo venne anche visionato, oltre che da Lalli e dalla Aprile, anche dal medico legale Walter Patumi incaricato dalla prima moglie Gioia Toniolo. Fu Patumi a parlare per primo di un pestaggio esperto. La perizia di Fortuni, famoso per aver seguito il caso Pantani, evidenziò un distacco totale del fegato in seguito a «pressione violenta». Dovuto a che cosa? Ai 22 minuti di massaggio cardiaco, decretò il rapporto ufficiale. Talmente violento da strappare il fegato, ma non abbastanza forte da incrinare neanche una costola. In 30mila autopsie, spiegò Fortuni, «mai visto un fegato devastato così da un massaggio cardiaco, sebbene la letteratura medica citi qualche caso». Rarissimo, tra l'altro, e riferito a persone ancora in vita.
Ma Aldo era vivo? Secondo il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, lo stesso che firmò gli atti di custodia cautelare proprio per Aldo e Roberta, era «in limine vitae». Tra la vita e la morte. Per questo ha avanzato ben due richieste di archiviazione. La prima è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini nel febbraio del 2008, la seconda l’11 dicembre 2009 davanti al gip Massimo Ricciarelli. Rudra ora abita nel rudere in mezzo al nulla con lo zio materno Ernesto tornato dalla Germania. Ernesto è in cerca di un lavoro e sta per prendere la patente. «Del civile non mi importa nulla» dice Rudra, «anche se ho bisogno di soldi» (Beppe Grillo ha raccolto 68mila euro vincolati in un conto corrente). «Però mi devono spiegare perché mio padre era nudo, perché hanno coperto le altre celle per non farlo vedere al momento del suo passaggio, perché non è stata fatta una perizia all'interno della sua cella. Lo Stato mi deve dire come ha fatto mio padre a morire». E farlo finalmente uscire dal suo limbo, dal suo «limine vitae».
Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.
“Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.
Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria poi indagata. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre, non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml. al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).
Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle «forze dell’ordine», lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.
Ma i veri assassini sono
coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle «droghe» come l’attuale,
persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza
distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato
che manda in galera (con le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che
coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga
(quella pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti, non
succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la
detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere «clandestino»,
pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita
impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è
responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato
che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i
forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non
può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria."
In fede Giuseppe Bianzino
MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.
Non intende smettere di lottare Massimo Geusa: dopo aver chiesto al Presidente della Repubblica la grazia per sua moglie, Tiziana Deserto, è arrivato in televisione per perorare la sua causa, scrive Maura De Gaetano su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 27.04.2013. L’uomo è stato ospite de “I fatti vostri”, popolare programma di Rai2, nella mattinata di ieri. Sostenuto dalla presenza fisica del suo legale, Giuseppe Caforio, e da quella ideale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Geusa ha spiegato al conduttore, Giancarlo Magalli, i motivi della sua richiesta. «Mia moglie ha subito una grande ingiustizia – ha ribadito l’uomo – perché è stata condannata praticamente senza prove, come se già non fosse sufficiente il male che ha subito, con la perdita di nostra figlia». Tiziana Deserto dovrà scontare 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio e nella violenza sessuale della piccola Maria, figlia concepita con il marito e morta, a meno di 3 anni nel 2004, per mano del nuovo compagno della donna. «Quelle violenze sessuali reiterate non ci sono mai state – ha affermato ancora una volta Geusa – perché altrimenti sarei stato il primo ad accorgermene, vivendo in casa con la bimba. Sono certo che mia moglie non avrebbe mai affidato nostra figlia nelle mani di un uomo, sapendo che costui la violentava». Il devoto marito di Tiziana ha raccontato alle telecamere, ancora una volta, la sua versione dell’accaduto: la benevolenza dimostrata dall’assassino Giorgio Giorni, condannato all’ergastolo, e la fiducia che questi si era conquistato tanto presso la mamma, quanto presso il papà di Maria. A un Magalli stupefatto dell’amore dimostrato, nonostante tutto, da Geusa a sua moglie, l’uomo ha spiegato: «Da tempo ho perdonato il suo tradimento e la sua storia con Giorni. Non potrei mai perdonarla, però, del concorso nell’omicidio di nostra figlia. Se ho chiesto la grazia per lei, è perché sono convinto della sua buona fede». La domanda di grazia, inviata a Giorgio Napolitano lo scorso mese, è al momento al vaglio del ministro di Grazia e giustizia, che ha avviato le procedure del caso. «Ho ancora fiducia nella giustizia – conclude Geusa – e spero che la verità sulla morte di Maria venga a galla: Tiziana è innocente».
«Ho commesso una leggerezza, ma amavo mia figlia. Non le avrei mai fatto nulla di male». Così Tiziana Deserto, in carcere da quasi un anno per il concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, racconta con dolore la morte della bambina di due anni e mezzo uccisa il 5 aprile 2004 a Città di Castello da Giorgio Giorni, datore di lavoro del marito, Massimo Geusa, e sogno di una vita insieme per lei, scrive Egle Priolo su “L’Espresso”. Lei che in un anno (ne deve scontare altri 11) ha cambiato tre istituti penitenziari a causa delle sue pessime condizioni di salute. Da fuori, il marito Massimo continua a sostenerla in ogni modo. Ha già chiesto al presidente della Repubblica la grazia per la sua Tiziana (la pratica è stata inoltrata) e ora, dopo la lettura delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 15 anni (tre condonati per l’indulto), vuole addirittura la revisione del processo per quanto riguarda l’accusa di concorso in violenza sessuale. La Corte, che ha ribadito quanto stabilito in primo e secondo grado, ha però ritenuto fondato il motivo del ricorso che riguarda l’aggravante dell’uso di sevizie e crudeltà. Non cambia nulla dal punto di vista della pena («ininfluente sul trattamento sanzionatorio», ribadiscono i giudici), ma per i genitori di Tiziana e per Massimo è lo spiraglio per chiedere la revisione del processo. Un’ipotesi che l’avvocato della Deserto, Giuseppe Caforio, conferma di star studiando. «Stiamo valutando questa possibilità», spiega il legale, mentre Massimo si sta impegnando a cercare una consulenza medico legale che possa sostenere la convinzione che ha da sempre. «Ho perso una figlia, non voglio perdere anche una moglie - racconta oggi -. Le ho perdonato il tradimento, ma non avrei perdonato a Tiziana gli abusi sulla nostra bambina. Ma quegli abusi non ci sono stati, sono sicuro. Ho cambiato Maria fino al giorno precedente l’omicidio e non aveva nessun segno, nessuna ferita. Niente di niente che possa far pensare a una violenza sessuale. I giudici hanno sbagliato». I giudici, secondo Massimo, hanno sbagliato sei volte (i tre gradi per Giorni e i tre per Tiziana), stabilendo una verità processuale, ma non scientifica. Basata su quell’«alta suggestione», cioè alta probabilità della violenza. «Probabilità, non certezza», insiste Massimo Geusa. Che ora, operaio in Puglia, quando non va a trovare Tiziana in carcere, passa il tempo su internet a informarsi sulle violenze sui minori, su riscontri e prove, cercando di individuare professionalità che possano dare un sostegno scientifico alle sue convinzioni. Paradossalmente, se ci riuscisse, potrebbe aiutare l’uomo che ha ucciso sua figlia per salvare la sua amata Tiziana. Che da maggio scorso (si è presentata in carcere il 18 maggio) ha perso più di venti chili e adesso non riesce neanche a mangiare. «Non trattiene più nessun alimento - racconta l’avvocato Giuseppe Caforio - ed è in un preoccupante stato di prostrazione psicofisica». Anche per questo motivo, l’avvocato ha richiesto il suo trasferimento già due volte: da Lecce a Foggia e da Foggia a Trani. Ma sembra che le sue condizioni non migliorino. Prostrata e distrutta, a ripetere solo di non aver mai fatto del male alla piccola Maria.
MAGISTROPOLI.
Il procuratore generale è finito ancora sotto inchiesta.
Il procuratore generale presso la corte d’appello dell’Umbria, Giancarlo Armati accusato di falsa testimonianza e favoreggiamento nell’ambito della vicenda giudiziaria che oppone dagli anni ’90, lo stesso Armati, ex pm a Roma, e i fratelli Wilfredo e Claudio Vitalone, quest’ultimo ex magistrato ed ex sottosegretario al ministero degli Esteri.
Nei confronti di Armati, il procuratore aggiunto di Firenze, Francesco Pappalardo, aveva chiesto al gip Giacomo Rocchi, l’archiviazione del procedimento. Istanza respinta dal giudice che ha disposto l’imputazione coatta. L’ipotesi di falsa testimonianza scaturisce dalla deposizione di Armati nel processo celebrato nei confronti di Anna Pavoni.
Armati, che aveva un legame negli anni ’90 con la Pavoni, “negò in aula di averle espresso durante un incontro sentimenti di odio e di inimicizia nei confronti dei fratelli Vitalone”.
L'ex procuratore capo di Viterbo e attuale procuratore generale a Perugia Giancarlo Armati è indagato, anche, per peculato dalla procura di Firenze. Ad accusare il magistrato è stato suo figlio.
Secondo l'ipotesi di accusa, Armati, mentre era in servizio a Viterbo, avrebbe utilizzato il telefono cellulare di servizio, intestato all' assessorato ai Lavori pubblici del Comune, così come quelli di altri magistrati, per chiamare i suoi familiari, in particolare la figlia.
L'inchiesta è condotta dal Pm Francesco Pappalardo ed è stata assegnata a Firenze per competenza territoriale. Le indagini a carico di Armati sono scaturite da un esposto presentato dal figlio dello stesso magistrato che, a seguito di dissapori con il padre, lo ha denunciato per peculato, svelando appunto che l'ex procuratore capo di Viterbo avrebbe fatto un uso "improprio" del telefonino di servizio.
Legislatura 15 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-02084
Atto n. 4-02084 Pubblicato il 31 maggio 2007 Seduta n. 159
CORONELLA - Al Ministro della giustizia. -
Premesso che, per quanto risulta all'interrogante:
il 18 luglio 2006, l’on. Francesco Cafarelli ha denunciato ai Titolari dell’azione disciplinare una grave e circostanziata serie di fatti dei quali si sarebbe reso protagonista, nell’esercizio delle pregresse funzioni di magistrato della Procura di Roma, il dott. Giancarlo Armati, attuale Procuratore generale della Corte d’appello di Perugia;
l’on. Cafarelli, nell’evocare i singolari svolgimenti di un processo da lui subito nella cosiddetto stagione di “tangentopoli”, insieme all’allora Ministro dei lavori pubblici Giovanni Prandini, processo conclusosi poi definitivamente con pronuncia liberatoria a favore di tutti gli imputati, ha precisato che la fonte d’accusa, tal Romualdo Di Corato, imprenditore legato agli appalti ANAS, aveva ottenuto dal magistrato inquirente – il citato dr. Armati, appunto – un inspiegabile trattamento di scandaloso favore. Addirittura, si legge nell’esposto, nel corso dell’esame cui il Di Corato era stato sottoposto l’11 febbraio 1993, l’Armati, anziché invitarlo alla nomina di un difensore quale indagato per corruzione, gli aveva attribuito del tutto arbitrariamente la qualità di persona offesa da una presunta concussione. Nessuna indagine – prosegue l’on. Cafarelli – fu mai svolta dal dr. Armati a carico del Di Corato, nonostante le numerose prove della falsità delle dichiarazioni che egli aveva reso nei confronti di tutte le persone poi prosciolte;
a distanza di anni – soggiunge ancora l’on. Cafarelli – è stata acquisita la costernante spiegazione delle “ragioni” che avevano ispirato il comportamento dell’Armati nei confronti del Di Corato: i due - al tempo dell’indagine - erano legati da intensi rapporti d’indole inequivocabilmente corruttiva;
la prova del mercimonio è contenuta nella drammatica denuncia presentata al Procuratore della Repubblica di Roma il 30 giugno 2006 dal dott. Federico Armati, alto funzionario del Ministero dell'interno, contro il padre Giancarlo nel contesto il sindacato parlamentare, il dott. Federico Armati afferma testualmente: “Posso dichiarare con certezza che negli anni 1989, 1990, 1991,1992 e 1993, mio padre, il dr. Giancarlo Armati, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma riceveva in modo continuato regali di valore rilevante dal sig. Di Corato Romualdo, pugliese di Trani, titolare di un'importante impresa di costruzioni di autostrade. Tra i regali di cui ho diretta conoscenza ricordo un orologio di platino marca Cartier mod. Pasha con cinturino in pelle marrone, un orologio d’oro marca Piaget, gemelli da camicia in oro e smalto nero con diamante di Bulgari, servizio completo di posate da tavola di argento massiccio del gioielliere Buccellati, un prezioso servizio da tavola di porcellana, un servizio di bicchieri di cristallo Baccarat, una coppia di preziosi candelabri d’argento d’epoca con incisione alla base, un servizio di bicchieri-coppe in oro zecchino (…) giacche, maglioni ci cachemire, calzini di cachemire, camicie ed altro, provenienti, per la maggior parte, dai negozi di Roma, Ravasi di via del Babbuino ed Hermes di via Condotti”;
con successiva denuncia del 26 luglio 2006, il dr. Federico Armati ha riferito di essere stato oggetto – a causa della sua iniziativa – di pesantissime intimidazioni persino in ambito familiare, con l’esplicito avvertimento di uno strettissimo congiunto, qualificatosi “messaggero”: “se non ritiri la denuncia sarai rovinato, sarai distrutto”,
si chiede di sapere se sia a conoscenza di quali iniziative siano state intraprese e se e quali provvedimenti siano stati adottati, nell'ambito di propria competenza, dal Ministro in indirizzo, dal Procuratore generale della Corte di cassazione e dal Consiglio superiore della magistratura, anche in via interdittiva, a tutela del prestigio dell’ordine giudiziario e della delicatissima funzione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Perugia.